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La plebe, parte IV

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– Io m'interesso di molto a quella famiglia. La signorina Maria figliuola del signor Giacomo, fu mia compagna di collegio ed abbiamo rinnovato pochi giorni fa un'intrinsichezza da amiche…



Si tacque ad un tratto; si domandò perchè la diceva tutto ciò a codestui: che aveva ella bisogno di scusare o di spiegare soltanto la sua condotta? Arrossì alquanto: e dopo un istante riprese con accento più altero che non fosse prima:



– Ho da mandare questa lettera di condoglianza e di conforto alla mia amica… Avevo pensato, poichè credevo ch'Ella si recasse colà, pregar Lei di recargliela a nome mio.



Maurilio delle parole di Virginia aveva capito poco o nulla; il suo capo confuso sempre peggio gli tenzonava con maggiore intensità, per poco non aveva smarrita la giusta percezione delle cose e la coscienza di sè; viveva come in un sogno, anzi meglio come in un parosismo di febbre, quando ogni cosa piglia forme e proporzioni diverse e strane, ed ogni impressione non più governata dalla ragione, si risolve in fantasima di delirio. Vide una bianca carta nella bianca ed esile mano della fanciulla; capì che quella carta era pôrta a lui, che egli la doveva prendere; per che farne non sapeva, non aveva inteso, non voleva pure intendere. Una ondata di quelle matte speranze che ho detto gli venne al cervello malato. Pensò ad esclamare in risposta ai detti di lei che non aveva compresi:



– Virginia, io ho nelle vene un sangue nobile al pari del tuo… Io, io sono degno di te.



Si trattenne; di tanto vegliava ancora nel fondo del suo cervello la ragione da fargli comprendere la sua follia: si disse che non avrebbe parlato più, perchè aprendo la bocca non era sicuro di frenare la sua lingua. Tutta la sua timidità sentiva svanire sotto l'influsso d'una specie d'alito infuocato che gli correva dal petto alla testa; ma mentre il cervello sobbolliva e il cuore palpitava tremendamente, le membra gli erano impacciate, irrigidite, come avvinte.



Per prendere quella lettera dalle mani di Virginia, che s'era allontanata, bisognava varcare lo spazio di poco più d'un metro; erano due passi, e Maurilio non si sentiva il coraggio e la forza di farli; parevagli fosse quello un abisso da sorpassare. Esitò, fece uno sforzo e riuscì ad accostarsi alla fanciulla con piede pesante.



La bellezza della donna ha certi momenti di fascino che, irresistibile, impossibile ad esprimersi, n'è l'effetto sull'animo dell'uomo. Certe mosse della donna che amate, senza che ne sappiate il perchè, vi fanno bollire il sangue; uno sguardo vi caccia il fuoco in tutto l'essere; un sorriso vi apre il cielo. L'uomo innamorato darebbe la vita, darebbe tutto al mondo, darebbe l'onore, per potere in que' momenti stringere fra le sue braccia quella creatura che tanto tumulto eccita in lui, e soffocarla di baci. I sensi e lo spirito sono in quel punto eccitati ad un trasporto supremo, ineffabile, divino; tutte le forze dell'essere, tutte le potenze della mente, tutte le aspirazioni dell'animo si concentrano in un solo desiderio, che è una sete, che è una rabbia, che è un delirio. La passione rende l'uomo capace di qualunque eccesso: la donna che sa il suo potere può in quel punto ottenere dall'uomo tanto un'opera sublime d'eroismo, quanto il più infernale dei delitti.



Quando Maurilio si trovò ad un passo di distanza dalla bellezza divina di quella fanciulla, subì uno di quegli influssi, si sentì trasportare da uno di quei parossismi. Com'era bella davvero quella spigliata, gentile persona di vergine con tanta grazia nobilmente atteggiata! Com'erano soavi allo sguardo le pure ed artistiche linee di quella mossa avvenente che si disegnavano nette sul fondo cilestrino della parete! Com'era leggiadro quel viso dilicato sul cui pallore un'emozione del momento aveva chiamato un lieve rossore alle guancie! La bocca semiaperta pareva respirare con lieve affanno prodotto dalla intensità d'un affetto; il seno, così voluttuoso nella sua casta bellezza, si alzava ed abbassava soavemente come l'onda quieta d'un mare benigno; fra le labbra di sì gentile color rosato spiccava con un effetto cui niuna parola può riprodurre la candidezza dei denti e pareva uno splendor di sorriso.



Maurilio le stette innanzi tremante, commosso, agitato, fremente fin nell'intime fibre dell'esser suo. La sua casta gioventù, le contenute forze de' suoi sensi gli desiarono con impeto irrefrenabile una tempesta tremenda nel petto. Tante volte ne' suoi sogni egli aveva quella fanciulla vagheggiata appunto tal quale! Ed ora se la trovava realmente dinanzi come l'aveva desiderata, come invocata con tanto trasporto. Era un sogno anche questo? od era stata una realtà anche quelle altre volte? Il tumulto e la confusione de' suoi pensieri s'accrescevano; audacie mai più immaginate gli sommovevano l'animo, desiderii che non sapeva pur formolare gli salivano su dal cuore in subbuglio e lo soffocavano alla gola. Perchè non le avrebbe detto ora quelle parole che tante volte aveva detto all'immagine di lei? Perchè non avvintala alle ginocchia colle sue braccia e trascinatosi a' suoi piedi come aveva sognato di fare? La fronte del giovane era circondata d'una fiamma, gli occhi di lui mandavano lampi; la sua faccia s'era trasfigurata; vi era da ammirarlo e da averne paura.



Virginia aveva sempre la lettera in mano, la porse quasi con atto meccanico, e il giovane volle afferrare quella destra. Le loro mani s'incontrarono: l'urto de' fluidi fu maggiore di quello fosse stato per mezzo degli sguardi; sussultarono ambedue, ritrassero le destre come se le avessero abbruciate; Virginia gettò uno sguardo ratto sulla testa di lui e fu meravigliata ed atterrita di quel fuoco che vi raggirava cupo e profondo negli occhi. La lettera cadde a terra in mezzo a loro, e Maurilio si gettò a raccoglierla: rimase così in ginocchio innanzi a lei, e i suoi panni toccavano lo svolazzo degli abiti ond'era la bella persona vestita. Passò un minuto secondo in cui s'affollarono nella mente di lui tutt'a un tratto i pensieri d'amore, i sogni, i delirii di tanti anni, di tante notti, di tante ore febbrili. Non potè parlare, ma non era più la timidezza che facesse ostacolo alle parole, era la piena soverchia dell'affetto, la troppa abbondanza delle cose. Si curvò a terra come un credente innanzi al suo idolo, abbandona il suo capo sui piedi della fanciulla e ruppe in singhiozzi, in esclamazioni che parevano di dolore, in parole soffocate che non avevano senso.



– Che è ciò? domandò Virginia ritraendosi atterrita. Che fa Ella? che vuole?.. Si alzi.



Maurilio udiva quella voce soave, ma non capiva le parole; la sua ragione gli sfuggiva sempre più; aveva un tal tumulto nel cervello, che pareva la pazzia vi combattesse un'aspra battaglia cui fosse per vincere. Sollevò la faccia tutta bagnata di pianto e guardò la bellezza di lei con occhio smarrito, splendente d'una luce febbrile. Dove fosse non sapeva più. I più strani propositi s'affacciavano alla sua mente, ed egli non li trovava assurdi e indegni di lui medesimo; ma se non li attuava era solo perchè glie ne mancavano le forze. Levarsi e prendere fra le sue braccia quella forma adorata di donna e stringerla da soffocarla; aprire quella finestra da cui veniva la luce grigiastra del giorno nebbioso, e con lei sul suo cuore precipitarsi e morire insieme; portarsela come un bambino sul seno e fuggire da quel palazzo, fuggire dalla città, fuggire, fuggire fin dove occhio d'altr'uomo non la potesse veder più; dirle: «io t'amo, dammi un bacio» ed uccidersi ai suoi piedi.



Virginia fu spaventata per davvero; pensò suonare per chiamar gente, ma era lontana dal cordone del campanello; le mani convulse del giovane l'avevano afferrata ai panni; ella se ne sciolse, e ratta, come una visione che si dilegua, fuggì della stanza. Maurilio, quando fu solo, riebbe un po' di calma e gli tornò un po' di ragione. Stette immoto alcun tempo, inginocchiata come si trovava, facendo girare lentamente intorno a sè il suo torbido sguardo; fissò per un poco il punto del tappeto su cui posavano poc'anzi i piedi di lei e parve che ve ne scorgesse le traccie. Si gettò bocconi a quel luogo e con bocca quasi rabbiosa baciò, ribaciò, tentò di mordere quella stoffa che a lui pareva ritenesse l'impronta delle piante dell'adorata fanciulla. Ad un tratto sollevò il torso e si cacciò le mani entro i capelli con mossa furibonda di disperazione.



– Che ho fatto? esclamò. Che osai? Che le dissi? Che avrà ella giudicato di me? Come venirle ancora innanzi agli occhi? La mi farà scacciare dal suo cospetto pei suoi lacchè… O mio Dio! O mio Dio!



Si strinse fra le due mani la fronte con tanta forza da farsene male.



– Ella ne ama un altro… Ella mi disprezza… Ed io stoltamente le lasciai scorgere nel mio cuore… Oh fossi morto prima!..



La riazione contro quelle troppo false e troppo audaci speranze che gli aveva fatte nascere in un momento di follia la sua immaginativa, venne potente, terribile, da superare ogni altro sentimento, ogni altro affetto. Delle cose del mondo e di sè nulla più glie ne importava. Che cosa era ancora per lui il problema del suo destino che stava per essere sciolto? A che cosa gli avrebbe giovato oramai qualunque più venturosa ed invidiabile sorte? Era stato un malaccorto ad entrare ospite in quel palazzo. La prima cosa a farsi ora, era di fuggire; di fuggire prima che ignominiosamente ne lo scacciassero. Si drizzò in piedi sollecito, guardando attorno quasi spaventato, come se temesse veder entrare i servi che dovevano spazzarlo via da quel luogo ch'egli aveva profanato. Corse nella sua stanza, riprese i suoi poveri vecchi panni, scrisse, per Don Venanzio la lettera che abbiamo visto, e partì.



Corse per un po' giù della strada, urtando nella gente, urtato da chi aveva fretta, senza direzione, da null'altro guidato che da un prepotente bisogno d'allontanarsi, di fuggire. Nel suo cervello continuava ad agitarsi confusamente un tumulto di pensieri indescrivibile; il governo delle sue idee, delle sue fantasie sfuggiva sempre più alla sua volontà. In mezzo a tutto quel subbuglio di sentimenti e di affetti, non sapeva più districarsi, per così dire, la sua ragione affievolita. Correva, correva, il cappello in mano, il suo logoro mantello pendente dalle spalle, la fronte che gli ardeva esposta alla fredda aria invernale. Tutto ad un tratto si fermò su due piedi e si guardò attorno con aria attonita, come uomo che si sia smarrito e non riconosca il luogo ove si trovi. L'impulso che lo cacciava innanzi pareva cessato di colpo, ed egli si ritrovava senza forza, senza decisione, senza energia. Nel suo interno quel tumulto tempestoso di passione che lo tormentava era dato giù improvviso e gli aveva lasciato un vuoto in cui non sentiva altro più che un indolorimento ed una stanchezza. Pareva, come accade in qualche furioso temporale alla state, che il vento, dopo aver soffiato gagliardo e sollevato nembi turbinosi di polvere ed atterrato alberi e devastate le messi, cessa di botto e lascia succedere un momento di calma; ma una calma spaventosa in cui l'aria pesante non lascia avere il rifiato, in cui le nubi nere nere pare che vi opprimano, ed a cui sapete che fra poco dovrà tener dietro uno scoppio tremendo della bufera.

 



Maurilio portò la destra alla fronte e la passò sopra le ossa sporgenti di essa con lento moto, e si palpò la testa, quasi ad accertarsi ch'egli la teneva ancora al suo posto. Gli pareva d'esser scemo di cervello, che tutto fosse svaporato in un attimo e che l'organo del pensiero gli si fosse distrutto per sempre. Gli venne insieme una matta voglia di ridere e di piangere su se medesimo; accennò un sogghigno colle labbra e si rasciugò una lagrima che colava a stento giù delle guancie. Guardava intorno e vedeva; ma non aveva coscienza esatta di quel che vedesse. Passava uno di quei Lucchesi che girano il mondo a vendere le figurine di gesso; gli nacque un gran desiderio di saltargli addosso e romper tutti i busti e le statuette ch'egli portava sull'asse in equilibrio sul capo; un piccolo spazzacamino se ne veniva rasente il muro, mandando il suo monotono e melanconico grido: Maurilio fece un passo per venirgli a tiro ed afferrarlo alla gola; fu preso dalla tentazione di andare a strappare una legna accesa dal fuoco del caldarrostaio alla cantonata e cacciarla in mezzo ai truccioli nella bottega del vicino legnaiuolo per dilettarsi della vista dell'incendio che ne sarebbe nato. Ma la ragione, ridotta per così dire all'ultimo confine del suo impero, e prossima ad essere bandita del tutto, riagì un momento.



– Sciagurato! diss'egli a se medesimo a voce alla, percotendosi quella fronte sotto cui lottava la sua intelligenza contro le chimere del delirio: ma sono io dunque per diventar pazzo?



Pazzo! Questa parola, pronunciata da lui medesimo, lo spaventò. Tornò a suscitarsi subitamente la tempesta nel suo spirito. Riprese la sua corsa senza meta volontaria; in un attimo si trovò fuori della città sopra una strada ronchiosa pel fango gelato, la quale si allungava tra i campi e si perdeva nel nebbioso orizzonte. Corse giù per essa come l'ebreo errante della leggenda cacciato da una mano misteriosa. Era per fortuna la strada che conduceva al villaggio di cui era parroco Don Venanzio.



Questi nella carrozza del marchese veniva appunto giù della medesima in traccia del giovane. Guardava a dritta ed a sinistra il buon vecchio prete, con ansietà di padre, pregando colla fiducia della sua anima religiosa, il suo Dio. Ad un tratto si sporse fuori del finestrolo dello sportello che non ostante il freddo aveva tenuto sempre aperto, e gridò al cocchiere:



– Fermate, fermate.



Sul ciglio del fosso della strada aveva veduto accoccolato, i gomiti sulle ginocchia, il capo tra le mani il suo giovane amico. Scese precipitosamente di carrozza e corse presso quell'individuo che gli era davvero il povero Maurilio. Lo toccò sopra una spalla e con voce amorevolissima lo chiamò per nome.



Il giovane alzò il capo e guardò innanzi a sè con aria così smarrita che Don Venanzio se ne sgomentò di più che se avesse visto su quella faccia le mostre della maggior disperazione.



– Maurilio, gli disse prendendogli le mani e traendolo a sè per farlo levare, che fai tu qui? Perchè questa tua fuga? Perchè questo abbattimento? Ora che il destino ti si volge propizio, vuoi tu mancare a te stesso, vuoi tu esser da meno della tua novella sorte?



L'infelice seguitò a guardare come uomo che non capisce, che non ha idee, che non ha volontà; ma si lasciò tirar su dritto in piedi, e cedette facilmente alla mano che lo traeva verso la carrozza ferma in mezzo la strada.



– Vieni, vieni meco, gli diceva il vecchio sacerdote, pensando che il principale era in quel momento scuoterlo dal torpore di quella specie di letargo e condurselo seco.



Accostò le sue labbra all'orecchio di Maurilio e soggiunse piano, ma con forza:



– Vieni, la tua famiglia è trovata, e ti aspetta.



Il giovane diede in una scossa, guardò con indefinibile espressione il volto del parroco ed una luce viva gli lampeggiò negli occhi rianimatisi ad un tratto. Ma fu un lampo soltanto: curvò nuovamente il capo e mormorò con accento di rassegnata desolazione:



– È troppo tardi.



Però si lasciò guidare docilmente alla carrozza; ubbidì senza contrasto alla mano che dolcemente lo spingeva a salire, ed affondatosi in uno degli angoli lasciò che il cocchio, i cui cavalli erano stati voltati di nuovo verso la città, lo trasportasse di trotto dove altri voleva.



Don Venanzio, a cui questa strana apatia dava assai pena, cercò di riscuoternelo.



– Ecchè? diss'egli dopo un poco, tu sei fatto di un subito così indifferente a quello che fu sinora l'oggetto maggiore de' tuoi pensieri? Tu non mi chiedi nemmeno chi sia questa famiglia che ti dico avere scoperto essere la tua e trovarsi pronta ad accoglierti?



Maurilio crollò il capo con quella sua mossa abbandonata, e non rispose.



– Che avvenne egli adunque da rimutarti così compiutamente e ad un tratto? Perchè mi scrivesti non poter più, non dover più rimanere nella casa del marchese di Baldissero? – Fece una pausa: e poi soggiunse lentamente: – In quella casa dove anzi dovresti rimaner sempre?



Il giovane non fece attenzione a queste parole; non le capì e non si mosse.



– Che mistero è quella tua lettera inaspettata? Che mistero è questo tuo contegno? Spiegamelo, te ne prego.



Maurilio tornò a crollar la testa, come per indicare che non voleva rispondere; e si tacque.



La carrozza era già arrivata alle prime case della città. Don Venanzio avvisò che bisognava affrettarsi a rendere consapevole della verità il giovane, perchè a momenti si sarebbe giunti a palazzo.



– Or dunque, riprese, che vuoi tu ch'io dica, che posso io dire al marchese, il quale ti attende per accoglierti come suo sangue?



Questa volta l'effetto fu maggiore di quello che il buon prete si aspettasse, Maurilio sussultò come se ad un tratto una potente macchina elettrica lo avesse colpito collo scoppio della sua scintilla.



– Suo sangue! esclamò egli curvandosi verso il prete con occhi che sprizzavan fiamme e parlando con labbra convulse e con tremula voce. Sangue del marchese, io!.. Forse suo figlio?



Don Venanzio pose amorevolmente la sua destra tepida e morbida sulle mani ruvide e ghiacciate del giovane.



– Suo figlio no, disse egli lentamente, ma figliuolo di sua sorella.



Maurilio guardò il sacerdote con espressione di spavento.



– Sua sorella?.. Che sorella?



– Quella che fu poi la contessa di Castelletto, e in prime nozze fu moglie di Maurilio Valpetrosa, da Milano, tuo padre.



– Valpetrosa!.. Mio padre! ripetè il giovane proprio coll'accento d'un uomo di cui la ragione vacilla. Si cacciò le mani in capo e stette un istante raccolto in se stesso come per isforzarsi a dominare le sue idee.



– Contessa di Castelletto: riprese egli poi dopo un poco, e la sua voce era sorda, il respiro affannato, stentata la parola: la madre di… di Virginia?



Pronunziò questo nome con voce ancora più bassa e ratto come se gli abbrucciasse le labbra.



– Sì: rispose semplicemente Don Venanzio, che non poteva pure immaginare le cagioni di tanto turbamento nel suo giovane amico.



– Ed io, domandò Maurilio con maggiore ancora l'emozione, io sono dunque suo fratello?



– Sicuro!



Il volto dell'infelice divenne in un subito scarlatto, le vene del collo gli si gonfiarono tanto che parvero prossime a scoppiare; poi di presente successe un pallore cadaverico su quelle guancie, che apparirono più immagrite ed incavate di prima; la fiamma degli sguardi si spense, e mandando un gemito che pareva un rantolo, l'infelice cadde di nuovo abbandonatamente nell'angolo della carrozza, da cui s'era staccato in sussulto un momento prima.



Don Venanzio si chinò premurosamente su di lui; Maurilio era svenuto. Il buon parroco voleva gridare al cocchiere affrettasse la corsa verso il palazzo; ma vide che allora appunto la carrozza voltava sotto il portone. Si era giunti.



CAPITOLO X

Quando Maurilio tornò in se stesso, si trovò in quella camera del palazzo di Baldissero, ch'egli credeva aver abbandonato per sempre, disteso su quel letto dove la notte precedente tante chimere di sogni erano venute a tormentare il suo spirito. Sentì di subito ch'egli pigliava intiero il possesso di sè medesimo, che tutta e non lesa gli tornava la ragione. Si ricordò di subito, per prima cosa, della tremenda novella che lo aveva mandato fuor dei sensi. Avrebbe voluto poter continuare nello svenimento: quello era almeno l'oblio: avrebbe voluto ricacciare quella ragione che gli tornava, fosse pur anche ricoverandosi nel buio e nell'insensibilità del sonno eterno.



La camera era semioscura; in quella dubbia luce Maurilio vide al suo capezzale seduta una persona le cui chiome candidissime gli dissero essere Don Venanzio, in fondo al letto un uomo di alta statura, dritto, immobile che lo guardava. Gli parve che quello fosse il marchese, sentì anzi come cosa sicura che era lui; ma gli piacque indugiare a riconoscerlo, volle allontanare il momento in cui si sarebbe venuto alle spiegazioni; come volendo tornare nel torpore dello svenimento, richiuse gli occhi e stette immobile, volgendo in sè tutta l'attenzione e quasi direi lo sguardo interno della sua mente.



La vita fisica non pareva in lui ancora tornata; non si sentiva battere i polsi e le membra gli erano così lasse, così sottratte all'azione della volontà che gli pareva, per qualunque sforzo avesse fatto, non sarebbe riuscito a muovere un dito. La sua anima pareva incatenata in un corpo morto. Ma ad un punto il suo cuore si mise a palpitare frequente, quasi con dolorosa violenza. Benchè seguitasse a tener gli occhi serrati, i presenti s'avvidero che la vita era tornata in lui, perchè un lieve rossore era salito ai pomelli delle sue guancie, e il petto gli si sollevava ed abbassava in un respiro alquanto affannoso. A suscitarne gli spiriti a quel modo era stato un pensiero che improvviso erasi affacciato alla sua mente.



– E Virginia verrà essa a vedermi? Lo sa ella già ch'io sono suo fratello? E che dirà, e che le dirò io, vedendola?.. Io suo fratello!.. E l'amo!.. E l'amo ancora!.. E forse l'amerò sempre!.. Oh sciagura!



Sussultò sul letto, aprì gli occhi e si sollevò alquanto della persona sopra i cuscini. Don Venanzio si drizzò in piedi e gli pose una mano sul capo a toccargli la fronte; l'uomo dall'alta statura si curvò sopra il letto a fissare nel giacente uno sguardo pieno di compassione e d'interesse.



– La crisi è passata, ne sono sicuro, disse il parroco; da parecchi giorni la sorte non volle risparmiare le emozioni a questo poveretto, ma ora, coll'aiuto di Dio, spero che tutto sia finito… Non è vero, Maurilio?



Il giovane ringraziò con uno sguardo l'amorevolezza del suo primo, vecchio amico, poi volse que' suoi occhi ancora appannati verso l'uomo dall'alta statura il quale, toltosi da quel luogo, venne lentamente accostandosi ancor egli al capezzale dall'altra parte del letto. Era proprio il marchese.



– Sì, Maurilio, diss'egli con voce piena, calma, quasi solenne, tutto è finito; sono finite le vostre traversie e le vostre disgrazie. Tutto sarà riparato; ed avrete una sorte degna di voi. Quando saprete ogni cosa vedrete che a noi il debito della riparazione, a voi quello del perdono. Don Venanzio vi conterà tutto appena sarete in caso d'ascoltare la verità.



Il giovane attese un momento, come se esitasse a manifestare il suo pensiero, o questo pensiero medesimo fosse incerto tuttavia ed oscillante.



– Signore, diss'egli poi, la verità sono in caso di ascoltarla fin da questo momento. Da tanto tempo ne vo in traccia e la invoco che desidero, ora che la mi si affaccia, apprenderla più senza indugio.

 



Il marchese fece un atto d'acquiescenza.



– Vi lascio liberamente discorrere con Don Venanzio: diss'egli. Voi potete liberamente interrogare, io posi in grado il nostro buon amico di liberamente a tutto rispondere. Più tardi verrò io stesso a favellare con voi, e faremo allora più ampia conoscenza reciproca.



Uscì di stanza dopo queste parole, lasciando soli Don Venanzio e Maurilio. Il primo che poche ore prima aveva appreso dal marchese la storia d'Aurora, la ripetè al giovane quale a lui era stata narrata. Maurilio l'ascoltò con raccolta e profonda attenzione, senza interromper mai col menomo cenno, colla menoma osservazione, con una domanda qualunque di spiegazione, senza fare neppure il menomo atto. Lo spirito del giovane era in una strana ed affatto nuova condizione. Parevagli, dopo quel momentaneo offuscamento, avere acquistato una lucidità ed una forza maggiori del solito: e nello stesso tempo, tratto tratto, esso gli sfuggiva, si sperdeva, sembrava, per così dire, svaporargli e le idee gli si confondevano, come si facevano incerte le sensazioni e le stesse impressioni esterne. Egli aveva un'esatta cognizione delle cose, si rendeva un esatto conto di sè, degli avvenimenti che gli erano successi e di quelli che gli venivano narrati. Si vedeva colà dov'era, in quella stanza, disteso su quel letto, e conchiusa l'odissea delle sue disgrazie; nel pensiero, prendeva, con una facilità onde si meravigliava egli stesso, il posto che gli spettava, e che ora soltanto scopriva dovutogli; poi ad un tratto tutto gli pareva pigliare l'incertezza, il vago, l'inapprensibilità d'un sogno. Era egli bene sveglio, era affatto in sè mentre udiva svolgersi quel romanzo: ed era egli proprio cui esso riguardava? E Virginia era sua sorella?.. Qui si scombuiavano di nuovo tutti i suoi pensieri e sentimenti, e temeva gli sfuggisse nuovamente la ragione. Don Venanzio aveva finito di raccontare e taceva spiando attentamente sul volto pallido del giovane le impressioni che in lui quel racconto aveva deste. Ma tal silenzio ecco riuscir penoso, quasi sgomentatore per Maurilio, il quale volse per ciò gli occhi verso il vecchio sacerdote, e gli disse con accento quasi di preghiera:



– Oh parli, mi parli ancora!



Che aveva egli da dire ancora Don Venanzio, il quale aveva tulle divisatamente ripetute le cose udite dal marchese? Pensò opportuno di fare al suo protetto un piccolo sermoncino di morale sui nuovi e maggiori doveri che il suo nuovo stato era per accodargli verso i suoi simili, verso la società e verso Dio. Se questi aveva dati al giovane talenti non comuni, gli era perchè se ne servisse a maggior gloria di Lui da cui tutto dipende, ed a maggior vantaggio dei suoi fratelli; se aveva voluto che la sua infanzia e parte della giovinezza trascorressero nella miseria e nell'umiliazione d'un povero stato, era per levargli ogni superbia di grado, di titoli e di sangue, per renderlo ai mali del miserabile compassionevole; se ora lo voleva elevato a cospicue condizioni nella società, glie ne accollava tanti più obblighi di virtù, di opere, di nobili esempi al mondo.



Maurilio meditava da parte sua, e le parole dell'onesto vecchio entrandogli nella mente, senza che egli pur l'avvertisse s'intrecciavano colle riflessioni di lui, e andavano ad allogarsi nel suo cervello. Quando il sacerdote ebbe finito, il giovane gli tese una mano.



– Grazie, mio buon amico, gli disse con un sorriso pieno d'affetto; grazie, mio padre… Sì, Ella sarà pur sempre per me come un amorevol padre… Se Iddio mi lascia vivere, non sarò indegno della mia sorte. Vedrà.



La destra di Maurilio ora era divenuta ardente; gli sguardi sfavillavano stranamente nelle incavate occhiaie.



– Maurilio, figliuol mio: disse con premura Don Venanzio. Ora tu hai bisogno di calma e di riposo…



– Sì: interruppe il giovane. Ho bisogno d'esser solo e di meditare… Solo colla memoria del mio passato, colle strane venture del presente, colle lusinghe dell'avvenire; solo colla mia coscienza e Dio… Mi perdoni se la prego lasciarmi.



Il buon prete accondiscese al desiderio del giovane, lo baciò paternamente sulla fronte, e s'allontanò raccomandandolo con mentale preghiera all'Angelo Custode, ispiratore delle sante risoluzioni.



Il primo pensiero di Maurilio, quando fu solo, fu Virginia. Ella era dunque unita a lui da così stretto vincolo di carne: il medesimo sangue correva nelle loro vene. Quell'amor suo che prima era una follia, ora si faceva un empio delitto. Era esso questo amore uno sciagurato traviamento dell'istinto, di quello che suol chiamarsi la voce del sangue, che gli additava in quella una persona a lui da natura così strettamente avvinta? O cielo! Ma egli sentiva che anche ora, conoscendo la verità, anche in quel momento, la sua fatale passione ruggiva più forte, più impetuosa, più tremenda che mai nell'animo suo. L'immagine di quella tanta bellezza stava innanzi alla sua fantasia, più seducente, più eccitante che non l'avesse ancora vista: e il sangue gli pulsava nel cuore e nelle tempia.



– Potrei baciarla: si disse, e immaginò non un bacio fraterno, ma un caldo bacio d'amore al cui pensiero sentì una fiamma di voluttà dolce ed insieme penosa corrergli per tutte le fibre.



Inorridì.



– Sciagurato! sciagurato! esclamò egli. È figliuola di mia madre.



Secondo suo uso, quando di troppo gli tumultuavano nel cervello le idee, si serrò colle mani la testa, e temette un istante smarrir di nuovo la ragione ed i sensi. Ma egli, senza pensarvi, aveva pronunziato un nome che era quasi un talismano; fu come una involontaria invocazione della sua anima in angoscia.



– Mia madre! ripetè; ed un desiderio infinito, un'aspirazione ineffabile, un trasporto di fiducia in tutto l'esser suo venne a sollevarne lo spirito. Pensò alle apparizioni che nei momenti più difficili e più solenni della sua vita erano venute a dargli coraggio. Quella forma aerea che sì benigna veniva a consolarlo, a guidarlo, egli ne aveva ferma convinzione, era la madre sua; il momento in cui si trovava non era esso dei più gravi e fatali della sua vita? Perchè non sarebbe venuta anche ora quella creatura celeste a confortarlo? Egli serrò le mani in atto di preghiera, con indicibile ardore di desiderio, con inesprimibile passione, con supremo impulso di fede.



– Spirito mio benigno! disse. Madre mia, non abbandonarmi!



L'apparizione così ardentemente invocata, con tanto desiderio attesa, non ebbe luogo; ma pure, come se, anche invisibile, quello spirito amoroso esercitasse un benigno influsso sull'animo travagliato del giovane, questi sentì una certa calma succedere alla tumultuosa agitazione di poc'anzi. Le savie parole del parroco che erano penetrate nella sua mente inavvertite, cominciarono allora a staccarsi, per così dire, dal ripostiglio cerebrale ove s'erano poste ed a sfilargli innanzi all'intelletto coll'autorevolezza d'un'ammonizione e colla efficacia d'un consiglio amichevole. Egli credeva in una intelligenza superiore ordinatrice degli umani eventi; credeva nella ragionevolezza del destino, tanto di quello dell'umanità, quanto del proprio. Se in lui erano state poste quelle forze di volontà e d'ingegno non era perchè inutilmente le si consumassero in isterili tormenti d'una passione impossibile. Quella potenza che lo aveva voluto plasmato a quel modo, dominato da quegli affetti, afflitto da quelle sciagure, aveva di certo voluto che ad alcuna cosa approdasse tutto questo, che alcun risultamento da ciò ne riuscisse. Quella stessa infelice ed ora empia passione, appigliandosi al suo cuore non era destinata forse che a distruggere in lui per sempre ogni tendenza di femmineo amore, perchè tutte e soltanto le sue capacità si volgessero a quel còmpito che gli era assegnato in pro dell'umanità. Una nobile superbia, una generosa ambizione si levarono allora nell'anima sua. Gli parve sentire nell'intimo della coscienza una voce che lo assicurasse chiamato all'importanza d'una efficacissima parte in pro del progresso umano. La sventura del suo affetto, e la scoperta delle sue nuove condizioni lo sacravano apostolo operatore di quelle nuove idee che fino allora aveva solamente vagheggiato nella solitudine delle sue meditazioni.

Sursum corda

, credette sentirsi a gridare nell'anima da una voce discesa dal cielo. Il divino entusiasmo del sacrificio gli si accese nel cuore, e gli salì, per servirmi dell'espressione biblica, come fumo di vin nuovo, al cervello. Ricordò quello che avevagli detto poc'anzi il marchese, che avrebbegli procurato una sorte degna di lui. Quale sarebbe stata questa sorte? Ebbe una subita smania di determinare senza ritardo il suo destino, di fissare le linee di quella parte ch'egli voleva ed avrebbe dovuto sostenere. Aveva bisogno di occupare in questa