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La plebe, parte IV

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– Sì, all'anfiteatro anatomico.

Andrea si ricordò allora che quel luogo esecrato si chiamava appunto così. Come! La sua Paolina esposta a tale onta, a tale insulto, a tale profanazione! Afferrò per le braccia il custode e gli gridò con furore:

– Non voglio, non voglio… Andatemela a riprendere… subito… ve lo comando ve ne prego.

Il custode gli fece capire ch'egli non ci poteva nulla.

– Ma che debbo fare io adunque? Ditemelo voi, consigliatemi voi… Per Dio! non voglio che mi si tratti così la mia Paolina: voglio salvarla ad ogni costo, dovessi cacciar fuoco all'intiera città.

Il custode che non era malcontento di liberarsi al più presto di codestui, gli disse:

– Andate voi stesso colà, e potrete forse ottener che vi restituiscano il cadavere… Ma correteci tosto, se volete arrivare a tempo.

– È vero! esclamò Andrea, battendosi la fronte, ed uscito precipitoso di là, corse come un indemoniato verso l'anfiteatro anatomico.

Il portinaio dello stabilimento arrestò quest'uomo fuori di sè che entrava con tanto impeto, e gli domandò che cercasse.

– Mia moglie, rispose Andrea che pareva non aver più fiato in corpo.

– Vostra moglie! esclamò il portinaio, allargando tanto d'occhi. Oh che la vi gira? Qui non vi sono donne…

L'operaio a cui la ragione era presso a smarrirsi davvero, prese pei panni al petto il portinaio e scotendolo con aria di minaccia, gridò:

– Sì, che la c'è… È fra i morti che si vogliono squartare… Ma io non permetterò tale scelleraggine. Voglio che la mi si restituisca… Non andrò via finchè non me l'abbiate restituita… Voglio portarmela via io colle mia braccia, adesso, subito, e guai a voi, guai a tutti!..

Il custode ebbe paura: chiamò in suo soccorso alcuni inservienti, ed Andrea fu cacciato nella strada, se con buona grazia, pensatelo voi. Il pover'uomo smaniò, gridò, bestemmiò; ma ad un puntò si calmò di botto, perchè capì che in quel modo non avrebbe ottenuto nulla, che intanto il tempo passava, e che ogni minuto trascorso poteva recare alla sua Paolina quel supremo orribile sfregio, ch'egli voleva evitarle. L'esser povero è una debolezza, è un'impotenza assoluta; capì che senza intravvento, senza protezione di nessuno egli non avrebbe mai potuto riuscire nel suo intento; ma a chi rivolgersi? chi pregare? chi c'era a cui egli potesse con sicurezza e con efficacia ricorrere? Si ricordò in buon punto di quel pietoso signore che la Provvidenza aveva mandato in suo aiuto quel momento in cui era stato arrestato alla porta dell'ospedale, e si disse che non c'era altri a cui potesse indirizzarsi. Ne sapeva il nome e conosceva il luogo dov'egli aveva il suo fondaco, e corse con tutte le forze che gli rimanevano dal libraio signor Defasi.

Noi sappiamo già qual cuore pietoso avesse questo galantuomo, e quindi non ci stupiremo s'egli sentisse con molto interesse la scucita narrazione del povero Andrea smarrito dal dolore e si proponesse senza indugio di efficacemente aiutarlo. Ma gli era il modo che non sapeva trovare; egli non conosceva nessuno che avesse attinenza con quello stabilimento, e capiva che non conveniva andare per vie indirette, ma far presto per la più breve strada se volevasi arrivare a tempo. Di soccorrere ad Andrea in tutte le spese che necessariamente sarebbero occorse per far trasportare il cadavere al Campo Santo e farnelo seppellire, già aveva deciso seco stesso; ma il principale era di giungere ad impadronirsi di questo minacciato cadavere. Pensò rivolgersi al professore incaricato dell'insegnamento anatomico: ma egli non lo conosceva personalmente, e quel tale aveva una fama di burbero che non incoraggiava di molto a fare un tentativo presso di lui. Anche al signor Defasi venne ad un tratto l'ispirazione d'un'idea. Si ricordò che i bambini di quell'operaio erano stati ricoverati nell'ospizio dietro l'opera del dottor Quercia; questo signore che tanto faceva parlare di sè, nella sua qualità di medico, doveva avere conoscenza e forse autorità in quella sfera, e non si sarebbe certamente rifiutato d'adoperarsi in favore di quel pover'uomo. Per fortuna egli sapeva l'indirizzo del Quercia, e presa una carrozza da nolo, in pochi minuti ebbe condotto al quartiere di Gian-Luigi il disperato Andrea.

Colà una gran sorpresa attendeva il sig. Defasi. Insieme col dottor Quercia, il quale aveva subito fatto introdurre i due sopravvenuti appena annunziatigli, stava un uomo, un giovane dalle strane sembianze, vestito in panni eleganti, che parevano impacciarlo, con un'espressione sulla pallida faccia tra di soddisfacimento e di dolore, che male avreste saputo spiegare. All'ingresso del signor Defasi questo tale si alzò e si trasse alquanto in là come se avesse tentato sottrarsi alla vista del nuovo venuto, ed un leggiero rossore salì alle sue guancie pallide ed incavate. Defasi, infervorato nel còmpito che si era assunto, prese ad esporre il caso di Andrea e la ragione della loro venuta, senza fare troppa attenzione a quell'individuo che stava in compagnia di Quercia; Andrea rimaneva presso l'uscio rotolando fra le sue mani convulse il berretto e guardando con occhi lucidi d'un ardore febbrile, che supplicavano più di tutte le possibili parole.

Il dottor Quercia, appena ebbe udito il racconto di Defasi, senza porre tempo in mezzo, esclamò con tutta la vivacità d'un buon cuore commosso:

– L'aggiusterò io, stieno tranquilli… Io conosco appunto chi conviene per ciò… Corriamo senza perder tempo: fo attaccare la mia carrozza… anzi mando a prenderne una che faremo più presto…

Defasi disse ch'egli ne aveva impegnata una, la quale stava appunto attendendo nella strada.

– Benissimo: soggiunse Luigi. Allora non domando che un mezzo minuto di tempo, tanto da calzare un pastrano, e prendere il cappello, e sono con loro.

Passò prestamente nella camera vicina, e Defasi allora si volse verso quell'altro personaggio, a cui non aveva ancor badato; ma quegli, benchè senza affettazione, volse in là il capo, come se desiderasse non appiccar discorso. Pur tuttavia al libraio parve riconoscerlo: quella vasta fronte, quegli occhi profondi, quel petto ricurvo gli ricordavano un individuo, di cui pochi giorni prima aveva tenuto discorso, di cui da tanto tempo desiderava sapere e non sapeva più notizia. Fece un mezzo passo verso di lui, aprì la bocca come per interrogarlo: ma poi pel contegno del giovane non n'ebbe il coraggio; si rimase a guardarlo con una certa emozione che non cercava manco nascondere.

– Eccomi pronto: disse Luigi, entrando in quella col pastrano indosso ed il cappello in testa. Andiamo.

Poi si rivolse al giovane cui il signor Defasi aveva creduto riconoscere.

– Addio Maurilio, soggiunse tendendogli tuttedue le mani. Quanto volentieri t'accompagnerei al villaggio… al nostro villaggio, lasciami dire ancora!.. Mi rallegro delle tue fortune e ne godo come se fossero mie… Possa tu essere davvero felice!

E mandò un sospiro che sarebbe stato assai difficile interpretare.

All'udire il nome di Maurilio, il signor Defasi erasi riscosso: si slanciò verso quel giovane e con accento pieno di calore esclamò:

– Ma dunque voi siete davvero Maurilio?..

Il giovane lo guardò con freddezza e il libraio si riprese:

– Ella è Maurilio Nulla?

Il nostro eroe s'inchinò leggermente e con un indefinibile sorriso in cui c'era della fierezza ed insieme una mesta amaritudine, rispose:

– Non più Nulla; Maurilio Valpetrosa, nipote del marchese di Baldissero.

Defasi spalancò tanto d'occhi.

– Davvero!.. Ne godo… mi rallegro… Ma chiunque Ella si fosse, io ho un'ammenda da fare verso di Lei, io ho delle vivissime scuse da chiederle, e voglio ad ogni modo conquistare il suo perdono e riottenere la sua amicizia… Ora non ho tempo, ma la mi faccia il favore di dirmi dove, come e quando potrei avere con Lei un colloquio, ed io mi farò premura…

Maurilio l'interruppe.

– Sto per partire. Vo alcuni giorni al villaggio dove passai la mia infanzia. Sono venuto appunto a manifestare le mie nuove condizioni ed a dare l'addio a questo mio amico e compagno (ed additò Gian-Luigi). Al mio ritorno sarò io stesso che passerò da Lei per avere quel colloquio che preme anche a me.

Come fosse avvenuto il riconoscimento di Maurilio per parte del marchese, vedremo fra poco: ora mi preme seguire l'infelice Andrea nella dolorosa ricerca del cadavere di sua moglie.

Mezz'ora non era trascorsa da che era uscito di casa con Defasi ed Andrea che Quercia aveva ottenuto tutto quello che si desiderava: entrare nel deposito dei cadaveri al Gabinetto anatomico, ritirarne quello di Paolina e farlo trasportare al Campo Santo.

Quando entrarono in codesto lugubre luogo che è il deposito de' morti, gli inservienti stavano appunto prendendo dalla gran tavola di marmo uno dei due cadaveri che c'erano per portarlo nell'anfiteatro: l'avevano preso uno per le spalle, l'altro per i piedi e se ne andavano con quel povero cadavere tutto nudo, Andrea gettò un urlo e si slanciò verso di loro colle mani tese. Non avea vista la faccia di quel corpo dimagrato, allividito, ma il cuore glie l'avea fatto riconoscere, ma ne aveva vista la bionda capigliatura cadente. Era la sua Paolina.

– Fermatevi, disse agli inservienti Quercia che accompagnava il misero Andrea: questo cadavere abbiamo l'autorizzazione di ritirarlo.

Ne li persuase in breve, sopratutto con una mancia. Il corpo fu rimesso sopra il freddo marmo della gran tavola, e invece di quello, per portare nell'anfiteatro, fu preso quell'altro che giaceva pure colà. Andrea fece un moto, come per gittarsi addosso al cadavere della sua donna; ma la nudità di quelle membra parvero fargliene ad un tratto ribrezzo e vergogna: mandò intorno uno sguardo quasi selvaggio, e con atto pronto, istantaneo, quasi violento, trattasi dalle spalle la sua carniera, la stese su quelle povere membra livide ed irrigidite.

 

– Avrete freddo, disse il buon signor Defasi, e vi piglierete un malanno.

Andrea scosse il capo senza rispondere altrimenti.

– Io corro tosto a casa, riprese Defasi, e manderò qui lenzuola e quanto occorre.

– Volete voi rimaner qui? domandò Quercia al marito di Paolina, il quale fece un atto energico di affermazione. Bene. Noi vi ci lascieremo. Tutto sarà disposto intanto per la sepoltura di questa poveretta, e verso sera la faremo trasportare al Campo Santo.

Andrea andò verso quei due suoi benefattori e prese loro le mani.

– Loro mi fanno una carità delle maggiori: disse egli con voce gutturale che pareva uscirgli a stento dalle fauci (ed erano queste le prime parole che pronunciava dopo che aveva narrato al signor Defasi la crudeltà della sua avventura). Io non so e non saprò mai come rimeritarneli; ma nasca il caso in cui abbiano bisogno di un uomo… e son io qua.

Gian-Luigi corrispose colla sua alla stretta di mano dell'operaio, e guardandolo bene entro gli occhi, rispose lentamente:

– E per me può nascere questo caso. Se venissi dunque un giorno a ricordarvi le parole che avete ora pronunziate?..

– La mi troverà pronto a mantenerle.

– Sta bene.

Quercia e Defasi partirono. Andrea si lasciò andare sopra uno scanno che c'era colà e tutto intirizzito dal freddo stette immobile, il capo nelle mani, posseduto da un generale indolorimento in cui tutti erano confusi i suoi pensieri, le sue sensazioni, il sentimento del presente, il ricordo del passato. Non gli pareva manco di vivere, non gli sembrava vero d'essere lui in quelle condizioni, e che a lui proprio erano capitate tutte quelle vicende. Non guardava il corpo della sua Paolina; non ne aveva il coraggio; era ben dessa che giaceva là immobile, insensibile innanzi a lui? Ne temeva la vista ora ch'essa era fatta muta per sempre, più che non ne avesse temuto mai dapprima gli amorosi rimproveri. Come essa lo aveva amato! Ed egli pure aveva amato lei! Un tempo lei prima di tutto al mondo. Quale un raggio di sole che per uno squarcio di nubi venga a brillare un istante in un oscuro orizzonte, vide ad un tratto presentarsi alla sua memoria le gioie soavi dei giorni in cui s'erano sposati. Quanto era bella la sua Paolina! e quanto glie la invidiavano i compagni, e quanto egli n'era fiero!.. Alzò la testa con ratta vivacità. Aveva bisogno di vederla. Sperava quasi doversela trovare innanzi allo sguardo, qual era in quel tempo già remoto pur troppo; una folle lusinga di mente vacillante gli faceva quasi sperare il miracolo che Iddio glie l'avrebbe restituita nelle forme e nelle sembianze che ora gli si erano affacciate al pensiero.

Aimè! Il corpo giaceva stecchito, stremato dai patimenti, dalle privazioni di tanto tempo, dal male che l'aveva da ultimo tratta alla tomba; in quel viso diventato color della cenere, smagrito, tirato, quasi non erano più da riconoscersi i tratti della fiorente giovinetta ch'egli aveva condotta all'altare; dalle palpebre semichiuse appariva un occhio spento, senza colore, che nulla più ricordava della gaia, vivace pupilla della giovane sposa. Andrea, intirizzito dal freddo, stretto il cuore da un'emozione che mal gli lasciava circolare il sangue, sentì invadersi come da un intorpidimento mortale; gli parve che se non si riscuotesse egli sarebbe caduto cadavere ancor egli a' piedi di quella tavola su cui giaceva cadavere la sua Paolina. Quelle sembianze di morta su cui si fissavano e da cui non erano più capaci di spiccarsi i suoi occhi smarriti, sembravano esercitare su di lui un fascino per attirarlo nel paese delle ombre; gli pareva una voluttà il cedere a quel fascino. Fosse egli pur morto! Sarebbe cessato ogni dolore anche per lui! Ma allora gli sembrò che la bocca semiaperta della morta pronunziasse colle labbra livide e sottili una parola, di cui orecchio umano non avrebbe potuto udire il suono ma ch'egli intese col cuore: – «I figli!»

Oh! i figli suoi! Questo pensiero gli diede la forza di sottrarsi a quel fatale intorpidimento. Sorse in piedi e si pose a passeggiare con passo affrettato per la stanza. Quel moto violento, ridonando il calore e la vita alle membra, pareva disperdere il turbinio di pensieri che gli toglieva la testa. Passava e ripassava innanzi al cadavere, e ad ogni volta vi gettava uno sguardo: ma questi sguardi via via venivano cambiando espressione. Dapprima erano quasi paurosi, poi manifestarono un rispetto, quasi una venerazione; da ultimo presero un'amorosa tenerezza. Allora il pover'uomo s'accostò di nuovo al cadavere e si fermò presso di lui.

– Paolina! Paolina! chiamò egli con voce piena d'immenso affetto: e si curvò su quella testa abbandonata e cominciò a baciarne il fronte, e poi gli occhi, e poi le labbra – ed allora pianse! Pianse a lungo e fu sollevato: il dolore non si sminuì, ma si fece meno amaro, meno disperato: gli sembrò sentire vicino a sè l'anima della sua donna, gli pareva udire nell'aura le parole ch'ella soleva dirgli pur sempre, di affettuoso perdono.

Perdono? Lo meritava egli? Chi l'aveva tratta dalla felice esistenza dei primi anni a quella morte dei derelitti nell'ospedale, a quell'ultima suprema miseria, di non aver nè anco sacro dopo morte il proprio cadavere? Dall'altare in cui s'erano sposati a quella tavola di marmo, qual cammino di delusioni, di stenti, di dolori, aveva percorso quella povera donna! E tutta la colpa era di lui!

Cadde in ginocchio presso la tavola e tendendo le mani congiunte sopra la fredda pietra, esclamò con accento di spasimo inesprimibile:

– Perdonami! Perdonami!..

Paolina fu seppellita in un angoluccio del cimitero comune: ma per cura del signor Defasi una modesta croce ne segnò la fossa su cui potessero venire a piangere e pregare il vedovo marito e gli orfani figli.

CAPITOLO IX

Il marchese di Baldissero trovò il Re, che lo aveva mandato a chiamare, molto accigliato. I fatti della sera innanzi gli erano forte dispiaciuti, e innanzi al suo sguardo severo chinavano gli occhi mortificati tutti i ministri che gli facevan corona. Era come un solenne Consiglio ch'egli aveva radunato per consultare sul da farsi, ed al quale, oltre i ministri, aveva voluto prendessero parte i più fidi e devoti servitori della monarchia, fra cui il marchese.

In presenza d'un nuovo e tanto pericolo che subitamente era sorto per l'edifizio politico e per l'organismo sociale, qual era l'insurrezione della plebe, il Re volava si cercassero, si scegliessero e senz'indugio si ponessero in pratica i mezzi più opportuni per cessare quel rischio non solamente nel presente, ma eziandio per l'avvenire. La fantasia di quegli uomini di Stato colà raccolti non era molto feconda nel trovar fuori di cotali mezzi che paressero di sicuro, od anzi soltanto di probabile effetto alla mente acuta del Re. I più non credevano si dovesse dare a quel fatto tanta importanza, quanta glie ne metteva il capo supremo dello Stato, nulla più che ad un accidente volgare, che ad un turbamento momentaneo, il quale si raggiusta col mettere a segno i tumultuanti e si passa; quasi tutti erano d'avviso che non c'era da far altro che reprimere e severamente reprimere per impedire colla esemplarità del grave castigo ogni simile tentativo ulteriore.

Non infastidirò le mie gentili lettrici, facendole assistere alle gravi discussioni di quel poco fruttuoso Consiglio. Carlo Alberto ascoltò freddamente tutte le parole che furono dette, non manifestando in nessun modo la sua interna impressione sulla sua impassibile faccia pallida; acconsentì tacendo alle varie proposte che furono messe innanzi dai varii ministri: che quelli fra gli arrestati nella riotta della sera innanzi che fossero noti come oziosi, vagabondi e proni a delinquere fossero per misura economica, come allora si soleva dire, trasportati nell'isola di Sardegna a dirsela colla malaria e colle palle degli schioppi di quegl'isolani; che si dèsse una gran retata nei bassi fondi sociali delle bettole e dei postriboli per coglierne la maggior quantità possibile di altri fra quegl'indiziati che sono esca al disordine, e si mandassero a tener compagnia a que' primi; che si procedesse severamente contro tutti coloro a cui poteva applicarsi condanna criminale pei fatti della sera precedente, e il Ministro di grazia e giustizia eccitasse il potere giudiziario a volerli colpire col maximum delle pene.

– Signori, disse finalmente il Re, levando il suo capo che teneva reclinato sul petto, come troppo greve a portarsi. Non sarebbe per avventura più vasta la questione di quello che noi ci figuriamo? Nell'Inghilterra, nel Belgio e nella vicina Francia, le classi lavoratrici si agitano e dànno seriamente da pensare agli uomini di governo. Non sarebb'egli un accenno di quel moto che si fa strada nel nostro paese?

I ministri e gli altri consiglieri si guardarono in faccia per sapere a chi toccasse rispondere. Il Ministro dell'interno fece un piccol gesto della mano per indicare ch'egli avrebbe risposto: e fatto un inchino col capo verso il Re, così prese a parlare:

– Oserei credere, Sire, oserei anche affermare, Maestà, che nei felicissimi Stali retti dal suo scettro non sono punto penetrate quelle empie massime che sommuovono le plebi nei miseri paesi da V. M. nominati. Noi abbiamo fatto buona guardia, e l'iniquo fiotto, se così posso esprimermi, si è arrestato alla frontiera. In quelle parti là l'artigiano, il povero, il pezzente, legge, pretende a discutere, si crede di ragionare. Noi, grazie a Dio, siamo liberi ancora da siffatta malsania. Non abbiamo lasciato nè lasciamo stampare o penetrare libri e giornali perniciosi; e la nostra plebe, per fortuna, è troppo ignorante per leggere checchesiasi.

Il Re mosse le labbra per parlare, e il ministro si tacque di botto, rimanendo a bocca larga a dare ascolto.

– Oggi è così: disse Carlo Alberto, ma domani può essere tutto diverso. Non ostante la buona guardia di cui Ella si vanta, quelle idee di cui si discorre hanno pur penetrato nel nostro paese, ed io ne ho delle prove, e n'è una lo sciopero avvenuto e poi la rivolta degli operai. Noi non possiamo vivere tanto isolati dal resto del mondo che le passioni, le idee, anco le pazzie del genere umano non ci tocchino e non si partecipino eziandio da noi; le comunicazioni più rapide che si stabiliscono, aiuteranno ancora codesta diffusione, e massime quelle vie ferrate di cui abbiamo già adottato parecchi disegni pel nostro Stato e della principale delle quali già è così ben avviata l'esecuzione.

Profittando d'una di quelle pause che il Re faceva frequentemente nel suo parlare lento ed impedito, il ministro degli esteri esclamò con qualche vivacità:

– Ed è per ciò ch'io ebbi il coraggio di oppormi quanto potei alla costruzione di queste diaboliche strade.

Carlo Alberto volse verso quel ministro il suo sguardo semispento e fece il suo enimmatico sorriso.

– L'esecuzione della rete ferroviaria, diss'egli, se Dio mi dà grazia di poterla compire, la ritengo per una delle opere onde meglio sarà illustrato il mio regno. Ai popoli si deve non solamente la sicurezza ma la prosperità materiale eziandio; e quando un nuovo mezzo di accrescere siffatta prosperità si presenta nel mondo ed è dalle altre nazioni adottato, grave fallo sarebbe il lasciarne mancare il proprio paese. Per più ragioni adunque è da credersi che anche le nostre classi inferiori già sono, o in breve saranno corse ed agitate dalle medesime idee e pretese da cui vediamo commosse le plebi degli altri paesi. La loro condizione è misera, senza dubbio, e degna del massimo riguardo: le passioni sovversive trovano nel disagio e nelle sofferenze di quelle turbe malaugurato alimento. Non sarebbe egli dunque il caso di avvisare, se le condizioni di questa povera gente, anche mercè la legislazione, potessero venir mutate in meglio, se ai diritti di proprietà si potesse fare qualche modificazione per cui più retribuito, meglio assicurato potesse riuscire il lavoro manuale?

Tacque, e i ministri si guardarono esterrefatti, come se per la bocca del loro sovrano avessero udito parlare lo spirito di Fourier.

Il ministro di grazia e giustizia s'inchinò e disse in tono magistrale:

– Non si può toccar più l'arca santa delle leggi senza danno evidente, quasi direi senza una vera profanazione; V. M. ha compito il più gran monumento legislativo che un sovrano abbia fatto mai. Il codice civile da V. M. sancito posa su principii de' più liberali, e pone la proprietà su solide basi, cui sarebbe il maggior pericolo del mondo il voler mutare.

– Il popolaccio sta abbastanza bene; disse il conte Barranchi, capo supremo della Polizia; sta bene anche troppo. Per me credo che più è misera ed ignorante una popolazione, e meglio la si governa.

Carlo Alberto si rivolse al Riformatore degli studi, che era una specie di ministro della pubblica istruzione:

 

– L'ignoranza dei popoli fu pel passato una guarentigia; non potrebbe divenire d'or innanzi un pericolo? Poichè vi ha questa tendenza universale all'istruirsi, non potrebbero la Chiesa e lo Stato di accordo prendere l'iniziativa dell'istruzione popolare ed istillare così nelle masse dei buoni principii, invece di lasciarle esposte alle seduzioni dei novatori?

L'Arcivescovo di Torino, che era presente eziandio, e pareva sonnecchiare tranquillamente, all'udir nominare la Chiesa arricciò il suo naso rubicondo ed aprì i suoi occhietti vivaci.

– Sire: diss'egli, senza lasciar tempo di rispondere al Riformatore degli studi; l'istruzione la si dia tutta, e popolare e non, in mano della Chiesa; ed anche lo Stato se ne troverà bene. Noi faremo di tutti dei buoni cristiani e dei sudditi fedeli.

Il Re fece un cenno grazioso col capo verso l'Arcivescovo, che poteva significare un assentire, un ringraziamento od un semplice atto di cortesia, e poi si levò in piedi. Tutti s'alzarono: il Consiglio era finito.

Tolsero commiato e se ne partirono tutti; ma Carlo Alberto parlando a Baldissero gli disse:

– Marchese si fermi.

Il marchese, che già s'inchinava presso la porta per partirsi, tornò indietro lentamente verso il Re, il quale, secondo suo costume, s'intromise nella strombatura della finestra che guardava nella piazza.

Baldissero stette aspettando: Carlo Alberto per un poco rimase in silenzio. Con una mossa che gli era abituale, sulla mano del braccio sinistro che teneva ripiegato al petto aveva appoggiato il gomito dell'altro braccio e sosteneva alla mano destra la sua fronte vasta e scialba come quella d'un cadavere.

– Nessuno di quegli uomini mi comprende; mormorava il Re, in modo che parevano sfuggirgli inavvertite siffatte parole. Nessuno ha la intelligenza delle grandi cose, niuno vede al di là dell'oggi, niuno saprebbe indovinare le mie idee ed incarnarle.

Le sue dita si contrassero sopra la fronte, liscia come la lapide d'un sepolcro.

– Ah! se potessi da me! soggiunse, ma così piano che non l'avrebbe pur udito chi avesse potuto mettere il suo orecchio sulle pallide di lui labbra. Se potessi io stesso dar forme concrete al mio pensiero, trovarne il modo d'eseguimento ed aver la forza di porlo in atto!..

Nella sua anima successe in quell'istante fugace, ratto ma vivo, uno di quegli scombuiamenti che la turbavano di frequente: una specie di lotta fra la volontà e l'insufficienza dei mezzi, fra l'ardore dello spirito e la debolezza dell'intelligenza, quando la idea si travede e non si può afferrare, quando s'indovina, s'intuisce confusamente, in nube, il vero, il bene, il bello, e la mente non ha forza di definirselo innanzi in maniera efficace e precisa, così bene che dopo un poco d'inutili sforzi la si accascia sfiduciata e stanca per cadere in balìa d'un'altra mente fors'anche meno elevata, ma più pratica e più operosa.

Il marchese stava osservando rispettosamente il Re, due passi da lui lontano. Carlo Alberto si riscosse e rivolse verso il suo fedele la faccia melanconica e severa.

– La ho pregata di fermarsi, marchese, gli disse, per parlarle di quel cotale, autore del manoscritto da Lei comunicatomi, e che, arrestato come cospiratore, fu, dietro le raccomandazioni di Lei, per mio ordine espresso liberato senza ritardo.

Baldissero fece una lieve mossa per accennare ch'egli era pronto a rispondere ad ogni richiesta. Il Re sviò lo sguardo dalla faccia del marchese e lo fissò vago ed incerto nell'orizzonte traverso i cristalli della finestra: rimase in silenzio e parve aver subitamente volto il pensiero a tutt'altro. Nel suo intimo frattanto meditava, se facesse bene a parlare, se miglior consiglio non sarebbe stato il rinunziare affatto a tutte quelle idee non ancora ben determinate, a tutti quei disegni tuttavia in nube cui aveva desti in lui la lettura delle pagine scritte dal trovatello.

Egli tutte le aveva attentamente lette, molte aveva rilette più volte, e assai meditatovi sopra. Uno strano effetto sulla sua natura facilmente esaltabile, benchè sotto apparenze contegnose e fredde, sulla sua anima tra cavalleresca ed ascetica, inviluppata d'un altissimo orgoglio per la dignità del grado, aveva prodotto quella lettura che rispondeva a certe velleità di audaci pensamenti, a certe aspirazioni di novatore e di messia che brulicavano segretamente in fondo al suo essere di sovrano, innamorato della gloria e che vorrebbe stampare profonda e luminosa l'orma del suo regno. Il fatalismo cattolico del suo spirito alquanto superstizioso, per poco non lo aveva persuaso che era stato Iddio medesimo a mandargli sott'occhi quello scritto in cui erano trattate tante di quelle questioni sociali che preoccupavano la sua mente di re che avrebbe voluto essere riformatore, ed alcune v'erano sciolte. Gli parve che da quelle carte sgualcite su cui una mano febbrile aveva scritto un tanto mondo di pensieri, uscisse come la voce del popolo medesimo il quale avesse acquistato coscienza e sapienza de' suoi destini e de' suoi bisogni e quindi formolasse, ad ammaestrarlo, in linguaggio tra di poeta, tra di statista, le necessità economiche, morali e sociali della nuova vita civile, sentite non avvertite dalla massa comune, e i rimedi acconci alle medesime; la voce, direi, della Sfinge, di cui egli voleva essere l'Edipo e dominarla. L'autore di quelle pagine non era egli l'uomo che invano andava cautamente cercando intorno a sè, e cui gli aveva mandato la Provvidenza? Pensò a quel suo antecessore (e fu pure un glorioso principe quello!), il quale dal nulla aveva innalzato alle prime cariche il Bogino, che fu uno dei più valenti ministri del Piemonte. Se nelle file della plebe trovavasi un ingegno superiore, il quale potesse rendere eminenti servigi alla monarchia e al paese, perchè non l'avrebbe egli tratto di là e postolo in condizione da poter compiere la sua missione? Era suo dovere il farlo; sarebbe stata sua gloria l'averlo fatto. La conseguenza di tutti questi pensieri si fu che egli decise informarsi meglio dell'essere di quel cotale presso il marchese di Baldissero. Ma ora, come già accennai, le solite dubbiezze, che al punto dell'azione assalivano sempre la sua anima esitante, lo facevano restio e come peritoso al parlare.

Il marchese attendeva tuttavia le interrogazioni del Re. Questi ruppe finalmente il silenzio, senza volgere gli occhi su colui che l'ascoltava, guardando sempre con pupille vaghe nel grigio del cielo annuvolato.

– Credono che la plebe non pensi, diss'egli, credono che ignori ancora come un tempo. La rivoluzione francese ha inoculato il veleno nel sangue delle generazioni di questo secolo di qualunque classe; esso serpeggia e si diffonde. Ci vorrebbe sangue e fuoco ad estirparlo. E chi oserebbe fare da Torquemada nel secolo XIX?.. Ed ancora! Si riuscirebbe egli forse? Le plebi pensano più che non si creda. Quel zibaldone di temerità, di matte idee, di potenti concetti n'è una prova. Se viene un giorno un'intelligenza superiore che mostri loro la terra promessa d'una riforma sociale? Se acquistano un giorno la coscienza della loro forza? Bisognerebbe fare qualche cosa per le plebi… Ma che cosa? Qual pericolo toccare all'edifizio della società! Come prendersela, dove incominciare, a qual punto arrestarsi? Questo è da definirsi; ed ecco dov'è necessaria l'opera d'un ingegno superiore.

Si voltò allora verso il marchese.

– Lo scrittore di quelle pagine, domandò, Ella lo conosce, lo ha visto, gli ha parlato?

– Sì, Maestà, rispose Baldissero, e l'ho anzi preso per mio segretario.

Il Re lo guardò con espressione di alquanto sospetto.