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La plebe, parte III

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CAPITOLO VIII

Appena rimasti soli Gian-Luigi e Maurilio, il primo s'accostò vivamente al secondo e incominciò con vivacissimo accento:

– Maurilio, io ti leggo nell'animo. Il tuo freddo silenzio mi parla più chiaro d'ogni parola. Tu diffidi di me; mi sospetti e sei presso a disistimarmi… Tu mi hai visto ieri sera colle vesti del povero nei ritrovi del povero; poi collo sfoggio del ricco nel convegno elegante dei gaudenti del mondo, e ti domandi: che cosa son io, che faccio? in qual razza di Proteo si è tramutato il tuo compagno d'infanzia? Ebbene, gli è verissimo: sono un mistero, e lo sono per tutti così bene che pochi o nessuno sospettano pure in me, sotto la maschera dell'uomo gaio e leggiero di società, sotto le spoglie del damerino e dell'epicureo, l'individualità d'un proposito e la stoffa d'una volontà. Vengo a svelarti questo mistero… non per platonico trasporto d'amicizia, ma perchè – te l'ho detto ieri sera – perchè la mia risolutezza e l'audacia de' miei disegni hanno bisogno del tuo cervello.

Fece una pausa; Maurilio, sempre silenzioso, sostenendo colla sinistra delle sue grosse mani la fronte vasta e protuberante, abbassò la destra verso il compagno con atto che voleva significare:

– Parla.

Gian-Luigi trasse un profondo sospiro come uomo che ha il petto gonfio da qualche non lieve emozione, e coll'accento spiccato e misurato di chi studia le sue parole od anzi meglio dice parole studiate e preparate, continuò:

– Con te non occorre usare il linguaggio che bisogna parlare a quel buon Don Venanzio. Questo sant'uomo ha sempre vissuto in un guscio, e la sua esperienza e la scienza delle cose del mondo non eccedono la ristrettissima cerchia di un'anima che non ha mai avuto passioni, d'un cervello che non ha mai avuto idee al di là di quelle permesse dal catechismo. Tu soffri delle ingiustizie della sorte assodate nell'assetto sociale, egli in ogni fatto benedice il volere di Dio: tu hai capito e capisci la necessità della riforma, anzi della rivoluzione nell'ordinamento attuale dell'agglomerazione umana: egli non sente e non apprezza che la impotente e miserabile virtù della rassegnazione. Se io venissi a dire a quel buon vecchio: la necessità di cambiare quest'organamento che soffoca i tre quarti delle intelligenze umane, che costringe alla miseria i tre quarti degli uomini, si è fatta sentire su me più che su altri; ha pesato con mano più cruda su di me, quasi appunto per suscitare nella mia personalità appassionata uno stromento della rivoluzione della plebe, per crearmi tribuno e vindice del proletariato, per farmi sorgere apostolo e guerriero dell'emancipazione delle classi povere, ed io ho accettato il carico e mi sono sobbarcato all'impresa, Don Venanzio mi griderebbe spaventato il vade retro Satanas…

Maurilio l'interruppe e disse con voce lenta, fiacca, quasi svogliata:

– Ed è codesto che sei venuto dire a me?

Gian-Luigi guardò ratto intorno a sè, come per assicurarsi ancora che nessuno potesse udire: poi si curvò verso il compagno e rispose con forza:

– Gli è questo.

Maurilio scosse leggermente la testa.

– Una molto superba parte ti sei assunto: disse egli col tono medesimo di prima. Come ti sei sentito tu consacrare cosiffatto campione? Qual cosa o chi ti assicura in tanta impresa? Come Giovanna d'Arco, chiamata per salvar la Francia, hai tu sentito le voci del Cielo chiamarti per redimer le plebi?..

Gian-Luigi interruppe con impazienza:

– È ella un'ironia codesta?.. Cotale risposta non mi sarei aspettata da un compagno d'infanzia come sei tu e da un'intelligenza qual'è la tua… Ebben sì; le ho sentite le voci del Cielo. Le ho sentite nella mia anima, nelle torture che io ho provato, e son quelle che provasti anche tu, nelle miserie di tanta parte del genere umano, nella crudele ingiustizia del mondo che rigetta dalle sue gioie il povero ed il debole, che per lasciarmi penetrar di straforo nell'oasi de' suoi godimenti mi ha obbligato ad infingermi e mentire. Noi empiamente condannano i costumi e le leggi: queste fondamento a quelli: bisogna rovesciare le une e gli altri.

– Rovesciare! rovesciare!.. Tu ne parli con molta agevolezza! L'edifizio non è così corroso alle fondamenta che un urto basti a sconquassarlo. Posa sopra una larga base cui, non foss'altro, l'abitudine ha contribuito a formare.

– Questa base siamo noi, i poverelli, i derelitti, i miserabili. Gli è sulle nostre spalle opprimendoci ch'esso regge. E se noi ci levassimo?

– Come farlo?

– Ecco quello ch'io ho studiato e preparato; e che ti dirò se tu vuoi essermi compagno all'impresa.

– Rovesciare!.. Ammettiamo pur anco che tu ci riesca… E poi? Avrai accumulato intorno a te un caos di rovine. Come potrai far sorgere l'edifizio novello? E saprai tu costrurlo? Ci vuole la potenza dei secoli. Un equilibrio dopo un più o men lungo scombuiamento riuscirà certo a stabilirsi; ma chi può assicurare che in questo nuovo equilibrio l'umanità starà meglio di prima? E non sarà pagato troppo caro questo ancor meno felice stato novello dalla terribilità della crisi avvenuta?

– Tutte queste cose, credi tu che io non le abbia pensate?.. Forse a ricostrurre quel nuovo edifizio la tua intelligenza può essermi utile: ecco perchè io son venuto. Sento in me quanto esser debba il coraggio che affronta una simile risponsabilità, e questo coraggio io lo possedo. Ho lavorato finora nell'ombre, ma la mia opera è spinta oramai tanto innanzi che dal mio cenno dipende lo scoppio. Ancorchè tu mi manchi, questo cenno lo darò. Dal medesimo travaglio anche sanguinoso del conflitto, sorgerà la legge della civiltà avvenire. La società ora si viene corrompendo sempre più nel marasmo: come la natura, ha bisogno di quando in quando che alcuno sconvolgimento la desti e la fecondi per creazioni novelle. La rivoluzione è il percoter della selce: ne sprizzerà una scintilla…

– E intanto si cammina verso l'ignoto. Non è vero che la natura proceda per iscosse violente e che il cataclisma sia l'elemento necessario d'ogni progresso nella creazione. Più attentamente esaminata la storia della natura è un lento e graduato svolgersi coll'opera del tempo. Così è dello incivilirsi del genere umano e del perfezionarsi delle forme sociali. Codesto procede in seguito all'azione di certe leggi morali, che forse un dì si scopriranno e definiranno, come furono scoperte e definite le leggi fisiche. Un uomo non può sostituire al giuoco di queste leggi il suo privato giudizio e la propria audacia. Finora non vi fu che un solo Messia sulla terra, e tu non puoi aver l'idea di dover essere il secondo. È l'opera di molti uomini, di molte generazioni che deve far ciò che tu sogni di ottenere ad un tratto. Per redimere la classe più infelice della società attuale, la plebe, non basta riporla materialmente in alto mandando in frantumi le attuali forme dell'ordinamento sociale; conviene che questa povera gente in prima venga rendendosi degna di stare là dove si vuole farla pervenire. Metti in mezzo alle ricchezze sociali le brutalità della plebe ineducata, e che cosa ne avverrà?..

– Ma quando a guidare questa plebe ci sieno intelligenze superiori – le nostre, per esempio?..

Gian-Luigi prese a Maurilio una mano e glie la strinse forte.

– Maurilio! soggiunse. Noi possiamo avere in pugno quella forza meravigliosa – dirigerla a nostro talento.

– Illusione! Rompi le dighe dell'Oceano, e poi cerca di regolare le onde irrompenti. Senti, Gian-Luigi!.. La mia idea è che i tuoi tentativi, qualunque essi sieno, cadranno nel nulla.

Gian-Luigi fece un movimento.

– E così mi auguro che avvenga: soggiunse vivamente Maurilio.

– Così non avverrà, disse fieramente Gian-Luigi. Soccomberò forse, ma in un mucchio di rovine.

– Soccomberai senza pure le rovine. Tu hai nemiche tutte le potenze del mondo, il denaro, i governi, la religione. E che vuoi tu fare da questo piccolo angolo di terra contro tutta la moderna civiltà europea? So che tu hai cercato alleanza nelle congiure politiche, come la rivoluzione politica ha cercato un sostegno nella questione sociale…

– Ah! tu lo sai? domandò con meraviglia Gian-Luigi.

– Sì, e giudico che soccomberete tutti…

– No, per Dio! Qui non sarà tutta concentrata la lotta. Il segnale della grande rivoluzione scoppierà nelle nostre mura, ma si ripercoterà nelle città principali, e là specialmente dove la cresciuta industria del secolo ha creato più grandi agglomerazioni di proletari e in questi maggior coscienza dei loro diritti. Abbiamo relazioni colla Francia, col Belgio, coll'Inghilterra, colla Germania stessa, e dappertutto la rivoluzione politica si cambierà, appena sorta, in quella sociale… Io sono uno dei capi nelle cui mani vengono a serrarsi i fili di tutta questa rete, a me lo stringerli o l'allentarli: ho bisogno di un ingegno capace che m'aiuti nell'opera, ed ho pensato a te. Vuoi tu esser quello?

Maurilio scosse il capo in segno negativo.

– A noi due l'impero in questa società che ci ha disprezzati: soggiunse Quercia con voce bassa quasi affannosa.

– Ah! tu mi tenti come Satanasso tentò Cristo: disse sorridendo Maurilio. Ma tutto è inutile. Non istimo vantaggiosa all'umanità l'impresa: non la credo possibile, e condanno assolutamente i mezzi che tu hai pensato di poter scegliere.

Un lieve rossore corse alle guancie di Gian-Luigi.

– Che vuoi tu dire? interrogò egli lampeggiando dagli occhi.

E Maurilio, con calma, e quasi afflitto:

– Ieri sera alla taverna di Pelone ho scoperto qual fosse l'individuo che porta il nomignolo di medichino famoso nella cronaca dei delitti…

Gian-Luigi questa volta impallidì; ma in mezzo la sua fronte si disegnò quella tal ruga che conosciamo. Sorse di scatto, e disse con impeto e con accento di comando:

– Taci! Non più una parola!

Passeggiò in lungo e in largo per la camera alcuni istanti: poi si piantò di nuovo innanzi a Maurilio:

 

– Ebben sì, son io quello… Vuoi tu perdermi? Vammi a denunziare al commissario Tofi, e n'avrai buon premio.

– Gian-Luigi! esclamò con rampogna Maurilio.

– Dovresti farlo! Avresti così tolto di mezzo un accanito ed implacabile nemico di quella società che tu hai preso a difendere così bene.

Si serrò colle due mani la sua bella fronte da statua greca.

– Tu credi ai miei delitti? ripigliò dopo una piccola pausa, con voce soffocata. Oh Maurilio! Chi ci avesse detto che ci saremmo trovati in questa guisa dopo tanto tempo che non ci siam più visti, quando eravamo tuttidue bambini al villaggio!.. Tu l'hai conosciuto fin d'allora, ch'io non poteva passare in mezzo al mondo ed estinguermi come una bollicina di schiuma nel mare. Non fosse che la fama d'Erostrato, qualche rumore si ha da fare intorno al mio essere… Un giorno converrà che tu sappia quali circostanze mi hanno trascinato là dov'io sono: allora forse mi compatirai… Se nella mia opera vinco, tutto il mio passato sarà come distrutto, assorbito nell'apoteosi della gloria; se soccombo non vi sarà imprecazione e disprezzo che basteranno ad infamarmi… Sono un Catilina; se Catilina avesse trionfato, Cicerone sarebbe stato un calunniatore, e Sallustio avrebbe fatto il panegirico del ristauratore della repubblica romana.

In quel momento entrarono solleciti Don Venanzio e Giovanni Selva che tornavano dopo aver parlato colla Gattona. Tutti due avevano nelle sembianze una certa emozione.

– Maurilio: disse il sacerdote con voce concitata; abbiamo da parlarti.

– Li lascio in libertà: soggiunse Gian-Luigi. Addio Maurilio! Quando ci rivedremo molte cose, forse, saranno cambiate… E forse allora mi conoscerai meglio.

Non gli tese la mano, nè Maurilio porse la sua; salutò con molto affetto il vecchio parroco.

– E posso annunziare la tua visita alla buona Margherita? domandò quest'ultimo.

– Sì, rispose allegramente Gian-Luigi, appena finito il carnevale.

Ed uscì col medesimo sorriso col quale era entrato.

– Andiamo da quella povera Ester, si disse scendendo le scale; a quest'ora Jacob non ci sarà, e quando sopraggiunga me ne farò dare i denari.

CAPITOLO IX

Torniamo nel sucido cortiluccio del ghetto in cui si apre la porta ferrata del misero stambugio di Jacob Arom il rigattiere ebreo.

Molte ore sono passate dacchè abbiam visto il vecchio avaro prendere colla figliuola il suo pasto frugalissimo apparecchiato dalla modesta scienza culinare della vecchia Debora. Lo donne sono sole di nuovo nella stanzaccia a pian terreno; e l'ombra della sera, prima ancora del solito per la nebulosità della giornata, incomincia ad invadere quel luogo tristissimo, fatto più tristo da quell'ora crepuscolare. Come prima, come sempre da varii giorni, le donne parlano di quel tremendo avvenire che la sventurata maternità sopraggiunta minaccia alla povera Ester. Aspettano con ansia che Gian-Luigi, fattone avvertito, compaia a rassicurarle, venga a dir loro che ha bello e trovato il modo di salvare la povera figliuola dall'ira, che sarà implacabile, del padre.

In realtà Debora ha maggior dose di speranza di quel che non abbia la povera Ester. Questa, nei meno ardenti trasporti degli ultimi convegni avuti insieme, nella lunga di lui assenza, ha sentito nell'amante sminuita quella passione che gli aveva fatto superare ogni ostacolo, vincere ogni circostanza per potere arrivare sino a lei. Ora – e l'istinto di donna meravigliosamente lo avverte – ogni amore che scema è amore che parte; quando non si ama più all'eccesso si è avviati a non amar più abbastanza; dietro la calma del primitivo ardore, sta la indifferenza e la sazietà. Ester aveva immensamente sofferto anche prima che la terribile verità del suo stato le fosse rivelata; di poi la sua pena era diventata doppia, e soffriva passando a vicenda da un'esaltazione d'animo ad un abbattimento rassegnato, ma di disperazione sempre.

Debora adunque la confortava alla speranza con ogni miglior argomento che sapesse trovare; e la infelice fanciulla scuotendo la sua stupenda testa degna del pennello di Tiziano esclamava con cupa risolutezza che era tale da far paura:

– No, Debora, vedrai ch'egli non verrà nemmanco. Il perfido! E' mi ha dimenticata del tutto… Chi lo avrebbe creduto?.. Ah mio padre ha ragione. Tutti i cristiani sono mancatori di fede… Sai tu che cosa solo mi resta? Morire.

La vecchia alzava le mani secche e rugose verso il cielo, sclamando spaventata:

– Che cosa dite?.. Vi dà di volta il cervello Ester?.. Come siete sempre eccessiva, voi!.. Vi dico che il signor Quercia verrà, e troverà modo di levarvi di qui; ed io vi seguirò, perchè già non voglio mica rimanere allo sdegno di vostro padre che cascherebbe tutto su di me, e che non sarà una giuggiola, no; e tutto sarà aggiustato.

Ester lasciò cadere abbandonatamente sopra le ginocchia la bella destra con cui si sosteneva il viso, e reclinò sul petto il capo.

– Mio padre! diss'ella a mezza voce, ma con espressione di molto cordoglio nell'accento. Abbandonarlo!.. E sarà per sempre di certo… Non lo vedrò mai più, mai più in questa vita!.. E nell'altra?.. Ahi c'è forse un'altra vita?.. Ancorchè ci sia, mai più, mai più egli non mi perdonerà, vivesse gli anni dell'Eterno… La sua maledizione, quella maledizione onde mi minacciava poc'anzi mi perseguirà traverso i secoli con odio implacato… Ed egli ora mi ama pure!.. Quasi al pari de' suoi tesori… Ed io devo dargliene tanto dolore!.. Che farà egli, quando solo, senza più affetto nessuno, fuggito dalla figliuola?

Debora la interruppe.

– Eh! non vi crucciate di codesto… Che cosa farà? È facile indovinarlo. Si consolerà col suo denaro che in fin fine è ciò che ama di più, è anzi la sola cosa che ama.

Un picchio discreto risuonò all'uscio del cortile; le due donne sussultarono e si guardarono in faccia commosse.

– Se fosse lui! mormorò Ester diventata pallida, poi tosto arrossita.

– Gli è lui di certo: disse la fante levandosi più affrettatamente che poteva: ne riconosco il modo di battere, ve l'ho detto io che sarebbe venuto.

Si accostò all'uscio, e traverso i battenti gridò colla sua voce fiacca e balzellante da vecchia:

– Chi è là?

– Apri, Debora, son io: rispose la voce sonora di Gian-Luigi.

Ester fu dritta di balzo con un grido: e poichè le mani tremanti di Debora non erano abbastanza sollecite ad aprir la serratura e tirare i chiavistelli, accorse la giovane all'uscio ed in un attimo ebbe essa medesima spalancato il battente innanzi al suo amante che entrava avviluppato nell'ampio mantello scuro, il cappello rabbattuto sugli occhi.

La penombra che regnava in quell'ambiente, non lasciava scorgere alla giovane l'espressione della faccia di Gian-Luigi; e fu ventura per lei, chè l'aspetto d'impaziente contrarietà ch'egli aveva entrando sarebbe stato per la misera un nuovo dolore, una piena conferma dei timori che istintivamente provava l'anima sua. Ma pur tuttavia, qual differenza di maniere fra il presente contegno dell'amante e quello ch'egli aveva un tempo ne' suoi incontri colla fanciulla! Era egli allora che tosto, ratto, impetuosamente l'afferrava con amorosa violenza, la stringeva con braccia appassionatamente desiose, le copriva di caldi baci il leggiadro viso arrossito, le diceva un mondo di soavi parole amorose; ora Gian-Luigi entrò senza manco un saluto; fu essa che, lasciando a Debora il richiudere accuratamente la porta, gettò al collo di lui le sue braccia e tutta abbandonandosi al suo petto, disse con voce tremante d'emozione ed amore:

– Sei tu!.. Sei pur tu alla fine!.. Oh quanto tempo che non ci siam visti!.. Cattivo!.. Perchè rimaner tanti giorni?.. Li ho contati: e' mi parevano ciascuno un'eternità… Che cosa hai tu fatto in questo frattempo? Come non hai tu mai pensato a me? Potresti tu mai dimenticare che sei tu il sole della mia vita?

E queste parole, susurrate in quel tenace amplesso, venivano frammiste ai più caldi baci di quelle calde labbra color di corallo.

L'amoroso effluvio di quella avvenente persona che pendeva dal suo collo, l'ardore di quei baci che gli scoccavan fiamme nel volto, la passione di quelle parole poterono assai sull'animo di Gian-Luigi e ne dileguarono per quel momento la malavoglia e l'uggia con cui era egli colà venuto; onde fu con voce temperata a molto affetto e non senza rispondere col suo all'amplesso della giovane, che egli disse a sua volta:

– Dimenticarti, mia cara Ester!.. Non pensare a te!.. Sei tu la cattiva che puoi credere di simili cose e dirmele.

Le poche parole del giovane fecero maggior effetto sulla figliuola di Jacob che le molte della vecchia Debora. Ella sentì il suo cuore riconfortato. Per la donna, in generale, la parola dell'uomo che essa ama, per quanto destituita di prove, per quanto priva ben anco delle apparenze della verità, sarà sempre un'autorità degna di fede. Gian-Luigi poteva egli mentire? Mai più! Tanto eccesso di lui sì lo poteva ella pensare quando egli era lontano dagli occhi suoi, e non le stava presente la malìa della persona adorata; ma stretta dalle braccia di lui, sotto i suoi baci, udendone la dolcezza della voce, la misera, tutta posseduta dall'amore, non aveva più resistenza di sospetto, nè difesa di diffidenze.

– Tu dunque m'ami ancora? riprese Ester con più vivace prorompere che era tutto una gioia. Tu m'ami dunque?.. oh giuramelo di nuovo…

Queste parole raffreddarono alquanto l'effimero ardore che s'era suscitato in Gian-Luigi. Le donne hanno la grande smania di far ripetere giuramenti d'amore; e questa è od una inutilità, o una malaccortezza: se l'uomo continua ad amare, non v'è bisogno di nessun giuramento, il quale in realtà non riesce mai a guarentire in nessun modo l'avvenire, od egli ha cessato o viene cessando d'amare, e la necessità in cui lo si pone di dare un falso giuramento, o di subire una scena di rimproveri e di lacrime lo indispone anche peggio e gli accresce il desiderio di togliersi da quei legami. Fu qualche cosa di simile che provò Gian-Luigi, ed un poco di quell'impazienza con cui si era affacciato primamente alla porta gli rinacque nell'animo. Si sciolse pianamente dalle braccia della giovane, e senza rispondere altrimenti alle parole di lei, disse freddamente come si parla di cose indifferenti:

– Lasciami levar via questo mantello che è bagnato dalla neve.

Trasse un po' in là Ester e si tolse dalle spalle il mantello: nell'ombra lucicchiavano vivamente gli occhi della giovane ebrea fissati su di lui con infinito ardore. Nella mente del medichino sorse di botto un sospetto, ch'egli accolse come una speranza, ed era questo: che la fanciulla avesse inventata la novella della sua maternità per avere un mezzo potente da farlo venire da lei.

– Ehi Debora: diss'egli alla vecchia che, richiusa ben bene la porta, s'avanzava trascinando le sue pianelle scalcagnate verso il centro della stanza: se tu accendessi un lume non faresti male; qui non ci possiamo nè anco veder in viso.

La fante prese una lucernetta sucida di ottone, invasa dal verderame e, venuta presso il fornelletto l'accese mercè uno zolfino: i deboli raggi giallognoli di quella poca luce si diffusero oscillando per la tenebrìa di quello stanzone; gli occhi di Gian-Luigi corsero a mirare così rischiarati i lineamenti di Ester, la quale stava immobile, piantata, a quel luogo dove l'aveva spinta la mano di lui, allontanandola da sè. La emozione di quel momento aveva arrossite le guancie della giovane così che non ci si vedevan più quelle traccie dei patimenti a cui da alcun tempo andava soggetta, le quali quella stessa mattina ci aveva notate suo padre.

– Eh via, pensò Gian-Luigi: è stato un sotterfugio di questa furbacchiotta per farmi venire.

E si riavvicinò con un sorriso malizioso alla giovane che rimaneva ancora immobile a quel luogo.

– Ester, diss'egli, tu hai voluto vedermi ad ogni costo, non è vero? Ma come diavolo ti è saltato in mente di usare un mezzo qual fu quello del bigliettino che mi hai scritto?

La giovane lo guardò stupita, senza comprendere.

– Tu mi hai fatto bestemmiar la sorte e maledire il Cielo, poichè più disgraziato avvenimento non poteva capitarci di quello che mi annunziavi…

Ester cominciò allora a capire il sorriso e il tono di leggerezza dell'amante.

– Che? esclamò essa con isdegnosa vivacità nell'accento e nella mossa, avanzandosi d'un passo verso di lui: tu dubiti?..

Levò le mani verso il cielo in un atto di protesta, di meraviglia, di risentimento, cui non aveva parole a poter bene esprimere.

– Debora! soggiuns'ella dirigendosi alla fante come per prenderla a testimonio di tanto eccesso: egli non crede alle mie parole, egli mi accusa di menzogna, egli nega fede alla mia sventura.

 

Queste parole, il modo ond'eran dette, il profondo turbamento dei tratti di lei, furono prova più che sicura a Gian-Luigi che la novella scrittagli da Ester era una verità. Le si accostò, la prese per la mano, e piantandole negli occhi il suo sguardo, disse con accento cupo che pareva una minaccia:

– Gli è dunque vero?.. Maledizione!..

La giovane tolse via la sua dalla mano di lui, e si arretrò spaventata.

– Luigi!.. Eterno Iddio!.. Tu mi fai paura.

Il medichino si frenò di subito con quel dominio su se stesso che gli abbiamo già visto esercitar tante volte.

– Via, via, riprese egli con aspetto tornato tranquillo, pensiamo freddamente ai casi nostri… Abbiamo del tempo innanzi a noi; prima che la cosa possa venire scoperta, ci rimane agio ad immaginare e porre in esecuzione quel progetto che converrà meglio… Frattanto a te Ester che cosa sarebbe venuto in mente di fare?

Ester levò sul volto di lui i suoi grandi occhioni neri, e disse lentamente a voce bassa:

– Mi sembra che una cosa sola mi rimane da poter fare: fuggire, andare a nascondere la mia colpa all'abbominio de' miei ed all'ira di mio padre.

Gian-Luigi crollò le spalle.

– Fuggire!.. Dove?.. Come e in qual luogo trovare questo ritiro?

La fanciulla lo interruppe con accento quasi severo:

– Ho pensato che codesto era dover tuo e che tu l'avresti compito.

Il medichino non dissimulò un atto d'impazienza.

– Dovere! dovere! diss'egli. Eh! ho io ben altri affari e di maggior rilevo a cui pensare.

Ester impallidì nello stesso mentre che i suoi occhi lanciavano fiamme.

– Tu parli non solo come uno spergiuro, disse ella con forza, ma come uomo senza cuore.

– Ah! non facciamo delle frasi e non scendiamo a bisticciarci per carità… Io non ti abbandonerò certo, e se una fuga sarà assolutamente necessaria, bene, ti ci aiuterò; ma prima di sobbarcarci ad un tal passo, vediamo se non ci sarebbe altro mezzo…

– E quale? proruppe la giovane con impeto. Non sai tu che apprendendo la verità, mio padre è capace di uccidermi?

– Ah! se ci fosse costì sotto mano un qualche dabbene da sposare!..

Ester drizzò il capo con moto vivace di risentimento e di ripugnanza.

– Se tu parli per ischerzo, diss'ella con nobile fierezza, questi non sono nè il caso nè il momento da ciò; se parli dassenno oh che stima e che amore hai tu di me?

Gian-Luigi non rispose, assorto com'egli apparve in un nuovo pensiero che gli rendeva cupa la fisionomia.

– Ci sarebbe pure un mezzo, diss'egli a voce bassa, non osando guardare in volto la fanciulla.

Fece una pausa: essa si accostò ansiosamente per udire ciò ch'egli stava per soggiungere; il tristo continuava smorzando ancora di più il suono delle sue scellerate parole:

– La mia medicina me lo può dare questo mezzo…

Susurrò alcune frasi cui potè cogliere soltanto l'orecchio di Ester verso la quale egli si chinò.

La giovane rimase immobile, fissandolo con occhi larghi come di chi non capisce, ma uno sguardo ratto e vivissimo di lui parve di colpo rischiarare in essa il senso di quelle misteriose susurrate parole; Ester si arretrò con una mossa ed un grido di orrore.

– Mio figlio!.. Mio figlio! esclamò essa con forza: osereste attentare alla sua esistenza?.. Ma io lo difenderò contro tutto e contro tutti.

– Calmati, calmati; disse Gian-Luigi che parve non aspettarsi quello scoppio di indignazione.

Ma i commovimenti in quell'anima sensitiva di fanciulla da parecchi giorni sì frequenti e sì vivaci l'avevano indebolita ed affranta. Ester si diresse vacillando verso la seggiola su cui soleva stare e lasciandovisi cadere abbandonata, coprendosi con ambo le mani la faccia, ruppe in un pianto dirotto.

Il medichino strinse le braccia al petto e rimase immobile a guardarla; sul suo volto era un'espressione di durezza malvagia ed ironica: quella d'un uomo che ad un suo volere incontra un inciampo nell'altrui debolezza che non gl'ispira se non fastidio e disprezzo.

La vecchia Debora s'accostò con interesse alla piangente e volle dirle alcuna parola di conforto; ma Ester non le prestò menomamente attenzione.

A poco a poco l'espressione della faccia di Gian-Luigi si venne rimutando; in presenza di quello sfogo di dolore della povera fanciulla, il quale in realtà gli rivelava tutto ciò ch'essa aveva sofferto e soffriva, alcuna parte dei buoni istinti della sua natura, che tuttavia erano rimasti in lui, si suscitò e si commosse. I lineamenti del suo leggiadro volto si distesero, per così dire, abbandonando il maligno atteggio che li contraeva; una sembianza di pietà e d'affetto ne prese il luogo. S'accostò egli allora alla giovane, trasse in là bruscamente Debora che, stando sempre attorno ad Ester a dire di sue parole di conforto a cui non si badava, gli impediva il passo, e chinandosi verso la misera che piangeva, le prese una mano, glie la staccò con affettuosa violenza dal volto, e disse con voce veramente impressa d'amore questa sola parola:

– Ester!

In costei parve ritornata di subito la sua energia. Sorse di scatto, saettò il suo amante d'uno sguardo pieno di mille espressioni, e con forza d'accento quale danno soltanto le più accese passioni dell'animo, gli disse:

– In tutto codesto sai tu ciò ch'io scorgo di più tremendo per me e che mi rompe il cuore? Si è che tu più non mi ami.

Gian-Luigi volle protestare con un gesto: ma ella riprendendo con più vigore ancora:

– No, più non m'ami… Se tu m'amassi, mi avresti tu parlato a quel modo?.. Tutto il resto posso sopportare, tutto affrontare… anche lo sdegno di mio padre: ma questa sciagura no… Ella mi fa perdere il senno, ella mi fa capace di tutto, sai!

Pose le due mani sulle spalle del suo seduttore e stando lì faccia a faccia con aspetto di risoluzione in cui avreste detto esservi qualche cosa di feroce, continuò:

– Sì, capace di tutto!.. Oh con che passione, con che furore io t'ami, tu non hai ancora saputo discernere… T'amo da commettere un delitto se tu mi tradissi… Sono gelosa come donna forse non fu mai… Io, qui, nella mia solitudine, talvolta, pensando che tu lontano potevi parlar d'amore a un'altra donna, soltanto rivolgerle uno di que' tuoi sguardi infuocati che mi hanno incendiata l'anima, io soffrii e soffro degli spasimi mortali… Se tu cessi d'amarmi, morrò… Se ne ami un'altra… Oh! sono capace di ucciderla quella donna.

La esaltazione di questa giovane, ond'ella era fatta ancora più bella, commosse anche in quell'istante l'animo di Gian-Luigi. Rinacquero per allora le fiamme che in lui avevano desta la beltà della custodita fanciulla e la difficoltà di ottenerla; la cinse con appassionato amplesso fra le sue braccia, e le disse con accento di trasporto, in cui ciascuno avrebbe creduto sentire, e in quel punto era forse davvero la sincerità:

– Ma sei tu, donna mia, che io amo al mondo: che parli tu di altre, che temi tu di abbandoni o tradimenti?.. T'amo!, t'amo! t'amo!

La infelice Ester si abbandonò sul seno dell'amante con quella tenerezza e quell'intima gioia che le inondavano l'anima nei primi giorni dell'amor loro.

Ma in quella, ecco all'uscio d'entrata una mano che picchiava dal di fuori, e la voce del vecchio Jacob che per la toppa della serratura cacciava dentro queste parole:

– Apri, Debora, apri senza paura: son io.

– Misericordia! il padrone! disse la vecchia fante quasi con isgomento.

Ester si strappò dalle braccia dell'amante e fuggì come atterrita all'altro capo della stanza. Debora corse ad aprire.

Il rigattiere entrò col suo passo, col suo aspetto, colla sua guardatura cautelosi e diffidenti; la prima cosa che vide fu la lucernetta accesa sopra il tavolo a metà della stanza.

– Ecchè? diss'egli con voce piena di rampogna e di disgusto: non è ancora notte affatto chiusa e ci avete già il lume acceso! Che cosa vi salta in capo di sciupar l'olio di questa maniera?