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La plebe, parte III

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– No, diss'egli, Ester non c'è… Non ci avrebbe dato ritrovo a quest'altra… Si trova adunque in qualcun altro de' suoi ricettacoli; ma dove?.. dove?

Stette pur tuttavia fermo ad aspettare ancora, finchè vide la contessa uscir prima a piedi, e dieci minuti dopo partirsi egli eziandio colla sua carrozza. Allora Macobaro s'avviò a passo lento verso l'interno della città, riflettendo profondamente.

– Per adesso, borbottava egli intanto fra sè, non c'è nulla da fare… Tanto varrebbe cercare un ago in un fastello di fieno. Aspettiamo… E poi bisogna che torni presso quell'altro… Non conviene trascurare quel tasto…

Tutta la giornata fu occupatissimo in cose che sapremo poi; verso sera coll'animo di tastar terreno si recò alla taverna di Pelone, dove apprese da costui la proibizione di penetrare in Cafarnao per ordine del medichino. Ciò lo mise in sospetto; fatto mostra di nulla, dopo un poco egli abbandonò la bettola e corse verso la bottega di Baciccia per vedere se di là gli venisse fatto d'introdursi nel sotterraneo. E fu là, innanzi a quella bottega, che accostatosi ad una donna che vide giacente sopra un mucchio di neve, riconobbe in essa la cercata figliuola.

– Ah! per la pietra di Oreb, sei tu!.. esclamò egli con gioia feroce: tu che Jehovah mi caccia tra i piedi. Hai voluto fuggire tuo padre? Hai voluto fuggire la giustizia dell'Eterno che ti colpirà colla mia vendetta?.. Vedi come la colpa ha debole il corso; vedi come la sa afferrare alle chiome la mano della collera divina!

E quasi la sua fosse questa mano punitrice, tese egli verso di lei la sua destra scarna, fatta ad artiglio, agitata dal tremito dell'ira feroce.

– Non mi toccate, non mi toccate: gridò essa tirandosi in là, ma vacillando sulle gambe che non avevano pur la forza di reggerla.

Il padre l'afferrava per un braccio, e la stringeva tanto con rabbia convulsa, da farle entrare nella carne le sue unghie ricurve da uccello di rapina.

– Che fai tu qui? D'onde vieni? che aspetti, sciagurata d'una perduta?.. L'indovino… Tu hai cercato ricovero dal tuo drudo; ed egli che ha saziata in te la sua libidine infame, egli che è stanco della tua polluta bellezza, ti ha respinta, ti ha rigettata nel fango della strada, che è il solo luogo degno di te, vil creatura che muovi anche nei più abbietti schifo e disprezzo.

Negli occhi di Ester s'era accesa una fiamma – la trista fiamma del delirio e della pazzia. Con un nuovo vigore sopravvenutole, liberò il suo braccio dalla stretta del padre, e con voce vibrante, saltuaria, in cui non era più nulla dell'armonia e della soavità di prima, si diede a gridare:

– Disprezzo!.. Anch'io lo disprezzo… Comprò il mio amore colla moneta falsa del suo… Egli è un vile!.. Quel suo orpello d'amore prostituì a tutte le cantonate… Oh mondo infame!.. Odio e disprezzo tutti… anche voi, padre mio… e maledico la vita, e me stessa, e lui… e voi che m'avete data questa trista esistenza!

Jacob fece un moto come per riprenderle il braccio: ma ella, vieppiù concitata ancora, gli diede uno spintone che lo respinse in là, barcollante, alcuni passi, e poi ratta prese la corsa e fuggì.

– Ester, Ester, gridò il padre che la vide in un attimo perdersi nell'oscurità delle strade: fermati maledetta!.. maledetta! maledetta!.. ch'io non possa vederti più che cadavere!

Il fiero, iniquo augurio doveva ben presto essere esaudito.

CAPITOLO XXIV

Il domani di buon'ora, nella riposta abitazione di Mario Tiburzio, succedeva finalmente il colloquio, che questi, fin dalla mattinata del giorno innanzi, aveva cercato di avere con Luigi Quercia, e cui la fatalità delle circostanze aveva sino allora impedito.

Ascoltate le inattese e troppo spiacevoli comunicazioni dell'emigrato romano, Gian-Luigi rimase per parecchi minuti in silenzio, ma la sua faccia s'era fatta più scura d'una notte nuvolosa d'inverno. Mario era severamente triste, ma calmo e fermo come uomo che ha un'irremovibile risoluzione. Egli non aveva creduto necessario svelare a Quercia l'intromissione in quella faccenda di Massimo d'Azeglio, ed aveva solamente manifestata la necessità di contromandare ogni scoppio di rivoluzione, in seguito alle novelle ricevute dall'alta Italia, delle quali, come gli erano state scritte, a prova delle sue parole, aveva dato lettura.

Dopo avere alcun tempo meditato, Gian-Luigi scosse la testa, e disse con calma freddezza ma pur tuttavia con una contenuta vibrazione d'accento, che era l'espressione d'una rabbia profonda:

– Io non ho che una risposta da fare alle vostre inaspettate parole; quella che fece la rivoluzion di Parigi a Carlo X nelle giornate del luglio: troppo tardi!

– Finchè non è desto l'incendio, per quanto accumulate sieno le materie combustibili, non è mai tardi lo spegner la miccia che deve appiccare il fuoco.

Luigi tornò a curvare il capo e stette di nuovo un istante in silenzio. Troppo amaro era il suo disinganno, troppo doloroso il colpo all'anima sua. Quand'egli credeva esser giunto alla meta da tanto tempo agognata, ecco attraversarglisi la fatalità a dirgli: tu non avanzerai; mentre tutto era preparato per la lotta e la vittoria, ecco torglisi l'arma di mano ed imporglisi di non combatter nemmanco; e frattanto già la sorte lo aveva ammonito che durarla così nel mondo non poteva più oltre, che le circostanze cominciavano a volgersi avverse per lui, che la sua maschera minacciava, sotto l'influsso penetrante della curiosità della gente, staccarsi e cadere, che quelle situazioni non si possono oltre un certo limite far durare, che diveniva una necessità assoluta per lui dichiararsi un Erostrato ed un Catilina, per non cadere nella infame volgarità d'una preda della galera o del boia.

– È troppo tardi, ripetè egli di poi con più fiera insistenza: ciò mi aveste almeno comunicato ieri!.. Sarebbe forse stato possibile ancora arrestare il masso già avviato giù per la china…

– Ieri vi ho cercato tutto il giorno…

– Ma ora… ora gli è impossibile… chi può fermare quel masso che già precipita?

– Si tratta di impedire che inutil sangue si sparga. Conviene quel masso arrestarlo, anche a costo di farcisi schiacciar sotto.

– Sarò schiacciato e non si arresterà nulla meno… Non sapete voi che abbiamo già distribuite all'uopo le centinaia di mila lire?.. Non sapete che ieri sera furono presi gli ultimi solenni concerti?.. Credete voi ch'io sia solo, assoluto padrone di tutta quella turba di cui vi ho promesso il concorso e che basti a me volere e disvolere perchè gli altri tutti vogliano e disvogliano?.. Ma se adesso io venissi loro innanzi a dire: tutti i sacrifizi e gli sforzi che avete fatti hanno ad essere inutili; dello scopo, che vi ho mostrato prossimo e possibile ad arrivarsi, non si deve discorrer più, oh non avrebbero essi diritto di accusarmi di tradimento?

– Tradimento sarebbe, quando si è acquistata la certezza che non può riuscire a buon fine la lotta, lasciar tuttavia che degli illusi la imprendano per inutilmente soccombere.

– Orsù, a che giuoco giuochiamo? Parliamoci schietto, signore… Ciascuno di noi proseguiva in segreto un'opera, in cui ha messo tutta l'energia della sua anima, tutte le facoltà della sua mente, le forze della sua vita; un'opera intesa a sottominare le basi dell'attuale ordinamento dell'agglomerazione umana, voi dal lato politico, io dal lato sociale. Per dir più giusto, voi ed io siamo i rappresentanti, i principali strumenti nell'oggi, di due opere che da secoli sono cominciate e si continuano nella società umana; opere incessanti in cui si accumulano gli odii degli oppressi e dei diseredati e che tratto tratto scoppiano in tumulto dei ciompi qua, in guerra dei Jacques colà, nelle masnade dei poverelli altrove, nelle bande dei contadini nel Canavese del XIV secolo, nel brigantaggio endemico dell'Italia meridionale, senza contare lo sfogo continuo del delitto contro la proprietà, mentre in politica ci danno le rivoluzioni del feudalismo che sconquassa il residuo dell'unità imperiale romana, dei Comuni che atterrano il feudalismo, della Monarchia che soffoca i Comuni, del ceto medio che in Inghilterra prima e poscia in Francia sfata la Monarchia… Ma, volere o non volere, queste due permanenti congiure camminano parallele ed hanno troppi punti di contatto perchè non s'incontrino, non s'aiutino a vicenda, a patto forse anche di combattersi poi quando si tratti di dividere i frutti della vittoria. Quindi in ogni rivoluzione le due quistioni hanno parte anche quando l'una abbia tal preminenza da sembrare in giuoco essa sola. Finora la politica sempre si vantaggiò col sacrifizio della quistione sociale; e noi, nei nostri patti, volemmo stabilire un più amichevole accordo ed un più equo riparto fra loro… Ma non è ora il caso di codesto. Era quasi inevitabile che le due nostre tenebrose e ardite strade s'incontrassero; e che noi, camminando per esse a capo del nostro partito, ci accontassimo e pensassimo di convenire in mutua bisogna d'aiuto comune. Lascio stare chi sia stato il primo a cercare il concorso dell'altro; lascio stare che io al vostro partito potei recare una forza ben maggiore di quella che voi colle vostre schiere di congiurati possiate dare al mio; ma pongo il caso alla rovescia, e vi domando: «Se alla vigilia del gran giorno io fossi venuto da voi a dirvi che noi non si voleva più mantenere il patto, che cosa avreste creduto, che cosa mi avreste risposto?»

– Quando alle vostre parole aveste dato il saldo appoggio di buone prove e ragioni…

– E se voi, interruppe con foga impaziente il medichino, foste già tanto inoltrato nell'esecuzione da non potervi ritrarre?

Mario guardò nobilmente in faccia il suo interlocutore, e rispose senza millanteria, ma con fermezza calma e dignitosa:

– Avrei salvato i più che avrei potuto de' miei compagni, e sarei camminato senza esitare contro la morte…

 

Quercia sorse in piedi con un'esclamazione e con atto impazienti, e si pose a passeggiare concitato traverso la camera.

– La morte! la morte!.. Credete voi che io la tema e mi periti ad incontrarla? Ma forse che gente come noi, si ha da rassegnare così facilmente ad avere questa sola per conclusione di tanti sforzi, di tanti travagli, di tanta spesa d'attività, d'intelligenza, di coraggio? Morire, ma vincendo, che importa? Farsi o lasciarsi uccidere e vedere colla nostra morte perduta la nostra causa, è parte da vittima, è mestiere di deluso: ed io non lo voglio fare… Sentite, Mario. Io ho creduto scorgere in voi una di quelle tempre eccezionali – una tempra come la mia – che comandano fatalmente alle volontà altrui, che dominano perfino la fortuna e gli eventi. Provatemi che non mi sono ingannato. Voi potete avere in pugno la sorte d'Italia; non ve la lasciate sfuggire. Raccogliete intorno a voi de' vostri congiurati, tutti quelli che hanno cuore in petto, comunicate loro una scintilla soltanto di quel fuoco ch'io so, ch'io vedo ardere nell'anima vostra. Nelle vostre file dovete averne di cotali che sono capaci a rinfiammarsi. L'altro dì voi mi dicevate pure, quando io, tentandovi, parlai di aggiornare lo scoppio della rivolta, che anche colla certezza di soccombere, volevate lottare; ai miei dubbi intorno alla risoluzione ed all'eroismo de' vostri congiurati, voi mi rispondeste tutti amare la patria, tutti essere avvinti con sacramento ed essere voi sicuro non mancherebbero. Ebbene! gettate l'audace grido della lotta ad ogni modo. Se non tutti, vi seguiranno almeno quelli che hanno vergogna di essere spergiuri. L'esempio di questa città stimolerà l'ignavia delle altre; la tremenda voce della rivoluzione avrà un'eco fra gli altri popoli d'Italia, se pure meritano d'essere chiamati popoli e non branchi di servi torpidi e corrotti… Sappiate che da parte nostra l'esplosione di questa mina sarà il segnale di altre siffatte in Francia e nel Belgio, persino in Inghilterra… Al ruggito della nostra plebe, risponderanno i ruggiti delle plebi parimente infelici e diseredate delle altre nazioni d'Europa…

Mario Tiburzio lo interruppe con viva emozione.

– Ma codesto mi spaventa. La quistione sociale credete voi che sia abbastanza matura perchè si possa agitar sull'arena con isperanza del comune pubblico vantaggio, con propizio scioglimento recato dall'orrore della lotta?.. A mio avviso, no. Voi vi fate delle illusioni. Traverso il sangue e le rovine voi non camminerete che all'anarchia, quindi ad una riazione che ricondurrà uno stato peggiore di prima per tutti. All'assetto presente quale avete voi da sostituire, possibile e fecondo di benefici effetti? Nulla che utopie. Prima di passare nell'ordine dei fatti conviene che ogni riforma si compia nell'ordine delle idee, e si radichi non solo come possibile, ma come necessaria, nel campo della pubblica opinione universale; non è quindi di un balzo, di tutto punto che il rinnovamento può aver luogo, ma a poco a poco, parte per parte. La quistione sociale non trovasi ancora a questo stato di maturanza: la politica, quella nazionale soprattutto, in Italia, sì, lo è. Io poteva accettare il vostro concorso e promettervi in compenso giusti ed attuabili vantaggi; ma dare al vostro temerario ardimento, che ora soltanto scorgo in tutta la sua natura, la parte principale nell'opera e nello scopo di essa, farmi complice d'un tentativo che ravviso perniciosissimo a tutto ed a tutti, a quei prima cui si vorrebbe giovare, no, no, e poi no.

– Allora tutto è tronco fra noi: proruppe Quercia con impeto impaziente e minaccioso. Insensati!.. La valanga rovescierà anche voi.

– Che? voi persistete forse nel proposito?

Quercia tacque un momento, fissando il suo sguardo, che brillava d'una cupa fiamma, sulla fronte serena di Mario…

– Ciò che vorrò fare, disse poi, non istimo nè mio dovere, nè mia convenienza svelarvi, almeno fin d'ora. Ricordatevi che sarà un funesto momento pel liberalismo patriotico del ceto medio quello in cui rompe coi legittimi diritti o bisogni della plebe…

– Ma noi non si rompe che cogli eccessi delle passioni che si ammantano da diritti e si fanno arma dei bisogni del proletario.

Quercia rispose con amaro sogghigno:

– Il vostro giudizio è altrettanto severo quanto falso… Non monta! La questione sociale, checchè diciate, incombe su tutto, è al fondo di tutto, e proseguendo il vostro egoistico amore della libertà, voi, ceto medio, l'agitate senza volerlo. Nelle masse profonde della plebe sta la sorte futura del mondo. Guardate che, disconoscendolo, voi non diate occasione al cesarismo di risorgere, guadagnarsi con alcune concessioni e collo sbarbaglio del suo lustro gli interessi e le fantasie mobili del volgo e mercè di queste schiacciarvi. Se l'indipendenza della patria, se la libertà politica voi non la fate sorgente di redenzione delle infime classi, avrete fondato sull'arena, ancorchè per miracolo riusciate ad una momentanea vittoria… Questa redenzione io voglio tentare. Vi pentirete non tardi d'avermi negato il vostro concorso… Addio!

Gian-Luigi, uscito dalla dimora di Mario Tiburzio, si diresse all'abitazione dei Benda. Durante il tragitto che la corsa del bel cavallo attaccato al suo legno rese assai breve, egli aveva tanti di quei pensieri entro la mente che non sapeva, direi quasi, a quale di essi badare; gli pullulavano sì numerosi e sì diversi nel cervello i partiti ed i disegni che, in mezzo a loro, non sapeva districarsi e scegliere, la sua volontà. In quella soverchia e tumultuosa abbondanza di propositi, si disse che il migliore era per allora non prendere tuttavia decisione veruna, lasciarsi menar dalla corrente giù della china, affidare un poco alla fortuna dei casi particolari, che non gli era stata mai nemica sfidata, l'impegno di guidarlo e salvarlo nello sbaraglio. Con quel vigore di volontà che la natura aveva dato a quel favoreggiato individuo, egli scacciò fuori della sua mente tutta la turba di quei pugnaci pensieri che l'occupavano; e perchè non vi potessero rientrare la popolò di evocati, più dolci fantasimi, del corteo leggiadro delle donne che lo avevano amato, che lo amavano, di cui egli scelleratamente aveva compro, come aveva detto Ester, la pace, la virtù, l'onore con falsa moneta di sue ingannatrici parole amorose. Sorrise per un poco alle gentili immagini, ai ricordi piacevoli di soavi momenti; ma poi su questi pensieri eziandio venne a stendersi l'oscuro velo d'una nube, una mestizia insieme, un rimpianto, una malavoglia, una fastidiosa scontentezza che era in una lassitudine ed impazienza; una lieve tinta di più in quell'ombra di rincrescimento e si sarebbe potuto dire rimorso. Da quella giovenile schiera di donne, una s'era staccata, era venuta più innanzi nel campo della mentale di lui visione, aveva relegato nella penombra del fondo tutte le altre: una bella, giovane figura coll'impronta della disperazione sulla faccia, con un rimprovero tremendo nello sguardo, con una parola più tremenda ancora sulle labbra spallidite: Ester; la quale gli ripeteva le parole scrittegli due giorni prima: «sono madre.»

Il mistero della sua sorte, dopo ch'ella era fuggita la sera innanzi, per la tracotanza di Maddalena; questo mistero pauroso e minacciante, dava alla bella testa di lei come un'aureola di maggiore interesse nel pensiero del suo seduttore. Colei che, presente, non avrebbe certo tardato a infastidirlo, ora, assente, senza saperne novella, quasi perduta egli desiderava grandemente riavere, si doleva non poter soccorrere e consolare.

In questa la sua carrozza giunta alla casa Benda in sul viale, dava la voltata per entrare sotto il portone. Di presente un'altra idea, un'altra immagine si impadronì dello spirito di Gian-Luigi: l'immagine della pura ed innocente gentilezza ed avvenenza di Maria, l'idea dell'amore di lei. Si curvò al cristallo tirato su dello sportello e sollevò lo sguardo alle finestre del primo piano. Dietro i vetri d'una di esse stava un visino delicato di donna, il quale nello scontrare il suo collo sguardo del giovane che arrivava, arrossì e si ritrasse vivamente, quasi fuggendo. Ella aveva udito il giorno innanzi che Quercia sarebbe tornato quella mattina; stava essa aspettandolo? Povera Maria! Se avesse potuto vedere il sorriso di trionfo, di orgogliosa sicurezza che si disegnava sul labbro superbo di Gian-Luigi!

Questi salì sollecito le scale, e fu lasciato penetrare senza ritardo nella camera di Francesco. Il celebre chirurgo già era venuto; Giacomo e Teresa, che avevano vegliato tutta notte, stavano ansiosi intorno al letto del figlio; Maria non c'era. Il ferito aveva passato agitatissime le ore notturne, tormentato da una febbre gagliarda; nulla ancora di positivo poteva dirsi intorno al suo caso. Fu ordinato non gli si lasciasse veder nessuno, dai congiunti in fuori, Selva e Quercia; si evitassero tutte le emozioni, e intanto si lasciasse agire la benefica natura.

Quando il cerusico si partì, Giacomo fu ad accompagnarlo fino nell'anticamera; e s'era appena spiccato da lui, che gli si accostava con faccia preoccupata il capo-fabbrica, il quale già più volte aveva chiesto nella mattinata di parlare al principale, senza che questi volesse pur mai dargli udienza.

– Scusi, sor Giacomo, disse il capo-operaio con rispettosa umiltà, ma con un accento di premurosa insistenza, scusi se vengo a disturbarla in queste circostanze, in cui Ella ha sì gravi fastidii per la testa; ma conviene assolutamente ch'io le parli.

Il padre di Francesco fece un atto di crucciosa impazienza.

– Vi ho già fatto dire che di affari non volevo sentir nulla, non volevo occuparmi per nulla… Credete ch'io abbia la testa a codesto?.. Lasciatemi in santa pace per amor del cielo.

– No, signore… Perdoni, ma si tratta di cosa troppo grave, e di premura.

– Che riguarda la fabbrica?

– Sì.

– Ebbene fate voi, provvedete come vi pare. Tutto quel che farete lo approvo fin d'ora…

– Ah! non mi prendo una responsabilità cotanta… Per carità, la prego io a mia volta di volermi ascoltare per pochi minuti.

Giacomo mandò un sospiro di rassegnazione e colla mossa dell'uomo che non ha mezzo di salvarsi da una contrarietà, e si augura quanto meno d'esserne liberato il più presto possibile, disse tronco:

– Bene, parlate in vostra buon'ora, ma siate spiccio.

– Gli è qualche tempo, così parlò il capo-fabbrica, che tra gli operai notavo dei cambiamenti che non mi piacevano punto, che poscia cominciarono ad inquietarmi, e che ora fanno capo a spiacevoli conseguenze.

– Che cambiamenti? domandò brusco il principale. Che conseguenze?

– Negli opifizi si fanno i più strani discorsi di questo mondo, che mi sembrano eresie tanto fatte; che i principali sono i tiranni e gli oppressori degli operai, che finora quelli si sono… la mi permette di ripetere tali bestialità affinchè conosca tutto il male?

– Dite pure ogni cosa… anzi ve l'ordino.

– Che finora dunque i padroni si sono ingrassati dei sudori dei lavoranti, lasciando a questi nient'altro che miseria, e che ora è tempo gli operai dettino un poco la legge ancor essi ai principali, per averne più equo trattamento.

Giacomo, di natura impetuosa e già di solito poco paziente, in quei dì ed in quelle circostanze non era molto disposto ad essere calmo e tollerante.

– Gli sciagurati! proruppe: come se io succhiassi loro il sangue, viziosi di fannulloni la maggior parte che sarebbero a trattarsi colla sferza per farli lavorare, pieni di vizi e di pretese e null'altro, come quello scellerato d'Andrea! Oh che si hanno da lamentare di me? Sono ben pagati, li soccorro quando cadono infermi oltre ciò che sarebbe mio dovere, e vengono a tirarmi fuori di queste gretole?.. Siete ben buono voi a venirmene a rompere il capo. Codestoro sono indiscreti e cattivi operai di sicuro. Non domando neppure se gli è Tommaso o Martino; ma qualunque essi sieno mandateli fuori dalla mia fabbrica, non voglio di queste rogne da grattare io, avete capito?

Il capo-fabbrica si mostrò imbarazzatissimo:

– Ah sor Giacomo… balbettò egli.

Ma il buon cuore dell'industriale avevagli già parlato non ostante l'eccitamento della sua bizza.

– Capisco quel che volete dire, soggiunse: cacciarli così su due piedi è un provvedimento un po' duro… Avete ragione, cominciamo per ammonirli… Se avessi la testa a segno lo farei io stesso, ma oggi non mi sento: non sono capace di mettere insieme quattro parole, e poi mi lascierei trasportare dallo sdegno e farei peggio. Parlate voi con loro: dite chiaro che non sono disposto a tollerare le indiscrezioni e l'indisciplina, che per ora basterà farli avvertiti, ma alla seconda di cambio stieno certi che non avranno più da me nè lavoro nè pane.

 

– Ah signore, temo pur troppo che codesto non basti…

– Come!

– Se si avesse da effettuare quella minaccia di rinvio, converrebbe metter fuori più della metà degli operai e non so come si potrebbe mandare innanzi la fabbrica.

– Che cosa mi dite? Possibile!.. Il male è a questo punto! E voi non mi avete mai avvisato? E non ci avete posto rimedio?

– È un fuoco che ha covato sotto la cenere, e che ora si manifesta quasi improvviso in quelle proporzioni. È certo che vi ha qualcheduno che soffia in questo fuoco; vi sono certuni degli operai che fanno una specie di propaganda, che ripetono evidentemente delle lezioni sovversive apprese a memoria… Costoro hanno denari, e mi pare che ne spargano fra i loro compagni… Noti che, da quanto ho potuto intendere, anche in altri opifici succede il medesimo.

– Cospetto! esclamò Giacomo, in cui, malgrado il suo dolore morale, destavansi a quelle comunicazioni l'interesse, la curiosità e l'inquietudine. Codesto merita d'essere appurato.

– E pare adunque che siasi stabilito fra tutti gli opifici un accordo degli operai per dimandare simultaneamente un aumento di salari.

– Un aumento di salari? A questi giorni, colle attuali condizioni dell'industria!.. Sono matti… Ma voi ben lo sapete che un menomo accrescimento nel costo della produzione ci toglierebbe ogni guadagno: noi dunque, padroni, ci toccherebbe lavorare e far lavorare il nostro capitale per favorire que' signorini soltanto, e noi rimetterci o non averne pure il becco d'un quattrino per profitto?..

– Eh! io lo so di sicuro codesto, ma quegl'insatanassati non la vogliono capire, e mi sono inutilmente sgolato a farla entrare nelle loro corna.

– Ma che vogliono adunque? Sentiamo le loro pretese.

– Domandano tutti indistintamente una lira di più al giorno di paga, una diminuzione invece di ore di lavoro, e inoltre…

– Come! interruppe il principale con vero scoppio di collera, c'è ancora un inoltre? Oh che discreti!.. Be', vediamo un po' fin dove spingono l'audacia?

– Vogliono che degli utili una buona porzione sia loro assegnata, da dividersi a ciascuno di loro, secondo l'importanza dell'ufficio e l'abilità del proprio lavoro.

– Carini! esclamò Giacomo con un'ironia sotto cui fremeva sempre maggiore il suo sdegno. E come vi hanno essi manifestate queste belle intenzioni?

– Hanno eletto fra di loro una Commissione, che voleva venire da Lei ad esporle il tutto…

– Ah sì?.. La mi piglia giusto di buon umore… Le dico io, alla loro Commissione, in quattro parole ciò che si conviene.

– Io ho pensato che codesto nei momenti attuali avrebbe potuto scomodar troppo Lei e farle perdere pazienza, ed ho indotto quei cotali a smettere il pensiero di venirle innanzi; che mi sarei incaricato io d'informarla di quanto succedeva.

– Avete fatto bene… Sì, non sono in disposizioni da tollerare di molto… Ed ora aspettano forse una risposta?

– Signor sì…

– Ebbene andate, e dite loro…

Ma qui un altro avviso gli venne di subito.

– Aspettate. È forse meglio che vada io stesso a parlare a quei matti.

– Oh sì signore, esclamò con premura il capo-fabbrica: è appunto ciò che andavo meco pensando, che avrei voluto, ma che non osavo suggerirle. Ci venga Lei. Quattro sue parole… ma senza collera, mi raccomando… faranno più effetto di qualunque altra cosa sulla gran massa degli operai, che in fondo hanno sempre per Lei rispetto e riconoscenza.

– Allora ci vado.

E s'avviava, quando un servo inviato da Teresa venne a dirgli che Francesco, desiderando voltarsi nel letto, incapace com'era fatto di muoversi, s'abbisognava di lui intorno al ferito. Giacomo pose in non cale tutto il resto; ebbe anzi rimorso d'aver potuto un momento mandare innanzi al pensiero del figliuolo quello d'un altro interesse.

– Andateci voi, senza più, diss'egli affrettatamente al capo-fabbrica, dite loro che non rompano le tasche, e se non vogliono capire la ragione, mandateli al diavolo, che io non ne voglio più sentire a parlare.

E, lasciato lì quel brav'uomo, corse nella stanza di Francesco.

Il capo-fabbrica tornò nella officina tutto mesto e imbarazzato; capiva che il guaio era serio, che gli umori degli operai erano vivamente eccitati, e non sapeva che cosa se ne sarebbe conchiuso. In un'occasione ordinaria, Giacomo, colle sue maniere schiette, ardite, autorevoli e benevole nello stesso tempo, avrebbe forse potuto imporne agli operai e dominare il tumulto; il capo-fabbrica si sentiva senza influsso di sorta su quei riottosi. Pareva che la sorte, messasi ad un tratto ad avversare quella famiglia, volesse della disgrazia già mandatale, far cagione di un'altra gravissima.

Gli opifizi Benda erano pieni di agitazione come un alveare o meglio un formicaio in tumulto. Ciascuno aveva abbandonato il suo posto da lavoro ed o si stava in gruppi vocianti e gesticolanti in mezzo agli stanzoni, o scorreva con vivacità dall'uno all'altro capannello, dall'una all'altra stanza: gli strumenti del lavoro giacevano buttati, i fuochi si spegnevano nelle fucine in cui i mantici avevano cessato di soffiare. Si parlava in molti – quasi tutti – ad una volta, con animazione di voce, di sembianze e di gesti, e sul comune, confuso rombare di tutte quelle concitate parole, ricrescevano, di quando in quando, e qua e là, le declamazioni di alcuni che più forte e più audacemente peroravano. Tanasio era fra i più clamorosi ed accesi di questi ultimi. Per quel fenomeno immancabile, che di una folla esagitata fa crescere in misura geometrica ad ogni minuto la febbre del tumulto, che ne dà il governo in mano a chi è più temerario ed eccessivo ne' partiti, che ne commette gli animi in preda alla violenza, al furore, alla ferocia; la raccolta, dapprima con sembianze pacifiche ed ordinate, era venuta via via diventando minacciosa e strepitante. Grida malvagie erompevano da qualche bocca, proposizioni scellerate già si osavano formolare da qualche più tristo: si era già arrivati al punto quando i buoni e gli onesti non hanno più il coraggio di rimbeccare e far tacere i birbi. La presenza e le parole del principale, come già ho detto, a quel momento avrebbero forse potuto ancora voltare a migliori propositi gli animi della grande maggioranza, riunire ai ragionevoli partiti tutti i moderati e i tranquilli che in realtà, come sempre, erano i più e si lasciavano trascinare dalla impertinente violenza dei pochi temerari; ma la comparsa invece del capo-fabbrica che tornava solo, con aspetto incerto, malvoglioso, quasi mortificato, non era tale da imporne ai riottosi e da sollevare l'animo e la risoluzione dei pacifici.

Appena fu visto entrare il loro mandatario, si levò da ogni parte più forte il vociare, che appunto si accresceva ancora dalle grida che si mandavano per indurre altrui al silenzio; e da tutti gli altri locali fu un accorrere tumultuoso degli operai in quello ove era entrato il capo-fabbrica affine di udirne comunicazione della risposta del principale.

– Gli è qui; gli è qui: gridavasi: fuori, fuori la risposta.

– Ebbene? Ebbene? Parli, suvvia parli!..

– Acconsente egli il principale?

– Abbiamo da gridar viva od abbasso il signor Benda?

– Che nuove adunque?.. Presto, un sì o un no.

– Ma state zitti!.. Lasciatelo parlare.

– Silenzio! Silenzio!.. Volete tacere?

– Tiratevi in là, non vi spingete tanto.

– Che cosa dice? Che cosa dice? Noi non udiamo nulla di qua.

– Forte! forte! parli forte!

– Silenzio! Finitela!.. Cheti figliuoli!..

Tanasio che si arrogava certi pigli da capo-schiera, saltò sopra una panca che c'era per colà, e dominando da quella maggiore altezza il fiotto di teste umane che si agitava e veniva a battere intorno al capo-fabbrica stordito da tanto rumore, fe' cenno colle mani di acquetarsi.