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La plebe, parte III

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CAPITOLO XIX

Mario, liberato egli pure il giorno innanzi, era venuto quella sera medesima dagli amici a dar contezza di sè, perchè non fossero altrimenti inquieti de' fatti suoi.

– L'abbiamo scappata bella: aveva esclamato Antonio Vanardi, pallido ancora e quasi tremante: possiam dire senza troppa esagerazione d'averci visto il capestro alla gola; ed affè che non ci si sta affatto bene in que' transiti. Che cosa decidiamo noi ora di fare?

Mario lo guardò con solenne e quasi rampognante severità.

– Ciò che si ha da fare, l'abbiamo già deciso: diss'egli. Tutto è risoluto, tutto è disposto. Ier mattina sono partiti gli ordini pei nostri fratelli delle varie città; non può manco venire in mente a nessuno il pensiero di rinunciare all'impresa o pur di sospenderla.

Questo pensiero poteva benissimo venire in mente a qualcheduno, poichè era quello precisamente che frullava pel capo del povero Vanardi; ma pure questi a cui ne imponevano la severità ed il vigore morale di Mario Tiburzio, non osò più ribatter parola e chinò il capo rassegnatamente con un doloroso sospiro.

Tiburzio continuava:

– Poichè la nostra buona sorte ci ha fatti per questa volta uscir sani e salvi dagli artigli dell'orco che ci aveva afferrati, conviene anzi con più premuroso studio adoperarci alla distruzione di quest'orco. Se già non avessimo deciso lo scoppio, dovremmo ora affrettarlo. Un'altra volta che ci prenda, la tirannia non sarà più così mite, e noi saremo irrevocabilmente perduti. Il pericolo che la congiura venga scoperta, che i sospetti se non altro su di noi s'afforzino vieppiù, è certo ed imminente. Quel poliziotto che mi seguì l'altra sera su per queste scale mi fu posto in confronto alla presenza del Commissario; lo riconobbi per l'affatto: è proprio quello ch'io aveva sospettato, il funzionario della polizia papale a cui venni condotto innanzi quando fui arrestato la prima volta in Roma. Se influssi superiori, che abbiamo saputo mettere in giuoco, ci hanno valuto il momentaneo successo della nostra liberazione, ciò non distrugge per certo i sospetti che ha sul mio conto quel poliziotto il quale mi ha perfettamente riconosciuto, ed il quale, punto dal dispetto di vedermi per ora sfuggirgli, metterà in opera ogni suo possibil mezzo affine di certificare la verità. È nostra maggior sicurezza adunque lo spingerci avanti che il ritrarci: ma oltre questa considerazione personale, abbiamo il dovere morale sacrosanto di non mancar più al solenne impegno che abbiam preso cogli altri per quell'audace opera cui fummo dei primi e dei principali noi a stabilire e determinare.

Qui Romualdo entrò in mezzo e raccontò il suo abboccamento coll'autore d'Ettore Fieramosca, le conclusioni che s'eran prese nel medesimo, e le speranze ch'egli ne aveva concepito.

Mario Tiburzio crollò il capo.

– Illusioni! illusioni! illusioni! esclamò egli con un accento tra sdegnoso ed addolorato. Il Re avrà una di quelle risposte ambigue che non impegnano a nulla, furbamente diplomatiche, da lasciare appiglio all'ambizione dinastica di valersi del partito nazionale quando le circostanze dessero a questo il predominio, da non precludergli intanto i supplizi dei patrioti che gl'impongano l'interesse del suo assolutismo ed il comando dell'Austria.

Romualdo ribattè, non senza qualche vivacità, che così poteva esser benissimo, ma che avrebbe potuto esser vero eziandio il contrario, cioè che il Re di Piemonte in buona fede abbracciasse il partito della nazione, poichè un uomo come Massimo d'Azeglio si lusingava che ciò avesse da avvenire; che per la lealtà e pel patriotismo dell'Azeglio Mario medesimo aveva dichiarato avere tanta stima e tanta fiducia da non poterlo suppor mai ingannatore; e i suoi talenti e la sua esperienza degli uomini e delle cose facevano quell'egregio assai difficile ad essere ingannato; che dunque, senza voler per quel momento prendere e nemmanco discutere alcuna risoluzione in proposito, era da aspettarsi di sapere il risultamento del colloquio di Massimo col Re, e su questo risultamento aggiustar poi la loro condotta, se andare innanzi come se nulla fosse avvenuto, oppure adottare altri propositi.

– Ma ciò è impossibile: aveva interrotto a questo punto Mario Tiburzio colla sua foga da tribuno. Pensa che il segnale è partito, che quasi è materialmente impossibile fare pervenire a chi si dovrebbe un cenno contrario. Il dado è gettato, vi dico, e conviene correr la sorte. Che? Gli altri insorgerebbero, e noi eccitatori loro in gran parte, staremmo cheti a vedere? Andrebbero a morire i nostri compagni, i nostri fratelli, e noi, in virtù dell'accortezza di combinazioni politiche impossibili, staremmo in salvo riserbandoci per altre occasioni che non verranno mai più?.. Ma cotal pensiero, sappi, Romualdo, fu quello che mi tormentò in tutta questa fatale giornata trascorsa, fu quello che delle poche ore di carcere mi fece un inferno. Come! Gli altri combatterebbero in nome d'Italia e della libertà; e noi nulla! Il nostro disegno è così strettamente concatenato che il fatto d'ogni parte deve concorrere al successo del tutto, e noi lascieremmo mancare alla santa opera, alla salute dei nostri, a quella della patria, l'aiuto della parte che ci tocca, che ci siamo assunta?..

– E se tutta si potesse arrestare quella gran macchina che si è congegnata ed a cui si sta per dar la mossa? soggiunse Romualdo. Credi tu che a ciò non potrà aiutarci colle sue infinite attinenze Massimo d'Azeglio medesimo?

Mario Tiburzio uscì di casa gli amici per nulla scosso nella sua fiera risoluzione: non diniegò tuttavia di sentir poi le parole dell'Azeglio, e si avviò taciturno, concentrato in se stesso a quel suo secondo alloggio dove si nascondeva e dove aveva bisogno di trovarsi solo per meditare. A dispetto della forza della sua volontà e della tenacia de' suoi propositi, sentiva in sè una specie di amarezza che era come un rilasciamento di quel vigore che aveva sin allora posto nell'opera, un dubbio maggiore di quanti avesse avuto ancora mai, una specie di scoraggiamento. Gli pareva sentirsi mancare intorno gli elementi d'azione, sotto i piedi il terreno, nelle mani la forza: Titano della libertà, dopo aver creduto di essere riuscito a sovrapporre monte su monte per dar l'assalto all'olimpo della tirannia, sentiva ora che quella base su cui erasi fondato, gli crollava di sotto, prima ancora che l'avessero colpita de' loro fulmini il Giove austriaco e i suoi Dei minori, i principi della misera Italia. Le parole e i contegni dei più fidi amici suoi, de' più valorosi tra' suoi complici gli erano un ammonimento. Certo, non ostante i dubbi e le riserve da loro ultimamente manifestati, questi amici non avrebbero mancato, egli ben lo sapeva; anche colla certezza di soccombere sarebbero camminati al pericolo; ma la fiducia nel trionfo veniva mancando in essi, ciò indovinava, ciò scorgeva Mario Tiburzio, il quale non ignorava come la fede nella vittoria sia in ogni dove e sempre elemento principalissimo per ottenerla. Ma ciò che succedeva in quelli de' più accesi fra i liberali, che più vicino contatto avevano con esso lui, perch'egli potesse comunicar loro quell'ardore e quella fede che lo animavano: ciò stesso doveva pure avvenire degli altri ed era presumibile che in tanto maggiori proporzioni, quanto difficilmente, nella generalità, si vantaggiavano di anime d'una tempra sì forte ed erano da quel focolare di patriotica fiamma lontani.

Era come un mesto presentimento il suo, ma un presentimento che doveva avere ben tosto ragione.

Nel recarsi verso la sua dimora, quantunque assorto in cosiffatti pensieri, tuttavia, per abitudine omai inveterata di uomo che deve badare continuamente alla sua sicurezza su cui da un momento all'altro può incombere un pericolo, Mario Tiburzio scrutava con occhio attento i luoghi che percorreva, esaminava, senza che apparisse, le persone che passavano. Già era egli giunto presso la casa a cui era diretto, quando s'accorse che un individuo cautamente lo veniva codiando, dopochè incrociatolo nel suo passaggio lo aveva osservato attentamente. Mario non dubitò punto che quella non fosse una spia, e volendo senz'altro appurare la cosa, si volse indietro e camminò risolutamente verso quell'uomo. Questi parve esitare: si guardò sollecito dintorno, come se cercasse una via di scampo o volesse vedere se c'era qualcheduno da poterli osservare, rallentò il passo, ma non ischivò l'incontro di Mario, e quando si trovò presso di lui tanto che il panno della sua manica radeva il mantello dello emigrato romano, egli levò le mani che teneva nelle tasche del suo soprabito e fece rapidamente con esse un certo segno, al vedere il quale Mario rasserenò di botto la sua fisonomia. Guardò egli pure dintorno se qualcuno li osservasse, e rassicurato su questo punto, rispose con altro segno, e poi, come se di nulla fosse, tornò a volgere i suoi passi nella direzione che aveva prima, entrò innanzi allo sconosciuto con passo nè più tardo nè più sollecito, e quell'altro lo venne seguitando lentamente dalla lungi.

Giunto alla porta che metteva nel quartierino che sappiamo, Mario diede ancora una ratta sguardata intorno a sè, e visto nulla che potesse destare il menomo sospetto, entrò nell'andito, dove si fermò ad aspettare. Non tardò ad essere raggiunto da quell'incognito. I due uomini si guardarono ben bene entro gli occhi, e si chiarirono che non si eran visti mai; allora Mario fece alcuni nuovi segni, a cui l'altro rispose col medesimo linguaggio; poi lo sconosciuto si curvò all'orecchio di Mario e pronunziò una parola che doveva essere un motto di riconoscimento.

Tiburzio fece un cenno del capo, che pareva un'affermazione: pose una mano sulla spalla di quell'uomo, e gli disse con accento sommesso ma quasi solenne:

– Venite.

Lo introdusse nella sua riposta cameruccia. Là tenendogli fissi in faccia i suoi occhi grifagni, Mario lo interrogò:

 

– Chi siete?

Quell'uomo disse dell'esser suo. Era un commesso viaggiatore d'una casa commerciale della media Italia, il quale, affigliato alle cospirazioni, serviva di comunicazione fra i congiurati dell'una e dell'altra città, schivando così i sospetti delle polizie.

– Chi vi manda?

Invece di rispondere il messo trasse di tasca una lettera suggellata in un modo particolare e senza dargliela nelle mani, mostrò a Tiburzio la scrittura dell'indirizzo.

– Conoscete questo carattere? diss'egli.

Era quello d'uno dei capi principalissimi della vasta congiura nel quale si raccoglievano i fili della trama di tutta l'Italia mediana ed inferiore.

– Lo conosco… Gli è lui che vi manda?

Il viaggiatore fece un cenno affermativo.

– Vedo che quella lettera è diretta a me.

L'altro ripetè il cenno affermativo, ma non gli diede tuttavia la lettera.

– È stato lui che vi ha indirizzato a questo luogo?

– Sì.

– Mi conoscevate di persona?

– No.

– Come dunque mi avete ravvisato per istrada?

– Mi furono detti esattissimi connotati che vidi rispondere a capello colla vostra persona. Sapevo che dovevate rientrare verso quest'ora. Vi riconobbi quasi per un istinto.

– Va bene. Sapete voi quello che mi si scrive costì?

– No.

– Datemi adunque la lettera.

– Attendo ancora…

– Che cosa?

– Che voi pronunziate una parola.

Fu la volta per Mario di chinarsi all'orecchio del suo interlocutore e di pronunziare un motto.

Appena uditolo, il messo s'inchinò e gli pose in mano senz'altro la carta ripiegata e suggellata.

Mario Tiburzio esaminò ancora ben bene i caratteri della soprascritta ed i suggelli, poscia rotti questi con una vivacità ansiosa, lesse avidamente. Il suo volto si rimbrunì a seconda ch'egli proseguiva nella lettura; un'imprecazione di rabbia, che egli mozzicò pur tuttavia fra i denti, gli sfuggì dalle labbra contratte; la sua mano spiegazzò in un moto di collera la carta che teneva; come a dare alcuno sfogo alla subita interna passione in lui suscitatasi, fece concitatamente due o tre giri per la stanza, le braccia incrociate al petto, la testa china. Non tardò a riprendere il dominio di se stesso, benchè la tempesta gli ribollisse ancora furibonda nell'animo; parve tornato affatto in calma; si fermò, rispiegò la lettera che teneva stretta nella mano chiusa a pugno e la rilesse attentamente; poi sollevò adagio il suo viso un po' impallidito, su cui v'era un lieve sogghigno di sdegnoso disprezzo.

– E sta bene: diss'egli, come parlando a se stesso: penserò a quel che mi resta da fare.

Accompagnò fuori il messaggiero, e poi, tornato a rinchiudersi nella camera, si buttò a sedere presso al tavolino dove soleva lavorare, e si affondò in una dolorosa meditazione.

In quella lettera fatale gli si scriveva da quello che era principal capo della congiura nel resto d'Italia, come dopo le ultime buone novelle mandategli (novelle che abbiam visto far decidere Mario e i suoi amici all'ultima prova), le cose erano cosiffattamente cambiate che si affrettavano a dargliene avviso, perchè tutto si mettesse in sospeso. Mentre pochi giorni prima eragli stato scritto che tutto era pronto, ora lo si ammoniva che in tutta Toscana e in quasi tutta l'Italia meridionale non c'era più da contare sopra la insurrezione; alcuni dei capi erano stati arrestati dai governi, forse messi in sull'avviso da qualche traditore; alcuni s'erano salvati colla fuga, andando ad accrescere l'infelice schiera degli esuli in Francia; la maggior parte anco dei congiurati era giù dell'animo, il volgo stanco, spaurito, ignorante, poco propizio a novità cui aveva sempre visto fino allora apportatrici di maggiori tormenti. Esserci solo da contare ancora su qualche località delle Romagne, quantunque gli ultimi casi di Rimini avessero colà pure smaccato gli animi; doversi per conseguenza conchiudere che più della prudenza la necessità consigliava, imponeva sospendere per allora ogni tentativo di movimento, contentarsi a serrare il meglio possibile i fili della trama e confermando nella fede e nell'ardore della religione della patria i generosi che avevano dato il nome alla congiura, aspettare più propizie occasioni; ciò si affrettavano a comunicargli, affinchè, come già nelle altre parti d'Italia s'era fatto, Mario anco in Piemonte disponesse a raffrenare ogni moto; la medesima comunicazione dicevasi inviata contemporaneamente al Comitato di Parigi perchè anch'egli provvedesse.

Mentre il nostro capo della congiura scriveva da parte sua agli altri che il tempo era venuto dei supremi cimenti, che non si doveva indietrare, nè indugiar più, ed assegnava il giorno a quella lotta audacissima a cui tutti parevano anelare ed egli si lusingava che veramente anelassero, mandavasi dagli altri l'annunzio che lo abbandonavano in quella sublime follìa, e i suoi cenni per determinare il momento dello scoppio alla mina dovevano arrivare quando già erano rimosse le polveri, già spenta la fiaccola che doveva incendiarle.

Mario percosse col pugno chiuso la tavola che aveva dinanzi.

– Siamo una stirpe di codardi, dal sangue degenerato nelle vene, degradati figliuoli di padri valorosi le cui ombre arrossiscono di vergogna. Siamo da meno della decaduta Spagna, della corrotta Grecia. Colà almanco il popolo ha mostrato saper morire per la libertà della patria: e qui… qui un popolo di servi che si curva sotto il bastone, non sa neppure d'aver una patria!..

Quando il mattino seguente, Romualdo, ricevuto il bigliettino di Massimo d'Azeglio, s'affrettò a recarsi da Mario, trovò costui calmo, ma immerso in una mestizia profonda, colle traccie sul volto d'una notte dolorosamente vegliata.

– Che avvenne? domandò Romualdo con inquietudine ed interesse.

– Lo saprai fra poco: rispose Tiburzio con voce in cui non era la simpatica vibrazione del solito suo calore di accento. E tu che mi rechi?

Romualdo gli porse la lettera dell'illustre scrittore piemontese. Mario la lesse, e senza mostrare in nessun modo l'impressione ch'egli ne ricevesse, disse tranquillamente, restituendola all'amico:

– Andiamo adunque dall'Azeglio, poichè ci chiama.

Quando furono per mettere il piede fuori dell'uscio, Tiburzio arrestò il suo compagno posandogli una mano sul braccio.

– È strano un popolo che per riconquistare la sua libertà si fa a supplicare i principi che l'opprimono perchè glie la concedano e glie la rivendichino essi stessi: disse con amara ironia. Non importa; andiamo a vedere se quell'onest'uomo di Massimo ci vorrà star garante della possibilità di tal miracolo.

Non disse più una parola, finchè i due giovani comparvero, come abbiamo visto, alla presenza dell'Azeglio, il quale erasi mosso loro all'incontro.

– Signori, cominciò senz'altro l'illustre scrittore: questo giorno conta per me come uno dei più importanti della mia vita, ed ho speranza che debba contare eziandio per importantissimo nella storia d'Italia. La benigna fortuna, me, sincero ma umilissimo amator della patria, volle fare stromento di uno dei maggiori fatti che si potessero compire in beneficio della nostra terra: l'alleanza col partito nazionale della monarchia militare del Piemonte.

E qui, con tutta l'esattezza e il calore provenienti dalla freschezza delle impressioni ricevute, Massimo d'Azeglio ripetè i discorsi avuti col Re e le solenni parole da esso pronunciate.

– Ed Ella crede? domandò con vivacità Mario Tiburzio.

– Il cuore lo vede Iddio: rispose gravemente l'Azeglio: noi uomini dobbiamo argomentare colla scorta della povera nostra ragione. Nelle sembianze, nell'accento, nello sguardo di Carlo Alberto, io ho creduto notarci la sincerità; nella sua generosa ambizione, nelle tendenze manifestate dalla sua giovinezza, nell'interesse medesimo della sua dinastia, io credo vederci argomenti non ispregevoli di fiducia. E poi… parliamoci schietto. Abbiamo noi altri mezzi di fondate speranze di probabile riuscita, fuor questo?.. Le infelici insurrezioni del passato non vi hanno ancora aperti gli occhi?.. Fin quando vorremo avventurare il sangue dei più generosi cittadini in lotte troppo ineguali, di certissima sconfitta?.. Inoltre, combattendo contro i Principi nostrani è sempre una guerra civile quella che noi facciamo; perchè non preferiremmo di combattere coi soldati di Carlo Alberto, sotto le bandiere di questo Re contro lo straniero?

– Si lo faremo: proruppe Romualdo. Venga l'occasione soltanto, e noi, più lietamente che nella sommossa, daremo la nostra vita sui campi di battaglia… Io credo in Carlo Alberto poichè Ella sig. d'Azeglio ci crede.

Mario non disse una parola: teneva curva la testa, chini a terra gli occhi, serrate le labbra, contratte le mascelle; si vedeva che un'interna passione lo rodeva, che una lotta avveniva in lui con crudo travaglio dell'animo suo.

– E spero che tutta Italia crederà in esso: esclamò Massimo con calore; non ostante la funesta ricordanza del passato. La sua parola per me è molto, ma non vi domando neppure di credere ciecamente in essa: non vi prego che d'indugiare e di attendere a veder le prove di fatto delle sue intenzioni. Confido che queste prove non tarderanno a venire. Ho insinuata nel discorso il bisogno di una politica più liberale, ho detto che io a nome del Re, fattosi patriota, l'avevo già promessa, avrei seguitato, s'egli non mi contraddiceva, a prometterla agl'Italiani: egli acconsentì. Or io, qui in questa lettera, ai liberali dell'altra Italia, e colla parola a voi, non domando che la pazienza ancora di poco tempo, che un indugio, se non volete una rinuncia, negli avventati e fieri propositi…

– È cosa fatta, interruppe con impeto e con amarezza Mario Tiburzio. Legga questa lettera, sor Massimo.

E gli porse la missiva che aveva ricevuto la sera precedente.

– Tanto meglio, tanto meglio: disse Azeglio con un sospiro di vero sollievo.

– Tanto peggio, dico io, esclamò Mario: perchè questa è mancanza di vigore e di polso negl'Italiani. Ah! cosiffatta prudenza rassomiglia molto ad una debolezza che merita il nome di codardia: ah! un popolo che mendica ed aspetta dai suoi tiranni a spizzichi la libertà, mi ha tutta l'aria d'essere un popolo di vili.

– Mio caro, interruppe col suo calmo e sereno sorriso Massimo d'Azeglio, posti nelle condizioni in cui fatalmente è caduto l'Italiano, tutti i popoli sarebbero quel medesimo. Tenute sotto secoli d'una servitù corruttrice curve le tante generazioni d'una schiatta, e poi pretendere che questa schiatta sia un'accolta di eroi è pretendere l'impossibile…

– Ma noi dunque siamo condannati ad eterno servaggio? proruppe Tiburzio. Come un'ereditaria infermità nel sangue i nostri padri ci hanno dunque trasmesso nell'anima l'abbiettezza servile? Oh! io ho sognato un dì che una generazione da questo putridume sorgesse, degna d'infrangere essa stessa le sue catene; ed a questa generazione mi lusingai di appartenere. Illusione! follia! delirio!.. Bene! Aspettiamo il miracolo d'un re che per l'ambizione d'un trono maggiore rischii di farsi balzare da quel che possiede abbracciandosi alla rivoluzione che i troni distrugge: speriamo ed invochiamo la meraviglia d'un principe italiano che muova guerra a quell'Austria dove ha cercato finora il suo più valido sostegno, e rallietiamoci sognando che le armi da questo re con istudio raccolte non devono servire a mantenere il suo popolo soggetto, sì a farlo libero dallo straniero… Ma in questa gente che cospira, e poi al punto di levare la maschera e brandire le armi si spaventa e corre a rappiattarsi, troveremo noi tanti valorosi che vogliano in campo aperto esporre il petto ai cannoni dell'Austria? L'esercito piemontese a combattere quell'ardua guerra non basta. Ci vuole per esso l'alleanza dell'insurrezione popolare: bisogna che tutta la nazione si levi e si rovescii sullo straniero. E questo popolo addormentato, che non si scuote al sacro nome della libertà, si desterà esso alla voce d'un re?

– Nulla a questo mondo succede per subito ed impreparato cambiamento: disse l'Azeglio col suo accento calmo, amichevole, persuasivo; tutto ha mestieri d'una graduale e successiva transizione. Loro rivoluzionarii non tengono abbastanza conto di questa legge universale, e credono che di botto ciò che esiste possa essere spazzato via e sostituito da altro. Ciò che esiste, ancorchè sia male, ha una forza di resistenza cui non bisogna disprezzare. In Italia abbiamo varii Governi, che hanno intorno a sè la loro buona schiera d'interessi ed anco di devozioni. Io non voglio mica dubitare che col tempo si riuscirà a liberarsene ed a costituire eziandio quell'unità italiana che a noi pare ancora un'utopia, ma che nell'avvenire ha da diventare una realtà; ma noi alle prese colle difficoltà presenti non facciamo che illuderci se tiriamo la conseguenza dei nostri calcoli, senza occuparci d'un elemento importantissimo. Gl'Italiani dalle sêtte non poterono essere che malamente preparati all'amore della libertà e dell'indipendenza. Questa preparazione è sì un lavoro avviato, ma che deve ancora compirsi, e per codesto è necessario che abbiamo la collaborazione, od almanco la tolleranza dei principi. La tema ed il rispetto eziandio di quella monarchia di cui voi altri fate troppo facilmente gettito, e credete eziandio più debole e più tarlata che non sia, allontanano molti dall'idea nazionale, perchè la credono alla monarchia avversa: quando questa medesima sia animata da spiriti nazionali, tutti, o la maggior parte almeno dei difensori di lei, diventeranno patrioti ancor essi. Avremo quindi all'impresa ogni cuor generoso di qualunque fede politica, a qualunque partito appartenga.

 

Mario Tiburzio, dopo un istante, disse:

– Pensai che l'uomo potesse oramai valere e volere, esplicare la sua personalità e governarsi nella società civile, senza più il politico feticismo della monarchia. Ho dunque torto. L'ignoranza e l'insufficienza dei più hanno dunque bisogno ancora di prosternarsi nell'umiliante pregiudizio d'un'adorazione, non ad un merito, ma ad un privilegio…

– Ad un'idea: interruppe vivamente l'Azeglio. Non si ha da disconoscere che la monarchia ha rappresentato ed effettuato il principio della solidarietà comune nel frazionamento d'interessi e di ordini che recò seco la barbarie e poscia il feudalismo del medio evo. Finchè dura ed ha forza una istituzione, vuol dire che l'idea cui essa rappresenta, non ha ancora compita la sua azione nel mondo.

– E sia! Una sua osservazione mi ha colpito, sor Massimo: quella che non si può ottenere di balzo più cose in una, nella via del progresso umano, quindi nemmanco in politica. Noi vagheggiammo un ideale di patria libera che l'Italia non ci può dar tuttavia. Conviene scendere a patti colle miserie della realtà… Sì in ciò Ella e i compartecipi delle sue idee hanno ragione. Borro unum est necessarium: disse il suo compatriota ed amico Cesare Balbo; cacciar fuori lo straniero di casa nostra. Questo necessario ce lo dia il monarcato, e noi combatteremo con esso… Senta, sor Massimo, e prenda queste parole come il solenne giuramento d'un uomo che non fallirà mai a ciò che promette: Carlo Alberto dia col fatto un solo argomento di credere alla sincerità del suo patriotismo, ed io, senza indugio, vincerò ogni mia ripugnanza per vestire l'assisa di suo soldato, e piegherò la mia dignità d'uomo libero alla disciplina di quell'esercito che combatterà lo straniero.

– La prendo in parola: esclamò lietamente Massimo d'Azeglio, tendendo al giovane repubblicano tuttedue le mani.

– Ed anch'io fo questo giuramento: gridò Romualdo che sentì passarsi in quell'istante per le vene quel certo fremito, quella scossa, quel brivido cui suscitano i trasporti d'entusiasmo quando la più nobile parte dell'anima umana è sollevata dalla sublime generosità del sacrificio.

– Ed io lo accetto da tutti e due, soggiunse lo scrittore patriota; e faccia Iddio che presto, come ora siam qui, congiunte le mani da una fede, da un ardore di desiderio, da una reciproca promessa, ci ritroviamo insieme sui campi di battaglia!

Massimo d'Azeglio, che poche ore prima aveva ricevuto coll'amplesso dal Re il patto della monarchia, ora colla stretta di mani di que' due cospiratori accoglieva il giuramento del popolo nel concetto nazionale.

Quando Mario Tiburzio uscì da quel colloquio, la sua anima era ancora in tale agitazione che nè idee nè parole poteva aver tuttavia ordinate e precise.

– Bisogna adunque mandare in fretta contrordini a chi si deve, perchè si diramino di grado in grado; disse Romualdo.

– Sì: rispose Mario con voce tronca: provvedi da tua parte e di' agli altri provvedano; farò io tosto quel che mi spetta.

Percosse colla mano la sua fronte.

– Ah! sopratutto bisogna antivenire la già preparata insurrezione della plebe… Corro tosto a quest'effetto… Addio!

E lasciato lì il compagno, Tiburzio si diresse di passo affrettato verso la elegante dimora del dottor Quercia.

Questi non c'era, e il mariuolo che gli serviva da domestico non seppe dire a Mario quando sarebbe tornato; l'emigrato romano passò parecchie volte e sempre n'ebbe la medesima risposta, e perciò finì egli per lasciare al domestico una sua cartolina da visita, raccomandandogli pressantemente di dire al padrone appena rientrasse che l'individuo il cui nome era scritto su quella polizza (era il nome supposto di Bigonci) aveva urgentissimo bisogno di parlargli, e lo aspettava perciò tutta la giornata in quel luogo ch'egli sapeva.

Ma, per isventura, Quercia quel dì aveva tutto occupato il suo tempo, così che non rientrava nel quartiere che era la sua abitazione ufficiale, fuorchè a notte inoltrata; e siccome le occupazioni ch'egli ebbe interessano appunto la nostra storia, lasciate che lo seguiamo passo passo in quella fatale giornata.