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La plebe, parte III

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CAPITOLO XVIII

Suonavano appena le sei mattutine del dì susseguente quando un uomo di alta statura, ben bene imbacuccato nel suo mantello, usciva dalla locanda di Europa ed attraversando dritto innanzi a sè la piazza detta del Castello dirigevasi verso il Palazzo Reale. L'oscurità della notte era piena tuttavia; e una folta nebbia occupava la piazza; aveva cessato di nevicare, ma la neve caduta nella giornata e nella sera precedente copriva tutto il suolo d'un bianco lenzuolo che mandava un certo albore sotto il grigio cupo di quella nebbia bassa; traverso questa parevano chiazze di luce sanguigna i pochi lampioni accesi, e in fondo, agli occhi del nostro mattinale passeggiero, pioveva una viva luce dai finestroni del Palazzo Reale già tutto desto ed illuminato.

Il personaggio, uscito della locanda, passò innanzi al soldato in sentinella che batteva i piedi e camminava affrettato su e giù alla cancellata della piazzetta affine di combattere l'intirizzimento di gelo onde lo minacciava l'aria ghiaccia di quell'ora mattutina, s'avanzò di buon passo ancor egli verso il portone del palazzo e s'intromise in esso per lo sportello aperto. Non si fermò nè innanzi all'altra sentinella che sotto l'andito dava le volte ancor essa con andatura sollecita, nè dal portinaio, la cui grossa persona già vestita della montura gallonata del suo grado ed adorna dell'imponente e largo budriere della sua spada innocente appariva traverso i vetri dell'uscio del suo camerino, mentre egli si scaldava seduto presso ad un largo braciere; continuò senza la menoma esitazione fino all'estremità dell'atrio, volse a sinistra ed imboccato lo scalone salì e penetrò tranquillamente nel grandioso primo scalone dove stanno le guardie del palazzo, detto volgarmente il salone degli Svizzeri.

L'abitudine di re Carlo Alberto di dare udienze particolari a quell'ora mattutina era così ordinaria, che nessuno si stupì della venuta di questo personaggio e lo arrestò per domandargliene spiegazione. Giunto nel caldo ambiente del salone degli Svizzeri quell'uomo trasse giù dalla faccia la falda del mantello onde si copriva e si tolse di testa il cappello. Apparve la sua una fisonomia geniale che aveva qualche cosa insieme di fiero e di sorridente, una figura marziale e gentile, un piglio tra la franchezza militare e la grazia dell'uomo elegante di salotto.

Alcuni valletti che sedevano sopra una panca presso all'uscio che mette alle stanze interne si alzarono, ed uno di essi venne incontro al nuovo entrato e prese il mantello che il visitatore si levò dalle spalle.

– Sono il cavaliere Massimo d'Azeglio: disse il nostro personaggio; ed ho un'udienza da S. M.

Il valletto s'inchinò senza parlare, depose il mantello ripiegato sulla panca dove sedeva poc'anzi e facendo all'Azeglio un cenno che era un invito a seguitarlo, lo precedette nell'appartamento. Passarono la sala delle guardie del Corpo; in quella che seguiva trovarono un uomo vestito di nero a cui il valletto disse poche sommesse parole, e poi si ritirò. L'uomo vestito di nero fece un grande inchino al nuovo venuto e gli disse con molta urbanità:

– Vado ad annunziarla allo scudiere di servizio, signor cavaliere.

E sparì dietro la portiera dell'uscio che si trovava in faccia a quello per cui l'Azeglio era entrato.

Non passarono due minuti che la cappa nera tornò.

– Si compiaccia passare: disse alzando la portiera ed inchinandosi.

Massimo entrò in quella che si chiama anticamera di parata.

– Il signor scudiere verrà ad introdurla: soggiunse la cappa nera, e, fatto un altro inchino, ritornò nella sala precedente.

L'Azeglio rimase solo ad aspettare. Al momento di quell'importante udienza, che era stata un'audacia il domandare, per venire a dir cose al re che era forse una temerità il fargli sentire; al momento di comparire innanzi a quella sfinge coronata colla pretesa di penetrarne il mistero, Massimo confessa egli stesso ne' suoi Ricordi che il cuore gli batteva.

Dal colloquio che stava per aver luogo dipendevano tante cose! Quello poteva essere un punto solenne per la storia del Piemonte e d'Italia, un istante decisivo per quella stirpe principesca la quale, venuta da oltremonti, erasi fatta italiana, da Amedeo VIII in poi, di sangue, di spiriti e di ambizioni; una politica dinastica di quattro secoli, poteva ora conchiudersi colle aspirazioni di pari durata di una nazione oppressa. Tutto stava in ciò che il Re avesse l'intelligenza di capire i tempi e il coraggio di agire a seconda.

Massimo d'Azeglio non ebbe da aspettar lungo tempo; vide aprirsi un uscio e lo scudiere, presentandosi sulla soglia gli fe' cenno di entrare. L'autore di Ettore Fieramosca entrò solo, e lo scudiere passato nell'anticamera richiuse la porta dietro le spalle di lui. Il Re ed il cavaliere si trovarono a fronte.

Erano press'a poco della medesima alta statura, il corpo spigliato, la mossa elegante; ambidue portavano la testa un po' reclinata, come se loro fosse un peso, tenevano curvo alquanto il petto, come se l'interna vigorìa a reggere la lunga persona cominciasse a venir meno; più curvo il Re, il quale era più inoltrato negli anni, più macerato dai dolori della vita. I due personaggi si guardarono un istante, come per esaminarsi a vicenda; alla luce giallognola dei candelabri accesi la pallidezza di Carlo Alberto pareva più cadaverica, più scuro e più velato lo sguardo delle sue occhiaie infossate; ma sulle sue labbra senza colore, sotto i suoi folti baffi neri che facevano strano contrasto colla bianchezza precoce de' suoi capelli rasi all'usanza militare, aleggiava quel certo misterioso sorriso tra benigno, tra incerto, tra mesto e superbo. Massimo d'Azeglio si avanzò colla cavalleresca franchezza che gli era naturale, congiunta a tutto il rispetto che potesse pretendere il grado di chi gli stava dinanzi, e fece un riverente inchino. Carlo Alberto rispose con un grazioso cenno del capo, senza parlare, e recatosi alla finestra entrò nel gran vano della medesima, dove stavano allogati due sgabelli uno per parte; fece un segno all'Azeglio perchè si accostasse e sedutosi sopra uno di quei seggiòli del finestrone accennò al visitatore gli si ponesse in faccia. Massimo obbedì sollecito.

Nessuno dei due aveva ancora parlato. Il Re fece scorrere il suo sguardo nell'oscurità della piazza che si stendeva loro dinanzi, poi lentamente lo ricondusse sul volto di chi gli sedeva in prospetto. La sua faccia abitualmente severa aveva presa una espressione benevola, quasi affettuosa, dolcissima era diventata la sua guardatura, e con tono di voce affatto simpatico, con amorevole e famigliare accento incominciò a dire:

– Ecco assai tempo, cavaliere, che non ci siamo più visti… Già Ella non è quasi più stata in Piemonte… E quasi vorrei dirle che non istà bene trascurare così il suo paese e noi che la amiamo.

Massimo sentiva un vero fascino esercitarsi su di lui dalla parola, dai modi, dallo sguardo del suo augusto interlocutore: il naturale e primo impulso della sua anima in presenza di quel re così dignitosamente famigliare, era quello d'una compiuta fiducia; ma le oscillazioni della sua politica, la gravità degl'interessi che egli era venuto colà a rappresentare innanzi al sovrano, la responsabilità che pesava su di lui, come mandatario quasi di tutto il partito liberale, la delicatezza e difficoltà del suo còmpito, che in fin dei conti si riduceva a formolare a Carlo Alberto, re assoluto e creduto ghiottissimo d'autocrazia, in forma meno aspra e ricisa, ma colla medesima franchezza e coi medesimi effetti quel dilemma che più tardi Daniele Manin doveva affacciare a Vittorio Emanuele II, re costituzionale e in fama di umori liberali: tutto questo imponeva all'Azeglio una gran cautela su sè medesimo, sulle sue impressioni, sulle sue parole, quasi una diffidenza, un obbligo di resistere alla seduzione di quelle regali maniere.

– Ah non creda, Maestà, diss'egli, che io trascuri e possa trascurar mai il mio caro paese e la devozione al mio sovrano.

Carlo Alberto fece un grazioso cenno del capo, come per significare che di codesto era egli agevolmente e pienamente persuaso; poi, come se volesse protrarre d'alquanto l'entrare in materia di quel discorso che sapeva bene essere l'oggetto e lo scopo di quell'abboccamento, s'informò delle cose particolari di Massimo con una cortesia benevola che era tutta sua e che gli guadagnava l'anima di colui col quale parlava. Dopo varie interrogazioni venne fuori questa:

– Ed ora di dove viene?

Massimo vide tosto che quello era il filo al quale poteva appiccare tutto il suo discorso; non se lo lasciò sfuggire, e così cominciò a parlare:

– Maestà, sono stato a girare città per città una gran parte d'Italia, e se ho domandato d'essere ammesso alla sua presenza, è appunto perchè, se la M. V. lo volesse permettere, amerei di farle conoscere lo stato presente d'Italia, quello che ho veduto ed udito parlando con uomini d'ogni paese e d'ogni condizione relativamente alle questioni politiche.

Carlo Alberto, contro suo costume, non esitò un momentino, e subitamente, con una certa premura, rispose:

– Dica pure: mi farà anzi piacere.

Massimo d'Azeglio, raccolse in breve la dolorosissima storia degli infelici moti liberali in Italia dal 14 in poi. Quelle folli ed impossibili imprese, fonti di sì triste conseguenze, erano pur tuttavia un effetto quasi inevitabile delle condizioni in cui era tenuta la patria nostra. Si soffriva dappertutto e l'estremo dei mali spingeva all'estremo rimedio della disperazione. Intanto ciò non faceva che crescere il malessere dei popoli, e dando ragione al prepotere sempre più dell'influenza straniera, se rincrudiva la schiavitù de' cittadini, doveva eziandio umiliare la dignità e l'indipendenza de' principi. Gl'Italiani più assennati mentre avevano capito la fatale inefficacia delle congiure e delle rivolte, non sapevano poi persuadersi come i regnanti della penisola non sentissero di loro onore e di loro decoro ad essere, invece che commissari per l'Austria, liberi e indipendenti reggitori sui loro troni, epperò d'accordo coi loro popoli contro lo straniero. Chi aveva mostrato sempre più sentimento della propria dignità regale e coraggio d'indipendenza era in Italia la stirpe di Savoia; il paese dove fosse unicamente un po' di forza militare era il Piemonte; pensavasi adunque da molti dei liberali che il Re Sabaudo e il Regno Subalpino potessero farsi centro, ispiratori e guida del nuovo partito nazionale, che senza imprudenze, colla forza della verità e della giustizia, potrebbe, non più nell'ombre d'una setta, non più coi tenebrosi raggiri delle congiure, ma apertamente, alla luce del giorno, anche in faccia alla diplomazia, patrocinare la causa e sostenere i diritti d'una terra e d'un popolo conculcati. Ma questa parte generosa, e quasi disse doverosa, la monarchia piemontese doveva assumerla volonterosa, coraggiosamente e sollecita, perchè urgevano le cose, perchè conveniva nell'animo di molti vincere delle diffidenze, perchè codesto soltanto avrebbe disarmato il partito eccessivo, a cui in disperazione di causa avrebbero finito per gettarsi in braccio anche i moderati.

 

Carlo Alberto teneva la faccia rivolta verso la piazza, immobile, freddo, in apparenza incommosso nel suo atteggio; i suoi occhi parevano fissare con attenzione l'oscillare della luce sanguigna de' lampioni traverso la nebbia. Chi sa quali immagini apparivano e passavano in quell'istante innanzi alla mente dell'antico congiurato del ventuno, dell'eroe del Trocadero, di colui che doveva essere fra pochi anni il vinto di Novara e il martire d'Oporto!.. Chi sa se in mezzo a quella nebbia, nell'oscurità di quella fredda mattinata d'inverno non vide egli agitarsi le battaglie che doveva combattere col suo esercito, cura ed amore di tanti suoi anni, non vide sopra quello scombuiamento di sanguinose lotte, aprirsi la nube ed apparirgli in profetica visione, ahi troppo fallace, l'angelo della vittoria recandogli in un raggio di luce, per posarla sul suo fronte pensoso, quella corona di ferro cui non doveva afferrare che tanti anni di poi, suo figlio, il vinto della seconda Custoza!

Ad una parola che Massimo d'Azeglio pronunziò fugacemente, quasi sommesso, come se gli ardesse le labbra passando; alla parola diffidenza, non un muscolo della faccia nè del corpo si riscosse nel Re; ma una lieve nube gli passò sulla fronte. Quando il suo interlocutore fece una pausa nel discorso, Carlo Alberto volse lentamente verso di lui la persona ed il viso, e guardandolo con occhio più vivo e più penetrante che non avesse ancora fatto, disse con accento fermo e posato:

– Ella ha già udito altra volta da me come questa pesante clamide di sovrano non abbia nel mio cuore distrutto le aspirazioni e gli affetti del cittadino; discendente d'una stirpe di principi che non ha mai lasciato intaccare il suo onore nè il suo decoro (e sollevò nobilmente la sua vasta, pallida fronte), io son pronto ad ogni impresa per mantenere intatto contro chiunque, il lustro della mia corona; ma questo medesimo non vorrei porre a cimento patteggiando, quasi alleando la causa del monarcato colle ardenti e feroci passioni che, anelando alla rovina d'ogni ordine stabilito, sobbollono in seno del popolo italiano sotto colore di patriotismo. I principi d'Italia hanno sì ostacolo innanzi a loro il predominio straniero, ma hanno pure minaccia alle loro spalle i pugnali dei settarii e le congiure dei repubblicani. Qui stesso, nel mio Piemonte, serpeggia l'infausto germe e tenta audaci fatti: lo so… Ed Ella, signor cavaliere, lo ignora forse?

Massimo sorrise d'un serio sorriso e crollando fievolmente il capo, rispose:

– No, Maestà, non lo ignoro. Io non fui mai di nessuna società segreta, non ebbi mai mano nè in combriccole, nè in congiure; ma siccome ho passato infanzia e gioventù sempre or qua or là in Italia e tutti mi conoscono e sanno che non sono spia, e perciò nessuno diffida di me, così ho sempre saputo tutto come se fossi un settario, ed anche ora mi dicono tutto… o quasi: e quello che non mi dicono l'indovino. Dirò dunque a V. M. che il compresso furore dei patrioti italiani è molto ed esasperato di questi giorni e che facilissimo è li tragga a nuovi inconsulti, fatalissimi conati; le dico eziandio che qui stesso a Torino vi è un agente segreto di quella Giovane Italia che vuole a costo d'ogni sacrifizio la patria redenta, e che questo tale pronto a qualsiasi audacia è un'anima d'antico eroe, di quelli che per la patria incontrano sorridendo la morte, sia pure sul patibolo, lietissimamente poi sopra un campo di battaglia…

Carlo Alberto lo interruppe.

– Ella conosce costui?

– Sì, Maestà: rispose l'Azeglio senza esitare.

Il Re fece il suo indefinibile sorriso:

– E naturalmente la mia Polizia, che al dire del conte Barranchi sa tutto, ne ignora affatto la esistenza, e lo lascia tranquillamente maneggiare i suoi intrighi.

Massimo fissò il suo limpido sguardo sulla faccia sempre impassibile del Re, e disse lentamente:

– La Polizia lo ha ieri arrestato…

Il volto di Carlo Alberto fu lievemente corso da una espressione di sorpresa.

– Egli era tra quelli che si arrestarono ieri?.. Ah ne indovino il nome vero o supposto. Egli di certo è quel tale che si spaccia per Medoro Bigonci e cui il Duca di Lucca mi ha con tanta sicurezza guarentito innocente.

Il suo sorriso prese un'apparenza d'amarezza che pareva quasi di dispetto.

– Ebben sì, gli è quello: disse con calore l'Azeglio; e l'additarlo a V. M. credo appunto il miglior mezzo per salvarlo.

Carlo Alberto continuò quel suo sorriso e soggiunse dondolando alquanto il capo:

– Eh! per mio ordine stesso tutti quegli arrestati furono posti in libertà… E non contraddirò, nè anche dopo ciò che ho appreso, alla mia prima decisione… Parta da' miei Stati, e tosto; glie lo dica Ella medesima, cavaliere; ecco tutto.

Volse di nuovo la faccia verso i cristalli della finestra e parve occupato da nuova meditazione. Massimo non aveva finito il suo dire e s'apparecchiava a riappiccare il discorso, quando il Re medesimo tornando a voltarsi verso di lui, riprese con una certa vivacità:

– Ella vede bene com'io stesso sia minacciato.

– No, Maestà; rispose calorosamente Massimo. Si chiarisca apertamente amico d'Italia ed avrà l'ossequio, l'adorazione di tutti, anche di quelli che ora le congiurano contro. Credo poterglielo assicurare io sul mio onore. Ma conviene affrettarsi e non esitar più. I momenti sono gravi, gli animi tesi; Papa Gregorio è vecchio e cagionevole; alla sua morte certo, se non prima, qualche gran cosa si prepara; la Romagna andrà in fiamma, insurrezioni scoppieranno in altre parti di questa misera Italia, e si finirà, come sempre, con un'altra occupazione austriaca, un'altra serie di supplizi, d'esilii, un nuovo rincrudimento di tutti i malanni che ci opprimono. Senza vantarmi posso dire che per ora io ho molta influenza sugli uomini influenti in quei paesi e in quel partito. Se io potessi dire loro: «pazientate, aspettate, al momento opportuno Carlo Alberto è con noi, vedete che i suoi atti ce ne sono un'arra di promessa;» credo che da tutti si rinunzierebbe e dappertutto ad ogni velleità di funesti propositi.

Carlo Alberto aveva abbassati la testa e gli sguardi.

– Quanto durerebbero in queste savie idee… (esitò un momento) nella fiducia in me?

– Confesso anch'io che su questo non v'è sicurezza. Entrano di mezzo passioni, interessi di molti generi, che talvolta determinano movimenti non generalmente approvati; bisogna inoltre tener conto eziandio delle tristi condizioni che pesano su quei popoli, dove venendo dall'alto l'arbitrio, la violenza, la corruzione, l'inganno, il sospetto, è naturale che dal basso si opponga il sistema medesimo; dove essendo generale il malessere materiale e morale, senza un solo mezzo ammesso d'ottener nulla di meglio, non si può prevedere fino a qual punto e fino a qual giorno la prudenza e la ragione potranno servir di freno alla disperazione ed al furore. Chi soffre è il solo giudice della gran quistione del non poterne più. Gli uomini son così fatti; e la politica saggia e previdente deve prendere le mosse dallo stato reale delle cose ed accettarlo, se non vuole andare fuori di strada. Una politica più liberale adottata dal Governo Sardo… Oh V. M. mi perdoni…

Carlo Alberto fece un atto di benigno acconsentimento.

– Anzi parli con tutta franchezza.

– Sarebbe, continuò l'Azeglio, una sicura maniera da fare radicarsi le speranze e quietare le impazienze di tutti gl'Italiani. Io questa politica ho avuto l'audacia di quasi prometterla da parte di V. M.: io per cercare appunto di far nuovo argine con un'idea nuova, all'irrompere di quelle disperazioni, ho girato e parlato come le dico: e qualche frutto, malgrado il caso di Rimini, credo averlo cavato. Ora la Maestà Vostra mi dirà se approva o disapprova quel che ho fatto e quel che ho detto.

Tacque ed aspettò la risposta, che la fisonomia del Re gli prometteva non acerba; e Carlo Alberto senza punto dubitare, nè sfuggire lo sguardo dell'interlocutore, ma fissando invece i suoi occhi in quelli dell'Azeglio, disse tranquillo, ma risoluto:

– Faccia sapere a quei signori che stieno in quiete e non si muovano, non essendovi per ora nulla da fare; ma che sieno certi che, presentandosi l'occasione, la mia vita, la vita de' miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito, tutto sarà speso per la causa italiana12.

Il momento, le parole, il preso impegno erano solenni. Massimo d'Azeglio era venuto colla speranza d'un simile successo: i suoi precedenti discorsi col Re, da esso ripetuti a Mario Tiburzio, tutto ciò che aveva appreso di Carlo Alberto, bene lo lusingavano, che non senza grave risultamento sarebbe stato quel colloquio; ma trovandosi ora in faccia ad una sì ferma risoluzione sì fermamente manifestata, con semplicità antica che le accresceva peso e fiducia, il patriota non valse a frenare nè dissimulare la viva e profonda emozione che lo invase. Non potè egli proferir motto per alcuni istanti, quasi in quel mentre si ripetesse entro se stesso le udite parole del Re, per imprimersele nell'animo, per misurarne tutta l'efficacia, per persuadersene della realtà; ma gli sguardi, i lineamenti del volto, la mossa dicevano in lui tutta l'ammirazione e tutto il commovimento che provava. Se si fosse trattato di cosa sua particolare, l'Azeglio non avrebbe avuto mestieri d'altro più per tenersi compiutamente assicurato; ma ora, colà, trattavasi di così importante bisogna e di sì gravi interessi, era egli mandatario, un po' per volontà, un po' per necessità di circostanze, di tanti sofferenti, di tutto un popolo schiavo, e l'impegno assunto dal suo augusto interlocutore era tale che all'autore di Ettore Fieramosca parve necessario, prima di terminare quell'abboccamento, aver ancora dal Re medesimo una conferma di quelle benedette parole. Gli pareva che oltre all'interesse medesimo della cosa, fosse suo dovere l'intendersi bene, non lasciare lì frammezzo il menomo equivoco, chiarir bene che cosa s'aspettava dal sovrano piemontese, per parte del liberalismo italiano, ed a quali patti quindi questo affidasse all'iniziativa di lui la grand'opera della redenzione nazionale, persuaso come fu sempre l'Azeglio che gli equivoci e peggio le sorprese, non fanno altro che danni.

Perciò così pres'egli a dire:

– Maestà, non è uno spediente rettorico nè una vana espressione questa: che io sono così commosso dalla sua veramente eroica risposta da non trovare acconcie parole per manifestare i miei sentimenti… Io la ringrazio dal profondo dell'anima, non già a mio nome, ch'io sono un nulla, ma a nome di tutti gl'Italiani, a nome della patria, per cui la Maestà Vostra chiude l'èra degli sterili tentativi che non approdano ad altro fuorchè a far versare un generoso sangue, ad impoverire il paese de' migliori caratteri ed a rendere più dura l'influenza straniera. Sia benedetta la Maestà Vostra che aggiungerà a quello della sua corona il più vivo splendore che possa illustrare corona di Re: la gloria d'essere il redentore della sua nazione e l'amore del popolo.

 

Carlo Alberto sollevò nobilmente la sua testa dalle pallide guancie e dalla fronte pensosa; nel suo sguardo profondo balenò un raggio di vita novella, di giovenile ardore, di audacia; il sorriso ebbe una franchezza d'espressione che non gli era solita.

Allora l'Azeglio volendo ribadire il chiodo e prendere ancora più precisamente atto delle promesse del Re, pensò ripetere la medesima frase pronunziata da Carlo Alberto, e disse con accento spiccato tenendo i suoi occhi rispettosamente ma francamente fissi su di lui:

– Farò dunque sapere a quei signori

Carlo Alberto lo interruppe facendo un cenno affermativo col capo, risoluto e fermo, che indicava aver capito la ragione per cui Azeglio aveva ripetute quelle parole e confermava che le erano proprio desse ch'egli aveva voluto dire, con tutto il significato che loro si doveva dare.

Quindi si alzò ad accennare che l'udienza era finita. Massimo, alzatosi tosto contemporaneamente, tolse commiato, e stava per partirsi, quando il Re, come volendo suggellare ancora con un atto esteriore e speciale quel solenne impegno che per lui doveva essere più sacro di qualsiasi giuramento, pose le mani sulle spalle dell'Azeglio ed accostò a quelle di lui le sue guancie, prima l'una e poi l'altra. In quell'amplesso poteva dirsi che il monarcato piemontese firmava il patto d'unione colla nazionalità italiana.

Massimo d'Azeglio uscì dal palazzo, come dice egli stesso, con un tumulto nel cuore, sul quale volava ad ali tese una grande e splendida speranza. Uno de' suoi sogni più caramente vagheggiati ed il cui effettuamento, benchè sperato, gli pareva pur tante volte così difficile che quasi impossibile, stava per diventare una realtà. Egli, discendente da una illustre stirpe di devoti alla monarchia, amava quella Casa di Savoia per cui avevano sparso il loro sangue i maggiori suoi; egli, occupato dallo spirito moderno, amava la libertà della patria; e questi due amori che parevano fino allora escludersi e contrastarsi, vedeva finalmente conciliati in quell'alleanza delle ambizioni del trono e delle aspirazioni della nazione di cui era stato simbolo il suo amplesso col re. Certo egli a quel punto non osava credere così vicini i meravigliosi avvenimenti che dovevano mettere in lotta il piccolo regno subalpino coll'impero d'Austria, ma quell'invocato conflitto egli sperava pur tuttavia vederlo prima di scendere nella tomba, e già accarezzava il pensiero di combattere col principe sabaudo quell'invocata guerra13.

Ma ora l'importante e l'urgente era di comunicar tosto a chi si doveva i risultamenti di quel colloquio, perchè senza indugio si troncassero quei tentativi che l'Azeglio non sapeva bene quali avessero ad essere, ma di cui pure aveva sentore come prossimi a scoppiare; conveniva quindi scrivere subito ai capi delle cospirazioni nelle altre città italiane, e trovar modo di vedere e di parlare qui in Torino a Mario Tiburzio. Tornò nella sua cameruccia all'ultimo piano della locanda d'Europa: il giorno non era ancora venuto e la nebbia della strada più folta che mai lo faceva anzi ritardare. Massimo d'Azeglio scrisse anzi tutto un bigliettino a Romualdo di questo tenore: «Ella deve aver modo di trovarmi subito M. T. Bisogna assolutamente che io gli parli il più presto possibile. Venga anche Lei ad accompagnarlo qui da me, chè la non sarà di troppo. Li attendo tutta la mattinata alla mia locanda. Ho parlato al Re. Tutto va bene. M. A.» Mandò la letterina per un garzone all'indirizzo di Romualdo che s'era fatto lasciare da costui, e quindi si pose a scrivere a quelli dei suoi corrispondenti ne' varii luoghi, che poi dovevano comunicare le cose scritte a tutti gli altri. Prima di lasciare quei cotali egli aveva immaginato una cifra d'una fattura affatto estranea a tutte quelle consuete, e ne aveva a ciascuno cui importava, confidato il segreto: questa cifra, che a parer suo era sicurissima e tale da sfidare tutte le induzioni, riusciva però faticosa molto a comporsi; e quindi tra per la ponderazione d'ogni parola che egli usava, trattandosi di cosa tanto rilevante, tra per la difficoltà materiale della scrittura, Massimo impiegò nella compilazione di quella lettera parecchie ore.

Aveva appena finito, quando un picchio all'uscio lo avvisò che qualcuno voleva entrare.

– Avanti! disse Massimo vivamente volgendosi verso la porta.

L'uscio si aprì e comparve un cameriere.

– Due signori domandano di Lei, e dicono che Ella li aspetta.

– Vengano vengano, esclamò l'Azeglio con premura, ed alzandosi dal tavolino mosse loro all'incontro.

Il cameriere si tolse di mezzo, e due giovani entrarono. Erano Romualdo e Mario: ma il primo aveva sulla faccia serena tutta la fiducia, la letizia, quasi, che le poche ma incoraggianti parole del biglietto dell'Azeglio gli avevano ispirato; parole che erano per lui tanto più preziose e di polso in quanto che venivano da quell'uomo: Mario invece aveva sulla sua fisonomia rabbuiata un'espressione di scontentezza, di amaro abbattimento, di quasi rabbioso dolore.

Il nobile patriota fece entrare i due giovani, chiuse accuratamente la porta, e fattili sedere, cominciò senz'altro il colloquio entrando di botto nel bel mezzo dell'argomento.

12Parole testuali di Carlo Alberto, quali ce le ha conservate Massimo d'Azeglio ne' suoi Ricordi. Superfluo il dire che in questo dialogo io mi sono strettamente attenuto a quanto ce ne lasciò scritto l'Azeglio medesimo.
13Nei suoi Ricordi Massimo d'Azeglio ci lascia la confidenza che in codesto colloquio non erasi tuttavia dileguato dal suo animo ogni sospetto verso la creduta duplicità di Carlo Alberto; ma siccome la compiuta fiducia venne poscia in lui, e d'altronde Massimo dopo quell'abboccamento operò sempre come se questa fiducia l'avesse, credo potere coi privilegi accordati allo scrittore di romanzi antivenire d'alquanto questo fatto, e mostrare fin da quel momento l'Azeglio persuaso della sincerità del Re.