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La plebe, parte III

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CAPITOLO XVI

Il marchese padre aveva ordinato, ed alla sua autorità paterna egli sapeva ottenere e conveniva dare obbedienza. Sua moglie e suo figlio avevano tentato invano le prove d'una opposizione: avevano dovuto acconsentire a che nella festa da ballo di quella sera il marchese si facesse presentare il giovane insultato da Ettore e glie ne desse col suo modo di trattarlo una riparazione, mentre Ettore medesimo avrebbe pronunciate alcune parole che, senza farlo esplicitamente, avrebbero contenuta una implicita ritrattazione, un rammarico di ciò ch'era successo. Codesto pareva al giovane marchese assai grave, troppo grave per lui, e mentre si sentiva costretto a curvarsi al comando del padre, dentro sè ne accresceva l'astiosa animosità contro Francesco e si riprometteva di ripagarsene su di lui alla prima occasione, e se quest'occasione avesse tardato, era egli ben risoluto a farla nascere quanto prima.

La marchesa da canto suo aveva protestato ed era decisa che nulla mai l'avrebbe indotta a dire una parola, a far pure un atto che potesse parere un abbassarsi verso quel borghesuccio che a suo senno aveva tutti i torti e che era una debolezza imperdonabile non trattare, come si meritava, con quel disprezzo che solo conveniva a questa razza di gente.

Nel vedere avanzarsi verso di lui quel gruppo di persone, fra cui la faccia ironica del suo nemico, Francesco, lasciato solo colà dove si trovava dalla baronessa, la quale era mossa di alcuni passi incontro ai nuovi arrivanti, si era ridrizzato di meglio della persona, aveva sollevato la sua fronte sincera e sicura ed aveva rivolta la faccia aperta e risoluta senza mostre di millanteria verso il marchesino, come per significare ch'egli era là pronto a qualsiasi evento, e che l'avrebbero trovato qual si sarebbe voluto, o accondiscendente ad una degna conciliazione, o fermo avversario deciso a rivendicare l'onor suo; ma i suoi occhi come potevano resistere alla malìa che li attraeva con tanta forza sui leggiadri lineamenti dell'amata fanciulla? Francesco, egli pure, da parte sua, aveva intima coscienza che infiniti ostacoli, quasi insuperabili, si opponevano al felice successo dell'amor suo; ma pure nell'audacia della sua giovinezza, nell'impeto della sua passione gli pareva sentire una forza a tutto superiore, tale che potrebbe e dovrebbe ogni difficoltà anche gravissima, vincere e soprammontare. Egli non ragionava più; amava ed avea bisogno di vedere l'oggetto amato: tutto il resto del mondo non riteneva più per lui che un interesse ed un valor secondario, subordinato e dipendente da quel primo, immenso, unico affetto suo. Il sublime, temerario, folle egoismo dell'amore, non gli lasciava scorger più nell'universo che la donna adorata e sè adorante, e gl'intimi trasporti dell'animo suo, e le sragionate speranze del suo cuore. Sperava. Che cosa? Non sapeva precisamente; ma un tanto amore, gli pareva un'impossibilità, una cosa assurda nella natura che avesse ad urtarsi contro un fato inesorabile. Era una forza cotanta, a suo senno, che doveva trionfare; aspettava dalla Provvidenza anche un miracolo per quest'effetto, ed anche a prezzo di non so qual cataclisma la natura e il Cielo avevano il debito di riunire quei due esseri, secondo il suo ambizioso platonismo, destinati ab eterno alla sublime immedesimazione dell'amore.

Il patrio affetto cui in esso avevano suscitato la virtù dell'indole e la generosità degl'istinti, avevano nutrito la buona direzione degli studi, la domestica frequenza con amici ardenti di patriottismo; il patrio affetto era dominato anch'esso dalla prepotente passione; aveva dato il nome all'arrischiata congiura a cui partecipavano gli amici suoi, senza più rendersi conto ben esatto della gravità della cosa, senza preciso desiderio e cognizione dello scopo, dicendosi in segreto, come ragione la più impellente, che la rivoluzione politica sarebbe stata a lui un ausiliario potentissimo per abbattere quelle barbarie contro cui si urtava nel suo slanciarsi verso la donna dell'amor suo. Mentre Mario Tiburzio traverso i disagi, i pericoli, le ansietà, i travagli d'ogni fatta della vita di congiurato, per mezzo il sangue e gli orrori d'una lotta disperatamente temeraria, proseguiva la sublime chimera d'una nuova patria libera e grande, d'una nuova Italia risorta a spander luce di civiltà e dare leggi di progresso pel mondo; mentre Romualdo e Selva, abbagliati ancor essi da questo sublime miraggio che l'emigrato romano faceva specchieggiare agli occhi della loro mente, lo seguivano animosamente senza alcuno interesse o proposito personale; mentre Gian-Luigi in un parossismo direi d'immensa ambiziosa cupidigia delle gioie del mondo voleva infrangere la società esistente per predarvi egli nello sfacelo onori, grandezze, fortune, primato; mentre Maurilio, più pensatore che uomo d'azione, sognava una graduale riforma che in maggior proporzione introducesse la giustizia nella distribuzione dei beni terreni e dei vantaggi sociali sì materiali che morali e intellettivi; Francesco Benda, egli, sarebbe camminato traverso le rovine e le fiamme del mondo intiero per arrivare al possesso di lei che amava.

Or dunque adesso ch'ella gli veniva innanzi nell'atmosfera di luce, di suoni e di profumi che era la festa da ballo della baronessa, il giovane amante beando della celestiale vista di lei gli occhi desiosi, non potè di botto a nulla pensare più che quella angelica creatura non fosse. Ogni espressione di fierezza e disdegno dal volto suo sparì: gli occhi suoi, le labbra, il tremar delle palpebre, l'impallidir delle guancie, si fusero, per così dire, in una ineffabil tenerezza che era tutto un omaggio d'amore.

Uno sguardo di Virginia – un solo, ma che sguardo! – lo compensò ad un tratto di tutta la rabbia, di tutto il furore che lo aveva dovuto corrodere la notte precedente per l'insulto del marchesino, la giornata trascorsa per la prepotenza dell'arresto. Sotto l'influsso di quello sguardo sentì innanzi a sè stesso accrescersi il suo valore; gli parve di ingrandire e superare il livello comune di tutti quei blasonati e titolati scioccamente superbi che gli stavano attorno; quello sguardo di lei lo sollevava sino alla sfera superiore in cui essa era, indegni tutti gli altri di arrivarci.

Il marchese di Baldissero, scambiati i convenevoli colla padrona di casa, le disse di poi con quel tono di naturale distinzione, che era uno dei pregi del vecchio nobile:

– Costì, se non isbaglio, è l'avvocato Benda. Desidererei molto ch'egli mi fosse presentato; e se quel giovane non ci si rifiuta, vorrebb'Ella, baronessa, avere codesta compiacenza?

La baronessa acconsentì molto volonterosa e si accostò senza indugio a Francesco: in tutta la sala si fece un movimento d'attenzione vivissimo; le conversazioni furono sospese quasi di comun accordo, tutte le faccie si volsero a quel punto del salone dove si trovavano a pochi passi di distanza, in faccia l'un dell'altro, il marchesino di Baldissero presso suo padre e l'avvocato Benda, quasi isolato dal resto della gente. Tutti avevano compreso che essendo insieme colà quei due individui fra cui tanta ragione vi era di urto e di lotta, alcuna cosa avrebbe avuto luogo, ed ora argomentavano che questo qualche cosa sarebbe tosto intravvenuto. Uno spazio vuoto fu lasciato intorno ai personaggi di quella scena che stava per succedere, come campo alla loro azione; e il fruscio della veste della baronessa che camminava verso Francesco, fu il solo rumore che in quel momento si udisse in quella sala.

La padrona di casa parlò a mezza voce, ma nel silenzio che s'era fatto le sue parole furono udite da tutti.

– Signor avvocato, diss'ella a Francesco, voglio presentarla a S. E. il marchese di Baldissero.

Francesco s'inchinò leggermente. Il cuore gli batteva un pochino; ma nello sguardo di Virginia aveva egli attinto tutta la sicurezza onde aveva bisogno in quell'istante sotto i numerosi, poco a lui simpatici sguardi di tutti quei superbi spettatori di tal scena.

– È un onore per me: rispos'egli con una freddezza non ostile ma spiccata ed un dignitoso riserbo: e ne la ringrazio vivamente.

La baronessa si trasse un pochino da parte per iscoprire al giovane la vista del marchese, e fece un atto, come ad invitare Francesco ad avanzarsi. Fra il giovane borghese e il vecchio nobile era la distanza di sei passi; ma quel piccolo spazio vuoto in mezzo alla folla era in tal momento come un'arena in cui venissero a cimentarsi con armi cortesi i rappresentanti di due classi, di due principii avversarii. Benda ebbe il fugace sentimento di codesta condizione di cose, e pensò rattamente, che in quel punto non era solamente l'onor suo e il suo decoro cui si trattava di sostenere, ma quelli della sua classe, del partito liberale a cui apparteneva. Sviò lo sguardo dalla bellezza di Virginia, s'impose di non vederla più per quel momento, e fissò i suoi sereni e limpidi occhi azzurri sulla nobile faccia del marchese.

Questi aveva sulle labbra una lieve mossa che non era un sorriso, ma vi si accostava e produceva l'effetto d'una preveniente gentilezza, aveva nel contegno un'aspettazione che era un incoraggiamento; la marchesa, ella, si era volta in là con un'evidente ostentazione, ed affettava volgere lo sguardo traverso le lenti dell'occhialino che teneva in mano con un'impertinenza supremamente elegante e la sua attenzione a tutt'altro oggetto; il marchesino Ettore stava di un passo più indietro di suo padre, e la contrarietà e il contrasto ch'ei provava nel suo interno tra il dispetto e la soggezione al comando paterno si traducevano nella non dissimulata ironia del suo sogghigno a fior di labbra; Virginia coraggiosamente guardava a fronte levata Francesco.

Il giovane capì che a lui, per molte ragioni, e non ce ne fosse stata altra, per quella dell'età, toccava avanzarsi verso il marchese. Si mosse lentamente; gli parve a quel punto che i suoi piedi fossero di piombo, cotanto aderivano al pavimento e ci aveva fatica a staccarneli; fece tre passi e s'inchinò di nuovo innanzi all'imponente figura del vecchio ministro di Stato.

 

– Signor marchese, disse la baronessa in mezzo al silenzio universale, accennando a Francesco, le presento l'avvocato Benda.

Poscia, come per ammonire indirettamente i suoi invitati che era un'offesa alla voluta discretezza il prestare così curiosa attenzione a quella scena, la padrona di casa si rivolse alla moglie del marchese che ostentava appunto una disdegnosa noncuranza, e si mise a parlare con essa di quelle cose indifferenti di cui si può parlare fra due signore ad un ballo. Ma l'esempio di queste due donne non fu imitato da nessuno; e il dialogo che successe fra il padre di Ettore e il figliuolo del fabbricante di ferro ebbe luogo in mezzo alle labbra mute ed alle orecchie tese di tutti gli altri.

Il marchese di Baldissero all'inchinevole saluto di Francesco aveva risposto con un cenno del capo lieve sì, ma pieno pur tuttavia di gentilezza cortese nella sua dignità; dopo i detti della baronessa, col tono ordinario di voce d'una conversazione amichevole, di cui si lascia che chicchessia oda le parole, diss'egli a sua volta:

– Sono io che ho desiderato conoscerla, avvocato. Ella già conosceva mia moglie e mia nipote; quest'oggi stesso ebbi io il vantaggio di fare la conoscenza di suo padre; conveniva bene che anche fra noi intravvenisse un'attinenza che voglio sperare, a dispetto di certo spiacevole incidente, ch'io sono primo a rimpiangere, possa divenire amichevole.

La dignitosa imponenza con cui queste parole erano dette, l'accento benevolo benchè improntato d'una certa superiorità che pareva così naturale da non far venir manco in capo il pensiero d'inalberarcisi, la nobile e bella fisionomia di quel vecchio, l'autorità del grado medesima fecero effetto sull'animo di Francesco. Egli fu preso dalle squisite maniere di quel vero gentiluomo; sentì la sua ostilità fondersi per così dire innanzi a quella veneranda figura che con inaspettata generosità di procedere veniva primo a tentare, quasi a domandare al suo orgoglio offeso una conciliazione; la stessa fugace allusione a ciò che era successo fra lui e il marchesino gli parve accennata con tanto tatto e con tanta delicatezza che il suo amor proprio ci si trovava risparmiato del tutto. Le cose medesime, secondo le disposizioni dell'animo nostro, possono fare a volta a volta la più diversa impressione. Lungo tutto il giorno lo sdegno che durava del ricevuto oltraggio, che anzi erasi inasprito della rabbia per la sofferta cattura e prigionia, aveva tenuto l'animo di Francesco in una irritazione per cui egli pareva sarebbe stato più acconcio a respingere che ad accettar per buono ogni passo di conciliazione fatto da parte dei suoi avversari, ma poscia la tenerezza medesima provata dal suo cuore nel riabbracciare i suoi cari e nel vederli così felici di riabbracciarlo aveva incominciato a mitigare alquanto l'eccitamento sdegnoso del suo animo; non era rimasta senza effetto la narrazione che gli aveva fatto suo padre del come il marchese lo avesse accolto, del come premurosamente si fosse in beneficio loro adoperato; maggior effetto gli aveva prodotto il sapere dalla sorella le inquietudini e i benigni diportamenti di Virginia a riguardo di lui; effetto anche maggiore gli veniva facendo, a seconda che il giorno avanzava, il pensiero che fra poche ore egli avrebbe avuto il supremo bene di vederla. Ora, in presenza del vecchio gentiluomo, oltre l'influsso dalla dignitosa nobiltà di quest'esso esercitato, Francesco sentiva altresì quello efficacissimo degli sguardi della celeste creatura che pareva colà raggiare nella sua bellezza la mite luce che fa corona all'angelo del perdono. Per tutte codeste ragioni le parole del marchese a Francesco, che in quel momento non vedeva il sogghigno contratto di Ettore, tornarono come le più generose, le più cordiali, le più riparatrici ch'egli potesse desiderare. S'inchinò più profondamente di quanto non avesse fatto per l'innanzi e rispose con voce non esente da emozione:

– La ringrazio, signor marchese, di questo fatto e di queste parole; la ringrazio eziandio dell'essersi adoperato per me affine di restituirmi così tosto alla mia famiglia, e di ciò la ringrazio più vivamente per mio padre e per mia madre a cui l'essere privi del figliuolo è un incomportabile dolore.

Il padre di Ettore lo interruppe con un vero sorriso di benevolenza:

– Non mi ringrazi tanto chè non ho fatto fuor di ciò che mi pareva dover fare… Ma lasciamo stare tutto ciò che è passato. Desidero… (fece una piccola pausa e poi soggiunse con inesprimibile seduzione di accento) e la prego anche Lei a voler fare che questo rincrescevole passato sia come se non avesse avuto luogo. Mio figlio è animato dai miei medesimi sentimenti, e spero che quando ci saremo stretta la destra, come uomini che sono degni di stimarsi a vicenda, non ci saranno più qui che dei conoscenti… (parve esitare un momentino e poi finì colla parola che sembrava aver trovato dapprima un intoppo sulle sue labbra) degli amici.

E così detto porse egli la mano al giovane avvocato che la prese con rispettosa deferenza. Il marchese allora si volse a suo figlio con uno sguardo che era un invito e insieme un comando. Ettore, le labbra serrate, appena se dissimulato quel suo maligno sorriso, si avanzò d'un passo e toccò colla punta delle dita quelle del suo rivale. I due giovani non iscambiarono una parola, fecero un piccolo e secco cenno del capo, e gli occhi loro si rimandarono uno sguardo tutt'altro che benevolo. Esso diceva chiaramente che fra essi tutto non era finito.

Virginia vide questo sguardo, prese pel braccio suo cugino e lo trasse con sè in altra stanza; il marchese con un ultimo saluto aveva dato congedo a Francesco e si era volto a parlare con altri; la marchesa aveva affettato sempre di non prestare la menoma attenzione a quanto era successo ed aveva schivato d'incontrare co' suoi gli sguardi del giovane perchè egli non avesse da salutarla.

Francesco seguitò con uno sguardo desioso lo splendore della beltà di Virginia che si allontanava; e quando essa fu tolta alla sua vista, gli parve che a dispetto dell'abbagliante luce di quell'atmosfera, nell'animo suo si facessero le tenebre: il suono dell'allegra musica, il susurro delle conversazioni che avevano ripreso più animate dopo l'avvenuto incidente, il confuso rumore della festa gli erano fastidiosi quanto mai. Provava un tal complesso di sentimenti diversi e pugnaci, che un imperioso bisogno glie ne venne d'esser solo a seco stesso divisarli. Passò assorto in se stesso in mezzo al poco benigno riserbo degli uomini titolati che lo consideravan colà dentro un intruso e che parlavano senza troppa simpatia di lui e della scena avvenuta; passò indifferente ai più benigni sguardi del sesso gentile, presso cui patrocinavano eloquentemente in favore del giovane la non comune di lui bellezza, l'eleganza e l'abilità di danzatore. Attraversò le sale in cui si ballava, passò quelle da giuoco e di lettura, andò fino al fondo di quel vasto e signorile appartamento a ripararsi in un gabinetto affatto riposto, dove per sua fortuna non c'era anima viva.

Seguiamolo colà. Nella folla della festa durano tuttavia i parlari e i commenti sul fatto testè avvenuto e sulla persona del giovane borghese; e questi commenti non sono ispirati dalla maggior simpatia per lui. Trovano i più che il marchese di Baldissero è stato fin troppo generoso, ha avuto un'abbondanza soverchia di bontà e di condiscendenza per quel da nulla di cui non occorreva darsi altro pensiero: se non si fosse trattato d'un uomo di tanta autorità quale il marchese, ne avrebbero addirittura condannato il procedere, come una debolezza. Ma questi discorsi vanno via via perdendosi, come si perde un suono in mezzo a mille altri suoni, ancorchè per un momento abbia dominato sugli altri; e fra un quarto d'ora di codesto incidente non si parlerà più.

Non così presto invece ha da cessare l'incomposto, indefinito tumulto nell'animo di Francesco.

Quel gabinetto in cui s'è ridotto, è per le interposte stanze così segregato dal vivo della festa, che il rumore di questa appena vi giunge con qualche ondata più sonora dei ripieni dell'orchestra, come un'eco lontana. Qui si par passati in altro mondo, tanto diverso è l'ambiente; appetto all'abbagliante luce delle sale, il mite chiarore della lampada che pende dal soffitto travelata in un cestellino di fiori sembra un'oscurità; dopo l'afa, il frastuono e l'agitazione del luogo dove ferve le danza, qua vi par di trovare una fresca atmosfera, il silenzio e quasi la pace della solitudine. Francesco si buttò a sedere sopra un sofà ed appoggiando allo schienale il suo capo confuso, chiuse gli occhi e stette lì immobile, come se volesse assorbire e far penetrare in sè, a calmare l'interna agitazione dei pensieri e degli affetti, quella tranquillità onde qui era circondato.

Come gli aveva sorriso il potente zio di Virginia! Come gli aveva stretta la mano! Nel discorso di lui non c'erano soltanto parole, c'era la verità di un sentimento pieno di simpatia. Quella mano che gli era stata pôrta non poteva ella tirarlo su fino al livello di Virginia? Sì che poteva, purchè volesse. E perchè non avrebbe voluto? Egli avrebbe fatto di guisa che la stima e la benevolenza mostrategli dal marchese avrebbero dovuto radicarsi più profonde in lui e crescere più vigorose. Forza gliene avrebbe data e merito la immensità dell'amor suo. Gli venne a sorridere più abbacinante che mai la follia d'una speranza. Ma in mezzo alle vaghe immagini compiacentemente accarezzate dalla fantasia venne a far capolino più precisa di tutte la pallida, ostile figura di Ettore. Qui era l'ostacolo. Ebbene che importa? Francesco si sentiva tanto vigore da passarvi sopra, e delle folate di rabbia contro quel suo nemico venivano a suscitargli tratto tratto una smania di cimentarsi con esso e schiacciarlo. Ma predominavano gl'impulsi della tenerezza e dell'affetto. Lungo tempo e' cullò la sua fantasia colle più dolci visioni di un impossibile romanzo. Superiore ad ogni altro sentimento in lui traboccava l'amore non manifestato mai che cogli sguardi, non confidato ancora mai. Aveva bisogno di un'espansione: aprì gli occhi e vide in un angolo un pianoforte aperto, i cui tasti parevano fargli invito; si alzò dal sofà e venne a porsi sul sediolo innanzi alla tastiera.

Avvenne allora a lui quello che non molto tempo prima abbiamo visto essere avvenuto a Virginia sola nella sua stanza colla mente occupata dai più varii e combattuti pensieri: le sue mani cominciarono a correre sull'avorio de' tasti non guidate da un'idea, non mosse da una volontà precisa, ma frementi di contenuta passione, e suoni rotti ed incerti, accordi tormentati urtantisi in toni diversi sorsero, s'incrociarono, si susseguirono, si confusero insieme sotto le agili dita. Pareva che l'interno sentimento andasse cercando in mezzo a quel turbinio di note la sua giusta espressione, che suscitasse un caos di frasi armoniche affine di sceverarne poi per entro la creazione della melodia che gli convenisse; oppure che la soverchia foga delle idee molteplici che s'aggruppavano e si spingevano nella mente del suonatore impedisse l'uscita ad un concetto chiaro e preciso. Ma poscia questo tumulto venne via via calmandosi; nel caos cominciò ad informarsi, e spiccare la individualità della melodia, e questa, rivelandosi più e più ad ogni misura, apparve una mesta, tenera, soave che noi avremmo potuto riconoscere, quella medesima che si era sollevata come un conforto, come una rassegnazione, come un inno d'amore insieme, come una speranza eziandio dal pianoforte di Virginia: la dernière pensée de Weber.

Meraviglioso accordo di quelle due anime ad un medesimo affetto temperate! Di ambedue era la prediletta la dolcezza di quella melanconica melodia; per ambidue era essa la voce misteriosa e il simbolico linguaggio onde potevan dare espressione e sfogo al vago e sublime trasporto di interni indefinibili affetti, cui per tradurre e far manifesti è troppo grossolana la forma della nostra parola.

Francesco suonò sommessamente, per sè solo, ma con un'anima, con una efficacia, con una ispirazione, quali forse non aveva potuto aver mai. Ci mise, in quei suoni, tutto di sè: i tumulti del suo cuore, le dolcezze delle sue fantasticaggini, il fascino delle lusinghiere speranze. Sotto le sue mani le note palpitavano, fremevano, avevano la risuonanza della voce umana, erano sature di passione, componevano nel loro complesso una individualità, che, senza forme precise, pur si sarebbe fatta avvertire all'animo di chi ascoltasse, colla ineffabile simpatia d'un'accolta stupenda di sublimi sensi. Colle medesime note, secondo l'accento, quella melodia scambiava a volta a volta significazione ed effetti: era un soave inno d'amore, la eterna canzone della giovinezza eternamente rinnovantesi nel fecondo universo; era una preghiera, un trasporto, un'aspirazione al mondo superiore dello spirito, un salmo d'adorazione, un cantico di gioia purissima e grave, un indovinamento, una speranza d'un lucente mondo avvenire; era tutto quello che può concepire, immaginare, presentire di più sublime, la più nobile parte dell'intelletto umano.

 

Oh come in quell'istante il cuore amoroso del giovane si fondeva nella grandezza del suo affetto! Tutto si sentiva invasato dal nume. La sua ispirazione, il suo genio era amore. Chiusi gli occhi, egli vedeva starglisi dinanzi splendida, sorridente, pietosa, partecipante del divino trasporto della sua emozione, egli vedeva lei, Virginia, la donna dell'amor suo, dell'amore intimo, supremo, invariabile della sua vita; e intorno a lei, a quella pura bellezza, a quel capo di sì sublime aureola cinto, come altrettanti amorini facentile omaggio, come tutti i sospiri e i pensieri di lui che avessero preso corpo in luminose faville, danzavano le note della melodia sempre più dolce, sempre più commossa.

Era un'intima esaltazione di tutto l'esser suo nell'incomparabile affetto; mai non aveva egli amato cotanto, mai non aveva sentita in sè talmente la potenza dell'amor suo. Foss'ella stata presente, gli pareva che avrebbe avuto l'audacia di avvolgerla colle sue braccia; no, di caderle ai piedi, e dirle: «T'amo più che la vita dell'anima mia.» Il suo spirito nell'ineffabile trasporto avrebbe avuto l'autorità e la possa di afferrare con appassionato amplesso lo spirito di lei e trarlo seco per lieto consenso nell'Eden inesprimibile degli amorosi sogni, del completo abbandono di due anime in una tenerezza. La sua mente eccitata gli sembrò potesse dare all'intenso desiderio la forza di evocare viva e reale quell'angelica creatura, di cui nella fantasia i chiusi occhi suoi vedevano la immagine adorata. Tutte le potenze del suo animo si concentrarono nella tensione di uno sforzo di volontà che fu doloroso come l'angoscia del punto che precede la morte; il cuore sembrò presso a scoppiare, il cervello fu corso da pungenti fitte come se ferite da spille roventi, le tempia gli tenzonarono, provò una soffocazione, una scossa universale, un tremito in tutto l'essere. Una voce interna gli gridò: «Essa è qua.» Aprì gli occhi, balzò in sussulto, mandò un'esclamazione soffocata: una suprema gioia balenò dai suoi occhi. Il sortilegio della immensa passione aveva ottenuto il suo effetto miracoloso: l'evocazione era riuscita: gli stava dinanzi la divina fanciulla di cui l'immagine aveva egli fino allora vagheggiata nel suo cervello.

Virginia, come abbiam visto, aveva preso pel braccio suo cugino e condottolo seco in altra sala da quella in cui aveva avuto luogo l'abboccamento fra i Baldissero e Francesco; ella aveva capito che la cosa più urgente da farsi era togliere di presenza l'uno dell'altro i due avversarii, perchè troppo era facile che il menomo buffo d'un'occasione, fors'anco cercata, facesse levar la fiamma dell'ira mal sopita in Ettore, e probabilmente in tuttedue. La fanciulla capì eziandio che a lei non toccava parlar più in nessun modo di quello che era intravvenuto, e pure era suo vivo desiderio e suo scopo chiarirsi delle disposizioni d'animo del cugino ed esercitare ogni suo possibile influsso su di lui per dissuaderlo da violenti partiti.

– Vuoi tu che danziamo questa contraddanza per cui già le coppie si mettono a posto? domandò Ettore.

– Danziamola pure: rispose Virginia che pareva cercare un'ispirazione contemplando il mazzolino di fiori tenuto dalla sua piccola mano.

Presero posto nel salone ed aspettarono che la musica desse loro cenno e misura alla danza. Ettore faceva scorrere il suo sguardo armato dell'occhialetto inforcato sul naso sulle beltà più o meno artifiziate delle dame presenti: Virginia continuava a mirare le viole mammole e le camelie bianche del suo mazzo; non sapevano che cosa dirsi e pareva che ciascuno cercasse un argomento di discorso che non potesse trovare.

Fu Ettore che ruppe il silenzio.

– Guarda che faccia preoccupata ed inquieta è quella della Staffarda: diss'egli inchinandosi innanzi alla sua compagna nella classica riverenza che incomincia ogni contraddanza; è quello un volto da portare ad una festa da ballo?

Si volse dall'altra parte a ripetere l'inchino alla dama che aveva alla sua sinistra.

– Povera Candida! disse Virginia, quand'ebbe fatto a sua volta le usuali riverenze: e' pare che abbia di molti dispiaceri.

– Bah! non compatirla, Virginia, ch'ella non merita cotanto beneficio qual'è la tua pietà.

– Perchè? domandò la fanciulla.

La legge inesorabile della danza li obbligò ad interrompere il colloquio per un avant-deux che fu seguito da una demi-chaine, da una demi-queue de chat e che so io. Quando ritornarono al loro posto ed ebbero innanzi a sè alcune battute di riposo, Ettore, a cui pareva tornasse eziandio il non lasciar cascare senza risposta il perchè di sua cugina, riprese:

– Perchè la Staffarda non merita la tua compassione? Perchè ha tutti i torti, e se paga il fio di tormenti parecchi, la non ne deve accagionare che un suo indegno ed ignobile attaccamento. Suo marito la rovina, gli è vero: ma il suo amante, oltre che rovinarla ancor egli, se son vere le voci che corrono, la disonora.

Virginia fissò in volto a suo cugino un superbo sguardo di virtù, di franchezza, di elevata espressione di sentimento.

– Certo, avere un amante è una colpa che dovrebbe sempre far disonore ad una donna maritata; ma nel mondo chi ha il diritto di lanciare la prima pietra a questa colpevole?

Ettore scosse la testa e fece un sorriso che significava:

– Eh via! non gli è codesto.

Ma non potè rispondere altrimenti perchè un bouquet-de-dames venne a portargli via la sua compagna. Quando, terminata la figura, Virginia fu restituita al suo fianco per un altro intervallo di riposo, il marchesino ripigliò a dire:

– Oh il mondo, mia cara, non è così severamente puritano come tu mostri di credere. Conoscono tutti troppo bene la parabola per pensare a lanciare sopra una donna che si diverte il menomo sassolino. Ma vi è façon e façon. Si capisce una passione, si perdona un capriccio, ma fra uguali; non si può trattenere la riprovazione innanzi ad un degradarsi.

La fanciulla rimbeccò allora con vivacità:

– La colpa adunque, secondo voi altri, non consiste nel fatto medesimo, sibbene in una circostanza accessoria. Poco monta il far male, purchè si scelga a dovere il complice di questo male…

– Codesto non è niente affatto un accessorio, mia cara. La scelta che una donna fa del suo amante è una rivelazione del suo gusto e della sua natura. Accordando il suo cuore ad un uomo di bassa estrazione, ella manifesta pur troppo un animo attemperato a quella misura.

Così dicendo, il marchesino pesava sulle parole, senz'alcuna affettazione però, e il suo sguardo piombava diretto e fisso sulla cugina; questa ne provò dapprima una specie di turbamento che minacciò mandarle alle guancie un rossore accusatore; ma la purezza e la nobiltà del suo affetto, la coscienza della dignità del medesimo vinsero sollecitamente quella prima impressione; sollevò essa la fronte sicura e rispose allo sguardo di Ettore con un suo limpido, sereno, tranquillo. I due cugini, traverso il colloquio in apparenza indifferente, erano venuti sopra un ardente terreno e sotto colore dell'avventura di Candida trattavano e discutevano di cosa che più direttamente e più da vicino li riguardava.