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La plebe, parte III

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S'interruppe di nuovo, preso da una certa commozione che diede ancora un altro avviamento al corso dei suoi pensieri.

– Povera Aurora!.. Avremmo dovuto vegliar meglio su di te. Così ti avremmo avanzati tanti dolori… e l'immatura morte fors'anco… ed a me il rimorso… Ma fummo incauti dapprima, troppo crudeli – forse – di poi… Oh perchè quell'uomo non era egli della nostra casta?.. Lo sciagurato! Com'ei ci seppe ingannar bene!.. Oh tutti questi rivoluzionarii sono infinti e traditori. Un uomo da nulla, il figliuolo d'uno scrivano osò stare alla pari con noi e rapirci la più preziosa gemma della famiglia… Egli pure aveva ingegno; oh sì, moltissimo ne aveva. Era poeta. Quando parlava della sua utopia d'un'Italia libera dallo straniero, risorta a nuova grandezza, mercè l'unione delle sue varie membra sotto lo scettro di Casa Savoia vi sapeva entrare con tanta efficacia nell'animo che ognuno ne sarebbe rimasto scosso. Io, giovane allora, lo fui; perfino mio padre esitò un momento. Quando quel demonio tentatore gli espose dinanzi il quadro d'un regime rappresentativo in Italia in cui noi potessimo e dovessimo sostenere la parte che tiene con tanto lustro ed effetto l'aristocrazia in Inghilterra, mio padre stesso fu sovraccolto e non isdegnò fermare su tal concetto il suo pensiero. Ma lo spirito pratico e fermo di mio padre non tardò a vedere che l'impiantare il sistema inglese in Italia, con altri costumi, con altre tradizioni, era impossibile, e il crederlo una illusione. Ponendo le mani in quella congiura l'aristocrazia non avrebbe fatto che un marché de dupe; perchè o la congiura falliva e chi ci aveva da perdere maggiormente erano i nobili compromessi che ci ponevano in repentaglio la loro fama, il nome, la posizione, le ricchezze: o riusciva, e noi non avremmo fatto altro, introducendo forme liberali nel Governo, dando la spinta al sentimento popolare colla guerra allo straniero, che mettere in mano della borghesia procacciante lo strumento per soprammontarci… E molti di noi – troppi – si diedero in preda all'illusione e credettero potere scatenar l'idra e vincere con essa il monarcato assoluto e il dominio straniero, due forze potenti, e quell'idra, quand'anche vittoriosa, dominarla poi!..

Fece una pausa ed era evidente, chi l'avesse visto, che la sua mente, così agitata da varie impressioni, ora s'affondava sempre più in una grave meditazione.

– L'Inghilterra, riprese egli a dir seco stesso, è quella che possiede l'aristocrazia più potente, più benemerita e fondata su più salda ed incrollabil base. Sul continente la monarchia, distruggendo il feudalismo colla forza, appoggiandosi sul popolo, ha fatto di noi poco più che cortigiani soltanto. Una Camera di Pari ci rialzerebbe i caratteri, l'autorità e le fronti.

Sorrise, poi tentennò il capo e fece un gesto colla mano, come per allontanare da sè la follia di quel pensiero.

– Eh via! soggiunse. Noi siamo oramai incastrati a questa monarchia tal quale essa è. Conviene vivere con essa della sua vita presente. Una modificazione nella medesima chi sa dire le conseguenze che può avere? Non sarebbe egli aprirvi dentro una breccia? E traverso questa, per quanto stretta, passerebbe senza fallo oggidì lo spirito sovvertitore moderno. Ma l'aristocrazia inglese ha un suo metodo per tenersi sempre in prima fila in quella vita di pubblicità e in quella lotta di intelligenze e d'ambizioni; ed è di studiar molto essa stessa, e poi di chiamare a sè, d'invitare, accogliere e far suoi tutti i più notevoli ingegni che dieno prova efficace di sè nelle classi inferiori. Così la si rifornisce, per così dire, di nuovo sangue, la si rinforza di nuovi campioni e li toglie a' suoi nemici che se ne potrebbero servire; acquista di quando in quando nelle nuove reclute lo zelo sempre più ardente di neofiti. Ciò dovremmo fare anche noi. Con un po' d'oro acquistare un ingegno; di questo non ne abbiamo troppa abbondanza per trascurare siffatto mercato…

Riprese in mano lo scartafaccio di Maurilio che aveva abbandonato sulla mensola del camino.

– Questo disgraziato che non ha nome, che non ha famiglia, che forse non ha pane, ha la ricchezza dell'ingegno. Perchè non diverrebbe un soldato della nostra falange?

Si diede a continuare la lettura del manoscritto.

«L'individuo gli è verso la famiglia che ha il diritto naturale di ricevere l'istruzione: lo Stato che ha interesse i suoi componenti sieno istrutti, gli è alla famiglia che ha il diritto sociale d'imporre la educazione dei figli.

«Ma se la famiglia non può? Perchè si raccolsero le famiglie in Comune se non perchè questo secondo ente collettivo sottentrasse colla sua forza maggiore là dove le forze della famiglia non potevano provare? L'educazione dei poveri è obbligo del Comune.

«Se questo manchi al debito suo, lo Stato, associazione superiore, dovrebbe obbligarlo a compierlo; e se il Governo, troppo lontano e non abbastanza in condizione da vedere e giudicare le circostanze locali, affidasse questo suo diritto e il sindacato che ne fa parte alla Provincia, tanto meglio e tanto più efficace il provvedimento.

«Il Comune adunque dovrebbe procurare che fosse aperta nel suo seno quella scuola che dà gli elementi necessarii ed indispensabili dell'istruzione alla fanciullezza. A quell'età l'istruzione è unica e serve per tutti, a qualunque classe si appartenga, qualunque carriera si sia per intraprendere di poi. Sarebbe assai venturoso che i figliuoli dei ricchi si frammischiassero fin d'allora ai figliuoli dei poveri, e imparassero l'eguaglianza degli uomini innanzi al diritto, il rispetto alla dignità personale in ogni creatura umana. Ma se ciò sarebbe pur bene, non è tuttavia da imporsi. Quella libertà ch'io propugno, vorrei rispettata anche in codesto. Il Comune apre la sua scuola a tutti; ma se alcuno ha i mezzi di istruire i suoi figli all'infuori di questa scuola, sì lo faccia e resti libero dall'obbligo di mandameli, quando provi che questa istruzione egli loro fornisce realmente ed efficacemente.

«Pei trasgressori note di biasimo pubbliche e multe.

«Per mantenere la scuola il Comune tasserebbe i contribuenti d'un balzello apposito. Ma dunque i ricchi pagherebbero la scuola pei poveri? Appunto. Ma questo è socialismo! E lo sia; ma è socialismo che dirò onesto e ragionevole. È socialismo che già è in vigore per molti altri bisogni comuni dell'associazione. Chi paga le strade? chi l'illuminazione della città? chi la forza pubblica che mantiene la sicurezza, ecc., ecc.? I contribuenti: quelli che possedono. Ed il proletario non gode pur esso di questi vantaggi della vita sociale? Se voi pagate per illuminare le strade di notte affine di non essere assassinati, pagate senza rimpianto per illuminare le menti del popolo ottenebrate dall'ignoranza e ci guadagnerete eziandio nella sicurezza, e risparmierete forse e senza forse nelle spese degli agenti dalla polizia, nelle spese delle carceri. Anche codeste ultime spese le pagate voi, ricchi, pei poveri: e sarebbe meglio non le aveste da pagare…

«Ma in ciò altresì vorrei lasciato il primo posto alla libertà. Il Comune dovrebbe dire ai suoi cittadini: – Voi che possedete, volete liberamente consociarvi per mantenere le scuole onde abbisogniamo? Alla vostra libera associazione per quest'uopo, la quale appunto sarà tanto più zelante, io cedo volentieri il luogo, pronto a riprenderlo se voi fallite. Non volete? Allora sono costretto ad usare delle mie attribuzioni di ente collettivo stabilito per ottenere il meglio possibile i fini proposti…»

Più in là il marchese incontrava quest'altro passo notato dal Commissario:

«La società famigliare è imposta all'uomo dalla natura, la società civile e politica è ancor essa il risultato necessario delle sue condizioni fisiche, fisiologiche, intellettive e morali. L'uomo non vi si può ribellare: il diritto comune è lì per ischiacciarlo s'e' lo tenta: il suo consentimento ai legami sociali se è giusto bensì, se risponde ai suoi bisogni ed interessi, è pur sempre tuttavia un consentimento forzato.

«Ciò vuol dire che questa società, che il Governo, in cui la si concentra e con cui agisce, deve strettamente rinserrare la sua azione entro i limiti delle cose che gli spettano realmente, per cui ha la sua ragione d'esistere. Uscendo di là esso, il Governo, abusa di quel costretto assenso, abusa della tacita costretta delegazione, offende la libertà: ogni passo fuori della cerchia delle sue attribuzioni è un passo nella tirannia.

«Ma quanti nelle condizioni presenti dello stato sociale si trovano a disagio! Le leggi che guarentiscono i gaudenti sono in pari tempo ceppi a chi soffre e vorrebbe mutar la sua sorte. Devonsi quelle leggi abolire? ma allora abbiamo l'anarchia. Devonsi comprimere colla forza soltanto i disagiati per farli stare nel loro disagio? ma allora abbiamo la guerra civile in permanenza.

«Il rimedio possibile – un rimedio, relativo e lento e di progressivo sviluppo, imperocchè in ogni cosa della creazione tanto riguardo alla materia sì organica che inorganica, quanto riguardo al mondo morale e intellettivo, nulla è brusco, improvviso ed assoluto – l'unico rimedio possibile, a mio avviso, è una che chiamerei forza del mondo umano, di cui la natura medesima ci diede l'idea, imponendoci la sociabilità, forza la quale non è nuova, nè nuovamente conosciuta, imperocchè ne troviamo imperfette applicazioni anco nel Medio Evo, ma che pur tuttavia ora soltanto pare aver trovate le condizioni acconcie nell'umanità per isvilupparsi e cominciar a mostrare ancora in lontano adombramento che cosa possa ottenere, sin dove arrivare: e questa è L'ASSOCIAZIONE.

«L'uomo, arruolato fin dalla nascita nel corpo sociale, non ha tuttavia con ciò esaurito quell'attitudine di sociabilità che porta seco, specialissimo e nobilissimo carattere dell'esser suo. La società politica e civile non risponde che ad una parte dei suoi bisogni e delle sue facoltà: in tutto il resto devo lasciarlo libero, mentre nello stesso tempo, col fatto suo gl'insegna la verità aritmetica che tante debolezze consociate formano una forza potentissima.

 

«Di questa sua sociabilità, come d'ogni altro diritto individuale, l'uomo deve potersi servire in ogni modo, a suo talento e capriccio, fin là dove l'esercizio del suo diritto non turbi e non violi il diritto altrui.

«La libertà d'associazione è uno dei più sacri diritti del popolo, ed è più che un attentato tirannico, è un'empietà il fatto d'un Governo che la contrasti e la neghi.»

E qui Maurilio scorreva rapidamente tutte le bisogne a cui poteva – e secondo lui doveva – applicarsi la libera associazione dei cittadini. Designava due vie che si dovevano percorrere, due correnti che avrebbero dovuto muoversi l'una dall'alto, l'altra dal basso, per incontrarsi, a così dire, a mezza strada in un comune intento: la miglioria sociale. Dall'alto le classi arrivate all'agiatezza dovrebbero mercè l'associazione guarentire i loro possessi dai pericoli delle passioni e delle ire che sobbollono nei bassi fondi delle plebi, antivenendo lo scoppio della rivolta che non domanda più ma azzanna tutto, col concedere a poco per volta ciò che giustizia comanda e le condizioni del momento a seconda permettono e consigliano si debba concedere; dal basso i proletari, i lavoratori senza riserva di risparmi, in balìa delle esigenze del capitale, dovrebbero unirsi in tale associazione che facesse per loro come la base d'un ammasso di risparmi, che tenesse luogo in parte per essi del capitale e ne assicurasse loro alcuni dei vantaggi, quello almanco d'una certa sicurezza del domani. Quindi per risultamento del concorso di queste due correnti d'associazione, una dei ricchi, protettiva ed aiutrice, l'altra dei poveri, operativa e principale, guarentito ad ognuno della plebe che voglia – e chi non vorrebbe? – l'educazione della prole, l'esistenza della famiglia e il soccorso fraterno durante le malattie, il pane di tutti i giorni e la dolcezza del domestico focolare pulito e raccolto, mercè il lavoro, l'assistenza nella vecchiaia quando le forze mancano all'opera, così che quello fra tali invalidi operai che sia rimasto solo, non abbia da stentar la vita coll'elemosina che degrada, ma riceva una pensione, risparmio della sua opera giovanile che si è capitalizzato quasi senza sua saputa, e chi è nella famiglia non viva tutto a carico del lavoro certe volte scarso dei figli.

In altro luogo era toccata la quistione politica della forma di Governo. Lo scrittore aveva le sue preferenze per la forma repubblicana (qui la matita rossa del signor Tofi aveva tirate due righe con tanta forza che la carta n'era rimasta stracciata); ed invero egli credeva che in teoria, secondo la logica più stretta ed evidente, era quella forma la più consentanea all'uopo e la più adatta alla ragione. Ma concedeva egli pure che non sempre ai dettami della scienza in teoria, può corrispondere l'attuazione, cosa sempre relativa nella pratica, e che molte volte la povera logica traducendosi nei fatti, doveva sopportare le più strane e prepotenti storture. D'altronde, soggiungeva, quella appunto non è che forma: ciò a cui si deve tenere essenzialmente è la sostanza: questa consiste nella libertà e nella sicurezza insieme combinate. Quell'organismo politico il quale fornisse all'individuo la maggiore agiatezza di svolgere la propria personalità, di perfezionare le sue doti, di godere di tutte le sue facoltà, di raggiungere il suo scopo: quello sarebbe da accettarsi per migliore, avesse a capo un re o qualunque siasi magistrato con altro nome.

E qui scendeva a far la critica – una critica non ingiusta ma severa, qualche volta aspra e mordace – del reggimento assoluto, militare, clerocratico che in que' tempi gravava sul Piemonte; e provava che con tale sistema nè la civiltà poteva progredire, nè il popolo essere soddisfatto, nè la plebe redimersi.

Il marchese, interessato forse ancora più di quello che avrebbe creduto da siffatta lettura, erane a questo punto, quando una mano discreta grattò leggermente alla porta per annunziare che v'era qualcuno che desiderava entrare.

– Avanti: disse il marchese levando il capo e volgendo la faccia verso l'uscio.

Entrò il suo cameriere di confidenza.

– Che cos'è? domandò il padrone con accento che significava aver piacere di essere sbrigato presto e lasciato alle sue occupazioni. Forse qualcuno che vuol parlarmi?

– Eccellenza sì: rispose il servo inchinandosi.

– Oggi non ricevo nessuno. Se si ha bisogno di parlarmi si ripassi domani.

Il cameriere esitò alquanto; parve avere qualche osservazione da fare; ma non osò e inchinatosi di nuovo profondamente, si volse per uscire. Ma il marchese aveva visto quell'atto del servo.

– Voi volete dirmi qualche cosa? interrogò mentre il domestico già era fra i battenti dell'uscio.

Il servo si fermò.

– Chi è quella persona che vuol parlarmi? soggiunse il padrone.

– È Don Venanzio.

Il marchese sorse in piedi vivamente e disse con pari vivacità:

– Ah lui!.. È un'altra cosa… Fatelo entrare.

Due minuti dopo s'introduceva in quel salotto la bella testa veneranda del vecchio parroco di villaggio.

CAPITOLO II

Don Venanzio portava bravamente la più bella vecchiaia che si possa vedere. Nella sua faccia, che era tutta un'espressione di bontà, si manifestava la pace soave d'un'anima onesta; nel suo sguardo, ancora vivace, brillava la fiamma di quell'affetto di cui Cristo fu modello divino, la carità. Intorno al capo la capigliatura folta ancora ma bianchissima gli faceva come un'aureola di candore. Vegeto e robusto della persona, a dispetto de' suoi ottant'anni camminava dritto e sollecito; vestiva abiti alla foggia pretesca, di panno grossolano, ma pulitissimi; le sue grosse scarpe splendevano per la fibbia d'acciaio sempre lucida come uno specchio. Aveva quasi sempre seco due compagni fedelissimi: la sua mazza di giunco col pome rotondo di falso avorio e Moretto, il terzo o il quarto d'una dinastia di cani volpini che si erano succeduti nell'affezione del buon parroco, nella fedeltà al padrone e nell'ufficio poco gravoso di custodire la canonica, efficacemente difesa senz'altro dall'amore e dalla venerazione di tutti i terrazzani. Questi due compagni Don Venanzio aveva ora lasciati nell'anticamera, il bastone in un angolo e il cane accovacciatovi presso coll'intimazione fattagli a dito indice alzato di non muoversi di là, fino al ritorno del padrone.

Il nostro buon sacerdote, insomma, era l'incarnazione la migliore e la più compiuta dell'accoppiamento d'una mente sana e d'una coscienza tranquilla in un corpo sano, ideale della personalità umana.

Il marchese, che era rimasto in piedi, fece per quel povero prete di campagna – un plebeo ancor esso, vivente in mezzo ai bifolchi – ciò che la sua dignità e la sua autorevolezza non l'avevano avvezzo a fare nemmeno pei più titolati e superbi maggiorenti dello Stato, gli mosse all'incontro colla mano tesa, un sorriso di vera cordialità sulle labbra.

– Eh buon giorno Don Venanzio, diss'egli: sia il benvenuto tra noi.

Don Venanzio toccò la mano che gli veniva porta così amichevolmente, e lo fece con rispettosa deferenza, ma insieme con franchezza, senza suggezione.

– Eccellenza: disse, mentre il marchese tenendolo per mano lo conduceva verso il camino e gli additava una poltroncina in faccia a quella da cui egli s'era alzato poc'anzi; Eccellenza, sono venuto a chiederle una grazia.

Baldissero sorrise con aria che non dinotava voglia alcuna di rispondere con un rifiuto.

– Ah! le grazie che Lei dimanda so già quali sono; si tratta di aiutarla a fare un po' di bene a qualche povero disgraziato.

– Eh! press'a poco… è qualche cosa di simile: disse il buon parroco con tutta ingenuità aggiustandosi nella poltrona, mettendo il suo tricorno sulle ginocchia, incrociando le mani sul cappello e guardando in volto il marchese coi suoi occhi limpidi e schietti come una fontana di montagna. Le ho detto subito l'affar mio, da quell'impaziente ch'Ella sa… che quando ho in capo qualche cosa che mi preme, non c'è verso che io possa indugiare a tirarla fuori… Ma ora, mi permetta, Eccellenza, che le domandi notizie della sua salute e quelle della cara madamigella Virginia… e del contino Ettore e del cavaliere Edoardo e del cavaliere Amedeo… ed anche della signora marchesa.

Baldissero sorrise alla poca diplomazia del buon prete, che a dispetto d'ogni convenienza gerarchica faceva passare innanzi nell'ordine della sua rassegna quelle persone che più lo interessavano.

– La ringrazio, stiamo tutti bene: rispose. Edoardo ed Amedeo sono nell'Accademia militare. Ettore e Virginia e mia moglie la li vedrà fra poco, poichè Ella è nostro ospite…

Don Venanzio fece un cenno come per iscusarsi.

– Oh la è cosa intesa… e ne la prego: insistette il marchese. Ma veniamo tosto a quello che è il vero motivo della sua venuta, la buona opera ch'Ella ha bisogno di fare.

– La buona opera la deve far Lei: disse con tutta semplicità Don Venanzio. Si tratta d'un giovane per cui sono già venuto a supplicarla altre volte… parecchi anni sono… e quasi per un motivo identico… un povero trovatello allevato nel mio villaggio.

Il marchese prestò una viva attenzione e parve raccogliersi per iscrutare nella sua memoria.

– Un trovatello allevato nel villaggio? diss'egli con molto interesse: e lo si chiama?

– Maurilio Nulla.

A questo nome il marchese non nascose un certo moto di sorpresa.

– È strana, diss'egli: quell'individuo di cui Ella mi parla, è probabilmente il medesimo del quale stavo adesso occupandomi… Maurilio Nulla: sì, è lo stesso nome; trovatello: è la condizione sua di cui egli si lamenta…

Prese sulla mensola marmorea del camino lo scartafaccio che vi aveva deposto e lo porse al parroco, soggiungendo:

– Conosce Ella la scrittura di quel suo protetto?

– Signor sì.

– Ebbene, guardi se la è questa.

– Appunto.

Il marchese stette un momento sovra pensiero.

– Ella mi disse avermi parlato altre volte di codestui.

– Sì signore: quattro o cinque anni sono.

– Aiuti un poco la mia memoria; mi par bene d'averne un barlume di ricordo, ma non posso afferrare nulla di preciso.

– Questo giovane era stato arrestato sotto l'imputazione d'un delitto del quale io, conoscendolo per bene, lo sapevo assolutamente incapace. Son venuto ad invocare per esso la protezione di V. E., e grazie a questa potè venire scoperta la sua innocenza.

– Ah! ora mi sovvengo del tutto: esclamò il marchese. Uscito di carcere, stato ammalato all'ospedale, quel giovane privo di mezzi mi fu da Lei raccomandato perchè gli trovassi alcun impiego delle sue facoltà, ch'Ella diceva straordinarie, ed alcun guadagno dell'opera sua. In grazia di quel talento ch'Ella mi vantava… in grazia di quello strano suo nome… voglio dire delle circostanze in cui quel tale si trovava, avevo deciso di accoglierlo io stesso come una specie di segretario; ma egli non si presentò mai da me, e parve che cotal condizione troppo non gli sorridesse.

– Fu in causa d'un amico: disse il buon Don Venanzio mortificato, come se egli avesse da scusarsi di una colpa; mentre io supplicava per lui da V. E. un impiego nella sua casa, quell'amico lo allogava altrove, ed egli che nulla sapeva di quanto io stava tentando, accettava senz'altro.

– Sta bene… Mi ricordo che Lei così mi ha detto anche allora… Ma adesso, entrando, signor parroco, mi ha fatto intendere che la veniva a domandarmi per codestui la medesima cosa che mi chiese la prima volta che le toccò di parlarmene. Ella dunque sa che il suo protetto fu arrestato; e ne sa Ella eziandio la cagione?

– Sì, Eccellenza. Vengo adess'adesso dalla casa dove quel giovane abita. Io gli voglio bene, sono io che l'ho educato, posso dire; gli ho insegnato tutto quel poco ch'io so…

Il marchese lo interruppe in gentil guisa con un sorriso leggermente malizioso:

– Mi rallegro con Lei. Tutte le belle teorie politiche e sociali che si contengono in quel manoscritto è dunque Lei che glie le ha ispirate?

Don Venanzio tornò a confondersi in una nuova mortificazione.

– Ah! rispos'egli, io gli ho appena appena mostrato a spiegar l'ali; quando fu in grado di volare, il suo volo era più alto e potente del mio, perchè io potessi accompagnarnelo e dirigerlo ancora…

– Badi che quel giovinotto è tentato dalle ambizioni d'Icaro e corre rischio di fare un dì il capitombolo medesimo.

Il parroco si curvò nelle spalle, chinò la testa ed allargò le mani in una mossa di cordoglio e di rassegnazione:

– Eh lo so bene: disse: ma spero nell'aiuto di Dio che lo salvi… La Provvidenza che gli ha dato tanto ingegno non vorrà che questo torni nocivo o si consumi inutile. In fondo poi alla sua natura, sotto vivaci e frementi passioni che possono volgerlo al male, ci sono delle generosità quasi istintive che sono capaci di miracoli di bene… Dunque io l'amo quel giovane; e forse appunto l'amo tanto più in quanto che vedo i pericoli di perdersi in mezzo a cui cammina, e sarei fiero che Iddio adoperasse la mia pochezza per ricondurlo sulla buona strada, su quella del vero.

 

Arrossì come persona che si accusa d'un fallo.

– È certo soverchia vanità la mia, soggiunse, ma parecchie volte il Signore, appunto per dimostrare la potenza e l'efficacia della verità, usa de' più deboli strumenti per farla trionfare. Maurilio ha studiato molto, si è istruito assai della scienza terrena, ma tuttavia spero ancora che la mia ignoranza col rincalzo della fede possa aprirgli un giorno gli occhi sulle cose del mondo superiore. Ogni qual volta io capito a Torino, vengo a vederlo; talvolta non è che per quest'ultima ragione ch'io abbandono la tranquilla casetta del mio villaggio e casco giù a farmi toglier la testa nell'assordante confusione di questo viavai cittadino; e la presente è appunto una di quelle volte. Ho avuto come una specie d'istinto che quel poveretto doveva aver bisogno di soccorso; è il mio buon Angelo custode che me ne ha ispirata l'idea. Insomma da parecchi giorni avevo un gran bisogno di vederlo, e questa mattina non ci ho più resistito ed a dispetto della stagione e del cattivo tempo sono venuto. Alla sua abitazione, la signora Rosina (è la padrona del quartiere dove Maurilio dimorando in compagnia di alcuni amici, appigiona una camera ammobigliata), la signora Rosina mi raccontò tutto ciò che è avvenuto questa mane e di cui vedo V. E. essere già informata.

– Sì: il suo protetto fu arrestato come congiurante contro l'attual forma di Governo e contro la sicurezza dello Stato.

– Misericordia!.. Può dunque essere un affar serio?

– Se l'accusa viene provata, serio assai.

– Ma benedetta la pace! Come lo Stato e il Governo possono aver da temere di un misero giovane, senza aderenze, senza mezzi di sorta?..

– E l'ingegno? Quell'ingegno ch'Ella stessa Don Venanzio riconosce in lui superiore? Codesta è una forza contro cui ogni Governo deve con cura guardarsi. L'intelligenza dissemina i principii e sparge le idee: e queste e quelli, quanto più sono perniciosi, tanto più rapidamente attecchiscono e crescono come fanno le male erbe nei campi. Se si può arrestare la mano che getta i cattivi semi nei solchi non è egli miglior cosa che dover dipoi strappare le cattive piante già nate? E inoltre: guardi! In queste sue pagine ch'io stava appunto leggendo, quel giovane medesimo esalta a buon diritto la potenza dell'associazione. Un individuo solo potrà nulla o poco, per quanto abbia forza di mente; ma lasciate che a lui si uniscano parecchi, ed avrete ogni difficoltà a spezzarlo. Questo cotale è unito, a quanto pare, ad una schiera di giovani audaci che aspirano niente meno che ad un sovvertimento sociale.

Don Venanzio, spaventato, esclamò guardando il marchese con occhi pieni di supplicazione:

– Dio buono! Le cose sono sì gravi!.. Ed Ella, signor marchese, rifiuta di dar la sua protezione?

Baldissero levò la mano destra con mossa piena di nobiltà e di grazia, e disse con quel suo sorriso aristocratico:

– Non ho detto codesto, e non lo dico… Sono anzi molto disposto a favorire il suo raccomandato. Ho scorso alcune di quelle sue pagine di scritto. C'è molto ingegno davvero! Un'intelligenza sviata che ha mestieri d'essere ricondotta fra le guide dei buoni principii dall'esperienza e dall'autorità d'una mente più matura. Ho una grande curiosità, che non mi so spiegare, di veder codestui e parlargli. Non penso neppure che il male sia poi tanto grave come apparve alla Polizia: forse c'è più imprudenza di giovinotti che altro; ho già preso l'impegno di parlare di ciò a S. M. io stesso: e se il Re porta su questo incidente un giudizio compagno al mio, spero che il suo protetto e quegli altri che partecipano ora la medesima sorte, saranno quanto prima restituiti alla libertà.

– Benedetta Lei!..

– Ma frattanto non mi spiacerebbe, caro Don Venanzio, d'avere da Lei alcuni maggiori ragguagli sul conto di questo giovane. Ella me ne ha discorso un tempo, ma, confesso sinceramente che ho tutto obliato.

Il parroco raccontò ciò che sapeva di Maurilio; ed il marchese ascoltò con attenzione, e sollecitò per avere i più minuti particolari con sì minute domande che appariva metter egli in codesto un vivissimo interesse, quale Don Venanzio non avrebbe mai supposto potesse avere.

Di questa guisa il parroco fu tratto a dire di quegli oggetti che erano stati trovati addosso all'esposto bambino: la lettera scritta da mano di persona del volgo, il rosario d'agata e il bottone da livrea; cose di cui la prima volta che aveva fatto cenno di Maurilio al marchese, non era nato il caso di parlare.

– Ma codesto, disse il Baldissero, è un filo che può guidare allo scoprimento delle origini di quel giovane. Si può sapere, per esempio, a qual famiglia appartenesse la livrea di cui fece parte quel bottone d'argento…

– Ho bene sperato ancor io che ciò varrebbe a pormi in su alcuna traccia del vero, ma inutilmente: così disse Don Venanzio. Una volta, e son già di molti anni, e Maurilio, ancora fanciullo, se ne viveva presso i villani che l'avevan raccolto, venendo a Torino recai meco e il bottone e il rosario, sperando col primo scoprire la famiglia che aveva lo stemma impresso su quel bottone, e raccogliendo informazioni intorno ad essa tentare se mercè quel rosario e quella lettera si fosse potuto venire a capo di qualche cosa.

– Ebbene?

– Ebbene appresi che quello era lo stemma della famiglia de Meyrat, estinta da tempo, il cui ultimo rampollo anzi morì nelle guerre dell'impero. Ora siccome sono ventiquattro anni appena che il lattivendolo Menico trovò Maurilio abbandonato…

– Ventiquattro anni! esclamò il marchese come se dèsse una certa importanza alla misura di questo tempo. Quel giovane ha dunque ventiquattro anni?

– O poco più, perchè veramente quando Menico lo trovò poteva già contare parecchi mesi, ma insomma non può avere a niun modo più di venticinque anni, e la famiglia de Meyrat non ha più avuto esistenza dal 1813.

– È vero, interruppe il marchese, l'unica ragazza, che sopravvisse al colonnello morto a Lipsia, morì monaca a Ciambery.

– Era dunque impossibile avere in proposito nessuno schiarimento, com'è impossibile che Maurilio abbia alcuna attinenza con quella famiglia.

Baldissero appoggiò il gomito al bracciuolo della poltrona, e sostenne il capo colla mano destra in mossa profondamente riflessiva.

– Quando i lontani collaterali che presero l'eredità dei de Meyrat ne liquidarono la successione, la maggior parte delle loro sostanze fu comperata dal signor La Cappa, ora barone; in quelle negoziazioni ebbe molta parte un uomo che servì pur anche la mia famiglia, Nariccia; non sarebbe forse inopportuno consultare quest'uomo.

Pronunziando il nome di Nariccia, il marchese ebbe un interno sussulto; si tacque, ma la sua riflessione si fece ancora più profonda. Chi avesse potuto guardargli nel cervello, vi avrebbe letto questi pensieri:

– Nericcia! Egli fu di cui si servì mio padre per togliere a mia sorella il figliuolo… Bene giurò egli che quel bambino era morto; e se invece… Ma codeste mie sono vere pazzie… Perchè avrebbe egli mentito?.. E costui che la fatalità mi mena innanzi con quel nome di Maurilio, come potrebbe esser mai quel bambino, mentre non ha che ventiquattro anni, e sono ventisei che quella tragedia è avvenuta?.. E poi che cosa ci avrebbe da entrare il bottone della livrea dei de Meyrat?