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La plebe, parte II

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Si lasciò ricadere sul letto, come uomo che ha finito di spiegare le sue volontà e brama essere lasciato tranquillo; ma quando Tofi era già all'uscio, il generale si ridrizzò di nuovo con mezzo il corpo e colla sua voce tremenda da comandante di brigata in piazza d'armi soggiunse:

– Badate che lascio a voi la responsabilità di tutto. Siate severo, siate vigilante… ma guai a voi se mi fate prendere una rampogna da S. M.

Tofi uscì più perplesso di quanto fosse al venir suo; ed un'irritazione profonda contro Barranchi e contro tutti gli accresceva il maligno talento della sua natura. A lui toccava operare, ma se l'operato fosse stato creduto degno di lodi, queste sarebbero andate al conte Barranchi, se di biasimi, su di lui sarebbero piombati i più crudi, non senza pericolo ancora di qualche cosa di peggio che biasimi. In quell'occasione in cui a cagione di qualche eccesso di arbitrio, il conte Barranchi aveva avuto i rimproveri del Re, il commissario Tofi, su cui naturalmente s'era venuta a scaricare l'ira del generale aveva sentito scoppiar alle sue orecchie niente meno che la minaccia d'esser tolto a quel posto che da tanti anni occupava. Questa era per lui la peggior sciagura che ei potesse immaginare, e il solo pensiero ne lo spaventava tremendamente. Prima di tutto quel posto gli era carissimo per amore di artista che aveva collocato nel suo mestiere; poi eragli un'autorità di cui si compiaceva infinitamente ed una salvaguardia personale di cui sentiva vivissimo il bisogno. Nella sua lunga carriera egli aveva così perseverantemente offeso l'interesse, il carattere, l'onoratezza di tanti individui che ben sapeva avere ammassato sul suo nome un tesoro incalcolabile d'odio, cui la sua qualità sola impediva dal prorompere. Quel giorno in cui egli non fosse più nulla sarebbe stato oppresso dall'esplosione dello spregio e dell'animavversione pubblica; altro non gli sarebbe rimasto che fuggire per andare a nascondere in chi sa qual remota solitudine la sua imprecata e maledetta vecchiaia.

Con quella profonda irritazione che aveva in corpo, il Commissario si era recato nel suo uffizio di Piazza Castello e si disponeva a ricevere l'arrestato quando gli fosse condotto dinanzi.

Si era nella seconda camera, in mezzo della quale stava la tavola lunga collo sporco tappeto di panno verde. Alla scrivania sedeva un impiegato che, per la fredda temperatura, di quando in quando dava in uno scossone di brivido e soffiava sulle mani per iscaldarsele. Tofi passeggiava su e giù della stanza con passo concitato, il cappellone piantato in testa e le mani affondate nelle larghe tasche laterali del soprabito.

Ad un punto Barnaba socchiuse la porta che metteva nel corridoio e cacciò dentro la sua faccia scialba, appuntata, da faina.

– Gli è qui il merlotto.

– Ah ah, va bene.

Tofi trasse di tasca le sue grosse manaccie e si pose a fregarsele l'una coll'altra facendo chioccare le giunture delle dita premendosele.

– Come andò la faccenda? Dite spiccio.

Barnaba in poche parole raccontò ciò che era avvenuto presso il cimitero.

– Cospetto! Avevate colà anche quel Selva; potevate prenderlo.

– Ci ho pensato.

– Ma no; è meglio si abbia qualche altro pretesto. Voi correte subito a perquisire la casa Benda con quanti uomini crediate aver bisogno. Mandate il Rosso con altrettanti in via ***, n. 7, a fare il medesimo da quel pittore, e si arrestino quel Maurilio Nulla e quel Medoro Bigonci. Gli altri vedremo poi. Andate. Dite che s'introduca l'arrestato.

Barnaba sparì.

Tosto dopo entrò Francesco e dietro di lui due carabinieri; questi si fermarono presso l'uscio; il giovane s'inoltrò nella stanza fino presso alla tavola. Era un po' pallido ancora, ma il suo aspetto non dinotava la menoma trepidazione. Il Commissario seguitava a passeggiare su e giù dall'altra parte della tavola guardando di sottecchi Francesco e brontolando inintelligibili parole fra i denti. Ad un tratto Tofi si piantò innanzi al giovane in atto minaccioso ed affondando le sue manaccie nelle tasche, disse con tono imperioso e villano:

– Dove si crede di essere Lei?

Benda esitò un momentino a rispondere, poi con una calma dignitosa disse fissando il suo limpido sguardo sulla faccia terrea e cupa del sig. Tofi:

– Il luogo, la compagnia che ho qui meco, il suo aspetto, il tono con cui Ella mi parla, mi dicono abbastanza che io sono in presenza del Commissario di Polizia.

– Ah sì? Riprese questi ingrossando vieppiù la voce ed aggrottando vieppiù le sopracciglia. E innanzi al Commissario Lei pensa di potersi rimanere col suo bravo cappello in testa, eh?

Francesco seguitò a guardare la faccia cupa del signor Commissario nello stesso modo franco e sicuro.

– Ella, rispose, sta bene col cappello in capo innanzi a me.

L'audacia della risposta fece sussultare l'impiegato subalterno alla sua scrivania, fece guardarsi in volto i due carabinieri come per interrogarsi mutuamente che cosa avessero da fare in presenza di tanta temerità. Tofi mandò un'esclamazione fra i denti che pareva un grugnito.

– Carabinieri! Diss'egli poi colla voce più rauca e più aspra del solito: tirate giù il cappello al signore.

Uno dei carabinieri, colla canna della carabina ond'erano armati, diede un colpo al cappello di Benda e lo mandò per terra. Il giovane non si mosse, ma arrossì fino alla radice dei capelli.

Tofi fece di nuovo due o tre giri per la stanza senza parlare; poi fermandosi presso alla scrivanìa dov'era l'impiegato:

– Siete pronto a scrivere? Disse.

L'impiegato prese la penna in mano e fece un cenno affermativo. Allora incominciò l'interrogatorio. Francesco rispose asciuttamente alle domande fattegli sull'esser suo: nome, cognome, figliazione, patria, età, ecc.

– Che cosa faceva Lei al Camposanto a quell'ora mattutina? Domandò poi il Commissario.

Benda parve studiare un momento la risposta da farsi, e poi disse:

– Se Ella sa la ragione per cui io mi trovava colà, è inutile ch'io glie la ripeta, se poi non la sa stimo niente affatto di mio dovere il dirgliela.

Tofi proruppe, sbuffando, in una esclamazione di collera.

– Oh oh! Crede Lei di poter far qui il bello spirito ed il capo ameno? Probabilmente Lei non conosce ancora bene chi sia il commissario Tofi.

Il giovane chinò leggermente la testa e fece un ironico sorriso come per significare che lo conosceva appuntino.

Tofi si volse allo scrivano:

– Scrivete che interrogato se si fosse recato là dove venne arrestato col criminoso proposito di cimentarsi in duello contro il marchese Ettore di Baldissero, rispose affermativamente.

– Io non ho detto così: esclamò Francesco.

– Vorrebbe forse negare ciò che sappiamo perfettamente?

– Io non nego, ma…

– Dunque?.. (E allo scrivano) scrivete come vi ho detto.

– Protesto.

– Protesti quanto vuole, e tiriamo innanzi.

– Sul terreno si trovavano il dottor Quercia e l'avv. Selva?

– I carabinieri che ci sorpresero scrissero il nome di tutti coloro che eran colà.

– Quelli che ho or ora nominati erano suoi padrini?

– Mi accompagnavano.

Tofi gettò sopra il giovane uno sguardo feroce che avrebbe potuto paragonarsi a quello d'un animale di preda sopra la vittima che sta per isbranare.

– Qui si vuole schermire di finezza con me. Cattivo partito, signore, cattivo partito, glie lo dico io… Risponda franco, sincero, la verità, e tutta la verità: e ne avrà maggior vantaggio. Quei signori sono suoi amici?

– Sì.

– Specialmente il Selva?

– Siamo stati compagni fino dalla prima adolescenza.

– Ella conosce le idee e le opinioni di questo suo intimo amico?

– Io so che quello è il più onorato e più dabben giovane che sia al mondo.

Il Commissario ruppe in uno scoppio di quella sua voce aspra e vibrata.

– Ah onorato? Ah dabbene? Gridò egli incrociando le braccia al petto ed atteggiando sul cravattino duro il suo mento quadrato con mossa minacciosa. No signore che non è un giovane onorato; no signore che non è un giovane dabbene…

Francesco ebbe il coraggio d'interrompere il signor Tofi, parlando ancor egli di forza:

– Signor Commissario, io non soffro smentite, e tanto meno soffro che si oltraggi con esse l'amico che ho più caro e che stimo di più…

Il Commissario gli troncò le parole con esclamazione violenta, venendogli presso, la faccia contratta dall'ira, lo sguardo più acceso che mai sotto le folte sopracciglia:

– Lei non soffre?! Ma dove si crede Ella di essere? Con chi si crede di parlare?.. Sono io che non soffro di queste arie in chi mi viene dinanzi, sa!.. Badi che io fo presto a levar la superbia ai pari suoi. Ne ho domati di più audaci. Se la mi stuzzica la faccio cacciare al crottone a pane ed acqua, finchè le sia passato il ruzzo di fare il bell'umore. Il suo amico non è un giovane onorato, non è un giovane dabbene, perchè chi è onorato e dabbene ha rispetto ed obbedienza per le legittime autorità, non osa censurare il Governo del suo sovrano, non isparla de' suoi superiori e dei ministri della santa religione cattolica, non desidera e non cerca sovvertimenti nello Stato, non congiura contro il trono del principe di cui ha la fortuna e l'onore di essere suddito. E questo suo amico fa tutto ciò e peggio. E Lei lo sa, e Lei partecipa a questi empi intendimenti.

Francesco tacque un istante, sbalordito a codesta sfuriata; poi superando la trepidazione che quelle parole gli avevano fatto nascere – trepidazione naturale, perchè in quei tempi la Polizia non era menomamente impacciata da nessun ostacolo di legalità a mandare a Fenestrelle chi le paresse suddito non abbastanza devoto – disse colla calma che potè maggiore:

– Credevo d'esser qui per cagione della mia contesa col marchese di Baldissero, e non pensavo mai più di aver da rispondere per altre cose e pel fatto di altri.

 

– Ella è qui per tutto quello su cui mi piacerà interrogarla… Crede Lei che la Polizia non sappia appuntino ciò che lor signori fanno e dicono e pensano? Da molto tempo abbiamo gli occhi su di loro e ne seguitiamo i passi e le gesta. Noi sappiamo tutto, signore… TUTTO! Ripetè pesando sulla parola.

Fece una piccola pausa e poi riprese:

– Ella conosce di molto anche il pittore Vanardi?

– Sì.

– Va spesso a casa di lui?

– Qualche volta.

– Spesso. E colà vi si tengono delle conventicole che durano fino a notte inoltrata.

– Ci troviamo in alcuni amici e stiamo insieme a discorrere.

– Vorrebbe dirmi di che cosa si discorre?

– Mah! Di mille cose e di nulla… di arte e di letteratura sopratutto.

– E per discorrere di codesto si chiudono in istanza ed impiegano parte della notte? Mi parli un po' di coloro che prendono parte a questi discorsi?

– Siamo in parecchi amici, quasi tutti compagni di Università…

– I nomi, i nomi. Dica su come si chiamano.

Benda esitò.

– Ecchè? Disse il Commissario con perfida ironia. Per una cosa cotanto semplice ha forse scrupolo a dire il nome dei suoi compagni? Be': ve lo aiuterò io. V'è prima quel Selva; poi il padron di casa, poi un certo Maurilio Nulla… Appunto! Parliamo un momentino di codestui. Lei lo conosce bene?

– Sì.

– È suo amico?

– Sì.

– Sa che questa la è strana? Ella che è ricco ed appartiene ad una famiglia di ricchi commercianti, come va che si trova in intima relazione con quel cotale, che viene dalle più basse regioni del volgo? Conosce Ella bene il passato di quel giovane?

– Lo conosco.

– E ciò nulla meno Ella non ha avuto il menomo ribrezzo di stringere tanta attinenza con un trovatello, che fu accusato del più orribile dei delitti, che passò varii mesi in carcere, che non possiede nulla al mondo e si guadagna la vita non si sa ben come? Una simile amicizia non è degna di Lei e non è affatto naturale.

– Ho avuto campo di conoscere che in quell'infelice vi è un'anima nobilissima ed un'intelligenza superiore, e ciò mi basta per farmelo amare e stimare. L'essere povero e trovatello non è cosa di cui egli abbia colpa, e soltanto il pregiudizio può crederlo un disdoro; ch'egli sia rimasto in carcere accusato d'un orribile delitto non l'ho mai saputo, e non lo credo così di piano…

– Cospetto! Quando glie lo dico io!..

– Ad ogni modo io, giudicando da quello che conosco di lui, debbo credere ch'egli sia stato innocente…

– Parliamo un poco d'un altro: voglio dire Medoro Bigonci. Anche di costui non so vedere alcuna ragione perchè partecipi a così stretti e confidenti colloquii da amico.

– Egli abita con Vanardi… Del resto non prende parte quasi mai alle nostre riunioni.

– Ah no? A me le mie informazioni mi dicono diversamente. E le mie informazioni mi dicono molte cose, sa, che altri crede affatto nascoste… Vuol saperne una, per esempio?

Si accostò ancora più presso a Francesco e gli disse con voce sommessa, ma piena di forza:

– Mi dicono che Medoro Bigonci non è il vero nome di quel tale, ma ch'egli chiamasi Mario Tiburzio.

Benda non fu tanto padrone di sè che non desse indietro d'un passo e che non impallidisse nel volto.

Tofi vide l'emozione del giovane e ne conchiuse fra sè issofatto che Barnaba non s'era ingannato e che Francesco Benda era istrutto del vero essere di quell'individuo. Col proposito di atterrire l'arrestato e di ottenerne in questo modo alcuna confessione od almanco una più imprudente risposta, il Commissario continuò colla medesima voce sommessa ma fremente di minaccia:

– Ora Ella capirà agevolmente che la sua condizione non è così buona e i carichi che pesano su di lui non sono così lievi da permetterle tanta temerità e tanta sicurezza. Mario Tiburzio è un agente di Mazzini. Il solo essere in rapporto con lui è gravissima colpa, è delitto di Stato. Siffatte audacie dei mandatari di quello scellerato rivoluzionario che vengono a sedurre e sommuovere la gioventù nel nostro Stato sono oramai troppe. Il Governo di S. M. è deciso di porvi fine e di tagliare il male dalla radice. Qualunque siasi che abbia intinto in siffatta pece si è deciso di deportarlo senz'altro in Sardegna.

– In Sardegna! Esclamò Francesco, il quale non potè nascondere il suo sgomento. Egli pensò alla sua famiglia, al dolore che i suoi cari avrebbero provato, all'oggetto dell'amor suo che forse non avrebbe potuto veder più, ed uno spasimo indicibile gli strinse il cuore.

– Sì signore, in Sardegna: ripetè il Commissario, il quale s'accorse e fu lieto dell'effetto prodotto dalle sue parole. E primi di tutti i caporioni e i più pervicaci. Il Governo fu finora troppo magnanimo, troppo tollerante: è gran tempo che alla fine eserciti tutto il suo rigore. Nessuna pietà, nessun riguardo per i nemici dell'ordine e del Sovrano. Se si farà qualche distinzione fra essi, se si potrà essere più miti verso alcuni, sarà soltanto per coloro i quali col loro contegno dimostreranno come da illusione giovanile, da inconsideratezza meglio che da perversità d'animo furono tratti a fallire, per coloro che proveranno colla sincerità delle loro dichiarazioni il proprio pentimento. Mi capisce?

Le parole del Commissario erano troppo chiare per non essere capite. Francesco che colla forza della volontà aveva rinfrancato il suo animo si disse con disdegno:

– Costui tenta e spera di avere in me un delatore.

E la indignazione riagì sulla nobile di lui natura così da restituirgliene calma e fermezza.

Tofi continuava:

– Ella, signor avvocato, a quale di quelle due schiere vorrà ascriversi? Non di certo, io spero, a quella dei pervicaci nemici di S. M. l'augusto nostro Sovrano. Ella di certo ripudierà i scellerati propositi di chi non tende che ad abbattere la legittima autorità; Ella vorrà meritarsi il generoso condono alla leggerezza – non la chiamerò altrimenti – alla leggerezza della sua condotta, colla sincerità delle sue confessioni.

Fece una pausa, tenendo sempre que' suoi occhi grifagni fissi in volto al giovane. Francesco volse altrove lo sguardo con tutta indifferenza.

– Or dunque: riprendeva a dire il Commissario: poichè Ella conosce ed è in istretti rapporti con questo Mario Tiburzio, la mi saprà spiegare perchè quell'individuo è venuto a Torino con falso nome e sotto mentita qualità…

– Signore: interruppe Francesco, non senza manifestare nel suo accento il disprezzo e lo sdegno che in lui destavano i tentativi del suo interrogatore: io non so spiegarle niente affatto. Mario Tiburzio non conosco chi sia. Ho visto alcune volte in casa del mio amico Vanardi il signor Medoro Bigonci cantante, il quale non ha altro pensiero che quello delle sue crome e biscrome. Se mi sono legato qualche poco con lui, nulla è più naturale, essendo egli artista ed io dilettante di musica. E non ho altro da dire.

Il Commissario stette alquanto in silenzio e fece colle sue labbra grosse uno strano e minaccioso ghigno.

– Questo, disse poi con ironia grossolana, è il sistema di difesa che il signor avvocato crede bene di adottare?

– Io non ho bisogno di difesa nessuna, perchè non ho colpa.

Tofi tacque di nuovo un istante facendo sempre piombare sopra il giovane quel suo sguardo penetrativo, ironico e minaccioso.

– Sa una cosa? Proruppe quindi ad un tratto. In questo stesso momento si fa una perquisizione a casa sua.

In quella specie di scherma che aveva luogo fra l'interrogante e l'interrogato, fu questa una botta bene assestata che colpì il giovane in pieno petto.

– Ah! Esclamò egli con una scossa, ricordando di botto come nella sua camera, entro i cassettini della scrivania ci fossero l'Assedio di Firenze di Guerrazzi, i libri cinque sull'Italia di Tommaseo, la Giovane Italia di Mazzini, e peggio ancora di tutto questo una istruzione sul modo di ordinare e guidare la rivolta del popolo nelle città e di organare bande d'insorti nelle campagne, istruzione per sommi capi fatta e scritta tutta di pugno di Mario Tiburzio.

– Che cosa ne dice eh signor avvocato? Domandò il Commissario colla medesima insultante ironia.

– Dico che quella è una violazione di domicilio che non avverrebbe in paesi retti civilmente.

Tofi si abbandonò ad uno scoppio di collera.

– Come sarebbe a dire? Gridò egli con violenza. Forse che questo paese non è retto civilmente? Che insolenza la è questa? Come osa Ella, me presente, offendere così il Governo del nostro augusto Sovrano? Sappia che gli Stati di S. M. il Re di Sardegna non hanno nulla da invidiare a nessun altro; e non mi dica di queste bestialità che sono quasi un crimenlese, perchè altrimenti saprò ben io ricacciargliele nella gola e farnela amaramente pentire. Per conchiudere, pensi bene ai casi suoi; è Ella decisa a rispondermi schietto la verità su ciò di cui la interrogo?

– Ciò che avevo da rispondere, ho risposto. Ripeto che non ho nulla da aggiungere.

– Sta bene. Vedremo se dopo i risultamenti della perquisizione Ella seguiterà a tenere simile linguaggio.

Volse villanamente le spalle a Francesco e disse ai carabinieri:

– Traducetelo in cittadella.

Venti minuti dopo il giovane sentiva chiudersi alle spalle le serrature, i chiavistelli e catenacci dell'uscio di quella stanza che doveva servirgli da prigione.

CAPITOLO X

Barnaba era entrato sotto il portone di casa Benda, seguito da quattro carabinieri.

– È Lei il signor Giacomo Benda? Domandò al padre di Francesco che gli veniva all'incontro.

– Signor sì.

– Ella avrà appreso come suo figlio sia stato arrestato.

– Vennero or ora due amici di Francesco a darmene la infausta novella. Spero ch'Ella vorrà dirmene la ragione, ch'io non posso a niun modo immaginare.

– Io non ho nessuna istruzione di darle informazioni a questo riguardo. Ho invece l'ordine di perquisire minutamente tutta la casa.

– Non mi vi opporrò menomamente, sottomesso cittadino qual sono alle autorità, ma farò i miei richiami presso il signor Governatore, presso S. E. il Ministro medesimo, se occorre.

– Ella farà poi quel che crede. Intanto la prego, ed ove d'uopo le impongo di volere acconciarsi a quanto sto per dirle.

Il signor Giacomo curvò la testa per accennare che era pronto ad obbedire.

– I signori che vennero a comunicarle l'arresto di suo figlio sono il dottor Quercia e l'avv. Selva?

– Sì.

– Essi sono ancora in sua casa?

Giacomo esitò un istante; ma poi pensò miglior consiglio rispondere affermativamente. Barnaba notò quell'esitazione.

– Dove si trovano? Domandò egli fissando il volto del signor Benda.

– Nel salotto con mia moglie: rispose questi.

– Bene: riprese il poliziotto; noi comincieremo la perquisizione dal luogo più importante, dalla camera di suo figlio, ed Ella avrà la compiacenza di venir con me. In questo frattempo tutte le persone onde si compongono la sua famiglia e la servitù si raccoglieranno nel salotto in cui già si trovano la signora Benda e quei due signori, e nessuno se ne muoverà che dietro mio ordine.

Si volse ai carabinieri, e designandoli gli uni dopo gli altri, soggiunse:

– Voi due starete a guardia del salotto; voi due verrete meco.

Fu fatto a seconda ch'egli aveva detto; e senza altro ritardo Barnaba, il sig. Giacomo e i due carabinieri a ciò prescelti n'andarono nella camera di Francesco senza passar punto pel salotto.

Selva, troppo persuaso che non c'era affatto tempo da indugiarsi, aveva in tutta fretta arraffato e libri e carte pericolosi, dove sapeva che si trovavano, e senza darsi cura di chiudere cassettini e tiratoi erasi partito di corsa. Barnaba, appena entrato, vide i mobili aperti e le carte disordinate sopra il piano della scrivania. Andò vivamente a guardare in que' cassettini, fece scorrere sotto il suo sguardo linceo le carte abbandonate, tutte della più innocente indifferenza, e fu chiaro di tutto.

– Ah ah! Diss'egli volgendosi al padre di Francesco. Qualcheduno è venuto a toglier via il corpo del delitto, e probabilmente questo qualcheduno avrà cercato di salvarsi con esso.

In quel momento veniva frettoloso a cercar di Barnaba uno dei carabinieri che erano stati incaricati di custodire la famiglia e la servitù del signor Giacomo.

– Signore: disse il carabiniere; della famiglia non si trova in casa la signorina.

– Diavolo! Uscita a quest'ora, e sola, una ragazza! Esclamò Barnaba, guardando fisamente il signor Benda, che stette impassibile senza nulla rispondere.

Il carabiniere continuava:

– Di quei due signori che dovevano essere nel salotto non ce n'è che uno: il dottor Quercia.

 

– È naturale: disse Barnaba. L'avvocato Selva è amico intrinseco dell'avvocato Benda. Nissun altro era meglio di lui adatto a questo còmpito. Madamigella Benda potrebbe bene aver guidato l'amico di suo fratello ad uscire per qualche porticina riposta.

Il padre di Francesco, maravigliato e sgomentito dalla penetrazione del poliziotto, rispose pur tuttavia freddamente:

– Ella può fare tutte le supposizioni che vuole; a me per distruggerle bastano le mie negative.

– Ha ragione, ha ragione: disse Barnaba sorridendo. La non è mal giuocata; ma il guadagnare la prima bazza non vuole ancora dire partita vinta…

Si volse ai carabinieri:

– Udite voi altri! Disse, e come i tre armigeri si furono serrati intorno a lui, egli diede loro sottovoce alcune brevi istruzioni, parlando specialmente a quello tra di essi cui i galloni alle braccia indicavano per brigadiere.

– Ed ora andiamo nel salotto: riprese Barnaba ad alta voce. Signor Benda ci mostri la strada.

Quando fu per entrare colà dove sapeva trovarsi il dottor Quercia, l'agente di Polizia si tirò di nuovo il cappello sugli occhi, si avvolse di nuovo nelle pieghe del mantello la faccia, di guisa da nascondere affatto i suoi lineamenti. Del viso non gli si scorgevano che gli occhi sguscianti fra il tabarro e la tesa del cappello.

Maria non era ancora ritornata, e la madre non istava senza ansietà aspettandola; Quercia si era seduto comodamente presso al camino e colla maggior agiatezza del mondo giuocherellava colle molle aggiustando di quando in quando la legna sul focolare per farla ardere più vivacemente; i servi erano aggruppati in un angolo e mostravano nelle fisionomie la meraviglia e il turbamento che loro ispiravano quei fatti; però fra quei servi non trovavasi Bastiano il portinaio; il carabiniere stava dritto come una sentinella alla porta. Il signor Giacomo entrò primo, poi i tre carabinieri che col loro compagno si schierarono in fila innanzi all'uscio, ultimo venne Barnaba il quale, camuffato come era, si recò nella strombatura d'una delle finestre volgendo le spalle alla luce.

– Ancora l'uomo dal mantello! Disse Quercia fra sè. Gli è evidente che tutto quello studio di nascondere la sua grinta è cagionato dalla mia presenza. Il portamento della persona mi è affatto ignoto… Qui sotto c'è qualche mistero che bisogna ch'io penetri.

La madre di Francesco, vedendo entrare quell'uomo coi panni da borghese ed avvisando che esso fosse la persona più autorevole di quella brigata poliziesca, si slanciò verso di lui colle mani giunte e con infinita supplicazione nell'aspetto, nello sguardo, nell'accento della voce.

– Oh per carità, mi renda mio figlio… Mio figlio è innocente… Egli non è capace di far male nessuno… No non è capace… O mi dica almeno qual è la sua colpa.

Barnaba rimase impassibile, senza fare un moto nè dare pure una voce di risposta. Il brigadiere dei carabinieri si avanzò.

– Parli meco, se le aggrada: diss'egli. Quanto alle cause dell'arresto di suo figlio, possiamo dirle soltanto che gli è per ragione di Stato.

– O mio Dio! Esclamò la signora Teresa spaventata.

Suo marito, per calmarne lo sgomento, disse allora con ispiccata espressione:

– Qualunque sieno le accuse che si vogliano fare a Francesco, questo so di certo, che non potranno avere nessuna prova da convalidarle.

– Gli è ciò che vedremo: soggiunse il brigadiere. Intanto, siccome abbiamo fondate presunzioni che queste prove si debbano trovare, prevengo le signorie loro che noi faremo le più minute ricerche in tutti i locali di questa casa ed anche addosso alle loro persone.

Luigi Quercia si drizzò di scatto come spinto da una molla.

– Per Dio! Esclamò egli con impeto. Questo è ciò che non tollereremo…

In quella entrava Maria sollecita. Aveva il petto ansimante, le guancie arrossate, sugli abbondanti suoi capelli, cui non aveva avuto tempo di riparare nemmeno con un velo, ancora alcuni fiocchi di neve cadutile su nell'attraversare il cortile, ma aveva eziandio l'aria soddisfatta di chi ha eseguito con pieno successo una importante commissione. Il dottore fissò su di lei i suoi ardenti occhi neri, che contenevano una interrogazione; ella rispose con una intelligente occhiata, che diceva: – tutto è andato a seconda; rassicurò suo padre con un sorriso e si recò presso la madre, a cui strinse significantemente la mano.

Quercia continuava con maggior vigore:

– Difenderemo da simile oltraggio queste signore; difenderemo la nostra stessa dignità.

– Signore: rispose il brigadiere, a cui le parole di Gian-Luigi e l'aspetto di naturale autorità onde s'avvantaggiava la bella di lui figura imponevano assai. Certo duole anche a noi, ma Ella sa che noi siamo stromenti e dobbiamo obbedire.

Ma Barnaba vide in codesto una bella occasione di ottenere quello scopo ch'egli desiderava cotanto: l'arresto del dottore medesimo e una conseguente perquisizione nel quartiere dall'elegante giovane abitato ed in quell'altro che la Polizia sapeva essere segretamente da lui tenuto per ospitarvi i misteri delle sue molte avventure galanti. Egli si accostò quindi al brigadiere e gli insinuò nell'orecchio alcune parole.

Il brigadiere chinò la testa in atto affermativo, e mentre Barnaba ritornava al luogo che occupava dapprima presso la finestra, riprese a dire con più risolutezza al giovane che gli stava fieramente dinanzi:

– Noi dobbiamo obbedire: ed Ella avrà la pazienza di prestarsi primo a quest'operazione.

Gian-Luigi si trasse indietro d'un passo, incrociò le braccia al petto, aggrottò le sopracciglia e i suoi occhi lampeggiarono.

– Io?.. E se mi vi rifiutassi?

– Adopreremmo la forza.

Il volto di Quercia arrossì pel sangue che tumultuosamente vi corse: sulla sua fronte si disegnò quella linea fatale che l'attraversava nei momenti di violenta passione del suo animo. Il suo aspetto era davvero terribile ed imponente, come quello di un coraggio impareggiabile accompagnato da una forza degna di esso.

– Giuro a Dio! Esclamò Gian-Luigi con uno scoppio tremendo di voce; e si atteggiò in una positura minacciosamente aggressiva, che si sarebbe potuta paragonare a quella del leone che sta per islanciarsi addosso al suo nemico. Il brigadiere indietrò recando la mano all'elsa della sua sciabola, e i carabinieri gli vennero a costa in atto di difesa.

Maria, spaventata, per atto irriflessivo, spinta da quel suo cuore sensibilissimo, si slanciò davanti al giovane, quasi a fargli riparo.

– Per carità, signori! Esclamò essa pallidissima in volto, ma fatta indicibilmente bella dalla sua emozione.

In Gian-Luigi l'uragano era già passato, la violenza era domata. La sua fronte era di nuovo liscia e placida come prima, sulle guancie era tornato il suo colorito naturale, sulle labbra il tranquillo sorriso; nello sguardo soltanto, chi sapesse osservare avrebbe scorto tuttavia qualche cosa di duro, di implacato, quasi direi, di feroce.

Prese egli con garbo la piccola mano di Maria e glie la strinse con affetto; poscia, gentilmente traendola in disparte, le disse colle note più soavi di quella sua voce che sapeva mirabilmente temperarsi ad ogni espressione:

– Perdoni, madamigella, se il mio troppo impetuoso umore non ha saputo frenare questo subito scoppio. – Si volse al signor Giacomo ed alla signora Teresa e soggiunse: – Perdonino tutti e si rassicurino, chè per causa mia non avverrà nessuno scandalo in casa loro.

Fece alcuni passi verso i carabinieri che non avevano ancora smessa l'attitudine bellicosa, e disse con aspetto tutto piacevole:

– Con voi non la ho il meno del mondo, brava gente, che siete soltanto esecutori materiali di ordini, di cui non avete la responsabilità…

S'accostò a Barnaba che stava sempre rincantucciato nella strombatura della finestra:

– Gli è a Lei, signore, che io mi rivolgo: continuò. Ella è certo qualche cosa di più che un cieco stromento d'una volontà altrui; ed Ella deve capire che un uomo mio pari non si sottopone gratuitamente ad uno sfregio come quello di che mi si minaccia.

Barnaba rimase immobile.

– Non è certo con nessuna materiale resistenza ch'io voglia oppormi a codesto, ma gli è colle buone ragioni. Mi conceda Ella un colloquio di pochi minuti, e sono sicuro di convincerla dell'inopportunità, per non dir peggio, di siffatto provvedimento.