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La plebe, parte II

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Entrò pochi secondi dopo nel camerino della portinaia, dove le comari del quartiere erano in numero completo e vivissimamente impegnate in ciarle che s'incrociavano senza soluzione di continuità sull'importante argomento dei fatti straordinarii avvenuti quella mattina nella casa. Era colà la gran cuffiona della comare Marta, la lingua più affilata e meno temperante – a detta di monna Ghita, che pure non si lasciava passare nessuna davanti in codesto, – di tutto il quartiere; c'era la bocca sdentata e il mento lanuginoso della Polonia, la rivenditrice di pignatte e di pentole che stava di faccia: chi non c'era delle brave pettegole del pian terreno di quella strada? Le dicerie che avevano corso in quello scambio di supposizioni e di fiabe erano d'una fenomenale assurdità. I giovani erano stati arrestati tutti; le cagioni del fatto erano variamente allegate, ma tutte gravissime: nella casa loro la Polizia aveva trovato cose! cose da fare orrore! La supposizione che Barnaba la sera innanzi aveva fatta sorridendo alla portinaia, tanto per ispillarne la verità, che cioè in casa il pittore si fabbricassero monete false, era per alcune diventata una realtà luminosamente stabilita; altre che si pretendevano meglio informate volevano che quei giovani fossero stati scoperti gli autori dei misteriosi delitti che da qualche tempo avvenivano, e fra gli altri del furto negli uffizi di banca del signor Bancone, di cui da due giorni discorrevasi per tutta Torino; e ve n'erano anche di quelle che pronunziavano la misteriosa parola di politica, ed affermavano sotto voce che gli arrestati erano frammassoni, gente che rinnega Dio e la Chiesa, che commette mille orribili sacrilegi e nefandità, nascosta nelle cantine, e che costoro, fra gli altri, avevano giurato di dar fuoco ai quattro canti della città e sgozzare tutti i preti e far perire tutta la povera gente.

In verità quella rispettabile assemblea di vecchie ciane, per dirla alla fiorentina, mostravasi assai poco propensa alla causa degli arrestati; non c'era che la portinaia, la quale credevasi in dovere di recare in mezzo alcune parole in loro difesa; ma aimè! la era quella una difesa assai poco abile ed efficace, perchè si limitava a dire che vedendoli, quegli individui, nessuno mai più si sarebbe aspettato che avessero qualche cosa da spartire colle manette della Polizia e colla paglia del carcere.

L'entrata di Rosa in mezzo a questo sinedrio di cuffie, produsse, come si suol dire, una viva sensazione. Le ciarle inaridirono un momento sulle bocche ancora aperte, gli occhi lanciarono una mitraglia di punti interrogativi con una curiosità elevata alla quinta potenza: le pettegole si serrarono intorno alla nuova venuta come in una rocca cinta d'assedio si stringe intorno ad un convoglio di viveri la guarnigione affamata.

Rosa non ebbe da interrogare, chè le richieste delle altre le fioccarono addosso come gragnuola; non ebbe da usare arte nessuna a trar fuori da monna Ghita il racconto della visita dello sconosciuto, la sera precedente, perchè di proprio impulso la portinaia afferrò quella propizia occasione per narrare la ventesima o la trentesima volta tutti i particolari, tutte le parole, tutti gli atti che avvennero, ed anche alcuni che non avvennero in quel famoso abboccamento coll'uomo il quale rassomigliava da sbagliarlo, a detta sua, col fumista di via Santa Teresa; abboccamento cui l'acuta penetrazione e l'infallibile giudizio della moglie di Bastiano le avevano fatto ritenere come strettamente collegato cogli strepitosi avvenimenti della mattina che aveva susseguito.

Rosa, quando ebbe saputo ciò che le importava, fece il miracolo di sbrigarsi dalle ciarle interrogative e dalle mani adunche di quell'onorevole congrega, e corse ad informarne Romualdo, il quale, provvisto di quelle nozioni, s'affrettò ad andare in traccia di Mario.

Non avendolo trovato nell'altro suo riposto alloggio, Romualdo pensò che non avrebbe potuto coglierlo altrove che al teatro, dove si sarebbe recato alle prove ch'egli era obbligato di farci per sostituire il primo baritono ammalato; e delle quali prove s'avvicinava l'ora. Diffatti al teatro Medoro Bigonci non era ancora venuto; ma Romualdo camminando lentamente sotto i portici in quella direzione per cui supponeva che l'amico sarebbe sopraggiunto, lo incontrava poco stante sulla cantonata fra piazza Castello e via di Po.

Mario, visto appena da lungi Romualdo, gli fece un cenno impercettibile perchè lo seguitasse, e col passo tranquillo d'uno che passeggia per suo diletto, cambiato il cammino, si avviò verso il mezzo della piazza deserta di passeggeri, dove si rammontava la neve che seguitava a fioccare.

Romualdo fu lesto a raggiungerlo.

– Qui, gli disse di subito Mario, con questo tempaccio, saremo osservati di meno e certo non ascoltati da nessuno, quantunque lì presso (ed additava le torri scure del palazzo Madama) abbiamo il covo della fiera belva della Polizia… Selva e Benda sono arrestati e tu vieni per avvisarmene.

– Selva e Benda? Esclamò Romualdo che non potè frenare un moto di sgomento. Ne sei sicuro?

Mario chinò il capo in segno affermativo.

– Allora tutto è scoperto: continuò Romualdo. Sono venuti a casa nostra a fare la perquisizione cercando di te, ed hanno arrestato Maurilio.

E qui di fretta, nelle meno parole che si poteva, ripetè all'amico quanto era avvenuto e quanto per mezzo di Rosa erasi appreso di poi dalle ciarle della portinaia.

Il cospiratore tacque un istante, quando Romualdo ebbe finito, aggrottando le sopracciglia nella contenzione del suo cervello per meditare.

– Sono sospetti che si hanno soltanto oppur delle prove a nostro danno? Diss'egli di poi, parlando sotto voce, quantunque nella vastità della piazza, in cui si trovavano i due amici, non ci fosse che un deserto di neve. Voglio sperare che sieno sospetti soltanto, ed a noi che dobbiamo lottare, tocca il trovar modo da distrurli… Ragioniamo un po'. Se prove realmente ci fossero, avrebbero proceduto agli arresti in più larghe proporzioni. Selva alla prima volta fu lasciato libero, e non fu preso che in casa Benda per un avvenutovi episodio; Vanardi stesso non sarebbe stato lasciato tranquillo. D'altronde si potrebbe supporre che la congiura fosse da qualche traditore svelata alla Polizia; ma come immaginare che fossero denunziati i nostri nomi che ignorano tutti, fuorchè pochi dei capi, fra cui impossibile un tradimento?.. Sono le ciarle della portinaia a quella spia poliziesca di ieri sera che hanno data la sveglia. Ma come, e per qual caso quella spia si è ella cacciata là dentro, evidentemente a nostra intenzione, forse forse più specialmente per me?

Si fermò un istante assorto in più profonda riflessione.

– Sì per me: ripetè egli. Il modo con cui mi ha guardato, l'essermi venuto dietro di quella guisa…

Fece un movimento quasi contratto, come di chi vede apparirsi alla mente un'idea ancora fuggitiva in cui si contiene la verità, e per afferrarla fa un atto anche colle membra, come se ciò ne l'avesse da aiutare.

– Ma la figura di quell'uomo io l'ho vista altra volta, in altri tempi, in altri luoghi… Dove? Dove?

Si volse di scatto a Romualdo.

– Sai tu s'egli sia piemontese quel cotale?

– Non so… ma probabilmente sì… anzi certo, perchè se fosse altrimenti, monna Ghita non avrebbe taciuto la circostanza importante ch'egli parlasse in modo diverso da noi.

– Io in Piemonte è la prima volta che ci vengo. Dunque se l'ho veduto… e più ci penso e più mi persuado che gli è così… l'ho veduto in altro paese… In Francia? No, non mi pare… In Roma?..

Ebbe come un lampo di visione nella memoria.

– Sì, in Roma… Aspetta ch'io raccolga le mie idee. Un poliziotto!.. Quel pane d'infamia si comincia a mangiarlo di buon'ora, chi ha l'anima vile; ed in Roma ho avuto appunto di che spartire con quella scellerata Polizia…

Mandò un gridolino, che soffocò tosto, di sorpresa e di soddisfazione.

– L'ho trovato!.. Mi ricordo che il Delegato di polizia che procedette al mio interrogatorio in Roma e mi tenne il linguaggio più burbero e più minaccioso che seppe non aveva l'accento romano. Stemmo in faccia l'uno all'altro quasi mezz'ora, e i miei lineamenti dovettero imprimersi nella sua memoria come i suoi si stamparono nella mia… Quel Delegato, ne metterei pegno la mano, è l'uomo di ieri sera.

– Ma allora, disse Romualdo profondamente turbato, egli conosce appuntino l'esser tuo…

– Non basta ch'egli lo conosca, interruppe Mario vivamente: bisogna che lo provi. Per ciò non potrà allegare altro che la sua affermazione. Questa basterà ed anche troppo, quando non vi sia nissun argomento in contrario a mia difesa; ma se troviam modo – e bisogna cercarlo assolutamente – di recare in appoggio della mia identità innocente con Medoro Bigonci qualche altra affermazione autorevole, si metterà la denunzia del poliziotto in conto d'uno sbaglio dovuto ad una rassomiglianza, e il pericolo potrà essere superato.

– Dove trovare quest'affermazione autorevole? Domandò Romualdo sempre turbato quel medesimo.

E Mario sempre calmo, con tutta libertà di mente:

– C'è qualcheduno che può procurartela. Aspetta.

Trasse di tasca un taccuino, vi stracciò un foglio e vi scrisse su poche parole colla matita.

– Gli è certo, diss'egli poi, che adess'adesso sarò arrestato in teatro, dove i birri già m'aspetteranno; appena ciò sia, tu corri dal dottor Quercia a casa sua, di cui ti scrivo qui sopra l'indirizzo; narragli l'accaduto senz'altro ed esponigli di che si ha bisogno. Gli è quell'uomo, a cui vi ho detto ieri sera che dovremo il concorso della plebe: egli può molto, e vuole, e sa!.. Non dubito ch'egli ci trarrà d'ogni impaccio.

– Sta bene: rispose Romualdo, riponendo accuratamente in un portafogli la cartolina datagli da Mario.

– Ed ora, disse questi sorridendo, vado a farmi arrestare.

 

Si diresse di buon passo, traverso la piazza, alla volta del teatro, dove giuntovi appena, la sua previsione fu pienamente effettuata.

– Gli è Lei il signor Bigonci? Gli domandò un uomo d'ignobil sembiante.

– Io in persona.

– Si compiaccia venir con noi (erano in due) al Palazzo Madama, dove il signor Commissario lo aspetta.

– Il signor Commissario? Esclamò Mario con uno stupore che niun valente comico avrebbe saputo finger di meglio. Non so che cosa abbia da fare con me il signor Commissario.

– La lo saprà, quando gli sarà venuta dinanzi.

– È giusto. Andiamo pure.

Ma qui il povero impresario, che era già in una maledetta bizza pel ritardo di Bigonci nel venire alle prove; l'impresario saltò in mezzo esterrefatto.

– Come! Gridò egli. Me lo conducete via? E le prove?

– Che cosa importa a noi delle vostre prove? Ci fu dato ordine di portarlo dal Commissario appena lo trovassimo, e ce lo portiamo.

– Ma almanco lo si lascierà venir tosto a far queste benedette prove, senza cui non posso andar avanti.

– Sì, bravo, contateci su: risposero i birri ridendo ironicamente. E' ci vorrà un poco prima che costui ne abbia gli occhi netti.

– Oh povero me! Esclamava l'impresario. Ma io sono un uomo rovinato… Io protesto.

Come è facile immaginare, tutte le esclamazioni e tutte le proteste del pover'uomo non giovarono a nulla, e Medoro Bigonci fu tratto in arresto.

Mentre l'impresario si disperava della più bella, nell'emozione che questo fatto aveva destato in mezzo a tutti gli artisti colà radunati, Romualdo si accostò chetamente all'impresario medesimo e presolo ad un braccio per chiamarne a sè l'attenzione, gli disse:

– Senta un po' qua signore.

Romualdo, che pochi anni addietro aveva dato fondo al suo patrimonio scialandola da giovane elegante, era stato frequentatore assiduo di spettacoli e conoscente famigliarissimo del mondo teatrale7; l'impresario non avevalo ancora dimenticato e volentieri si rese all'invito di lui, appartandosi alquanto dagli altri.

– Oh sor avvocato: cominciò senz'altro l'impresario colla passione d'un uomo che vede recarglisi un grave danno irreparabile: a me le mi toccano proprio tutte! Questa, le dico io, che mi rovina senz'altro. La stagione è già andata fin adesso zoppicando, e quest'ultimo colpo mi rovescia colle gambe in aria. Senza Bigonci io non ho più uno spettacolo tollerabile da mettere in iscena, e mi conviene chiudere il teatro. Si figuri il mio danno! Ho l'ultimo quartale da pagare. In quest'ultima settimana di carnevale avrei fatto i migliori introiti di tutta la stagione, che mi avrebbero alquanto rimpannucciato. Che! Non posso nemmanco dar la rappresentazione di domenica per la venuta della Corte!!

Si cacciò le mani ne' capelli come chi è cascato in un abisso di desolazione, da cui non vede mezzo di uscire.

– Dia retta: gli disse Romualdo: forse c'è ancora un mezzo di scampo.

– Sì? Esclamò il pover'uomo. S'Ella mi procurasse questo mezzo, sor avvocato, mi renderebbe un servizio de' più fioriti che si possano.

– Ricorra alla nobile Direzione dei teatri. Sono tutti personaggi titolati e potenti che possono efficacemente adoperarsi a far liberare Bigonci.

– La dice bene, ci ho già pensato, ma Ella sa pure che il Commissario Tofi, quando ha qualcuno nelle unghie, a lasciarlo andare… Converrebbe almeno sapere che cosa ha dato motivo all'arresto di Bigonci.

– Credo d'averlo indovinato. Bigonci ha la disgrazia di somigliare moltissimo ad un certo rivoluzionario romano che è al bando di tutte le polizie, e lo si sarà scambiato per quello. Io li ho conosciuti ambedue, e davvero che c'è da sbagliare. Se qualcheduno testimoniasse di codesta cosa…

E l'impresario sollecito:

– Questo qualcheduno può essere Lei…

– Molto volentieri; ma io essendo amico di Bigonci e coabitando con esso lui, la mia parola non può avere tutta quell'autorità che si vorrebbe quando non sia confermata da quella d'un altro.

– Senta, caro avvocato, andiamo insieme dalla Direzione teatrale. Ella, che sa parlar meglio di me – un avvocato è fatto apposta – esponga le cose a mio nome; e se ciò non basterà ancora, allora vedremo qual altra pedina sia il caso di muovere.

Così fecero. La Direzione teatrale, composta a quel tempo di titolati del più puro sangue aristocratico, si commosse assai all'affermazione che, mancando Bigonci, la rappresentazione dell'ultima domenica del carnovale non avrebbe potuto aver luogo; e promise pigliar interesse per questa faccenda. Ad un punto interrogò, com'era naturale, se l'impresario conoscesse le ragioni dell'arresto di quel cantante, e Romualdo senza esitare ripetè ciò che aveva già detto all'impresario, e poi con tutta sicurezza soggiunse:

– Ma io e qui l'impresario possiamo far fede che questo è realmente un mero errore materiale, frutto di quella straordinaria rassomiglianza. Gli è da cinque o sei anni che noi conosciamo Bigonci; e sempre l'abbiamo conosciuto per artista di canto e sotto il suo nome, e ne possiamo rispondere.

– Gli è vero? Domandò il presidente della Direzione all'impresario.

Questi non osò negare, nè contraddire menomamente il suo compagno; ma non osò neppure dir franco di sì; curvò il capo in una mossa dubbia, che gli altri presero per affermativa. Il presidente della Direzione scrisse senza ritardo una lettera di ufficio al generale Barranchi, nella quale, appoggiandosi sulla testimonianza dell'impresario, si negava l'identità dell'arrestato col rivoluzionario Mario Tiburzio e si faceva un pressante richiamo per la pronta liberazione del baritono Bigonci, la cui presenza era necessaria al buon andamento degli spettacoli nel teatro di S. M.

Mentre uscivano dall'ufficio della nobile Direzione teatrale Romualdo e l'impresario ebbero la fortuna d'incontrare il conte San-Luca il quale recavasi alla sua solita stazione al caffè Fiorio.

Nel tempo della sua vita spendiosa ed elegante, Romualdo era stato per due carnovali di seguito vicino di sedia chiusa al teatro Regio col conte San-Luca, ed aveva avviata con esso una certa amichevole relazione che s'era stretta ancora di vantaggio nelle frequenti volte che si erano trovati di compagnia nella casa d'una celebre prima donna cui proteggevano ambedue ed in certe cene che regalavano di conserva all'appetito delle corifee del Corpo di ballo. Benchè Romualdo, ridotto al verde, avesse cessato da un po' di tempo quel genere di vita, tuttavia il conte San-Luca degnavasi ancora rispondere con garbo al saluto che il giovane borghese gli dirigeva, trovandolo per istrada, così bene che per le attinenze del passato, Romualdo si credette in facoltà di fermare il nobile zerbino per informarlo della grave disgrazia che aveva colpito l'impresario e minacciava far sospendere il corso delle rappresentazioni del massimo teatro torinese.

A San-Luca parve cotesta una cosa tutt'altro che da prendersi a gabbo, e quel passo che alle istanze del marchesino di Baldissero aveva rifiutato di fare presso suo zio, si decise di farlo ora che vide minacciata di un'immatura fine la serie de' suoi divertimenti. Corse adunque dal conte Barranchi, e tanto disse e tanto fece, affermando, testimoniando, giurando l'innocenza dell'incriminato baritono, che ne ottenne quella lettera che abbiamo vista scritta dal comandante della Polizia al Governatore della città.

A ciò venne ad aggiungersi la pratica iniziata dalla nobile Direzione teatrale, la quale avendo dato luogo ad uno scambio sollecito di dispacci dall'una parte e dall'altra di quella stessa giornata, ebbe per risultamento un compromesso mercè cui la Polizia consentiva a ciò che il sig. Bigonci andasse in teatro lungo il giorno alle prove e la sera alla rappresentazione, ma ci andasse accompagnato da due arcieri travestiti che sempre lo custodissero a vista, e finita la sua parte lo rimenassero nella carcere assegnatagli al Palazzo Madama: frattanto si appurerebbero di meglio le cose per prendere poi a questo riguardo una risoluzione definitiva.

Ma Romualdo non si contentò d'essersi adoperato in questo modo e d'aver ottenuto codesto. Avendo poscia appreso tutto ciò che era capitato, assai gli doleva e della pena in cui era la famiglia Benda, e del modo barbaro e villano in cui Selva era stato trattato nel suo arresto, e del pericolo gravissimo che incombeva sui tre carcerati amicissimi suoi, Maurilio, Francesco e Giovanni, e sul buon Vanardi stesso e la sua famiglia, e su se medesimo. Pensando e ripensando quali modi possibili gli si presentassero mai da tentare per ottenere alcun riparo all'avvenuto danno ed a quelli più gravi minacciati, dopo averne immaginato di mille guise spedienti gli uni meno accettabili degli altri, si fermò ad un tratto sopra un proposito che era strano, quasi temerario, ma che gli sembrò presentare alcuna probabilità di successo.

Aveva udito la sera innanzi narrato da Mario Tiburzio un suo colloquio con Massimo d'Azeglio venuto di quei giorni in Torino, a detta di tutti, non senza intendimenti politici; aveva udito come questo patriota che disposava insieme nel suo liberalismo le delicature dei modi aristocratici coll'amore della democrazia e della libertà, nutriva molte speranze per la causa italiana nei generosi e nazionali, ancora segreti sentimenti del re; come appartenente egli stesso a quel ceto nobiliare che teneva in Piemonte l'assoluto sopravvento, benchè per opinioni da' suoi pari disgiunto, Romualdo supponeva che alcun influsso di protettorato potesse esercitare colla sua parola Massimo D'Azeglio, il quale d'altronde conosceva, stimava ed amava l'animo forte, le convinzioni profonde e l'onestissima operosità patriotica di Mario Tiburzio. L'amico di Mario e di Selva sapeva d'altronde che gli uomini di superiore intelligenza non amano stare e non istanno soggetti alla volgare tirannia di quelle regole delle forme sociali, per cui i rapporti fra persona e persona ricevono limiti ed ostacoli spesso impacciosi; e dagli scritti del nobile piemontese e da quanto conosceva della vita di lui, Romualdo era chiarito della superiorità dell'intelligenza di Massimo; poteva quindi esser quasi certo che presentandosi a lui, benchè ignoto affatto e di persona e di nome, ma presentandosi con fare appello alla generosità di quel carattere, ne sarebbe stato accolto ed ascoltato senza fallo.

Romualdo non lasciò raffreddare in sè il calore di quella risoluzione; si avvide che, indugiando, ne avrebbe perduto il coraggio, e si diresse senz'altro verso la locanda d'Europa, allora chiamata albergo Trombetta, dove sapeva alloggiato il D'Azeglio.

Entrò sotto quel portone, salì quelle scale fino al pianerottolo dell'uffizio della locanda col cuore che a dire la verità gli palpitava un pochino. Si trattava di comparire innanzi ad un uomo cui la gloria già acquistatasi dava una imponenza maggiore che non faccia l'autorità ufficiale d'una carica governativa. Al primo garzone che gli venne incontro, Romualdo colla faccia sicura d'un uomo che domanda la più semplice cosa del mondo, chiese:

– Massimo d'Azeglio c'è?

A Romualdo pareva che questo nome bastava da sè, e non aveva punto bisogno d'essere scortato da nessun titolo; ma così non parve al cameriere. Questi guardò bene dall'alto in basso il giovane che lo aveva interrogato, poi rispose con tono che mostrava codesto esame non avergli ispirato molta deferenza pel visitatore:

– Mi par bene che il marchese d'Azeglio non sia ancora uscito.

E voltosi ad un uomo attempato che sedeva dietro un tavolino nell'uffizio, domandò a sua volta:

– N. 87 c'è?

L'uomo del tavolino si volse a guardare un gran quadro di legno nero in cui erano schierati in file regolari i numeri di tutte le camere dell'albergo con un gancino a cui si appiccava la chiave di quelle non occupate o di cui l'occupante fosse uscito.

– C'è: rispose come uno Spartano l'uomo attempato.

– Sa Ella dove sia il numero 87? Domandò il cameriere a Romualdo.

– No: rispose questi che ignorava compiutamente la geografia di quella principale fra le locande torinesi.

– Su, all'ultimo piano: disse il garzone, e mentre Romualdo cominciò a salire, fattosi alla ringhiera della scala tirò una corda che fece suonare un campanello nella stanza di passaggio dell'ultimo ripiano.

Il nostro giovane continuò a scalpitare, salendo, la lista di tappeto che copriva il mezzo dello scalone di marmo, e poscia la stuoia più democratica che dal secondo piano in su sostituiva il tappeto, e quando giunse proprio in alto della casa, trovò dritto sull'ultimo scalino un altro cameriere che era postato là come un punto interrogativo.

 

– Cerco il numero 87: disse Romualdo senza aspettar altro.

Ma l'Azeglio, avvezzo ad essere disturbato da mille fastidiosi inutilmente, aveva dato ordini opportuni in proposito.

– Mi dica il suo nome: ribattè il cameriere, sul quale l'aspetto del giovane non pareva aver fatto una impressione diversa da quella del suo compagno al primo piano; ed io andrò ad annunziarlo.

Romualdo trasse di tasca un suo taccuino e sopra un foglio che ne stracciò scrisse il suo nome e sottovi queste parole: «Le sono affatto sconosciuto, ma vengo a chiederle un grandissimo favore per quattro giovani patrioti.»

Il cameriere prese la carta e sparì voltando in un corridoio. Il battere del cuore di Romualdo non cessò in quei pochi momenti che stette aspettando; e quei momenti furono pochi davvero. Il garzone ricomparve all'angolo del corridoio e disse al giovane che aspettava:

– Mi segua.

Camminarono un tratto e poi si fermarono ad una porta sopra cui era scritto il numero 87, e nella toppa della cui serratura stava ficcata la chiave.

Il cameriere battè leggermente nell'uscio colla nocca delle dita.

– Avanti: disse dall'interno della stanza una voce velata, un po' debole, quasi stanca, ma gentile e piacevole.

L'uscio fu aperto, il garzone si trasse in disparte, Romualdo entrò e si trovò faccia a faccia coll'alta e spigliata persona di Massimo d'Azeglio.

– Venga avanti: disse l'illustre scrittore, aguzzando gli occhi, col serrar delle ciglia, per un vezzo che era abituale alla sua miopia, verso il giovane che entrava inchinandosi.

Era l'Azeglio avviluppato in una vestaccia di lana bianca che dimezzava di forma fra la zimarra e l'antico lucco fiorentino, con un capuccio che cascava dietro le spalle, e colle mani se ne teneva egli serrate al corpo le falde, mentre drizzatosi in piedi faceva un passo nella direzione della porta ad incontrare chi entrava.

Era quella dall'Azeglio occupata una piccola e modesta cameretta, con una semplice tappezzeria di color chiaro appiccata alle pareti, con un piccolo letto senza cortinaggio, con pochi mobili di semplice legno verniciato, con una modesta valigia in un angolo, con un piccolo caminetto alla Franklin, in cui ardeva un fuoco niente superbo. Quella stanza non rispondeva alla dignità del titolo marchionale e dell'aristocratico lignaggio, ma all'umiltà ed alle mediocri fortune dell'artista, del letterato e del secondogenito di nobil famiglia.

La finestra si apriva nella parte esterna della casa e si vedeva, precisamente di faccia, al fondo della piazza reale, sorgere la massa imponente del palazzo regio, dimora di Carlo Alberto. Presso ai vetri della finestra era un piccolo tavolino con sopravi alcuni fogli, di cui uno scritto a metà, e la penna, tuttavia bagnata d'inchiostro, posatavi daccanto; si vedeva che l'Azeglio era stato interrotto mentre scriveva e s'era tolto pur allora da quel tavolino, traendo indietro per alzarsi la poltrona che gli stava dinanzi. La cominciata scrittura, a cui Massimo stava lavorando, era il famoso opuscolo, che tanto utile effetto doveva produrre in Italia col titolo: Gli ultimi casi di Romagna.

Romualdo non seppe a tutta prima che inchinarsi, come ho detto, pronunziare le usate parole di saluto e guardare con intentiva, ma rispettosa attenzione quella simpatica figura sorridente, illustrata dalla fama.

– Lei dunque è il signor Romualdo, incominciò l'autore d'Ettore Fieramosca, guardando sul fogliolino che il giovane avevagli mandato, e ch'egli teneva ancora in mano; e viene da me per un favore?

– Signor sì: rispose il giovane: ed Ella comprenderà meglio la ragione della mia temeraria venuta, quando le avrò detto che uno di quei patrioti per cui vengo ad interessare la sua generosa bontà, è Mario Tiburzio.

Massimo d'Azeglio sogguardò un istante il suo interlocutore con acuità di sguardo profondamente scrutativa. La missione politica cui l'illustre scrittore aveva assunta non era ignota al partito assolutista che teneva allora l'impero in Piemonte, e ben sapeva l'Azeglio di essere osservato, spiato, e circondato di tranelli e d'insidie, affine di coglierlo in fallo ed aver un pretesto d'ordinargli lo sfratto dagli Stati del re, a dispetto delle sue aderenze e del suo nome. E che questo avvenisse prima ch'egli avesse potuto, non che compiere ma tentare l'opera per cui era venuto, sommamente avrebbe doluto all'Azeglio; quindi senza nascondersi per nulla, senza infingersi menomamente, stava egli in sulle guardie con quella finezza di discernimento che non poteva dirsi furberia, la quale troppo spesso confina coll'inganno e colla mala fede, ma che era una prudente avvedutezza naturale al suo ingegno, onde governava i suoi atti e parole.

Il fatto d'uno sconosciuto che gli si presentava senza ricapiti di sorta, e di colpo veniva a gettargli innanzi il nome di uno dei più esaltati tra i rivoluzionari italiani, era tale da far nascere sospetto anche nel più confidente e nel meno avvisato degli uomini; laonde Massimo stette un momento prima di rispondere, e affondò quel suo sguardo limpido e sereno negli occhi di Romualdo. Ma fu un istante. Osservatore acuto ed esercitato degli uomini e delle cose, il nobile patriota non tardò a leggere sulla fisionomia di chi gli era venuto innanzi l'onestà, la sincerità e insieme quella ammirazione per colui che veniva a supplicare, la quale, anche all'animo degli uomini superiori, è la dolcezza d'un omaggio non disgradito. Fece seder Romualdo innanzi a sè, e con piglio pieno di fiducioso abbandono e tale da ispirare la più compiuta fiducia, disse a sua volta:

– Ella conosce Mario Tiburzio?

Romualdo sentì l'obbligo di spiegare le relazioni che passavano fra lui e l'emigrato Romano, e di narrare il modo onde avevano avuto principio; poi finì per esporre come Mario fosse stato arrestato e al pari di lui tre altri giovani suoi amici, ne disse il modo e raccontò eziandio quanto era stato combinato fra lui e Mario, e quanto egli aveva già incominciato ad operare affine di ottenere distrutti i sospetti della Polizia e liberati i quattro giovani.

D'Azeglio lo ascoltò in silenzio, molto attento e con evidentissimo interesse. Poscia manifestò il più gran rincrescimento delle cose avvenute e il suo grandissimo desiderio che le cattive conseguenze di tali arresti si potessero impedire. Taciutosi un momento, recandosi sopra sè, si volse quindi con vivacità al suo interlocutore, dicendogli:

– È Ella venuta per caso affine di avere in me un altro testimonio da escludere l'identità di Mario?

– No, signore: rispose Romualdo con accento pieno di sincerità. A codesto non avevo nemmanco pensato.

– Tanto meglio!.. Per quell'opera avrebbe trovato in me uno stromento affatto inefficace. Io non sono buono a mentire. Non è mica un elogio che mi faccio; è un fatto che espongo. La mia natura è così: a dire il contrario del vero non ci ho gamba, e le parole, se il voglio fare, mi si strozzano nella gola. Tutt'al più posso tacere il vero.

– Io ho pensato che Ella potrebbe aiutarci: disse allora Romualdo: il come, non l'ho nemmeno cercato. Mi sono detto fra me e me: quando egli sappia come stanno le cose non negherà di accordarci il suo patrocinio, e il modo di questo Massimo d'Azeglio saprà trovarlo assai più facilmente e meglio acconcio di quello che io gli saprei suggerire. Non sono stato a riflettere dell'altro, e sono venuto.

D'Azeglio sorrise, stette un poco assorto in sè, guardando traverso la piazza tutto bianca di neve, le brune muraglie del castello, la neve che continuava a fioccare con denso turbinar su se medesima, e in fondo alla scena, per così dire, il severo palazzo reale; poi disse ad un tratto, come cedendo ad un interno sentimento che prorompa:

– Ebbene sia: Ella ha ragione d'esser venuto. Tenterò la salvezza di quei poveri giovani, e con ciò tenterò eziandio qualche cosa di maggiore pel bene d'Italia.

7Le avventure di Romualdo ho narrate nel Novelliere Contemporaneo.