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La plebe, parte II

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CAPITOLO XIV

Mario Tiburzio, introdotto, come abbiamo visto, nello stanzino sotterraneo cogli occhi fasciati, aveva udito il susurrio di parole sommessamente scambiate, poi il rumore di passi che s'allontanavano e quello d'un uscio che si richiudeva, quindi una voce giovanile e risoluta, la voce di Luigi Quercia, dirgli:

– Levatevi la benda.

Egli così aveva fatto, e s'era trovato in quella cameretta dove il medichino lo aveva già introdotto altre volte colle medesime precauzioni egli stesso. Il luogo era illuminato da una lampada posta sopra la scrivania a cui sedeva Gian-Luigi. Mario sedette sopra una seggiola posta vicino alla scrivania medesima cui Quercia gli additò con cenno da gentiluomo che riceve nel suo salotto; ed appoggiato il braccio alla tavola chinò il corpo innanzi verso il suo compagno, fissando i suoi occhi in quelli di lui. Per un osservatore era degno di nota l'esaminare quelle due teste giovanili con espressione risoluta, audace, ardente, in cui appariva la forza di due robusti voleri, l'intensità di due accese passioni, il concentramento in un'opera delle migliori doti che all'animo ed all'ingegno dell'uomo accordar possa la natura. Ma le passioni che dominavano questi due uomini com'erano diverse e l'una dall'altra distante! In Mario Tiburzio era quella nobilissima dell'amore della patria, in Luigi Quercia era una smodata ambizione di vanità personale, era una sregolata smania di possedere tutti i piaceri terreni. Quella si era messa e si metteva in urto contro le leggi della tirannia, ma esercitando le più nobili virtù del cuore, il sacrificio di sè, il coraggio disinteressato, l'amore dei nostri simili; la scellerata passione del capo supremo della cocca lo faceva infrangere ogni legge di giustizia sociale e di umanità per cercare soddisfazione ad empi istinti con iniqui fatti. Questa differenza fondamentale si manifestava spiccatamente allora appunto che, sovreccitate da qualche circostanza, quelle passioni stampavano sulla fisionomia dei due giovani la loro impronta. La nobile figura di Mario s'illuminava, direi quasi, d'una luce superiore, ed impossibile vederla senza rimanerne ammirati: la bellezza di Gian-Luigi invece, per quanta essa fosse, si deturpava in quei momenti per una trista, feroce espressione, di cui carattere principale era quella ruga che veniva a solcargli la pallida fronte.

Or dunque stettero un poco guardandosi i due giovani senz'altro, come studiando ciascuno fra sè a cui toccasse parlar primo; poscia Quercia trasse di tasca il suo elegante astuccio di sigari, ed apertolo ne offerse a Tiburzio; questi prese un avana e lo fece accendersi sopra il tubo di vetro della lampada; il medichino scelse colla solita cura un sigaro per sè, richiuse e ripose in tasca l'astuccio ed accese a sua volta il sigaro alla lampada. Per alcuni istanti ancora e l'uno e l'altro parvero occupati unicamente di fumare con voluttà i loro sigari eccellenti che profumavano l'aere dell'odore finissimo del più squisito tabacco del mondo: poscia Mario si decise a parlare esso per il primo.

– La vostra chiamata, signor Quercia, diss'egli, venne per me questa mattina più opportuna che mai. Io stava appunto cercando il modo di avere sollecitamente un colloquio con voi, perchè ho gravi novelle ad apprendervi, gravi comunicazioni da farvi e gravissime cose onde richiedervi. E tutto ciò colla massima premura. Pel vostro biglietto ho arguito che voi pure aveste cose d'assai rilievo da dirmi.

Gian-Luigi accennò col capo che così era veramente.

– A voi il decidere, continuava Mario, se volete parlare od ascoltar primo.

Il medichino abbassò con atto di elegante cortesia la sua destra aristocratica verso il suo interlocutore, e disse con avvenevole grazia:

– Parlate voi, vi prego.

Mario appoggiò alla scrivania tutti e due i gomiti e posando il mento sopra le sue mani insieme intrecciate, cominciò con tutta semplicità:

– Abbiamo deciso ieri sera di dar fuoco alla mina. Questa mattina medesima, per mezzi sicurissimi, sono partiti i cenni agli altri centri d'insurrezione. Ad un giorno posto la striscia di polvere s'incendierà producendo dappertutto lo scoppio.

– Se le polveri non si troveranno qua o colà e fors'anco in ogni dove bagnate: disse sorridendo Gian-Luigi.

– No: proruppe con forza Mario Tiburzio. Siamo sicuri de' nostri congiurati.

– Ah! non bisogna mai essere sicuri degli uomini, se non si è saputo destarne l'interesse. Tutti codestoro su cui contate, hanno eglino interesse preciso e sufficiente per affrontare le forche in nome dell'Italia?

Tiburzio rispose alla spartana:

– Tutti amano la patria, e tutti hanno giurato.

Luigi s'inchinò, ma il suo sorriso diventò ironico.

– E voi siete sicuro?

– Sicurissimo.

– Sta bene. E volete da me?

– Che voi manteniate la vostra parola, che voi facciate ciò che mi fu detto e che voi stesso mi confermaste di poter fare, che ci procuriate il concorso della plebe.

– Un istante! Esclamò Quercia. La mia parola non è impegnata che subordinatamente…

– Le condizioni che avete poste furono da me accettate, e saranno tutte lealmente eseguite.

– Chi me ne assicura?

Mario arrossì.

– La mia parola: diss'egli con vivacità.

– E se voi morite?

Tiburzio tacque un istante, riflettendo.

– Avete ragione: diss'egli poi. Redigete voi stesso uno scritto in cui sieno contenute tutte le disposizioni onde convenimmo, che riguardano voi personalmente e la classe che rappresentate; sotto questo scritto, con solenne promessa di effettuarne fedelmente il contenuto, ci firmeremo io e tutti i capi del movimento insurrezionale.

Il medichino tornò ad inchinarsi per mostrare che quello spediente lo soddisfaceva abbastanza: poi arrovesciatosi sulla spalliera mandò al vôlto lentamente una boccata di fumo bianchiccio dell'avana, compiacendosi a guardarne le spire.

– Insomma, riprese egli dopo un istante, voi state per giuocare la vostra testa, e volete che anch'io… e quelli che da me dipendono ci accordiamo il divertimento di questo giuoco. Sia pure; ma almanco abbiamo il diritto di conoscere le probabilità della partita e sapere le carte che si tiene in mano. Voi mi direte come debba aver luogo il moto, con quali elementi di successo, qual parte ci avete assegnata, e tutte insomma le più segrete risoluzioni che avete prese.

Mario esitò un momento.

– Ah mio caro signore: soggiunse vivamente Luigi: o la più compiuta fiducia o niente di fatto.

– Vi dirò tutto: disse ad un tratto Tiburzio.

Gian-Luigi si chinò con interesse verso di lui.

– Fra una settimana è la fine del carnevale: così parlò allora l'emigrato romano. Tutta la gente pensa a darsi sollazzo, e pare impossibile benanco a ciascheduno che vi sieno chi nutrano gravi propositi e vogliano tentare gravissimi fatti; la stessa Polizia, se deve acuire il suo sguardo sui ladroncelli, crede in quest'occasione poter rimettere della sua vigilanza intorno agli umori politici. Inoltre l'accorrere di forestieri nella città rende più facile il nascondere e legittimar l'arrivo di nostri aderenti indettati…

– Insomma: interruppe il medichino che pareva impaziente di venirne alla conclusione; avete fissato per gli ultimi giorni del carnevale lo scoppio della rivolta.

– Precisamente.

– Questo quanto al tempo; e il modo?

– Eccolo. In ogni città ogni capo della società segreta avvisa i sottocapi a tenersi pronti e ad eseguire le avute istruzioni al momento determinato. Queste istruzioni, diverse in ogni città ed adattate alle particolari circostanze di ciascheduna, sono combinate dal supremo Consiglio dei congiurati in ogni località. I sottocapi trasmettono gli ordini e quanto è indispensabile solamente di queste istruzioni a quaranta uomini ciascuno, che altrettanti ne tengono sotto di sè. Codesto forma in ogni città principale un nucleo forte, risoluto, compatto da seicento a mille uomini a seconda: e quanto possano un migliaio di coraggiosi in un assalto inopinato voi certo non lo disconoscete.

Quercia chinò leggermente la testa.

– Intorno a questo nucleo inoltre, continuava Mario, non può mancare di radunarsi tutta quella vivace e generosa parte della gioventù italiana che è insofferente dell'attuale ignominiosa servitù…

– E tutti coloro che amano pescar nel torbido: soggiunse Gian-Luigi.

– Non basta. Anche fra coloro che vestono l'assisa del soldato in Piemonte, in Toscana, in Napoli, vi hanno petti in cui batte un cuore d'Italiano. Contiamo parecchi fra i militari di vario grado nel numero dei nostri congiurati; ne contiamo eziandio nelle file degli Italiani che servono l'Austria. Per codestoro avverrà che parecchie compagnie ed anco battaglioni non combatteranno con molto vigore contro gl'insorti, e non pochi fors'anco passeranno dalla parte di questi. Di più non credo affatto vana illusione la lusinga che i moschetti di soldati italiani non vogliano rivolgersi senza esitanza contro chi alzerà il grido della libertà e dell'indipendenza dallo straniero.

Quercia scosse il capo.

– Se siete forti abbastanza da vincere, diss'egli, avverrà così; ma se i Principi hanno essi le probabilità di schiacciarvi, i moschetti dei soldati italiani vi fucileranno con tutta tranquillità e precisione.

– Ma noi vinceremo: proruppe colla forza d'una vera convinzione il congiurato. Il potere dei Principi italiani posa sopra fondamento più labile che l'arena, poichè ha di sotto il meritato odio dei popoli…

– E l'Austria?

– L'Austria sarà occupata dalla contemporanea insurrezione delle proprie provincie, e non potrà accorrere in difesa dei tirannelli nazionali… Pogniam pure che essa riesca poscia a domare colle truppe delle altre parti dell'impero la rivolta italiana; ma ciò intanto non avverrà prima che la nostra rivoluzione sia vincitrice, e quando l'Austria crederà poter camminare sulla nuova Italia costituitasi, la troverà riunita dal pericolo comune, forte del suo recente trionfo, e della nuova libertà, infiammata dal desiderio d'emanciparsi per sempre dalla tutela straniera. La rivoluzione interna si cambierà in guerra nazionale; e quanto irresistibil forza abbiano i popoli che combattono tal guerra, ve lo dica la storia di Francia della fine del secolo scorso.

 

– Sia pure: disse accondiscendendo il medichino; ma per far tutto ciò occorrono delle armi…

– Le avremo; ne abbiamo già un buon dato. Varie casse sono penetrate nell'Italia media ed inferiore; parecchie eziandio in Piemonte; molte più sono in Isvizzera preparate e saranno introdotte questa settimana con mezzi sicurissimi. Quante ne vorremo poi, ce le procureranno gli arsenali stessi dei Governi che combattiamo…

– Sì! Bisognerà prenderli questi arsenali…

– E li prenderemo. Il popolo parigino ha ben preso la Bastiglia!..

– Qui, per la nostra Torino, qual è il piano di battaglia?

– La rivoluzione comincierà domenica sera, e sarò io che dal palco scenico del Teatro Regio, a metà dello spettacolo ne darò il segnale.

Luigi Quercia si appoggiò ancor esso con tutte due le braccia alla scrivania ed appressò maggiormente il suo capo a quello di Mario.

– Oh come? Domandò egli con molto interesse.

E Tiburzio continuando colla medesima semplicità con cui avrebbe parlato delle cose le più indifferenti del mondo:

– Lungo il giorno molti congiurati verranno in città ad accrescer le file; la sera saranno raccolti alle varie porte in armi per precipitarsi e sorprendere tutti i corpi di guardia, appena scocchino le ore nove, che è il momento fissato; due schiere più numerose assaliranno le due caserme e facilmente se ne impadroniranno, poichè quella sera saranno deserte di soldati, ai quali per la ragione che è l'ultima domenica di carnovale sarà concessa licenza fino alle ore dieci.

– È giusto.

– E nelle caserme piglieremo subito buon numero d'armi e alquanto di munizioni da guerra. Nello stesso momento una schiera di più risoluti invaderà in quella medesima guisa l'arsenale, dove non abbiamo da temer resistenza. Quando gli artiglieri verranno per rientrare, troveranno le porte chiuse e i nostri in sulla difesa. I cannoni non potranno così tuonare contro gl'insorti.

– E la cittadella?

– Ancor essa si tenterà di sorprendere in ugual modo; ma quand'anche non ci si riesca, la cittadella potrà far poco a nostro danno, perchè la maggior parte dei soldati sarà in giro per la città, e sarà agevol cosa lo averli prigioni, od almeno lo impedir loro di raccogliersi dietro i bastioni della rocca. Mi pare che in un istante noi abbiamo da essere padroni della città; siccome le stesse probabilità ci sono per le altre sommosse che in pari tempo scoppieranno nelle località principali, così puossi avere fondata speranza che in quella sera la rivoluzione trionfi per tutta Italia. Ma bisogna pensare anche al domani, bisogna pensare anche al caso di qualche insuccesso parziale… – Se l'insuccesso è generale, allora noi rechiamo la nostra testa in mano al boia, e non ce n'è più da discorrere. – La tirannia, se le si lascia il capo, tenterà la sua rivincita, e siccome ha tanti mezzi in suo potere, potrà riuscire alla guerra civile, indebolirà, se non altro, colla lotta interna la nazione in faccia dell'Austria quando questa possa intervenire; occorre quindi togliere a quest'idra della tirannia le sue molteplici teste. Voi avete già capito quali sieno queste teste: sono i regnanti d'Italia: re, granduchi, duchi, principi e principini. La parte più importante del nostro disegno, quella in cui abbiamo posta la maggior cura e pogniamo la maggiore speranza di buon esito, consiste nell'impadronirsi quella sera medesima, non che delle persone dei singoli regnanti, ma di tutte le loro famiglie.

– Cospetto! Esclamò Gian-Luigi. Questo sarebbe daddovero un bel colpo!

– Per la famiglia regnante di Torino, sono poco meno che sicuro della riuscita. Vi dissi che io stesso dal palco scenico del teatro Regio avrei dato il segnale della rivoluzione…

– Comincio a capire: interruppe vivamente Gian-Luigi, abbassando la voce quasi avesse paura che in quella solitudine sotterranea altro orecchio pur tuttavia potesse intendere le sue parole. Il Re con tutta la sua famiglia, quella sera assisterà allo spettacolo in pompa solenne nel gran palco della Corona.

Mario Tiburzio fece gravemente un segno affermativo col capo. Tacquero un istante tutti e due, guardandosi fiso, come per leggersi entro l'animo a vicenda; poi l'emigrato romano disse lentamente, e con voce più sommessa ancor egli:

– Quando suoneranno le nove io mi avanzerò alla ribalta, e in faccia al Re, ai Principi ed a tutta la Corte, griderò alto, snudando la mia spada da teatro: Viva l'Italia! Abbasso l'Austria e i Principi suoi vassalli! Il fondo della platea e l'atrio delle scale saranno occupati dai nostri; a questo mio grido irromperanno nella loggia reale, superando le Guardie di Palazzo e le Guardie del Corpo; tutta Casa Savoia sarà nostra prigioniera.

– E?.. Domandò Luigi.

– E i successivi avvenimenti, soggiunse Mario, decideranno della sua sorte.

Successe un nuovo silenzio; cui ruppe dopo alcuni minuti il medichino.

– In complesso la cosa non è mal combinata; e in tutto codesto quale la mia parte?

– Far concorrere la plebe al movimento; persuaderla che le mutazioni politiche da noi tentate andranno in util suo, staccarla dalla devozione alla monarchia per consecrarla alla devozione alla patria.

– Va benissimo. E le mutazioni di Governo, quando eseguite lealmente le condizioni da me poste, andranno in effetto a vantaggio del povero proletario… Io posso aiutarvi più forse che non crediate. Quella sera medesima dello scoppio della rivoluzione, a sviare la Polizia, a disperderne le forze, io sono in grado di far prorompere in varie parti della città moti popolari che abbiano puramente sembianza… dirò così… economica. La miseria è grande in questa stagione, e io posso slanciare su per le strade delle turbe che tumultuino ad un grido ancora più efficace che quello della patria e della libertà, al grido di Abbiamo fame e vogliamo del pane. Le due insurrezioni si daranno la mano sulla rovina della monarchia. Ma il nerbo d'ogni guerra è il denaro. Ne avete voi del denaro?

– Quanto occorre per le meditate imprese.

– E per noi? Datemi un milione ed io metto in campo trentamila insorti.

– Questo non possiamo assolutamente.

– Se non darcelo prima, almeno assicurarcelo pel poi. La rivoluzione vincitrice avrà in suo possesso le casse pubbliche; ne vogliamo la nostra parte.

– Ah! Disse Mario Tiburzio con subita freddezza, quasi con sospetto, tirandosi indietro sulla seggiola.

– Voi esitate?

– Quei denari dovranno essere sacrosanti perchè destinati alle necessità della patria.

– E la patria non la salverete senza saper usare di quei denari ammodo. Gli uomini ond'io dispongo non si fanno sgozzare per una parola – chiamatela pure un'idea; e senza di me – ve lo dico chiaro e tondo – voi non riuscirete in nulla.

Tacque un istante, e poi abbassandosi di nuovo verso il suo interlocutore, soggiunse vibratamente:

– Questa mattina – e gli è per avvisarvene ch'io vi ho mandato a chiamare – questa mattina furono arrestati Francesco Benda e Giovanni Selva.

Mario Tiburzio fece un soprassalto e mandò una esclamazione.

– Furano arrestati, continuava Gian-Luigi; e nella casa di Benda ebbe lungo una perquisizione, la quale son persuaso si sarà fatta del pari nell'alloggio di Selva.

– Nè presso l'uno, nè presso dell'altro possono aver trovato cosa che riveli in alcun modo il complotto.

– Ma questo arresto non può egli essere indizio che si ha sentore del medesimo e che se ne vanno ricercando le fila?

Mario Tiburzio, per quanto fosse padrone di sè medesimo, impallidì.

– Impossibile! Esclamò egli. Converrebbe che alcuno dei più fidati capi dell'impresa ci avesse traditi.

Tacque un istante, e poi domandò a Quercia lentamente, guardandolo fiso:

– Ma voi, come sapete che que' due giovani furono arrestati e come ch'essi sieno della congiura?

Quercia sorrise.

– Vi ho detto che tengo ancor io la mia Polizia segreta, e potrei farmi onore della medesima che mi avesse informato; ma preferisco dirvi la verità qual essa è.

Raccontò le scene a cui aveva assistito quella mattina, come avesse arguito che quei giovani dovessero aver parte nell'impresa ch'egli sapeva iniziata da Mario, e fosse stato chiaro di ciò dalla risposta che Giovanni Selva aveva data alla interrogazione da lui mossagliene in fretta nel momento della irruzione degli operai nella sala della famiglia Benda.

Gli avvenuti arresti, soggiunse, potevan essere o l'effetto di dubbi senza fondamento soltanto, ed allora non avevano altro danno che di togliere all'opera due complici, od erano cagionati da qualche positiva conoscenza della congiura, ed allora era gravissimo il caso: nell'una e nell'altra supposizione egli domandava a Mario che cosa avrebbe determinato di fare.

Tiburzio tornò ad appoggiare i gomiti alla scrivania, riaccostando il suo al volto del medichino.

– Prima di tutto ho bisogno di sapere esattamente da quali ragioni sieno stati determinati questi arresti.

Fece una pausa, come attendendo dall'interlocutore risposta. Gian-Luigi non si mosse.

– Se la congiura non è conosciuta, l'arresto di Selva e di Benda sarà pur sempre un danno grave, perchè essi sono due de' più risoluti capi e che abbiano una parte principale nell'impresa. Converrebbe adunque tentar di tutto per liberarneli.

Nuova pausa di Tiburzio; nuovo silenzio di Quercia che parve tutto preso dall'attenzione con cui fumava l'ultimo pezzo del suo sigaro.

– Se poi la congiura è davvero scoperta in tal caso…

Mario s'interruppe e fece un cenno di eroica rassegnazione che voleva significare: «Allora ci tocca morire ed io son pronto.»

Quercia disse allora:

– Quando una congiura è scoperta non rimangono che due partiti: o precipitarne lo scoppio, quando ella sia matura, od aggiornarlo indefinitamente, sciogliersi i congiurati e fare scomparire ogni traccia del complotto.

– Il primo da noi non si può, e il secondo troppo ci rincresce farlo senza un'assoluta necessità che lo comandi. Piuttosto, anche colla certezza di soccombere, si lotti…

– Pazzie! Interruppe Luigi crollando le spalle. Qui non si tratta d'esser martiri, si tratta di riuscire. Orsù date retta, e non sciupiamo tempo e parole. Io, quest'io che guardate con tanto d'occhi, vi saprò dire che cosa sa o non sa la Polizia; se non si tratta che di sospetti in aria, io vi farò aver liberi i due arrestati, al momento della pugna io getterò nella strada una turba terribile per impeto e per furore che non solo paralizzerà ma distrurrà la forza pubblica. Ma oltre i patti già da voi consentiti occorre ancora una cosa: che voi sin d'ora assicuriate l'impunità a qualche eccesso di saccheggio che si commetta nella foga della riotta, che del pubblico tesoro, mi lasciate subito prendere quanto mi occorrerà per assoldare e contenere questi che saranno i nostri pretoriani della rivolta.

Mario Tiburzio per la prima volta travide in qual baratro quel pericoloso alleato voleva trascinarlo.

– Ma noi, esclamò egli, non vogliamo di questi pretoriani, noi non vogliamo eccessi…

Gian-Luigi si levò con impeto, sfavillante lo sguardo di potente ironia.

– Voi non volete? Voi non volete? Ma che concetto vi siete dunque fatto dell'opera vostra e delle condizioni sociali, da credere possibile una rivoluzione all'acqua di rosa, che finisca in canzoni e serenate? Chi vuole il fine deve volere i mezzi, e credete voi possibile arrovesciare il mondo senza che venga al di sopra ciò che sta di sotto, senza che si levino in bollore gli strati inferiori del mondo sociale, e con questo bollore salga alla cima del fiotto la schiuma? Il vostro, signori patrioti, è un liberalismo all'antica, sullo stampo greco o romano, che vede nella massa da una parte una casta di cittadini a cui concedere i diritti politici e rispettatissimo il diritto di proprietà, e dall'altra parte una turba di iloti e di schiavi a cui lasciare in retaggio la miseria e il freno crudele delle leggi penali. Se voi poteste trionfare da soli, passi: al dispotismo della monarchia oligarchica sostituireste addosso al proletario quello d'una borghesia mercantile, industriale ed avara; e il proletario non cambierebbe che di stromento della sua schiavitù economica e civile; ma, il vostro liberalismo più potente di frasi rettoriche che di braccia e di coraggio, ha bisogno del proletariato, ed avendo compreso questa verità è venuto a cercarne l'alleanza. Io, che rappresento la plebe, sono pronto a stringere quest'alleanza; ma voglio per Dio che a questa povera plebe, sia concessa alfine la libertà…

 

Mario sorse in piedi ancor egli, e interruppe parlando eziandio di forza:

– Sì la libertà, ma non la libertà del delitto. Sì la plebe la vogliamo emancipata anche noi, emancipata dalla miseria e dall'ignoranza, che è la peggiore delle miserie, ma non emancipata dal freno delle leggi del giusto e dell'onesto, che sono la salvaguardia d'ogni società. Voi, dottor Quercia, confondete colla plebe quella vil feccia che pur troppo esce in maggior numero dalle più povere classi sociali per arrabattarsi nel fango dell'infamia e della colpa. Con questa non transigiamo, non facciamo alleanza: essa non ha che la nostra compassione talvolta, sovente il nostro disprezzo.

Gian-Luigi impallidì e si morse le labbra, ma tacque.

Tiburzio continuava:

– Una rivoluzione che saccheggi si disonora; se noi trionferemo, sarà nostra cura far appendere alle forche qualunque che faccia onta al nostro successo con un latrocinio.

La fronte del medichino si corrugò un istante, e i suoi occhi lampeggiarono molto minacciosi; ma fu un lampo daddovero; innanzi alla serena, fiera, nobile guardatura di Mario, egli riprese tantosto l'amenità della sua fisionomia da elegante frequentatore di aristocratici salotti.

– Il gran punto, caro mio, sta adunque nel trionfare. Del resto voi non mi avete capito, e non voglio che ci guastiamo per un malinteso. Siamo più d'accordo di quel che vi paia, e quando gli avvenimenti avranno volto a seconda dei nostri desiderii, vi accorgerete voi stesso che l'assolutezza del vostro puritanismo dovrà transigere colle necessità del momento. Per assicurare la vostra rivoluzione medesima sarete obbligato a compensare del perduto lavoro infinito numero di plebei che il movimento avrà gettati sulla strada… Gli è di questi che intendevo parlare.

– Ed a costoro provvederemo… Agli onesti.

– Eh! Disse Gian-Luigi levando le spalle. Ne avranno ancora maggior bisogno e saranno più pericolosi gli altri… Ma il tempo passa…

Trasse dal taschino del panciotto un prezioso oriuolo d'oro.

– È oramai da un'ora che noi stiamo qui discorrendo, e ci siamo detto tutto quanto pel momento occorre. Separiamoci. Appena avrò appreso alcun che ve lo comunicherò tosto; così voi a me se alcun nuovo fatto intravviene. E frattanto disporremo tutto, ciascuno da parte sua, per la domenica ventura. Ora abbiale la compiacenza di lasciarvi rimettere la fascia sugli occhi.

Glie la pose egli stesso, poi aprì la porta dello stanzino. Il mariuolo che gli faceva da domestico era là che aspettava come una sentinella. Il medichino gli disse all'orecchio:

– Conduci fuori costui per la taverna di Pelone. Se Macobaro è ancora costì mandamelo qui subito.

Mentre Mario cogli occhi bendati era condotto via dal tristo che serviva da domestico a Gian-Luigi, questi gli tenne dietro collo sguardo, finchè spari del tutto nella tenebra della galleria che conduceva alla taverna.

– Un nobile carattere, sì: diceva egli fra sè: un'anima generosissima in cui albergano i più elevati sentimenti; ma conosce egli, codestui, gli uomini ed il mondo? Ma con tanta riguardosa coscienza, a che si riesce?

Crollò le spalle e fece il suo sogghigno più ironico e più scettico.

– Stolti! Soggiunse il capo della cocca. Stolti che vengono da noi, che chiamano il nostro aiuto e credono, a battaglia vinta, misurarci la parte della torta. Ma per Iddio! se vinceremo, i padroni saremo noi… sarò io!!

Si drizzò della persona e gettò nello spazio quello sguardo di dominazione che Maurilio al villaggio gli aveva già visto gettare sulla lontana città, quando s'apprestava a venire in essa per conquistarsi la supremazia sociale.

Stette alquanto così, in quell'attitudine fiera e superba: poi si riscosse e volse gli occhi fiammanti verso la galleria per cui era partilo Mario Tiburzio; un passo trascinante vi si fece sentire e nella penombra del Cafarnao apparve il profilo asciutto e la persona curva di Jacob Arom, il vecchio rigattiere ebreo.

Era il ritratto dell'avarizia e della viltà, colle sembianze d'una sordida miseria. In forme e panni maschili, l'accompagnatura della schifosa figura della Gattona. Il naso adunco in quel volto osseo e magro, a zigomi sporgenti ed occhi incassati, ricordava il becco d'un uccello da rapina; la bocca sdentata rientrava nelle mascelle incavando ai due lati della faccia un avvallamento pieno di rughe; piccolo, a spalle strette, a petto incurvato, a membra gracili, Jacob camminava a corti passi, senza far rumore, guardando in terra dove sembrava sempre cercar qualche cosa, respirando in modo particolare, quasi affannoso, tra il sospiro ed il gemito. Parlando aveva la voce debole e rauca e quell'accento tra gutturale e nasale che è carattere del popolo israelita, esagerato nella feccia di quella povera razza dispersa. Sopra una spalla portava accavallati due o tre abiti logori; in mano un ombrello di stoffa di cotone.

Appena lo vide, Quercia gli gridò col tono d'un padrone non benigno ad un cane in disgrazia:

– Avanzati un po' qua, vecchio scellerato, apri le orecchie, e sta pronto a dir sì, senza tanti discorsi, chè tu sai come a me non piacciano gl'indugi delle parole inutili, e ti avviso inoltre che al presente ho molta fretta.

Jacob tirò giù il suo cappello frusto, unto e bisunto, tutto bozze ed ammaccature, e scoprì un capo arruffato con foltissimi capelli corti, ricciuti, che parevano, per forma e per colore, la lana delle pecore in montagna, quando la piova da lungo tempo non è più venuta a lavarla.

– Eccomi agli ordini suoi: diss'egli con tono tutto raumiliato, avanzandosi proprio coll'andatura del can barbone che teme le botte. Mi comandi, e se la è cosa ch'io possa fare, si accerti…

Il medichino lo interruppe bruscamente:

– Mi bisognano fra due giorni cinquanta mila lire in denaro sonante, e tu me le hai da dare…

– Dio d'Abramo! Esclamò Jacob alzando le mani alla vôlta con espressione quasi di spavento, e lasciando per la soverchia sovrappresa cadere in terra il suo cappello frusto. E come vuole che io possa procurarle una somma sì enorme?

– Pigliandola dove ce l'hai; nelle tue casse, nei tuoi nascondigli in cantina, vecchio avaro.

– Per l'anima di Melchisedech! Ancor Ella crede le fole che i piacevoloni si divertono a spacciare sul mio conto? Che io nuoto nell'oro, ed ho tutti i tesori del re Salomone nelle mie cantine. Ma Lei che è un uomo superiore, come può dar retta a simili cantafère? La vede bene che vita miserabile è quella ch'io meno…

Luigi nuovamente lo interruppe con quel suo accento a cui pochi erano tanto arditi da ribatter parola:

– Ti dico che ho bisogno di quella somma, e che la voglio. Risparmia adunque tutte le tue ciancie con cui suoli sgozzare altrui nel tuo mestiere da usuraio, degno emulo di quello scellerato Nariccia. Come tu abbia da fare per procurarmi quel valsente io non lo voglio nemmanco sapere, ma ciò che voglio si è che fra due giorni al più tardi esso trovisi in mio potere. Tu mi conosci qual sono; e regolati in conseguenza.

Il ferravecchio raccolse da terra il suo cappello e per un poco parve tutto intento a lisciarlo e rilevarne la ammaccature. Pareva rannicchiatosi di corpo da essere diventato più piccolo; aveva saputo accrescere l'umiltà, la miserevolezza, la debiltà di quel suo aspetto che era sempre debolissimo, miserrimo ed umilissimo.

– Come mai, diss'egli di poi con timidezza, può esservi bisogno di un tanto capitale? Le casse della cocca dovrebbero essere ripiene; ogni giorno le si vengono rifornendo con qualche nuovo versamento: l'altro dì ancora le ventimila lire di Bancone…

Quercia crollò le spalle con atto disdegnoso.

– Peuh! Esclamò. Una secchia d'acqua nel letto d'un fiume. Le spese sono molte; abbiamo un esercito di miserabili a cui, poca o assai, ci vuole la sua parte; dei valori non monetati tu e Pelone, birbanti tuttedue, ce ne rubacchiate la buona metà del prezzo…