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La plebe, parte II

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Sollevò il capo e guardò innanzi a sè con occhio che brillava d'una fiamma pressochè sovrumana.

– No, non si rompe! L'anima della madre è così congiunta, così intrecciata con quella del figlio, cotanto l'avvolge e la compenetra, che nemmanco la tomba non può separarnela del tutto. Ella – l'anima amorosa materna – ci segue, ci sta presso, ci veglia, e se non può materialmente farcisi scorgere, e se non può sfogare cogli amplessi terreni l'affetto, forse, e senza forse, è quella che ne ispira i nostri buoni pensieri, che ne infonde nei dolori calma e coraggio, che ci fa entrare nell'animo la dolcezza tante volte di un misterioso inesplicabil conforto.

Prese il ragazzo alle braccia e traendolo a sè, lo abbracciò con più viva espansione d'affetto.

– Senti, Luca, seguitava egli con voce sempre più soavemente commossa e dolcemente vibrante; non ti avvenne egli mai di vedere nelle visioni del tuo sonno una pietosa figura di donna che ti sorridesse? Nelle ombre della sera non hai mai visto disegnarsi innanzi a te, come in un chiarore nebbioso, una vaga, aerea immagine? Non hai tu mai sentito qui nel tuo capo come un susurro di parole amorose, qui entro il tuo petto come il tepore di una mano che ti carezzasse il cuore?

Il bambino continuava a guardare co' suoi occhi sbarrati quell'uomo che gli parlava sì nuove e per lui strane parole. Di certo egli non le capiva bene e intieramente; ma pur tuttavia dallo sguardo scintillante di Maurilio, dall'amplesso di lui, da quell'accento grave, tenero e commosso, sentiva penetrare entro sè un ignoto influsso che glie ne serpeva non senza gradevolezza nell'intimo, e suscitavagli non ancora provati sentimenti nell'animo. Chinò il capo tacitamente in segno affermativo, e il suo sguardo infantile e il suo viso patito e smunto erano tutto pensosi.

– Ebbene, ripigliava con calore Maurilio, in quei momenti comunicava col tuo spirito rinchiuso in questa tua carne lo spirito di tua madre. Se l'esserci incontrati noi due ieri sera nel fango di quella ignobile strada dove tu piangevi, potrà esserti un giovamento nella vita, siccome io spero, tu ne dovrai ringraziare l'anima di tua madre. Essa fu che ti pose sui miei passi, come la ignota madre mia mi condusse un giorno dinanzi quel generoso che doveva destare alla vita la mia intelligenza: e forse in questo istante le due anime pietose delle madri nostre sono qui stesso che ci guardano, che ispirano in me l'affetto che mi detta queste parole, in te quella commozione che t'impallidisce le guancie.

E l'occhio lucente di Maurilio si levava in alto, come a mirarvi i due spiriti delle morte donne che aleggiassero sopra di loro; e le pupille dilatate del fanciullo guardavano ancor esse fisse nello spazio incerte ed immote, quasi vedessero anche loro aperto innanzi a sè il mondo delle visioni ultraterrene.

– Luca: soggiunse con inesprimibile efficacia nell'accento il nostro protagonista; io t'insegnerò per prima cosa quello che è uno dei principali tuoi doveri: rispettare ed amare la memoria di tua madre. T'insegnerò a pregare per lei, ed a pregar lei che t'assista. Le preghiere dei sopravvivi giovano ai morti, e le preghiere della madre morta placano la ferocità del destino pei figli, ottengono alla loro anima la forza e la virtù. Forse ti avranno insegnato a pregare i santi, perchè essi intercedano fra le nostre miserie e la grandezza di Dio; il migliore di siffatti intercessori è l'anima di nostra madre.

In questo punto l'uscio si aprì vivamente ed entrò la Rosina, commossa, cogli occhi inumiditi da due lagrimette. Ella era madre, la sua natura era la più amorevole e pietosa; come avrebb'ella potuto ascoltare i discorsi di Maurilio senza commoversi?

Ebbe rimorso della poca simpatia che aveva provato sino allora per quel giovane melanconico e taciturno; e sentì quasi l'obbligo di farne subita e manifesta ammenda. Senza curarsi punto di rivelare l'indiscrezione da lei commessa nell'ascoltare dietro l'uscio, Rosina irruppe nella stanza colla mano tesa verso Maurilio attonito a quella brusca interruzione.

– Bravo! Esclamò essa. Bravissimo! Queste sono belle parole e questi sono bellissimi atti. La sua è una santa opera, e il buon Dio ne la ricompenserà di sicuro.

Ed ecco che essa non aveva ancora finito di parlare quando sopravvenne un fatto che pareva volerla pienamente contraddire, chi volesse cercare negli avvenimenti immediati della vita terrena l'azione della giustizia divina.

Una forte scampanellata data con mano robusta e che annunziava la maggior premura del mondo, fece accorrere Rosina all'uscio del quartiere. Vide affacciarsi un uomo a faccia sospetta e dietrogli nel pianerottolo quattro altri individui con faccia non meno sospetta di lui.

– Che cosa cercano? Domandò Rosina con aria niente affatto incoraggiante, mettendosi fra i due battenti ad impedire il passo a chicchessia, e pronta a richiuder bruscamente l'uscio sul muso a chi si volesse avanzare.

– Cerchiamo tante cose: rispose con un dubbio sogghigno l'uomo che veniva il primo; ma perchè le possiamo trovare, conviene che Ella ci lasci venir dentro.

La moglie di Vanardi, che era la più coraggiosa donna del mondo, scosse fieramente la testa.

– No signore. Non li lascierò entrare finchè non mi avranno detto chi cercano e che cosa vogliono.

– Bene: rispose di nuovo quel medesimo che aveva parlato prima; abbiamo da parlare ai signori Bigonci e Nulla, e quello che vogliamo lo diremo loro.

Ma la donna inesorabile:

– Il signor Bigonci non c'è; il signor Nulla è occupato; mi dicano chi essi sono e allora…

– Oh quante ciancie! Esclamò quell'uomo impazientito. Ci lasci entrare in nome del Re! Io sono impiegato di Polizia, e questi sono carabinieri travestiti.

La Rosina, che si aspettava tanto a siffatta risposta, quanto a vedersi cascare il fulmine tra' piedi, gettò un grido di meraviglia e si fece indietro di un passo spaventata.

Poliziotto e carabinieri entrarono.

Antonio Vanardi che si stirava tranquillamente le braccia, destatosi allor'allora dal sonno con cui aveva compensalo le ore perdute nella notte, vide ad un punto entrargli in camera la moglie esterrefatta dicendogli con voce tremante: – C'è la Polizia, ci sono i carabinieri… Cercano di Maurilio e del cantante… Vieni presto di là…

Il buon pittore fece un sobbalzo nel letto e divenne più bianco delle sue lenzuola e più tremante di sua moglie.

– La Polizia! Balbettò egli. Misericordia! Sono venuti per arrestarci… Ah! lo sapevo che la doveva finire a questo modo.

– O Santo Dio! Sclamava la Rosina, giungendo le mani. Che cosa avete dunque fatto?.. Mi pareva bene che le vostre misteriose combriccole avevano qualche cosa di losco…

– Zitto! Zitto!.. Hanno dimandato anche di me?

– No, finora.

Vanardi mandò un respiro e si cacciò ben bene sotto le coltri.

– Se ne domandano, di' loro che son malato, molto ammalato… Io frattanto non mi muovo di qua.

Il poliziotto e i carabinieri s'erano messi a frugare e rifrugare dappertutto, cominciando dalle robe di Medoro Bigonci che s'erano fatte rammostrare per prime; ma il baule del povero cantante era il più innocente che si potesse trovare, e non la menoma carta sospetta, nè il più piccolo libro proibito compensò i carabinieri della loro fatica. Passarono quindi alle cose che appartenevano agli altri giovani amici, ma la prudenza li aveva consigliati opportunamente a non custodire presso di sè nessun documento, nè oggetto qualsiasi pericoloso, e i carabinieri non poterono sequestrare che lettere indifferenti e manoscritti di tentativi ed abbozzi letterari.

Vennero poscia allo stipo in cui Maurilio aveva riposte le poche sue robe.

– La chiave di questa serratura? Domandò imperiosamente l'agente di Polizia.

Maurilio assisteva a quell'avvenimento con una impressione d'allarme che non sapeva e non cercava nemmanco dissimulare. Il suo era chiaro e netto un contegno da colpevole; ed un birro qualunque, per poco fosse pratico del mestiere, lo avrebbe arrestato anche senza nessun ordine in proposito, solamente al vederne la faccia turbata e l'occhio smarrito. Innanzi a quella forza materiale rivestita dell'autorità della legge, cui gli rappresentavano gli agenti della Sicurezza Pubblica, la sua debolezza fisica si sentiva profondamente sgomenta. E poi, di botto s'era ridestata in lui l'idea del carcere quale lo aveva sofferto un tempo in compagnia de' più tristi mariuoli del mondo, di Stracciaferro e di Graffigna; ed egli rivedendosi in quell'infame purgatorio, sentina d'ogni scelleratezza, sentiva un profondo tremore scuotergli le più intime fibre. Che cosa non avrebbe dato, che non avrebbe fatto per salvarsi da quell'orrida prospettiva che gli si parava dinanzi? La personalità di questo infelice, come già ho cercato di far comprendere, componevasi quasi di due, l'una dall'altra grandemente distinta e così diversa che per poco non dico opposta. Dove si trattasse di contrasto di idee, di lotta morale, la forza intellettiva che era in lui destava e faceva adergersi una individualità risoluta, potente, ardimentosa nella volontà e nella parola: quando fossero in giuoco le forze brutali della materia, nell'uomo s'incontrassero, o nella natura, o nelle istituzioni sociali, la debolezza dei nervi e dei muscoli nel suo corpo fin dall'infanzia immiserito dalle privazioni, dai maltrattamenti, dalle sofferenze d'ogni sorta, non lasciava più essere in lui che una individualità timida, umile, pieghevole, conscia troppo della sua inferiorità e del suo nulla. Impressionabile qual era la sua natura sotto questo rispetto, siccome egli poteva da un subito sdegno attingere la fiamma fugace d'un impeto momentaneo di coraggio, così troppo miseramente s'abbandonava all'accasciamento, quasi direi, alla viltà del timore. In quest'istante era il timor solo che lo dominava. Se alcuno de' suoi amici fosse stato presente, avrebbe potuto col suo risoluto contegno infondere un poco di fermezza anche in lui: ma solo, in presenza delle faccie torve e delle parole minacciose degli agenti della forza pubblica, il povero e debole trovatello non aveva che soggezione, abbattimento e paura.

 

Alla richiesta che il poliziotto fece della chiave dello stipo, Maurilio si riscosse e si accostò tremando.

– L'ho io: balbettò egli colle labbra spallidite: quella roba è mia.

– Tanto meglio! Disse con accento ancora più ruvido l'agente di polizia, il quale, come suole di siffatta gente, di tanto si faceva più grossolano e prepotente di quanto trovava maggiore innanzi a sè la cedevolezza. – Gli è giusto quello che vogliamo vedere: qui subito quella chiave.

Il giovane glie la diede. Lo stipo fu aperto, i panni sciorinati, ogni cosa frugata, sequestrato lo scartafaccio in cui Maurilio soleva scrivere in pagine che nessuno aveva visto, nè secondo il suo concetto doveva veder mai, il più recondito dei suoi pensieri; scartafaccio su cui egli stesso aveva scritto la parola farragine. Fra i varii oggetti cadde eziandio in mano al poliziotto l'involto in cui erano contenuti il rosario, il bottone da livrea e la lettera che erano stati trovati addosso all'infante abbandonato sulla strada.

Maurilio, che aveva visto con immensa pena afferrato, brancicato e sequestrato il suo manoscritto dall'agente di polizia, e non aveva pur osato far motto, ora vedendo quell'involto per lui sacro nelle mani profane d'un carabiniere, ebbe il coraggio di prorompere supplicando:

– Ah no, codesto! Non mi tolgano codesto, per carità!

Siffatta supplicazione era acconcia ad accrescere ancora la voglia di vedere che cosa quell'involto contenesse; ma nello spiegar la carta, la mano grossolana del carabiniere lasciò cader per terra il bottone d'argento, il quale andò a rotolare tra i piedi di Gognino, che era stato lì interito a mirare quella scena, senza quasi trarre nè anco il fiato. Il nipote della Gattona raccolse quell'oggetto luccicante, lo guardò e disse non senza meraviglia:

– To' to', il bottone della nonna!

Benchè turbatissimo fosse in quel momento Maurilio, le parole di Gognino gli fecero una profonda impressione: fu d'un balzo presso al ragazzo, e prendendogli il bottone di mano, lo interrogò con voce soffocata per emozione:

– Che dici tu? Che cosa vuoi tu significare? Come questa cosa potrebb'ella essere della tua nonna?

– Io voglio dire, rispose il fanciullo, che la nonna ha un bottone tale e quale come questo, e che la lo tien prezioso per non so che memoria.

Maurilio divenne infuocato in volto pel subito, tumultuoso precipitarsi del sangue commosso al cervello. Le orecchie gli tintinnirono, gli occhi ebbero dinanzi uno scintillio; mille idee gl'invasero confuse e disordinate la mente: il cuore sentì mancarsi il battito in uno spasimo di subita passione, gli parve che la mano del destino gli comparisse d'un tratto davanti ad aprirgli il mistero della sua vita.

Le seguenti supposizioni ed induzioni si urtarono e s'intrecciarono nel suo capo: – Che un legame esista fra me e quell'orrida vecchia di vita infame!.. Cielo! ch'ella fosse mia madre!.. La subita compassione da me provata per questo bambino e il proposito fatto di venire in suo soccorso, altro non sono forse che l'effetto d'un vincolo di sangue onde siamo uniti… Quella sarebbe la mia famiglia?..

Provò un sentimento d'orrore e di ripugnanza indicibile. Ad aumentarglielo si affacciò alla sua mente il pensiero della beltà aristocratica di madamigella Virginia, da lui segretamente adorata. Qual nuovo abisso si scavava egli mai fra lui e l'idolo del cuor suo! Oh meglio esser figliuolo di nessuno che il figlio d'una donna infame!..

Tutto questo rovinìo di dolorosi pensieri era passato nel suo cervello colla rapidità del baleno, e gli aveva lasciato nell'anima l'ansietà d'una inquietudine insopportabile.

– Vieni: diss'egli a Gognino prendendolo per mano; conducimi tosto dalla tua nonna. Bisogna ch'io le parli.

– Piano! Gridò il poliziotto mettendoglisi dinanzi. Di qua, signor mio, non s'esce che per venire con noi, perchè Lei è in arresto.

L'esaltazione di Maurilio cadde di botto. Vide innanzi a sè, come una voragine spalancata ad ingoiarlo, la carcere e la infamia del nome; si lasciò cader seduto, fattosi pallido come un cadavere, e desiderò realmente in quell'istante morire.

Antonio Vanardi ne andò immune per quella volta colla sola paura; ma questa fu tale che in quel momento egli si promise di rinunziare affatto al poco fruttuoso mestiere di congiurato. Maurilio supplicò dal delegato di polizia che quegli oggetti che erano per lui un tesoro ed una reliquia non fossero presi cogli altri di cui i carabinieri avevan fatto bottino; e il delegato che giudicò a nulla importare per nessun verso quelle poche robe, acconsentì. Maurilio partendo consegnò l'involto alla Rosina, pregandola di custodirglielo.

Dieci minuti dopo il nostro protagonista, condotto ancor egli al Palazzo Madama, come già era avvenuto a Benda e Selva, trovavasi innanzi alla faccia burbera, villana, prepotente e terribile a chicchessia del signor commissario Tofi.

Gognino intanto, uscito di casa il pittore, s'era affrettato a recarsi alla chiesa del Carmine, dove la nonna aveva detto di aspettarlo.

La Gattona si stupì di veder giungere così presto il ragazzo, e questi raccontò quello che era avvenuto. Colle sue interrogazioni la vecchia spillò dal nipote ogni cosa e parola che là si fosse fatta o detta.

– Che balordaggini, che eresie son queste onde ti vuole empire il capo! Esclamava la donna indegnata. Dire che non bisogna pregare i santi, ma pregare l'anima della madre! Ce n'è tanto da andare all'inferno diritto come un fuso. Vedi mo' se Padre Bonaventura non aveva ragione a giudicar male di codestui! E bisognerà ripetere esattamente al buon padre gesuita quanto hai visto ed udito. Lo hanno arrestato? Ben gli sta! Chi sa che orrori avrà commesso! Già quella gente lì, senza religione, sono capaci di tutto.

Per ultimo Gognino contò l'affare del bottone, come un episodio senza nessuna importanza; ma non lo giudicò tale la Gattona, che parve invece molto interessarsene.

– Che? Davvero? Tu l'hai proprio visto bene?

– Sì.

– Ed è proprio uguale a quello che tengo io?

– Precisamente.

– Questa è strana! Un simile oggetto in suo potere, e quel nome di Maurilio… Oh bisogna che io glie ne parli subito subito a Padre Bonaventura.

E recossi diffatti senza indugio in sacristia a far chiedere del frate, col quale ebbe un lungo e segretissimo colloquio, a cui noi non assisteremo per seguitare invece il povero Maurilio innanzi al Commissario, un debole passero negli artigli d'un girifalco.

Il commissario Tofi era d'un umore feroce; aveva bisogno di qualche agnellino di suddito senz'autorità, da mettere sotto i suoi denti da lupo di poliziotto. I dialoghi che aveva avuti con Benda e con Selva l'avevano profondamente irritato. Benda aveva mostrato della dignità, Selva un'audacia d'indignazione che era tornata al bravo sor Commissario insopportabilmente temeraria. Le sue minaccie e le sue prepotenze si erano spuntate contro il fermo viso di due giovani che non avevano paura: egli era arrabbiato come un attore a cui è mancato il successo. Ah! se gli si fosse presentata l'occasione di ricattarsene! La sua buona sorte glie la menò innanzi, quest'occasione, colla povera figura impaurita del povero Maurilio.

Pel signor Tofi tutta l'umanità si divideva in tre categorie: la prima quella che bisognava rispettare: i nobili, i preti, i militari e gli alti impiegati dello Stato; per costoro consentiva a piegare la sua rigida persona, li trattava col lustrissimo e ringuainava innanzi a loro le sue villanie; l'ultima invece era quella della gente da nulla, dei maltrattabili e strapazzabili a talento, a cui poteva dare del tu e del voi a seconda, chiamarli canaglia, e mettere i pugni sotto il naso; innanzi a costoro egli sfolgorava in tutta l'imponenza della sua terribilità, e faceva sulle curve cervici rombare il tuono delle sue minaccie di forca e di galera. Fra queste due classi tramezzava una terza, a suo senno, ibrida e spuria, che non aveva l'autorità della prima nè la umiltà e la malleabilità della terza, che non poteva imporre il rispetto e pur si ribellava ai sergozzoni morali e fisici dell'arbitrio poliziesco; la borghesia in una parola, cui il commissario Tofi odiava appunto con tutto l'animo, perchè non aveva da temerla, e non poteva vedersela così rassegnata come avrebbe voluto all'onore che il Governo le faceva di calpestarla, ed egli di svillaneggiarla all'occorrenza.

In fondo, in fondo, la sua predilezione era per l'ultima di quelle tre classi – la plebe – verso cui pure egli si dava il gusto di una vera orgia di prepotenze. E questa era una appunto delle ragioni della sua preferenza. Un povero plebeo egli lo poteva fare arrestare, spaventare, maltrattare, tenere un po' di giorni a pane ed acqua nei fossi del Palazzo Madama, poi mandarlo con Dio, senza che alcuno si pensasse mai di muoverne il menomo richiamo; e il poveretto liberato veniva ancora a ringraziare il Commissario, che lo congedava fieramente accigliato con un'ultima benedizione di tremende minaccie. Oltre ciò, egli, il Commissario, usciva da quella classe, e nelle sue vene gli era il sangue plebeo che animava la sua popolana prepotenza; l'influsso della razza esercitava il suo effetto su ciò che potevano dirsi le sue affezioni. Dalla olimpica schiatta dei potenti e dei superiori non era stato che, durante la sua carriera, Tofi non ricevesse qualche ingiustizia e qualche sopruso; ei si curvava innanzi a tutto; la sua devozione monarchica e governativa non n'era punto sminuita, ma che non restasse nulla nulla in lui di amarezza, sarebbe stato un pretender troppo.

Cogli straccioni poi la sua villania era piena di franchezza e di libertà, frammista qualche volta ad una famigliarità confidente, quasi affettuosa. Preferiva d'aver da fare con un ladro da trivio o con un assassino di strade che colla superbia pervicace d'un avvocato liberale. Un buon delitto, ben combinato, egli lo trovava interessante; le opinioni di chi avrebbe voluto essere governato diversamente, non le comprendeva e giudicava qualche cosa d'assurdo e di perfido.

Appena gli fu condotto innanzi Maurilio, il Commissario stimò che questi era precisamente della razza degli umili, a cui monsignore il lupo en les croquant fa un insigne onore, e il suo animo irritato ne provò un intimo soddisfacimento. Tofi passeggiava secondo il solito in lungo e in largo per la stanza in cui l'abbiamo visto interrogare Francesco Benda; aveva sempre il suo cappellone piantato fin sugli occhi e le manaccie affondate nelle grosse tasche del suo lungo soprabito; le sue folte sopracciglia si toccavano e facevano una riga sola al di sopra delle sue pupille feroci, tanto era aggrottata la fronte; le linee della bocca parevano un arco teso per saettare la minaccia.

Allo sdegno suscitato nel Commissario dalla risolutezza di Benda e di Selva, s'aggiungeva quello che gli cagionò la novella non essersi potuto trovare in nessun luogo quel tale Medoro Bigonci. Tofi aveva davvero bisogno di uno sfogo. Esaminò un istante la faccia turbata e i panni logori del giovane, e seppe che cosa pensare sul conto di lui. Lo trattò in conseguenza; e la fiera severità del Commissario si ripercoteva sulle faccie burbere dei carabinieri che accompagnavano Maurilio, sul muso sbarbato dello scrivano seduto al tavolino. L'arrestato non vedeva intorno a sè che espressioni di condanna, presagi per lui della peggior sorte. Tofi lo sottopose ad una vera tortura morale colle minaccie d'una prigionia perpetua e peggio; e l'animo del giovane, per quanto gli era successo quella mattina, era così sconvolto che avrebbe forse lasciato sfuggire il capitale segreto, quando per fortuna si venne a chiamare il Commissario da parte del conte Barranchi, il quale ordinava si recasse da lui senza il menomo indugio.

Tofi comandò che Maurilio fosse rinchiuso in una delle carceri del medesimo Palazzo Madama e s'affrettò di ubbidire al cenno del capo supremo della Polizia.

Maurilio fu tratto in una delle stanze sotterranee del castello; ma colà dentro udì suonare una voce amica, una mano benevola si porse verso di lui, ed egli si trovò fra le braccia di Giovanni Selva. La sua anima, subitamente riconfortata, al contatto di quell'indole coraggiosa e forte era salva da ogni pericolo di debolezza e di viltà.