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La plebe, parte II

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– Eh via! Sono troppo innanzi nel cammino per fermarmi… E lo potrei d'altronde?.. Sono preso fra i rocchetti d'una macchina ch'io guido bensì, ma di cui sono schiavo insieme. Il giorno ch'io mi arrestassi o volessi ritrarmene sarei inevitabilmente schiacciato.

Le sue sopracciglia si aggrottarono un momento in fiera guisa.

– Io che voleva esser libero! Soggiunse con molta amarezza. Io che voleva dominare… e che voglio!

Crollò le spalle e s'avviò senz'altro, con passo d'uomo che non ha esitanza di sorta, verso la specchiera che era in fondo alla camera. Si drizzò in punta di piedi, e trascelto in mezzo ai fiori scolpiti della cornice un bottoncino di rosa, cui nulla poteva far distinguere dai moltissimi altri che vi si ammassavano uniti ai fiori sbocciati, vi premette su lentamente col pollice inguantato, perchè l'azione della pelle non avesse da appannare la doratura. La specchiera girò adagio adagio sopra cardini invisibili, e lasciò scorgere un ambiente entro il muro in cui s'apriva nel suolo una scala a chiocciola che s'affondava tenebrosamente al di sotto.

Gian-Luigi accese una lampada a cristallo chiuso che trovavasi in una nicchia entro la parete di quello stretto stanzino intermurale, poi fatto ritornare a posto la specchiera, e rimasto egli così in una oscurità profondissima, si diede a scendere rischiarandosi del raggio che mandava innanzi a sè la lampa da minatore.

Discese per l'altezza di circa dieci metri e trovossi in un vano uguale a quello da cui dall'alto partiva la scaletta; fece cadere il raggio della lucerna sopra una porta di legno afforzata da lastre di ferro, nella quale presso il muro umidiccio, chiazzato di bianco qua e là per l'efflorescenza del nitro, aprivasi un bucherello in una lastra d'ottone fortemente, non che invitiata, incastrata nel legno. Era una di quelle serrature inglesi che si dicono a pompa che impossibile lo aprirle ad ogni grimaldello, impossibile quasi il romperle e scassinarle. Gian-Luigi trasse dal taschino del panciotto un anello d'acciaio in cui erano infilate parecchie piccole chiavi, e trasceltane una, l'ebbe appena introdotta in quel bucherello della toppa che la porta si aprì chetamente senza fare il menomo rumore. Un corridoio s'internava sottoterra e lasciava luccicare nella densa nebbia delle sue tenebre tratto tratto alcune fiammelle di lampa rischiaratrice che parevano chiazze sanguigne nel fondo nero di quell'oscurità. Un'aria fredda, umidiccia, pesante percoteva nel volto chi entrasse e gli si aggravava sulle spalle come un mantello di gelo che lo vestisse. Un silenzio sepolcrale ammoniva chi camminasse per quell'ombre visibili esser egli separato dal mondo dei viventi come se rinchiuso nella tomba. Qualche goccia di acqua infiltrata rompeva soltanto quella mutezza cascando tratto tratto con lieve rumore sul suolo. Gian-Luigi si avviluppò di meglio nel suo mantello e serrato anche qui alle sue spalle l'uscio pesante camminò innanzi di buon passo e coll'andatura di uomo pratico dei luoghi e della via.

A seconda che avanzava, il terreno che saliva si faceva più asciutto, e l'aria più libera e più mossa. Giunse così dopo un centinaio di passi ad una rotonda tutto murata, di cui il pavimento era composto di lastre irregolari di pietra e nella quale dall'alto pioveva per parecchi forami un po' di luce diurna ed aria esteriore. In quella rotonda facevano capo due altre gallerie cieche, uguali a quella che Gian-Luigi aveva allor allora percorso venendo dalla sua casina; di questi altri due condotti sotterranei uno metteva alla taverna di Pelone, l'altro alla retrobottega di quel Baciccia che abbiamo udito menzionare dal medichino, il quale la faceva da ferravecchi e mercante di mobili usati. Questi tre tunnels correvano sotto l'ammonticchiamento di quelle casaccie che ho detto, sino al centro di quell'isolato vasto e compatto dove quella rotonda trovavasi sotto un cortile interno il quale raramente o non mai veniva visitato da persona che non vi abitasse; e gli abitanti di quella miserrima casa erano la feccia morale e materiale della popolazione.

Ma la rotonda di cui ho detto, non era mica la meta dei passi di Gian-Luigi. Essa non era che il vestibolo del luogo a cui era diretto. Un uscio forte e grosso come quell'altro che era a capo del corridoio sotterraneo, apriva i due suoi battenti sopra uno scalino che lo rialzava dall'umidità del suolo, su cui traverso i fori della vôlta era caduta e cadeva un po' di neve che veniva liquefacendosi tosto. Gian-Luigi trascelse un'altra di quelle chiavettine che aveva radunate a mazzo in quell'anello d'acciaio, cui l'abbiamo già visto trarre dal taschino del suo panciotto, ed aprì colla medesima guisa anche questo uscio.

Al di là di esso continuavasi a salire per cinque altri gradini, che si seguivano in un andito ascendente, accuratamente murato, colla calce lisciata e scialbata. Più asciutto si faceva l'ambiente, un'aria più pura si respirava; piccole aperture a mo' di feritoie, aperte qua e colà con arte che le dissimulava, servivano da sfiatatoi e facevano penetrare un certo dubbio chiarore crepuscolare, come servivano a rinnovar l'aria.

Gian-Luigi aveva già chiuso alle sue spalle anche quest'uscio della scala, quando, ravvisatosi, tornò ad aprirlo e lo lasciò rabbattuto. Poi salì i gradini; depose la lanterna sopra una panca che trovavasi in una specie d'anticamera in cui metteva la scaletta, e sospinse un uscio che trovò aperto innanzi a sè.

Entrò in una vasta cameraccia, aerata ancor essa, come la gabbia della scala e l'anticamera, mercè que' certi sfiatatoi che ho detto, i quali non bastando a gran pezza ad illuminarla, era mestieri di una lampada, che pendeva dalla vôlta continuamente accesa a rischiarare l'infinita, confusa, enorme, varietà di oggetti d'ogni fatta che facevano ingombro colà dentro, non lasciando libero di quell'ampio stanzone che uno spazio di circa due metri in metà.

Ogni cosa qualunque che possiate immaginare di quelle che servono all'uso dell'uomo, avreste potuto colà rinvenire: armi e vestiario, mobili ed utensili da lavoro, arnesi di cucina e suppellettili eleganti da salotto signorile, materassi e biancherie, quadri, bronzi e strumenti musicali, stoffe, tappeti, stipi, casse di ferro e stoviglie, oriuoli a pendolo e da tasca, gioiellerie, e cenci e cordami, perfino libri e quaderni di musica, perfino crocifissi e statue di Madonne di varia materia e lavoro, candelieri, vasi da chiesa, paramenta da altare e da sacerdote celebrante, argenteria da tavola, tabacchiere di preziosi metalli, decorazioni cavalleresche, bottiglie di vino, parrucche, barbe posticcie, pali di ferro, martelli, tanaglie, ascie, le più ignobili come le più sontuose cose del mondo. Se il signor Bancone, quel ricco banchiere che due notti innanzi era stato derubato, avesse mai potuto penetrare colà dentro, avrebbe riconosciuta la principale delle sue casse di ferro, nella forza e nel segreto congegno dei serrami della quale tanto confidava, rotta e sventrata giacente in un angolo.

A ragione questo celato riparo l'avevano battezzato col nome di Cafarnao. Ma aimè su molti di quegli oggetti – orrida vista! – c'erano macchie di sangue…

Gian-Luigi s'inoltrò fra quel pandemonio e venne presso ad una tavola che stava nello spazio lasciato vuoto in metà. Su quella, al di sopra di una delle gambe che la reggevano, vedevasi un anelluccio attaccato ad un tondello di ottone; il medichino prese quest'anello e tirò su con forza un'asticina di ferro che entrava nella tavola, e la quale, per mezzo d'un filo metallico, metteva in moto nella bettola di Pelone un martello nascosto che batteva dei colpi contro l'interno della parete dietro il banco del taverniere medesimo. Diede tre strappate ad un piccolo intervallo l'una dall'altra, poi levatosi il cappello ed il ferraiuolo, fece per gettare l'uno e l'altro sopra un viluppo di materassi e di balle di lana che era alla sua destra. Ma là, sopra quell'ammasso di cui s'era fatto un comodo giaciglio, stava lungo e disteso un omiciattolo colla faccia sottile, col naso appuntato, il quale aveva aperto un occhio per guardare il medichino; un occhio vivo, irrequieto, malizioso, ironico ed impertinente.

– Sei tu, Graffigna? Disse Gian-Luigi deponendo altrove il mantello ed il cappello. Che cosa fai tu costì?

Graffigna tirò giù lentamente le gambe, l'una dopo l'altra, si drizzò in piedi, e rimanendo appoggiato allo stramazzo su cui poco prima giaceva, rispose colla sua voce esile da falsetto, che strideva come l'unghia d'un avaro sopra lastra di vetro:

– Dormivo. Si lavora tutta la notte di santa ragione da quel bravo Graffigna che si è, e un po' di riposo lungo il giorno vi ristora un uomo come una scodella di brodo con dentrovi un mezzetto di barbèra. Qui poi si può dormir tranquilli senza la paura della zampa del gatto. Pur tuttavia sono così avvezzo a non dormire che d'un occhio, che l'ho sentita venire, sor medichino… ed ecco l'affare!

– Va bene… Non voglio disturbarti… Sta pure sdraiato a tua posta.

– La mi burla!.. Conosciamo i nostri doveri verso i superiori, che diavolo!.. La disciplina o che il boia m'impicchi… Non esco di lì, io… Ed a meno che Ella me ne dia espressamente l'ordine…

– Sì, proruppe il medichino con qualche impazienza. Sdraiati, ascolta soltanto due parole che ti ho da dire, e poi russa pure come quel maiale di Stracciaferro che allorchè dorme qui dentro fa tremar le vôlte.

Graffigna allungò di nuovo chetamente il suo corpo mingherlino e disse con voce più sottile che mai:

– Che scusi, ma non son io che sarei capace di mancare alle convenienze come quell'animalaccio di Stracciaferro. Io mi rimetto a giacere per obbedirla, e son tutto orecchie ad ascoltare le sue parole; e poi quando Ella mi avrà dato i suoi ordini, se la mi permetterà, avrò anch'io da spifferarle quattro ragioni in croce.

 

– Quel che t'ho da dir io, è detto in due motti. Primo, cercherai i quattro supremi consiglieri della cocca e loro comanderai a mio nome di trovarsi qui stassera alle sette. I capi-squadra sono avvisati di radunarsi nella bettola di Pelone.

Graffigna si levò su a sedere sul suo giaciglio con atto di molto interesse.

– Oh oh! Esclamò egli. Ci sono dunque grandi cose in aria?

Gian-Luigi chinò in segno affermativo la testa.

– Benone! Disse tutto lieto il galeotto mentre tornava a sdraiarsi.

– In secondo luogo, continuava il medichino, ho grande interesse di sapere chi sia quel poliziotto che stamattina si recò a fare una perquisizione in casa Benda. Ho chiamato Pelone appunto per averne alcuno schiarimento, che mi penso egli potrà darcene. In difetto, quand'egli non sappia o non voglia parlare…

– Eh eh! disse tranquillamente Graffigna: si potrebbe farlo cantare anche contro voglia.

– No: interruppe vivamente Gian-Luigi; nessuna violenza… D'altronde Pelone ci è troppo necessario per disgustarlo… e troppo pericoloso per farcelo diventar nemico. Quand'egli taccia, fa di scoprir tu con ogni mezzo che ti parrà migliore, e quando tu lo abbia conosciuto…

Il medichino parve esitare.

– Quando io lo abbia conosciuto? Ripetè Graffigna ficcando i suoi occhietti vivacissimi negli occhi di Gian-Luigi.

– Farai di modo da sapere eziandio le sue abitudini, e dove si possa cogliere solo, allo scarto…

– Ho capito… È un impaccio?

– È un impaccio.

Quei due uomini, così diversi di sembianze e di natura e d'intimo valore, si guardarono un momento in silenzio e si compresero. Gian-Luigi sviò primo le sue brune pupille e si diede a passeggiare su e giù per quello spazio di pochi metri libero in mezzo al Cafarnao.

– Stia tranquillo sor medichino; fra un'ora mi metterò in campagna e spero poterle dire quanto prima che gli è un affar fatto.

Il medichino non rispose e seguitò a camminar con passo concitato e a capo chino. Dopo un poco si fermò presso la tavola, battè del piede sul pavimento con impazienza collerica e disse rabbiosamente:

– Quell'eterno lumacone di bettolier dell'inferno non viene. E sì che ho tirato di forza!

Riprese l'anelluccio della tavola e tornò a dare, ma con più violenza, tre strappate.

– Prenda pazienza: disse con vocina sempre più esile Graffigna seguitando il giovane col suo sguardo ironico e scrutatore: ci sarà gente nell'osteria e non potrà aprire la porta segreta; e poi quel benedett'uomo è così lento e lungo in ogni sua mossa!.. Frattanto se la mi permette dirò io a Lei qualche cosa che non manca neppure d'interesse.

– Parla! Disse vibratamente Gian-Luigi continuando a passeggiare in lungo e in largo.

– Prima di tutto ho una commissione da farle, una commissione importantissima, mi disse chi me la diede.

Il medichino si fermò in faccia a Graffigna di colpo.

– Chi?

– Ester, la bella figliuola di quel brutto scellerato di Macobaro.

Gian-Luigi crollò le spalle e si rimise a passeggiare.

– Dove l'hai tu vista?

– A casa sua. Sono andato ieri sera da quel sacco di tutte le malizie d'un vecchio ebreo per intenderci sulla compra di qualche masserizia fra tutta questa roba che ci ingombra maledettamente. Quell'avaraccio è indegno di appartenere alla cocca. Ha una indiscrezione di pretese che trarrebbe i calci dalle scarpe d'un santo; e non è mai quel cane da offrire pure una goccia di branda ad un amico… Basta; a grande stento mi avanzò qualche miserabile spicciolo che mi disse avrebbe portato in conto…

– E che tu ti sei affrettato di consumare in tanta acquarzente.

– Cribbio! Come si fa? Con tante fatiche e con questa vitaccia che si mena, se non si tiene un po' su la macchina, vi casca l'asino di sotto… Per farla breve, mentre quel vecchio schifoso, dopo mille storie, andò a prendere quei quattro miserabili soldi, Ester che era sempre stata immobile in un cantuccio, agucchiando certi panni al lume d'una lucernetta che pareva far la veglia ad un morto; Ester mi saltò innanzi con quella sua bella faccia d'alabastro, con quei suoi lucidi occhioni scuri, con quelle sue labbra rosse come il sangue che spiccia. « – Per l'anima vostra, mi susurrò all'orecchio con voce soffocata, in cui si sentiva che ella parlava da maledetto senno: date questo biglietto e il più sollecitamente possibile a Luigi: si tratta di vita o di morte.» E nel pormi in mano la cartolina ripiegata mi serrò con forza convulsa le dita fra le sue così esili e bianche, in quel momento gelate come il marmo. Si sentivano intanto trascinar le pianelle di quel vecchio esoso di suo padre, – come mai una sì bella creatura può essere nata da un mostro simile? – ed essa, lesta come uno scojattolo come un augellino, fu d'un salto seduta di bel nuovo al suo lavoro, che non pareva aver mosso pure la punta del dito mignolo; e guardandomi con un'espressione capace di rimescolar le budelle ad un vecchio peccatore, teneva l'indice della mano destra in croce sulle labbra a raccomandarmi il silenzio.

Gian-Luigi tornò ad arrestarsi presso il galeotto.

– E quel biglietto, l'hai tu costì?

– Sì signore: rispose il mariuolo tirandolo fuori da una tasca e porgendolo.

Il medichino lo prese con isgarbo impaziente: si recò sotto la lampada che pendeva dalla vôlta, e rottone quasi disdegnoso il suggello lesse queste parole:

«In nome di Dio Eterno, bisogna che ci parliamo. Fa d'ingannare la sorveglianza sempre più sospettosa di mio padre, e vieni. Un tempo ne trovavi i modi e le ore. Il Signore ha – debbo dire benedetto o maledetto? – ha fatto fecondo il nostro amore. Sono madre. Mio padre mi ucciderà, se tu non mi salvi. Salvami, Luigi!»

Questi spiegazzò la carta nella mano in un moto vivace di contrarietà stizzosa: poi tornò a rispianarla e lesse un'altra volta il biglietto. Stette un po' immobile con quel foglio innanzi agli occhi, sotto ai raggi della lucerna come riflettendo: quindi stracciò in minutissimi pezzi la carta e riprese ad andare su e giù, gettando qua e colà gli squarci che teneva in mano, del modo che fa del frumento il seminatore nel campo.

Graffigna lo seguitava sempre con quel suo sguardo malizioso.

– Cattive nuove, eh? Diss'egli dopo un poco. Gelosie, rampogne, pianti e supplicazioni, ci scommetto. Ah quelle benedette donne ce ne dànno dei fastidii da portare! E dire che quando si è giovani non se ne sa star senza! Eh! eh! Ho avuto ancor io i miei grilli al mio tempo e so da che parte spuntano i corni della luna… ed anche gli altri corni. Testè, quando ho acceso il fuoco nella casina, avevo pensato di mettere quel bigliettino sulla mensola del salotto, perchè Lei, venendo, lo vedesse di subito e lo prendesse: ma poi mi sono detto: no, Graffigna, non conviene; il medichino può venir qui accompagnato da qualche donnetta, oppure qualche sottanino può venirci anco prima di lui ad aspettarvelo… Eh eh! si sa che gagliardo d'un mariuolo Ella è in punto a codesto…

Gian-Luigi che camminava sempre a capo chino e pareva non prestare la menoma attenzione al chiaccherio del suo compagno, ora, come infastidito d'un tratto da quella fluenza di parole, volse la faccia sdegnosa verso Graffigna, e gli disse imperiosamente:

– Taci!

– Non parlo più… di tale argomento, perchè quanto al resto ho qualche cosa da dire di assai rilievo, e che la prego di ascoltare.

Il medichino sedette presso la tavola e tamburellando colle dita sul piano di questa disse:

– Allora parla, e fa presto.

– Il colpo che si è fatto nella banca l'altra notte fu un bel colpo, non c'è che dire, ma io ne ho in vista tre altri ugualmente e forse ancora più belli.

Graffigna tacque un istante come per aspettare una parola d'encomio o di curiosità o d'incoraggiamento a continuare, da parte del medichino; ma questi, appoggiato il gomito destro e sorreggendo la sua fronte alla palma della mano, rimaneva immobile, fisso lo sguardo ardente sulla figura da faina del galeotto. Questi continuava:

– Fra cotali tre colpi c'è da scegliere quello che più torna: io son d'avviso che conviene prenderli in considerazione tutti tre, prepararli bene e col dovuto intervallo farli l'uno dopo dell'altro. Il primo sarebbe contro il marchese di Baldissero. Si potrebbe scegliere una notte in cui i padroni fossero al ballo, come avvenne la notte scorsa: parte dei domestici profitta di quest'occasione per andarsela a godere; rimangono in casa ordinariamente due vecchi e le cameriere, gente di cui si può aver ragione con poca difficoltà. Introdursi là dentro è facilissimo pel cortile che, mercè le scuderie, comunica con un altro a cui si può aver accesso. La disposizione delle stanze nel quartiere del marchese possiamo conoscerla a puntino per mezzo di una donna che fu abbastanza lungo tempo al servizio di quella famiglia, la Gattona, ch'Ella avrà già udito a menzionare. Gli è vero che da venti e più anni la Gattona è uscita di là; ma la casa è pur rimasta tuttavia colle medesime disposizioni interne, e non c'è altro di mutato se non che nelle stanze dove stava ai tempi della Gattona l'antico marchese, ora abita l'attuale; ed è in queste stanze che giace il morto. Nell'attuale stagione si sono esatti gli affitti e delle case della città e delle campagne; e quel birbone d'un milionario di marchese deve avere in cassa parecchie buone migliaia di lire.

Graffigna fece di nuovo una pausa; Gian-Luigi non aprì bocca, nè si mosse, tenendo pur sempre gli occhi fissi sul suo interlocutore.

– E uno! Esclamò Graffigna poichè ebbe atteso un momento. Passiamo al secondo. Questo si dovrebbe fare dal signor Benda.

A questo nome Gian-Luigi si riscosse. Innanzi alla mente gli passò di botto leggera e graziosa l'immagine della giovane Maria.

– Codesto poi no: interrupp'egli con vivacità; al signor Benda non ci si ha da pensare.

– Perchè? Dimandò con accento mellifluo la voce squarrata di Graffigna. Quel bravo signore ha nei suoi scrigni qualche decina di mille lire.

– Quella casa è ben custodita…

– Peuh! Sclamò il galeotto alzando le spalle. Un tamburo maggiore per portinaio che con una succhiellatina bene aggiustata si fa azzittire per sempre; due cani che con un buon boccone si acchetano…

– Alcuni degli operai dormono colà.

– Sì, due capi-fabbrica. Be'! C'è modo di metterli anche loro alla ragione. Ma il fatto gli è che non si avrebbe bisogno di penetrare di soppiatto, la notte, per andare a portarne via colle scarpe di feltro il gruzzolo; gli è di pien giorno alla chiara luce dei sole, se ci fosse il sole, che secondo il mio progetto si avrebbe da compier l'impresa. Dico mio progetto, così per dire, ma non sono così superbo da non confessare che il progetto è di Lei, sor medichino, e ch'io non faccio altro che applicarlo a quel caso particolare.

– Spiegati: disse Gian-Luigi sempre immobile in quel suo atteggio pensieroso.

– Ecco la cosa! Si fomenta un bel dì o per le paghe o per le ore di lavoro, o per questo o per quell'altro – e ce ne sono mille di possibili pretesti – una buona sommossa degli operai…

– Impossibile! Interruppe il medichino. Quegli operai amano moltissimo il loro principale che li tratta bene; sono stato poc'anzi stesso in caso di averne una irrefragabil prova.

– Eh via! Lo amano, ma quando loro si sapesse persuadere che levandogli la pelle acquistano un tanto nel borsellino, glie la leverebbero subito. Conosco gli uomini, io! Vi saranno delle eccezioni? Santa pazienza, ce ne sieno pure; ma noi non è colle eccezioni che abbiamo da fare. Le idee che Ella ci ha dato l'ordine di spargere hanno attecchito anche colà. Gli è così naturale! Chi non ha nulla troverà sempre un'ingiustizia che altri possieda e non egli; e il povero si lascierà sempre assai facilmente persuadere che è suo diritto pigliare al ricco… Breve; Marcaccio le potrà dire che anche in quegli opifici, come nel più degli altri, si sono fatti degli aderenti… Un bel giorno adunque, sapendo metterci a dovere il fuoco sotto, li faremo bollire a nostro vantaggio. Nato un tumulto, gli amici dell'ordine e del padrone, che sono sempre i più timidi e pacifici, si spaventano e se la sgusciano; noi aggiungiamo buona parte dei nostri uomini alle file dei riottosi; mentre quegli altri strepitano nella fabbrica, i nostri – e mi faccio una festa di esserne ancor io del numero – si insinuano nella casa; la polizia è lontana, e prima che arrivino soldati e carabinieri a metter l'ordine l'operazione è compiuta, gli amici hanno sgattaiolato, si arrestano alcuni de' più sori e dei più innocenti degli operai – e il giuoco è fatto…

 

– No: proruppe con forza Gian-Luigi; per ora non si ha da pensare a codesto.

– Perchè? Tornò a domandare Graffigna col medesimo accento di prima.

Il medichino alzò la fronte dalla palma della mano, e saettando d'uno de' suoi sguardi più risoluti il mariuolo che gli stava dinanzi, disse con accento che non ammetteva più nè risposta, nè osservazione:

– Perchè non voglio!

Graffigna curvò il capo in segno di ubbidiente rassegnazione.

– Passiamo al terzo – forse il migliore; riprese egli a dire dopo brevissima pausa. Qui trattasi d'un colpo cui da lungo tempo vengo pensando e studiandone il modo. Sarebbe quello di far ballare i tanti gialletti che ammuffiscono nelle casse di Nariccia.

– Ah ah! Esclamò Gian-Luigi con un'espressione che era un incoraggiamento a continuare.

– Sicuro! Qui l'affare è semplicissimo. Quel vecchio birbante di usuraio è solo con quella sua vecchia sgualdrina di serva. Le muraglie di quel suo alloggio sono sorde come il cuore del padrone, e non lasciano passar grido, nè rumore di sorta. Basta intromettersi colà dentro in tre o quattro, e il conto di ambedue que' squarquoi è bello ed aggiustato.

Gian-Luigi abbassò la faccia e mormorò con accento di ripugnanza:

– Ah sangue! Sempre sangue!..

– Il difficile sta nel penetrare in quelle stanze, chiuse con tanto lusso di serrami da disgradarne qualunque prigione; ebbene quest'unica difficoltà spero che potremo superarla. Occorre un buon ferraio che dalle impronte di cera sappia trar fuori a dovere le chiavi che ci vanno. Queste impronte è tanto facile ottenerle che le ho già prese io medesimo andando sotto varii pretesti nell'antro di quel succiadenaro. La cocca oggidì manca pur troppo di un operaio così abile da far simili chiavi complicate, pulite in modo, che senza bisogno di ritocco facciano a prima prova l'ufficio loro. Avevamo quel povero Topaccio, ma la scellerata d'una giustizia ce l'ha spedito a dar calci all'aria…

Mandò un sospiro di profondo rimpianto.

– Quella è stata una perdita!.. Non l'abbiamo mai più potuto rimpiazzare a dovere, e gli è gran danno alla nostra associazione. Ora mi dice Marcaccio che quel suo amico Andrea, frequentatore ancor esso della bettola di Pelone, è l'uomo fatto apposta, che un più abile e destro di lui in tal mestiere non è da trovarsi in Torino, e che non ci sarebbe segreto di serratura che a lui non bastasse l'animo d'indovinare. Sinora gli è ancora irretito da qualche scrupolo di quella che chiamano onestà, ma le parole di Marcaccio cominciano a scuoterlo, e la miseria che gli monta sui talloni lo caccia verso di noi. Fra pochi giorni l'avremo nelle nostre file; egli fabbricherà bravamente le false chiavi che andranno chete chete come olio, ed ecco messo il becco all'oca.

Quando Graffigna si fu taciuto, successe un silenzio di qualche minuto. Gian-Luigi pareva assorto in tutt'altri pensieri che quelli onde lo aveva intrattenuto il suo tristo compagno. Ad un tratto però, sollevò il capo che aveva tenuto basso sino allora e disse come parlando a se stesso:

– Nariccia se lo merita. Spogliarlo, lui, non è che pretta giustizia.

– Certo! Esclamò Graffigna.

– La sua ricchezza è infame, infamemente acquistata.

– Infamissima.

– Mille volte è più scellerato di noi, egli che sgozza i poveri coll'usura ed assassina le famiglie colla miseria.

– Eh! noi siamo angeli in paragone.

– Di quante lagrime non è fatto il suo oro! Di quante brutture non è sporco!..

– Noi lo purificheremo appropriandocelo… Eh! eh! ce ne sarà per delle migliaia e migliaia di marenghini.

– La società tollera queste turpitudini e queste sconcie arpie; e non solo le tollera, ma le protegge!.. Bene; è giustizia il punirle noi…

– Sicuro! Noi siamo gli esecutori di quest'altra giustizia senza sciocchezze di tribunali.

Il medichino saettò d'uno sguardo severo la faccia ironica di Graffigna.

– Non hai tu più nulla da dirmi?

– Nulla.

– Allora dormi a tua posta e risparmiami le tue osservazioni.

Il mariuolo si voltò dall'altra parte e parve in un attimo ingolfato nel sonno il più profondo.

Gian-Luigi appoggiò tutti e due i gomiti alla tavola e nascose tra le mani la faccia. Pensava. Era egli stato fatto per quella parte che intanto sosteneva con tutto il suo impegno? La natura – non diceva la Provvidenza, perchè non credeva più in essa – aveva ella datogli quelle facoltà, quelle potenze che ei possedeva, per farne un tal uso? Come mai nessun'altra strada erasi dischiusa alla sua intelligente attività? Qui ricordava tutto il concatenamento dei casi che di grado in grado l'avevano menato a quel punto in cui si trovava; come la ricchezza agognata e i piaceri mondani a cui anelava gli sfuggissero innanzi con ironica schifiltà, a seconda ch'egli voleva con mezzi onesti arrivarli; come su loro avesse potuto mettere primamente le mani, quando era entrato nella via del delitto. Vedremo un giorno per quali circostanze fosse stata preparata ed affrettata la sua caduta; ma ora intanto, di pieno affondato nell'ambiente il più criminoso dell'elemento sociale più basso ed in rivolta permanente contro l'ordine vigente, contro la legge, contro la proprietà; ora egli si domandava se quell'appagamento cui godeva di parecchi suoi desiderii ed istinti bastava a soddisfargliene l'anima, se quella era la sorte ch'egli aveva nei sogni dell'adolescenza vagheggiato.

Gli anni primi della sua vita gli sfilarono innanzi al pensiero, inquadrati nella scena del villaggio, e in essi principale la figura di Maurilio, che aveva ritrovato la sera innanzi. Maurilio era sempre povero, sempre ignoto, egli di cui Gian-Luigi riconosceva l'intelligenza superiore anco alla sua! Rimanendo onesto ancor esso adunque sarebbe a quel punto? Pure c'era in fondo all'animo di questo troppo traviato giovane alcuna cosa che lo ammoniva non essere impossibile per altra strada giungere di meglio a quel fastigio a cui anelava. E forse quest'altra strada l'ingegno potente di Maurilio glie l'avrebbe saputa additare. Se alla intelligenza straordinaria del suo compagno d'infanzia si unisse in un'opera comune la risolutezza, l'attività, la forza di lui, che cosa non potrebbe ottenersi da siffatta consociazione? La sera innanzi Gian-Luigi aveva detto a Maurilio che sarebbe recatosi da lui a parlargli di rilevantissime cose; ora determinò più fermamente di far ciò, appena avesse un momento di libero.

Allora si ricordò che stava aspettando da più di un quarto d'ora Pelone, a cui aveva comunicato per mezzo della corda di ferro il cenno di accorrere; e con maggiore impazienza di prima tornò a dare tre più forti strappate all'anello della tavola.

In quella il suo sguardo cadde sopra uno di quei pezzettini di carta ch'egli aveva gettato qua e là, lacerata la lettera di Ester. Per atto quasi irriflessivo, prese quel minuzzolo e lo accostò agli occhi. V'era scritta su una parola intiera, la parola madre.

Questa sola parola staccata, che il caso gli faceva comparire innanzi a quel modo, turbò il giovane più che non avesse fatto la lettura dell'intiero biglietto della povera Ester.

– Madre? Diss'egli fra sè, e un tremito interno gli scuoteva le viscere. È la prima volta che ciò mi avviene; la prima volta che una donna mi dice: sono madre per te. Gli uomini si rallegrano di questo annunzio. Per me gli è un nuovo cumulo di fastidi. Oh che, avevo bisogno giusto adesso mi venisse sopra quest'altro imbroglio!.. Mi dice ch'io la salvi. Eh! che cosa ho da far mai, e in fin dei conti a me che cosa importa di lei e del suo bambino?

Ma questa crudeltà d'indifferenza che il suo fiero egoismo gli suggeriva era troppa, perchè a lui medesimo non ripugnasse.

– Ah suo padre, quel vecchio scellerato d'ebreo è capace dassenno d'ogni peggior eccesso per vendicare l'onta della sua figliuola, e siccome il vile non è feroce che coi deboli, ed io sono forte, gli è certo contro la infelice Ester ch'egli vorrà infierire… Povera giovanetta! Ella m'ama pur tanto!..