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La plebe, parte II

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Il poliziotto non disserrò menomamente le labbra, non iscoprì punto nè poco il suo volto, ma fece un segno negativo colla testa.

Allora Gian-Luigi gli voltò disdegnosamente le spalle e parlò ai carabinieri.

– Sarà come si vuole. Ma badate che un simile oltraggio a cittadini onoratissimi come i signori Benda, ad un buon suddito di S. M. come mi vanto d'esser io che mi onoro dell'amicizia di molti fra i più considerevoli personaggi del Regno, è un atto gravissimo; e badate che io di tanto arbitrario eccesso farò tosto e direttamente i richiami al vostro comandante, il generale conte Barranchi che è di quelli appunto i quali mi onorano della loro stima e famigliarità.

Queste parole, più d'ogni altra precedente, fecero effetto sui carabinieri, i quali esitarono con manifesta perplessità.

Barnaba stava per invigorire la loro decisione con nuovo suo interporsi, quando un altro grave incidente venne ad interrompere quella scena.

Un uomo vestito da popolano, ma colla faccia da guardia di polizia si precipitò nella stanza.

– Signore, diss'egli a Barnaba; un cotale fuggiva per una porticina che dà sui campi dietro la fabbrica; lo abbiamo inseguito, raggiunto ed arrestato.

Barnaba mandò una sommessa esclamazione di soddisfacimento, e di sotto la tesa del cappello fece sgusciare uno sguardo di trionfo verso il sig. Giacomo, quasi per dirgliene: – Ecco la mia rivincita. Il sig. Giacomo, egli, impallidì; la povera signora Teresa si lasciò cader seduta mandando un gemito; Maria si torse convulsivamente le mani; Quercia si morse il labbro inferiore, ma il suo aspetto non perdette nulla affatto della sua sicurezza e della sua aria di imperiosità.

– Dov'è? Domandò Barnaba a voce bassa all'agente vestito da borghese.

– L'abbiamo qui sotto. Vuol vederlo?

Barnaba fece un segno affermativo, e il birro si allontanò di fretta.

Un minuto dopo entrava in quel salotto, in mezzo a quattro guardie travestite, Giovanni Selva.

Questi e Maria, che lo guidava per mano, avevano attraversato correndo il cortile e s'erano introdotti nell'officina. Là, per la via più corta, attraversando uno dei laboratoi, sempre di corsa, la ragazza aveva condotto il compagno alla porticina che era meta dei loro passi. Ma la serratura dell'uscio era chiusa colla chiave, e questa non era nella toppa. Maria corse nel più vicino dei laboratorii: e gridando quanto più poteva per superare il fracasso dei varii lavori che facevano le lime ed i martelli, domandò agli operai:

– La chiave della porticina?.. Chi ha la chiave?.. Presto per amor di Dio!

Gli operai dapprima non compresero le parole della giovanetta; ma videro l'ansietà e l'affanno così vivamente espressi nella fisionomia di lei, che smisero un momento il loro lavorare per poter udire che cosa ella dicesse.

Maria ripetè la sua domanda.

I più non ne sapevano nulla e si consultavano tra di loro, dicendo dev'esser qua, dev'esser là; intanto il tempo passava con inesprimibile e dolorosa impazienza della ragazza.

– Ne chieda al capo-fabbrica: disse uno finalmente, e Maria, che comprese quello essere il migliore dei suggerimenti, corse nello stanzino occupato di solito dal direttore degli opificii.

Per fortuna egli vi si trovava; e Maria col respiro affannoso, colle parole tronche, fece la sua richiesta. Quella era per sè così strana e fatta inoltre così stranamente che il capo-fabbrica non potè tenersi dal provocare qualche spiegazione; ma la ragazza con impeto impaziente interruppe:

– Presto, presto… Si tratta di salvar Francesco… Lo hanno arrestato… Bisogna far fuggire il suo amico colle carte… Sono già al portone i carabinieri…

Il capo-fabbrica non capì bene che fosse avvenuto, ma vide che si trattava di cosa premurosa. Senz'altra osservazione si alzò e corse ad aprire la porticina.

Giovanni lanciò uno sguardo al di fuori, nei campi tutto bianchi di neve non si vedeva il menomo segno di anima viva. Strinse egli la mano a Maria e le disse:

– Ora Francesco non correrà più nessun grave pericolo. Si tranquilli, madamigella, e tranquilli anche la mamma.

Poi uscì di buon passo, mentre gli altri richiudevano la porticina alle sue spalle.

– Che cos'è ciò ch'Ella mi dice? Domandò con sommo interesse il capo-fabbrica a Maria. L'avvocatino arrestato? I carabinieri che sono al portone!

– Sì, sì… Domandano del papà… Purchè non vogliano arrestare anche lui!.. A quest'ora saranno già entrati… Io corro presso la mamma, che è tutta sottosopra.

E tornò di volo vicino ai suoi parenti.

Il capo-fabbrica, onestissimo e risoluto uomo, devoto oltre ogni dire al suo principale, a cui doveva tutto, rimase perplesso e turbato profondamente.

– Hanno arrestato sor Francesco! Diss'egli tentennando il capo. Vogliono arrestare anche il padrone!.. Che si abbia anche da veder questa?.. Diavolo! Diavolo!

Ed entrò colla faccia tutto stravolta nelle officine dove gli operai, fra i quali quella notizia era corsa colla rapidità con cui prende fuoco una striscia di polvere da mina, avevano smesso il lavoro e stavano animatamente discorrendo in crocchi più o meno tumultuosi, in mezzo a cui si distinguevano appunto i capi dei laboratoi.

Selva intanto si era avviato di buon passo in linea retta davanti a sè con non altro intendimento che quello di allontanarsi il più presto da quel luogo e di ridursi quindi per un lungo circuito in città, dove avrebbe poi pensato in qual più sicuro nascondiglio andare a riporre i libri e le carte che aveva presi nella scrivania di Francesco.

Ciò di che più si rallegrava era di aver sottratto il manoscritto di Mario Tiburzio, e mentre camminava affondando le sue gambe fin sopra al polpaccio nella neve che copriva i campi, egli veniva scorrendo cogli occhi quella pericolosa scrittura che avrebbe bastato a far condannare alla galera qualunque l'avesse posseduta.

Ad un tratto gli parve udire dietro sè rumor di gente che si muovesse. Si volse e vide due uomini che con lunghi e solleciti passi, l'uno da destra e l'altro da sinistra venivano verso di lui traverso il campo. Quantunque non avessero divisa, Selva capì tosto che quelli erano birri; e senza aspettar altro prese la corsa con quanta più rattezza gli concedeva l'ostacolo dell'alta neve in cui affondavano i suoi piedi.

– Ferma, ferma: gridarono i birri, e giù a correre ancor essi, cercando di venirgli a tagliare diagonalmente la strada.

Ma Giovanni, oltre l'altezza della neve, aveva un altro impaccio al correre, ed era quello dei libri di cui teneva parte nelle tasche, e parte sotto il braccio. Non tardò egli ad accorgersi che uno di quegli sgherri, più lesto ed aitante, stava per venirgli a tagliare il passo nella direzione che aveva presa; pensò sfuggirgli con una svolta, e girando a sinistra cambiò direzione con una diagonale. Vide allora che due altri birri travestiti, chiamati dalle grida dei primi, accorrevano sulle sue traccie di modo da serrarlo per quattro lati: e capì che il salvarsene sarebbe stato un miracolo.

Barnaba era troppo esperto nel suo mestiere per non aver proceduto nella sua missione con tutte le possibili cautele. Mentre egli con quattro carabinieri si disponeva a presentarsi all'entrata principale della casa e degli opifici del Benda, avuti a sè una mezza dozzina di quelle guardie di polizia che allora il popolo chiamava gli arcieri, ordinava loro che, appostandosi acconciamente sì da poter gli uni venire all'uopo in aiuto degli altri, sorvegliassero con cura tutte le uscite dello stabilimento.

Giovanni Selva, mentre i quattro arcieri già già gli erano sopra, vide ancora gli altri due che scantonavano di dietro l'edifizio dell'officina. Si fermò ansante, perduta ogni speranza; e nel capo, in cui il sangue tumultuosamente saliva a turbargli il cervello, si sforzò ad evocare un'idea di quello che fosse da farsi. Glie ne nacque una ad un tratto: distrurre quella carta che teneva ancora in mano. Avesse egli pensato di subito a lacerarla in minutissimi pezzi e gettarla sparsa per la neve del campo! Volle eseguire allora quel proposito; ma non era più a tempo. La mano pesante d'uno degli arcieri si posò sulla sua spalla, e in un attimo Giovanni si vide circondato dai brutti musi di tutti sei quegli sgherri. Egli spiegazzò colle mani i due fogli ond'era composto lo scritto di Mario, e fattane una pallottola, convulsamente la serrò e tenne chiusa nel pugno della mano destra.

– Alto là! Gridò quello degli arcieri che aveva afferrato Giovanni ad una spalla. Lei non ci scappa più.

E due altri dei birri lo presero al petto del soprabito.

– Che modo gli è questo? Disse il giovane divincolandosi per liberarsi dalla presa di quelle manaccie. Chi siete? Che mi volete voi?

Quegli che pareva il capo di quella schiera, rispose:

– Siamo agenti della Sicurezza Pubblica, e vogliamo arrestarla.

– Arrestarmi! Con qual diritto? Per qual ragione?

– Qual diritto? Quello che ci dà la nostra qualità e gli ordini che abbiamo ricevuti. La ragione? Eh forse ne saprà qualche cosa più di noi Lei che ci scappava con tanta premura. Orsù; non facciamo ciarle e venga con noi.

Nel divincolarsi erano caduti per terra i libri che Giovanni teneva sotto il braccio; uno degli arcieri li raccolse. Quelli che avevano afferrato Selva pei panni cominciavano a trascinarlo per farlo camminare.

– Dove mi conducete? Domandò il giovane resistendo.

– Lo vedrà: rispose villanamente il capo degli arcieri. Avanti, animo, marche!

E tenuto così, come un assassino, in mezzo ai sei birri, fu egli tratto alla casa dei Benda, dove, secondo che ho narrato, venne introdotto nel salotto in cui erano gli altri personaggi che sappiamo.

Appena entrato, Selva gettò sulla famiglia del suo amico e su Quercia uno sguardo che voleva dire: – Io non ci ho colpa.

 

Il capo dei birri si avvicinò a Barnaba e gli mostrò i libri che avevano preso al fuggitivo. Barnaba fece un segno di approvazione, e parlò a bassa voce coll'arciere.

– Domando che non mi si tenga oltre afferrato come un malfattore: disse Giovanni con voce fremente d'indignazione.

Il capo arciere a cui Barnaba aveva finito di parlare venne presso all'arrestato, e senza rispondere pure una sillaba alle parole di lui, mentre gli altri lo tenevano più stretto che mai alle braccia ed ai panni, si pose a frugarlo in ogni tasca con una lestezza singolare. Trasse fuori gli altri libri e tutte le carte che Giovanni aveva in tasca; e le faceva passare man mano a Barnaba, il quale gettava uno sguardo sopra ogni cosa e poi la rimetteva ad un arciere.

Giovanni sbuffava, ma tenuto strettamente da due uomini robusti non aveva modo di far efficace resistenza.

Quando ebbero finito di vuotargli le tasche, uno degli arcieri che lo tenevano disse al suo superiore:

– Egli tiene chiusa in pugno una carta.

– Ah ah! Bisogna averla. Signore, non faccia la pazzia di resistere e ci dia quella carta di buon accordo.

Selva non disse motto, ma serrò più convulsamente il pugno. Gli arcieri gli presero il braccio e con tutta la loro forza cercarono di aprirgli la mano, ma inutilmente.

Gian-Luigi tornò a sedersi con tutta tranquillità presso il camino, come se quella scena non avesse per lui il menomo interesse; e colle molle che non aveva cessato di tener fra mano, si diede a percuotere sui tizzoni eccitando più vivace la vampa. Giovanni capì quell'indiretto suggerimento. Raccolse tutto il suo vigore in uno sforzo supremo; si spinse innanzi con moto improvviso e inaspettato a quelli che lo tenevano, con una violenta strappata liberò il suo braccio dalla stretta dei due arcieri, lanciò la pallottola di carta verso il focolare. Impacciato com'era, Selva non la potè gettar giusto sul fuoco; la palla cadde presso gli alari; ma Quercia come se non aspettasse altro, con moto più ratto del pensiero, senza scomporsi menomamente, senza volgersi nemmanco, la prese colle molle e la pose rattamente dove più vive erano le fiamme.

Giovanni in quello sforzo, in quel moto violento che aveva fatto erasi inciampato nelle gambe degli arcieri che gli stavano addosso ed era caduto sul tappeto del pavimento. Ciò stesso fece ostacolo ai birri per correre presso il camino. Ma Barnaba, che con infinito interessamento porgeva attenzione a questa scena, visto bruciare quella carta, che di sicuro doveva essere importantissima, obliò un istante le cautele usate sino allora per nascondersi.

– Sul fuoco! Sul fuoco! Prendetela! Gridò egli colla sua voce naturale: e siccome i birri e i carabinieri, impediti nel passo da Giovanni caduto che si rialzava, non poterono così rattamente slanciarsi al camino com'era necessario, Barnaba stesso si fece innanzi d'un salto per disputare alle fiamme la preziosa preda.

Ma in quella, Quercia si drizzò in piedi innanzi al camino colle molle in mano che stringeva come un'arma, si volse colla faccia più innocente del mondo e domandò coll'accento d'uomo che non avesse visto nè udito nulla di quello che era successo:

– Che cosa c'è?

Barnaba e Gian-Luigi si trovarono a fronte meno che ad un passo di distanza. Al primo, in quel movimento impetuoso che aveva fatto, era caduta la falda del mantello dalla faccia, e Quercia ne potè vedere un istante i lineamenti scoperti, come ne aveva udita senz'alterazione per poche parole la voce. Nè questa, nè quelli Gian-Luigi si prometteva che avrebbe obliato mai più. L'agente di Polizia non rispose nulla al dottore; la carta era consumata; egli si coprì di nuovo il volto col mantello e si ritrasse chetamente nel cantuccio appena abbandonato un istante.

– Lo scellerato! Il birbante! Urlavano gli arcieri incolleriti, venendo addosso a Giovanni coi pugni.

– Per carità! Esclamarono Maria e Teresa a cui si strinse il cuore alla vista dei mali trattamenti onde era fatto segno l'amico di Francesco.

E Gian-Luigi, facendosi innanzi con tutta l'autorevole imponenza d'un marchese del secolo scorso che si preparasse a castigare i suoi lacchè, gridò fieramente:

– Olà, mariuoli, volete smetterla, o ch'io, dietro rapporto a chi di dovere, vi faccio gustare un po' di ferri…

I birri si volsero inveleniti verso il dottore; ma anche su di loro fece effetto quella sembianza di autorevolezza; borbottavano però qualche insolenza e qualche minaccia, quando frettolosi entrarono nel salotto, non senza turbamento nel volto, i due arcieri che erano rimasti nelle anticamere. Dietro di essi pervenne colà il rumore caratteristico d'una massa di gente che tumultua.

– Che cosa c'è? Domandò il capo dei birri ai suoi due subordinati che entravano così precipitosamente.

– Tutti gli operai della fabbrica, armati di stanghe, di leve e di martelli, accorrono qua minacciosi…

– Oh oh! Ribellione alla forza pubblica: disse il brigadiere dei carabinieri, aggiustandosi al petto la tracolla che gli sosteneva la sciabola. Badi signor Benda che codesto non vorrà avantaggiare le sue condizioni… Al contrario!..

Egli non aveva finito di parlare che sboccavano nel salotto impetuosi gli operai in attitudine tutt'altro che pacifica, e primi innanzi a loro, come duci, Bastiano il portinaio, il direttore della fabbrica ed i capi dei laboratoi.

– Signor Benda: cominciò senz'altro il direttore; siamo venuti a vedere che cosa si vuole da Lei, e se mai qualcheduno osa venire in casa a farle delle prepotenze; chè noi codesto, alla croce di Dio, non lo tollereremo mai.

– No, non lo tollereremo, urlarono una ventina di voci dietro i capi; e il grido si ripercosse nella camera vicina dove si assiepavano quelli degli operai che non avevano potuto intromettersi nel salotto ancor essi.

L'invasione degli operai aveva modificato la positura dei varii gruppi di persone che colà si trovavano. I carabinieri e gli arcieri s'erano raccolti insieme a fare quasi una siepe all'agente di Polizia che li guidava; i servi, rimasti appartati sino allora, s'erano riuniti agli operai che ingombravano la porta; la famiglia Benda s'era aggruppata innanzi al fuoco; Gian-Luigi si trovò in mezzo al salotto, ed al suo fianco Giovanni, cui gli sgherri avevano abbandonato per ritirarsi più in là insieme coi carabinieri.

– Tiburzio è compromesso? Bisbigliò rattamente Quercia all'orecchio di Selva, senza che alcuno ci badasse.

– Sì: rispose nella guisa uguale Giovanni.

– Ah ah! Va bene.

Ma come era egli avvenuto che gli operai si presentassero a quel modo in difesa del loro principale, non peritandosi innanzi ad una specie di rivolta contro la forza pubblica?

Torniamo indietro di qualche minuto, al momento in cui il direttore degli opifici, dopo aperta la porticina e dopo che Maria, dettogli quelle tronche parole, l'aveva lasciato, entrava nei laboratoi, dove trovava gli operai già tutti sottosopra per le sparsesi novelle. Vedremo fra i lavoratori medesimi manifestarsi certi screzii ed appalesarsi contro i sentimenti del maggior numero una minoranza, e potremo così fin d'ora conoscere alcuni germi che daranno in futuro tristo frutto di dolorosi avvenimenti, di pericoli e di danno per la prosperità finora cotanta, e tanto meritata, della casa Benda.

CAPITOLO XI

Al vedere entrare il direttore della fabbrica, la maggior parte degli operai gli si fece incontro, e primi i capi dei laboratoi.

– Che cosa è successo? Domandarono tumultuosamente in più, circondando il nuovo venuto. È egli vero quel che si dice? Ci sono i carabinieri che vogliono arrestare il principale, che vogliono far chiudere la fabbrica?

Il direttore disse loro quel tanto che aveva appreso dalle poche e confuse parole di Maria: che cioè il figliuolo del principale era già in carcere e che la forza pubblica aveva invasa l'abitazione dei Benda per menarne imprigionato anche il capo della famiglia.

Gli operai aggruppati intorno al direttore risposero a quelle comunicazioni con una viva agitazione. Il figliuolo del padrone, l'avvocatino, come lo chiamavano, non era loro famigliare di molto; aveva egli poche attinenze con essi e raramente lo vedevano ed avevano occasione di parlargli; ma tutti coloro che l'avevano accostato erano rimasti presi dalle affabili di lui maniere, ed anche molti di quelli cui non era avvenuto di parlargli mai, solo al vederlo, avevano provato quell'influsso di simpatia che esercitava in quasi tutti la franca, sorridente, e leggiadra fisionomia del giovane. Oltre ciò tutti sapevano quanto amore avesse il signor Benda per suo figlio, ed il dolore che in tale occasione provava il principale, per quelli operai che lo amavano di molto, era potentissima cagione di commuoverli; ma non bastava, gli era il principale medesimo di cui la libertà era minacciata, e qui, all'affetto si congiungeva, per turbarli, la ragione dell'interesse, che è il movente più efficace delle azioni umane. Diffatti, tutti si domandavano che cosa avverrebbe di loro se, tratto il principale in carcere, si dovessero chiudere gli opifici.

– Questo è un iniquo sopruso, questa è una prepotenza intollerabile, questa è una birbanteria: gridavano in parecchi colla concitazione dello sdegno. L'avvocatino è il più buon giovane della terra; il padrone è l'onestà in persona, è quello che dà pane a tutte le nostre famiglie. Se si trattano i galantuomini come i ladri e gli assassini, dove andremo noi a finire?

Il susurro cresceva come una marea che monta. Tutti avevano abbandonato i loro posti, e in mezzo al più vasto dei laboratoi si agitavano braccia nerborute e si corrugavano faccie minacciose annerite dal fumo dei fornelli; ma forse tutto si sarebbe rimasto a quel rumore inefficace, se Bastiano, su quelle polveri raccolte, non fosse venuto a recare la scintilla della sua indignazione più viva di quella d'ogni altro. La maggioranza degli operai amava la famiglia Benda, per cui mezzo aveva lavoro e giusta retribuzione; più della comune l'amavano i capi-operai che il principale aveva fatti partecipi ad una parte dei proventi; più di questi ancora l'amavano il direttore e il sotto-direttore della fabbrica più specialmente consociati all'andamento dell'impresa e che quindi andavano debitori d'una certa agiatezza al signor Giacomo; ma più di questi e di quelli e di tutti era affezionato e divoto a quella famiglia il grande e grosso Bastiano.

Egli entrò nell'officina coll'impeto d'una catapulta e coll'autorità d'un colonnello che va a porsi a capo del suo reggimento. Scuoteva colla mano destra il suo poderoso bastone; aveva gli occhi pieni di fuoco e le labbra piene di minacciose imprecazioni; possedeva quell'aspetto di forza, quella voce potente, quell'audacia di risoluzione e sopratutto quell'ardore di volontà e di convincimento onde sono vinte e trascinate le masse. La sua eloquenza fu quella di un cannone che spara: una vera mitraglia di giuraddio. Che sarebbero stati peggio di femminette a tollerare che sotto gli occhi, di mezzo a loro, si venisse a portar via il padrone; che di prepotenze non se ne aveva da sopportare; che la brava gente non andava trattata come i birboni, ed a chi lo dimenticava conveniva ridurglielo ben bene a mente. Per tutti i diavoli dell'inferno, s'aveva da mandar via scornati quei sciagurati di cappelli a becchi, o sarebbe stato chiaro che tutta quella mano di artigiani erano pani in molle, mogi come cani da pagliaio.

La maggioranza afferrò gli strumenti del lavoro che aveva a tiro di mano e mandò l'urlo più rivoluzionario del mondo; a quel fiume che stava per istraripare, venne ad opporre una sua momentanea diga la opposizione d'una minoranza che aveva formato un crocchio in disparte e guardava con riprovatrice ironia questo agitarsi dei più. A dire il vero, questa minoranza era composta di tutti quelli men bravi, meno diligenti e meno onesti operai, ai quali la giusta ma inesorabile fermezza del signor Benda, per la loro negligenza e per le loro varie mancanze, aveva inflitto punizione di multe e minacciato al primo nuovo fallo il rinvio.

Quegli di costoro che faceva i più manifesti segni di riprovazione, si avanzò verso il gruppo che stava per prendere le mosse dietro Bastiano, e disse:

– Siete matti? Volete pigliarvela colla forza pubblica e ficcarvi in chi sa che guai, per cose che non vi riguardano?

A questa inaspettata uscita, che aveva pure la sua buona parte di ragionevolezza, Bastiano divenne rosso come un galletto.

– Che non ci riguardano? Gridò egli, dando un tremendo colpo in terra col suo bastone. Giurabacco! Non ci ha da riguardare la sorte del nostro padrone?

– Padrone! Padrone! Di ripicco quell'altro. E' sarà il vostro padrone, Bastiano, che lo servite come un can da guardia; ma per noi? Non siamo suoi servitori, noi; ed e' ci è nulla di nulla.

 

Bastiano ebbe una matta voglia di troncar subito il dibattito con uno spediente che pareva il più naturale alla sua rozza e poco paziente natura: quello di pigliar pel collo l'oppositore. Fece un passo minacciosamente verso di costui e gli disse agitandogli innanzi agli occhi il randello:

– Ah! per voi, Tanasio, il sig. Benda gli è nulla di nulla? Disgraziato! Gli è quello che vi dà il pane…

Tanasio si trasse indietro.

– Non mi minacciate, Bastiano, chè tanto e tanto non mi fate paura e non m'impedirete di dir la verità. S'egli mi dà il pane – e uno scarso pane – io me lo guadagno col mio lavoro.

Il direttore della fabbrica comprese che la discussione era mal impegnata in quel modo da Bastiano e che le parole del contraddittore erano tali da produrre effetto sugli operai. Credette bene intromettere la sua parola.

– Hai ragione, Tanasio: ma senza il sig. Benda questo lavoro che ti fa vivere non l'avresti.

– Eh! Se non ci fosse lui ce ne sarebbe un altro. Andate là che non mancheranno mai quelli che vorranno ingrassarsi dei sudori dell'operaio. Egli sì che senza il nostro lavoro non potrebbe esser nulla e far nulla. Gli è il nostro lavoro che guadagna al signor Benda i milioni; questo nostro lavoro che, noi, ci lascia sempre nella miseria… Perchè volete ch'io mi scaldi il fegato per lui? Tutti i signori la scialano levando la pelle al povero; e questo come gli altri. Mentr'egli viene un momento a dare un'occhiata alle officine, scrive quattro scarabocchi sopra la carta; ordina e comanda come un pascià, noi sgobbiamo tutto il giorno e ci frustiamo la vita con un travaglio che ammazza: ed egli va in carrozza e gode d'ogni bene di Dio, e noi mangiamo pane e polenta, viviamo colla miseria alla gola ed andiamo a crepare all'ospedale. Domando io se questo è giusto, se ciò vale la pena ch'io alzi pure un dito a trarre da un mal passo questo nostro succhiasangue, ch'io mi cacci in imbrogli per levarnelo lui?.. Al diavolo egli e tutti i ricchi del mondo; tutti gente cattiva, che vive alle nostre spalle e che dovremmo aggiustar per le feste se sapessimo quel che ci facciamo.

Il gruppo degli opponenti diede una fragorosa approvazione a queste parole che fecero alquanto perplessi gli altri.

Bastiano proruppe colla sua solita violenza:

– Brutto coso di un… siete sempre nella miseria voi che tutto quanto guadagnate non perdete tempo a sciupare in bagordi e con male femmine…

– Eh! che non vorreste la povera gente si dèsse un poco di spasso? Si divertono bene loro, i signori; e cocchi, e cavalli, e feste d'ogni maniera, e banchetti in cui si mangia in una volta quello che ci costano i nostri pasti di un anno. E se io vo' sollazzarmi alquanto non ho costà la cassa di ferro, in cui sono a torrette i marenghini, da pescarci dentro, ma bisogna che mi raccomandi a quel porco nen-da-vend d'un Macobaro3, per fargli comprare per pochi soldi or questo or quello dei miei stracci, o delle mie masserizie. E ripeto che i poveri son matti a pigliar la scalmana pei ricchi; e che si accoppino pure tutti quanti, non abbiamo che da rallegrarcene, chè gli è un tanto di nostro guadagno.

La violenza di queste parole destò una viva manifestazione di corruccio e di riprovazione nella maggioranza.

– Bravo! Esclamò il direttore. Se i ricchi non ci fossero, chi darebbe lavoro e chi lo pagherebbe ai poveri?

– Se non ci fossero i ricchi, non ci sarebbero più nemmanco i poveri; quel denaro e quelle proprietà che i ricchi hanno accaparrato tutto per essi, che hanno usurpato sul povero, sarebbero ugualmente distribuiti a tutti, che tutti in fin dei conti siamo uomini uguali, e ciascuno ne avrebbe secondo suo bisogno. Quanto poi al lavoro dell'operaio, eh! anche in ciò m'intendo ed ho sentito da persone che ne sanno più di noi, e potete domandarne a Marcaccio, chè esso ve ne farà conoscere; ho sentito che la è un'ingiustizia il guadagno che il padrone di fabbrica fa sul nostro lavoro, e che tutti quei proventi gli è noi stessi che dovremmo spartirceli fra noi…

– Quante bestialità! Esclamò il direttore. Il padrone avrebbe da contentarsi di farci lavorare e non averne profitto…

– Ma gli è che non ci sarebbero più padroni…

– Sì il mondo alla rovescia… Senza padroni, come ci sarebbero gli opifizi, come le macchine, come il capitale?

– Giusto! Il capitale è il nostro nemico… Me l'hanno provato chiaro come il sole… Macchine, opifici e tutto quanto, sarebbe roba nostra.

– Ti ripeto Tanasio, che queste sono bestialità che non hanno il senso comune.

– Già, le trovate bestialità, voi che partecipate dei profitti del principale…

Il direttore lo interruppe con forza:

– E s'io sono arrivato a tal punto; gli è perchè coi miei risparmi ho potuto raccogliere un piccolo capitale, che ho investito nella fabbrica; e che inoltre il signor Benda ha giudicato che la mia pratica e il mio zelo nel fare il mio dovere fossero anche loro una specie di capitale che meritassero frutto. Il capitale è il nostro nemico, tu dici, ma non sai nemmanco che cosa sia il capitale. Esso è il risparmio fatto sui guadagni del proprio lavoro…

– Baje! E chi nasce ricco senza aver mai fatto nulla?..

– Costui eredita il risparmio dei guadagni del lavoro di suo padre o di suo nonno…

– E ciò non è giusto. Che chi lavora metta in disparte e goda il fatto sparagno, va benissimo, ma che ne goda quello che non ha avuto altra fatica che di nascere…

– Ma se suo padre non ha lavorato e non ha risparmiato per null'altro che per lasciargliene a lui? To'; io non era che un operaio come sei tu, ma invece di sciupare tutte le mie paghe in istravizzi, secondo che Bastiano ti ha giustamente accusato di fare, io vissi con tutta parsimonia ed accumulai quel poco che ora possiedo. Se qualcheduno mi venisse a dire che quella roba guadagnata col mio santo sudore, non apparterrà di buon diritto a' miei figli, per Dio!.. vorrei mostrargli…

Bastiano, che fremeva d'impazienza, uscì fuori allora colla sua vociona e col suo solito impeto:

– Maledetti da Dio! Quante inutili ciancie noi stiamo qui infilzando che non valgono un fruscolo, mentre quei cani laggiù ci portano via il padrone e mettono a soqquadro tutta la casa. Aspettate ad accorgervi qual sia il vostro interesse quando avranno mandato in rovina il principale, sarà chiusa la fabbrica e voi sarete sul lastrico a crepar di fame. Io non ne capisco un acca delle vostre quisquiglie, ma so che quel Marcaccio, che voi Tanasio citate come un'autorità, è un tristo arnese capace di qualunque peggior cosa, e so che il signor Giacomo è il re dei galantuomini.

E qui si mise a ricordare tutti i meriti della famiglia Benda, la giustizia e la benevolenza del signor Giacomo verso gli operai, la carità della signora Teresa, la graziosa bontà della ragazza e la domestica affabilità di Francesco; il direttore e i capi-operai rincarirono; le teorie sovversive di Tanasio avevano allarmato l'animo retto dei più; l'idea di rimaner senza lavoro, se il signor Benda loro mancasse, li spaventava; la gratitudine e l'interesse si congiungevano ad accrescere l'affetto che portavano al principale; breve, Bastiano e i capi-officina riuscirono a trascinar seco la massa degli operai non ostante l'opposizione dei pochi, e concitati, apparvero tumultuariamente, come vedemmo, nel salotto dell'abitazione del principale.

Il signor Giacomo comprese tosto di quanto pericolo fosse per lui e per Francesco quell'aiuto, e pensò allontanare senza ritardo gli operai ammutinati, ordinando loro, pregandoli di rientrare nei laboratoi e star tranquilli. Si fece innanzi verso di loro con questo intendimento, ed avrebbe di certo ottenuto lo scopo, giacchè la sua parola era appo que' popolani autorevolissima, e massime sul capo e sul più furibondo di essi, il portinaio Bastiano; ma una imprudente bravata del brigadiere dei carabinieri venne a guastar tutto ed impedire ogni buon effetto. Quest'eccellente Corpo di truppe fu sempre il più zelante nel suo dovere, il più valoroso e disciplinato che sia stato mai: ma durante l'assolutismo, investito di poteri maggiori di quel che si doveva, quasi discrezionali, dotato di attribuzioni politiche e favorito di una privilegiata protezione in ogni suo fatto, in ogni urto eziandio che per ragione della sua eccessività nella sorveglianza politica gli avvenisse di avere, non che coi privati, ma colle autorità civili e giudiziarie altresì, era naturalissimo che trascendesse in una certa sicurezza di sè, la quale in alcuni suoi membri di carattere più violento, a qualunque grado della gerarchia appartenessero, dal generale comandante all'ultimo allievo, si scambiava in prepotenza. Il brigadiere che aveva accompagnato Barnaba in casa Benda era di questo genere. La senapa gli saliva presto al naso: ed abituato a vedere innanzi alla sua temuta divisa umiliarsi tutta la gente, credeva suo dovere mantenere ad ogni modo, in ogni occasione questo sovrano prestigio all'arma, colla minaccia e coll'impiego eziandio della forza, anche quando nè la prudenza, nè il bisogno non consigliavano l'uso di essa.

3Di questo ferravecchi ebreo, del quale alcuni dei miei lettori meno giovani ricorderanno forse la figura originale e la tragica fine, il vero nome era Jacob Aron; ma il popolo torinese, per somiglianza di suono, usava scherzevolmente chiamarlo Macobaro, che nel dialetto piemontese significa quell'insetto coleottero lungicorne che manda odor di rosa. Nen-da-vend (niente da vendere) è il grido usato dai ferravecchi ebrei; e il popolo ne ha fatto il nome di que' mestieranti.