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La plebe, parte I

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CAPITOLO XII

Maurilio rispose appena al saluto degli amici, gettò a casaccio sopra un attaccapanni il suo mantello fradicio e il suo cappello coperto di neve, e s'accostò al fuoco di cui guardava la fiamma vivace con una specie di desìo e d'amore. Senza profferir parola staccò dalla parete una pipa, la caricò di tabacco, l'accese con un ramoscello di legna ardente che tolse dal fuoco, sedette presso presso al camino, pose i suoi piedi bagnati nella calda cenere ed appoggiando i gomiti alle ginocchia, la faccia alle mani, stette lì, avvolgendosi nelle nubi di fumo della sua pipa, fissando lo sguardo nelle capricciose oscillazioni della fiamma crepitante.

Romualdo, Selva e Vanardi parevano ancor'essi sopra pensiero. Una certa aspettazione inquieta si dipingeva nelle loro franche ed aperte sembianze. Non parlavano, non lavoravano, non leggevano. La loro allegria naturale scorgevasi esser trattenuta e doma da qualche preoccupazione più che grave.

Dopo un poco Giovanni Selva si alzò e venne presso al camino ad accendere ancor egli il suo sigaro che gli si era spento in bocca.

Si chinò verso il fuoco per raccattar colle molle un pezzetto di brace accesa, e guardò di sottecchi la faccia scura di Maurilio, che si arrostiva immobile al calore di quella vampa.

– Tu non hai visto Mario Tiburzio? Domandò egli a mezza voce.

Il nome pronunziato da Selva, parve un talismano che rompesse un incanto. Maurilio si scosse, gli altri due giovani si levarono e vennero ancor essi vicino al fuoco.

– No: rispose Maurilio, togliendosi alla sua meditazione e volgendosi ai compagni. Credevo anzi di trovarlo già con voi.

– È veramente in ritardo: disse Romualdo: e ciò non è punto nelle sue abitudini, quindi non è molto rassicurante. Tanto più che per questa sera ci aveva annunziato delle comunicazioni e delle novelle importantissime.

– L'altro dì infatti: aggiunse con mal celata trepidazione Vanardi, che era il più timoroso fra i quattro: egli ci disse che parevagli d'essere sorvegliato. Purchè non gli sia capitato malanno? Potrebbero averlo scoperto, preso, e allora…

– Via, via: interruppe Selva: non isgomentiamoci così facilmente. Nella strada in cui siamo entrati conviene avere fermezza, risoluzione e coraggio, e da una parte esser pronti al peggior male, dall'altra confidare nel bene.

– Tu hai ragione: rispose Vanardi; ma però non sei padre. Io sento sempre negli orecchi i pianti de' miei due bimbi che mi cantano l'antifona, che se il governo mi manda a villeggiare a Fenestrelle, essi non avranno di meglio che crepare di fame.

– Fenestrelle! Esclamò Giovanni ridendo, ma forse non con tutta sincerità. Tu ci credi? Quella è la befana con cui il nostro paternissimo regime fa paura a quel fanciullone del popolo. Va là che non avremo la fortuna d'esser fatti martiri a sì buon mercato. La nostra polizia non capisce nulla: l'insolente assolutismo che ci opprime, è, senza saperlo, il colosso dai piedi di creta. Crede esser forte e posa sopra una base che un buffo di vento può sovvertire. Quando venga il giorno che stiamo preparando, l'uragano popolare levatosi al santo grido di libertà, spazzerà via la tirannia nostrana e le baionette straniere che la sorreggono e le danno da sole la forza.

Maurilio volse la sua faccia intelligente, in cui era una lieve espressione d'ironia, verso Giovanni Selva, e gli disse:

– Queste sono belle frasi, da poeta, qual tu sei, ma non tolgono che Antonio abbia ragione. Le frasi rettoriche hanno inebriata molte volte la gioventù ed anche le masse popolari; ma non hanno mai salvato una rivoluzione. Non chiudiamo gli occhi ai pericoli dissimulandoci le difficoltà, secondo me, quasi insormontabili dell'impresa. I governi che ci opprimono sono più forti di quanto il nostro desiderio vorrebbe persuaderci e le nostre declamazioni tentano provare. Sono forti in primo luogo, perchè sono; ed ogni ordinamento che esiste, si afforza per le migliaia di interessi cui soddisfa, che sono come altrettante radici che getta ad abbarbicarsi nella massa sociale. Sono forti perchè effettuano un'idea che sta profonda e potente – sia merito o demerito – nel volgo: l'idea monarchica. Sono forti, perchè, come dicesti tu Giovanni, stanno a rincalzo dietro di loro le baionette straniere, che non sono mica da aversi in non cale. Contro tutte queste forze noi non ne abbiamo altra che quella d'un'idea, la quale certo è potentissima, ma sull'anima soltanto di coloro che possono comprenderla. Ora il popolo italiano è egli maturo per ciò? E badate che a portar giudizio su codesta quistione non dovete soltanto gettare il vostro sguardo su voi e sui pari vostri, ma li dovete abbassare nei ranghi inferiori, dove una massa di gente ancora affatto cieca di mente costituisce la maggioranza, lavora e non pensa. Questa maggioranza sia inerte, peggio ci sia avversa, e noi patrioti a fronte dei governi saremo mille volte più deboli. Queste cose ve le dissi fino da principio e le ripetei a Vanardi, perchè badasse ai casi suoi. Io, tu Romualdo e tu Giovanni siamo soli, e non portiamo con noi la sorte di altre esistenze; libero a noi, anzi doveroso l'avventurarsi in questi tentativi che hanno pure un merito ed un benefizio: quello di mantener viva l'idea e di legare traverso le età per una tradizione di sacrifizi la catena dei cultori d'un santo principio che un dì, certo, avrà pur da trionfare; e poi è opportuno, è buono che in una società si trovino alcuni generosi che si consacrino alla follia dell'eroismo. Ciò serve di sale a difendere alcun poco il corpo d'una nazione caduta dalla corruzione che l'invade. Amo ed ammiro Mario Tiburzio, perchè è il tipo di codesti generosi; e lo seguo senza riluttanza ancorchè non fiducioso dei suoi mezzi. Il patibolo con lui, mi parrebbe davvero l'aureola del martirio. Ma Antonio non può regalarsi questa gloria, senza offendere altri suoi doveri. La famiglia per lui deve stare innanzi alla patria; e non deve posporre il bene certo di quella ad un bene incertissimo di questa. Tu, Antonio, non hai miglior partito da prendere che abbandonarci in questa via scabrosa, che probabilmente trae soltanto al precipizio, e ritrarti sotto la tenda della tua felicità domestica.

Vanardi si fece rosso in volto come una ciliegia.

– Tu mi consigli una viltà: proruppe egli con impeto; ed io non sono capace di commetterne. Ho dato il nome e tutto me stesso con voi all'impresa, e non me ne toglierò per Dio! qualunque cosa abbia ad avvenire, che colla vostra sconfitta o colla vostra vittoria.

Maurilio tornò a volgersi verso il fuoco ed affondò di nuovo lo sguardo nelle fiamme.

– Non esageriamo in nulla: disse con molta serietà Romualdo. La cosa non è sicuramente da pigliarsi a gabbo; ma non è poi così disperata che non ci resti altro davanti dalla probabilità in fuori d'un inutile sacrificio. Le condizioni d'Italia voi le sapete al pari di me, e le relazioni che abbiamo, specialmente pei carteggi di Tiburzio, la dipingono davvero nello stato d'una mina in cui già sono rammentate le polveri, e per cui basta una sola scintilla a far succedere lo scoppio. La scintilla sarà il primo moto popolare che avvenga, sia egli qui in Piemonte, sia in Lombardia, sia nelle Romagne, sia pur anche a Napoli. Gli elementi da ciò sono dappertutto. Quando sieno tutte a dovere ordinate le fila, quando accuratamente organata la impresa, un cenno e basta.

Maurilio, senza abbandonare la sua positura, scosse la testa, cui tornava a sorreggere colle sue mani e disse a mezza voce:

– Sì, se fosse possibile far muovere i popoli come le compagnie d'un reggimento al comando del colonnello nella manovra di piazza d'Armi. Ma i popoli sono guidati da altre norme e da ben altre leggi, e trama di congiure, per quanto astutamente combinata, non varrà mai a ridurli a questa certezza d'esecuzione, su cui i cospiratori fanno i loro calcoli.

Giovanni Selva interruppe con vivace uscita, che molto aveva dello sdegno:

– Ma tu sei il demone del dubbio.

Maurilio levò lentamente la testa e fissò Giovanni collo sguardo sicuro dei suoi occhi verzigni, intelligenti e profondi.

– Sono lo spirito d'esame: disse egli; poi si levò in piedi e si tirò su della persona in una mossa superba che parve ingrandirne la statura. Con voi credo poter parlare il linguaggio della verità: soggiunse. Siete voi così dappoco, che non altrimenti possiate perseverare in un'impresa, se non vedendone l'esito sicuro e scartati tutti i pericoli? Cogli altri che stimo da meno di voi, ho io tenuto mai un simile linguaggio? Venga il giorno della lotta, e vedrete questo demone del dubbio combattere come il genio della disperazione.

Selva si precipitò verso di lui e gli afferrò una mano che strinse con forza ed effusione.

– Perdonami! Diss'egli con accento che partiva veramente dal cuore.

Maurilio fece un mesto e pallido sorriso di indefinita espressione e si lasciò ricadere seduto.

In quella s'udì pel silenzio della notte l'orologio d'un campanile batter le ore.

– Undici ore! Esclamò Vanardi, poichè le ebbe contate. E Tiburzio non è ancora qui? Pur troppo ho paura…

– No, no: disse vivamente Romualdo. Io lo conosco per bene. Mario alla sua foga ed alla sua audacia congiunge pur tuttavia una suprema prudenza. Fin da giovanetto si trovò a dover lottare colla polizia di Roma, poi, esule in Francia, con quella sospettosissima di Luigi Filippo. E' ne conosce tutti i mezzi e le arti, e sa a quelle di esse contrapporne delle altre che le sventano. Poichè è qui in Piemonte, son certo che niun sospetto ancora egli ha destato d'essere un emigrato politico ed un agente delle patriotiche società segrete. Qualche cosa lo avrà trattenuto, ma siccome ci ha promesso di venire, verrà senza fallo.

Romualdo non aveva ancor finito di pronunziare queste parole, che si udì il passo fermo e franco d'un uomo sul pianerottolo.

 

– Eccolo qui di sicuro: soggiunse Romualdo.

L'uscio d'entrata s'aprì e comparve un uomo alto di statura, avviluppato in un ampio mantello.

I quattro amici gli mossero all'incontro, salutandolo per nome.

– Mario!

– Zitto! Disse il nuovo venuto, e chiudendo accuratamente l'uscio dietro di sè, si curvò a mettere l'orecchio alla toppa ad ascoltare qualche rumore che succedesse di fuori.

– Che cosa c'è? Domandò sommessamente Vanardi turbato alquanto.

– Siamo spiati: rispose Mario: ed un agente della polizia, ci scommetto, stava aspettando la mia venuta nel camerino della portinaia.

Vanardi, a quelle parole, impallidì, come se già vedesse sorgere alle sue spalle i tremendi cappelli a becco dei Carabinieri Reali.

– O mio Dio! Esclamò egli, giungendo le mani.

Mario stette un poco origliando, curvo così, alla porta, mentre gli amici rimanevano in sospeso, trattenendo il fiato; poi si drizzò, e gettando via il mantello ed il cappello, disse con un cotal sorriso di audacia superba:

– Oh! s'e' sono destri, io non sono punto nè uno scemo, nè un inesperto. Li conosco dalla lungi questi segugi, ed ho acquistato colla pratica una specie di istinto, che mi avvisa della loro presenza e delle arti loro. Sono tanti anni che lotto contro di essi!

– Ma che vedeste? Che fu? Domandò sollecitamente, non senza affanno il buon Vanardi.

– Nulla. Un bracco della polizia che mi diede la caccia. E' mi ha seguito sin quassù con passo ammorzato; un passo di spia; lo riconosco. Ora egli sa che sono entrato qui dentro e vorrà informarsi di voi, se pure già non è in giorno dei fatti di tutti. Bisogna stare all'erta, ed opporre alla mina una contromina. Ci provvederemo.

– Come avvenne? Richiese Romualdo. Come ti accorgesti di codestui?

– Venivo correndo, perchè l'ora è già tarda, e temevo di trovar chiusa la porta da via. Ma appena messo il piede sulla soglia, il mio sguardo, avvezzo a scrutar tutto per bene, si cacciò nella loggia della portinaia, dove vide un uomo, non dei casigliani; vestito da operaio, ma colla faccia d'un esploratore. Quel grugno lì l'ho già veduto altre volte con altri panni, e non esitai neppure un istante a giudicar quel che fosse. Rallentai di subito il passo e mi spinsi avanti come uomo che fa una cosa ordinaria venendo ad un solito ritrovo. Fissai con tutta sicurezza i miei occhi nel camerino e sul viso di quell'uomo, e passando la testa pel finestruolo, salutai molto amichevolmente la portinaia, «Buona sera, mamma Ghita, il vostro Bastiano sta bene?» – «Grazie per servirla:» mi rispose la portinaia, mentre l'uomo, tuttochè facendo a nasconderlo, mi sviscerava con acuti sguardi di sottecchi. « – È un po' tardi questa sera, soggiunsi io, e avevo paura aveste già serrato il portone, perchè voi siete la più diligente delle portinaie di questo mondo.» – «Oh come? È tardi? Esclamò essa: che ora la è?» – «Presto le undici: guardate là il vostro oriuolo a cassa che ve lo dice.» – «Eh sì che gli è vero. Diss'ella. Tò, soggiunse volgendosi a quell'uomo, voi m'avete trattenuta così bene in novelle che il tempo mi è sfumato via senz'avvedermene.» Ora noi conosciamo tutti la Ghita e sappiamo quindi che cosa ciò voglia dire. Quello sconosciuto l'ha fatta destramente chiaccherare, e la brava donna che ci ha il suo ripesco ha blaterato giù per parecchie ore, dicendo quello che è e quello che non è di tutti quanti quel sornione abbia voluto. – «Ho fatto più tardi del solito ancor io, questa sera (presi a dire), perchè mi fecero fermare sul palco scenico finchè fosse finita tutta l'opera; le altre sere, appena giù il telone dopo il primo atto, dove soltanto ci ho parte, me la svigno, ma stassera il primo baritono era mezzo infreddato ed aveva paura di non poter cantare sino alla fine. Siccome io gli faccio da supplemento, dovetti star lì pronto ad indossare il suo mantello e calzare i suoi stivaloni a tromba. Per fortuna, o bene male, fra scrocchi e stonature, e' si trascinò sino al fine. A proposito di teatro, Ghita, vi darò poi per domenica le polizze d'entrata per voi e pel vostro Bastiano.» La portinaia si profuse in ringraziamenti, ed io li accolsi con tutta la superbia d'un cattivo cantante che si crede un artista. Poi diedi e ricevetti la buona notte, e me ne venni su adagio adagio, canterellando una cabaletta. A quest'ora adunque il poliziotto sa che io mi chiamo Medoro Bigonci, che canto da baritono e faccio la stagione di carnevale al teatro Regio come seconda parte, che ho presa in affitto una cameretta ammobigliata dal pittore Vanardi, e che rientro regolarmente e quietamente a casa tutte le sere verso le dieci. Ci crederà o non ci crederà? Qui sta il punto: ed è necessario che per noi si faccia tutto a far parere codesta la assoluta verità. Perciò questa notte la passerò tutta qui con voi senza andarmene più all'altro mio quartiere. Non occorre che vi disturbiate a farmi posto in letto. Io sono avvezzo a di queste nottate, e starò benissimo allungato su tre o quattro seggiole vicino al fuoco. Del resto ho molto da scrivere, e la maggior parte del tempo la impiegherò nel carteggio.

Gli amici vollero fare qualche cortese opposizione per indurlo a prendere un più agiato riposo; ma il sedicente Medoro Bigonci li interruppe.

– Lasciamola lì: diss'egli bruscamente, con un certo accenno imperioso che pure non cessava di essere simpatico. Abbiamo ben altre più rilevanti cose onde discorrere. Sediamo ed ascoltatemi.

Sedettero intorno al fuoco su cui Maurilio non cessava di gettar della legna. Mario Tiburzio stava in mezzo, e le teste de' suoi quattro compagni erano chine e tese verso di lui con sollecitudine d'aspettativa. Mario si passò una mano sulla fronte la quale, benchè egli fosse giovane, tuttavia cominciava a gittare i capelli e quindi ad apparire più grande e direi più angolosa nella sua forte ossatura da tipo d'antico romano; si raccolse un istante, e poi con voce bassa e contenuta cominciò a parlare.

Mario Tiburzio aveva a quel tempo ventisei anni incirca; ma le emozioni, i pericoli e i disagi di una vita da profugo vissuta sin quasi dall'adolescenza, la contenzione dello spirito e dell'anima in un gran proposito che tutte ne assorbiva le facoltà, davano al suo sembiante l'aspetto d'una età assai più inoltrata. La sua era una nobile figura tutto risoluzione e fortezza. I bei lineamenti del tipo romano erano in lui illuminati, per così dire, da una fiamma interiore, che era una convinzione, che era un culto ad un principio, che era una fede. Figliuolo d'un patriota repubblicano morto nelle carceri pontificie, egli ne aveva ereditato l'amore all'Italia ed alla libertà, e l'odio ai dominatori del nostro paese, contro cui sentiva inoltre ribollire in cuore un tremendo desiderio di vendetta, non solo pei mali e per la vergogna alla patria inflitti, ma per la dolorosa morte del padre, per i dolori alla santa donna, che a lui era madre, cagionati, per le sventure alla sua famiglia prodotte.

A quel tempo qual via aprivasi all'ardente gioventù italiana onde giovare ai troppi danni della patria; onde cercare di abbattere la soverchiante tirannia? Quella soltanto delle congiure, abbracciando le frementi ma vaghe teoriche di Giuseppe Mazzini. Il carattere cupo, dissimulatore e temerario nella sua finzione del congiurato è nell'indole degl'Italiani, massime di quelli del centro della penisola. Abbiamo tutti un po' della politica alla Macchiavelli in fondo dell'animo; ed oppressi ed oppressori giuocavano allora di macchiavellismo in congiure sempre rinnovantisi e sempre sventate dalle migliaia di Arghi delle tante polizie che avvolgevano come nelle maglie di una rete l'intiera Italia.

Mario apparteneva da molti anni alle società segrete che tentavano come talpe pazienti, scavare nella massa popolare, pian piano, sotto terra, un abisso ai piedi dei troni esistenti. La sua intelligenza, la forza del suo carattere e della sua volontà, il coraggio e l'ardenza del patriottismo insuperabili lo avevano fatto salire tra i primi dei capi e guidatori di quell'opera sotterranea. Stando egli in Francia, tutte le fila delle ordite trame facevano capo ad un comitato superiore stabilito a Parigi, di cui Tiburzio era parte. Egli consigliava, ammaestrava, ammoniva, andava preparando quanto meglio potesse per uno scoppio che si augurava e sognava poter essere sollecito e fortunato. Era in relazione coi repubblicani francesi, che intendevano da canto loro a quel segreto lavorìo, il quale doveva ad un tratto rivelarsi coll'immensa sorpresa di tutta Europa nella ibrida repubblica del 1848. Gli uni speravano poter essere d'aiuto agli altri e riceverne.

Ad un punto – per una di quelle solite illusioni cui vanno soggetti i profughi – parve al comitato parigino che le cose in Italia già fossero od almeno di molto s'avvicinassero ad essere mature per l'audacia dei fatti. Conveniva, e fu deciso di comune accordo, che uno dei componenti quella suprema direzione esecutiva, scendesse nella penisola, esaminasse lo stato delle cose, infiammasse gli animi degli adepti, ne accrescesse a tutto potere il numero, procurasse armi e danaro con ogni possibil mezzo, si mettesse a capo delle squadre ordinate in segreto, gettasse il grido della rivoluzione e cominciasse la sacra lotta.

La missione era delle più difficili e rischiose. Mario Tiburzio con superbia sublime la rivendicò per sè; e niuno volle ed osò contrastargliela. Venne in Italia sotto nome e professione simulati; come aveva bella voce e sapeva di musica, si diede per cantante, acconcio mestiere per correre le varie città, e coll'aiuto di qualcheduno dei congiurati che poteva in siffatte cose, ottenne di essere scritturato, come si dice, a quel teatro che egli volle.

Il paese più importante per l'umore bellicoso e pel carattere fermo de' suoi abitanti; quello che la congiura credeva più necessario guadagnare alla rivoluzione era il Piemonte. Insorta la Lombardia contro lo straniero, insorto il paese subalpino contro la monarchia più forte d'Italia, anzi la sola che fosse forte di per sè; tutto il resto della penisola era in balìa del movimento.

Mario Tiburzio venne in Piemonte. Aveva conosciuto a Parigi Romualdo, in un viaggio che questi aveva fatto colà, ed anzi avevagli reso un importante servizio d'amico, in occasione d'un duello che ho raccontato altrove2; aveva sempre continuato a carteggiare con Romualdo, il quale non aveva fatto la menoma difficoltà ad intingere nella congiura. Giunto a Torino, il cospiratore romano, per mezzo di Romualdo, era entrato in relazione con tutti gli amici di quest'esso, e per la generosità della loro indole, per la vivacità del loro amor patrio, per le doti d'ingegno e di cuore che li contraddistinguevano, Mario li aveva fatti suoi confidenti e principali aiutatori nella terribile impresa.

Ora erasi al punto di dover prendere gravi ed estreme decisioni; e nel convegno di quella sera della quale vi sto narrando, Mario Tiburzio aveva annunziato dovere comunicare agli amici le più importanti novelle.

Ascoltiamolo adunque, ora ch'egli, abbassando la sua voce grave ed armoniosa, si fa a discorrere.

2Vedi Novelliere Contemporaneo.