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La plebe, parte I

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«Quando il sole gettava i fasci irrompenti delle sue fiamme divine, e sorgeva imponente e soverchio alla pupilla di questa misera creatura che è l'uomo, io mandava un grido selvaggio di gioia, come facevano gli augelli ridesti; partecipavo direttamente a quell'omaggio della natura al suo re.

«Vivevo intimamente nella vita della natura; confondevo la mia povera persona in quel tutto onde ero avvolto. Al suo tramonto io seguitava il sole con occhio amoroso, pieno di rimpianto. Le nubi che velavano il suo splendore mi riempivano di tristezza. Nelle belle giornate serene sentivo entro l'anima una muta, segreta contentezza che non avrei saputo spiegare e che mi faceva bene pur tanto.

«Avrei voluto vivere così sempre. Mi sdraiavo all'ombra di quegli ontani e guardavo, guardavo. L'orizzonte non era molto vasto, gli oggetti che mi si presentavano erano pur sempre i medesimi; eppure non mi stancavo mai di guardare. Quante idee nascevano allora in me! E dove le attingevo io, che non sapevo niente, che non avevo visto niente, che non comunicavo con persona viva, fuorchè colle stupide bestie affidate alla mia custodia?

«Vi ha chi, rinnovellando il pensiero pitagorico, dice oggidì che gli spiriti prima di proseguire la loro misteriosa carriera nell'infinito, debbano incarnarsi più volte su questa terra entro le nostre miserabili spoglie d'uomo; che la memoria delle precedenti esistenze rimane sì obliterata in noi, ma che pure in taluni qualche vago accenno, che pare un presentimento, un istinto, una divinazione, permane, fugace richiamo d'un passato, forse di secoli e di secoli. Io sono presso a creder codesto. Non t'è avvenuto mai di trovarti innanzi a certi affetti, a certe sensazioni, a certe circostanze, eziandio che dovrebbero esserti novelli, come innanzi a cose già occorse e già sentite? A me accadde, ed accadde le mille volte. Ma questo momento, io mi domando, l'ho io già vissuto, lo vivo realmente adesso?

«Le idee che sorsero nella mia mente in quella solitudine, fanciullo io ancora, nulla di quanto mi avvicinava poteva darmele, e se io non le ho portate meco nascendo, residuo d'una vita anteriore, non saprei dove le abbia potute acquistare. Quello che travagliava me, misero, ignorante, disprezzato bùttero della campagna, era niente meno che il problema della nostra esistenza – il problema della vita – il problema della creazione.

«Perchè esistevo io? Perchè esisteva tutto quel mondo che mi attorniava? Avevo udito a nominar Dio. Che cosa era questo Dio? Egli aveva fatto tutto quello che esiste – ma pel suo bene o pel nostro? Se pel suo, come mai aveva egli da aver bene mercè il dolore delle creature? Imperocchè l'idea del dolore fosse la più spiccata e precisa che io avessi dai primi anni miei. Se pel nostro bene, come mai la creazione volgevasi a tale che ne risultava il male? Tutto questo non si combinava coll'idea che avrei voluto farmi di Dio. E s'egli aveva creato ed era onnipossente, avrebbe potuto bene non creare affatto, o distrurre l'opera sua? Non creare! Se non avesse creato ci sarebbe dunque stato il nulla!..

«Mi ricordo che quando questa tremenda idea invase il mio cervello, io credetti impazzire. Il nulla! Niente che esistesse. Dio solo nella sua solitudine infinita!.. Ma un Dio inerte e che non facesse nulla si può egli concepire?.. Dunque nè anche Dio!.. Nulla! Nulla!.. Sentivo la mia testa scoppiare sotto questo assurdo inconcepibile, e che volevo sforzarmi a concepire.

«La creazione, m'insegnava il catechismo che andavo alla domenica a sentire spiegato in chiesa, era appunto l'atto con cui Dio aveva formato il mondo dal nulla, dunque prima ch'egli creasse, questo nulla dominava lo spazio ed il tempo…

«Mi serravo violentemente colle mani le tempia, come per concentrarvi le idee e le forze del cervello che mi pareano disperdersi. Poi guardavo innanzi a me sbalordito. Vedevo le vacche qua e colà sparse, nella beata calma della loro stupidaggine. Una sdraiata ruminava cogli occhi semichiusi; un'altra mordeva la poca erba del suolo infecondo; una terza, andata a bere, sollevava il muso da cui gocciava l'acqua e guardava fissamente innanzi a sè. Pensavano a di queste cose nelle tante ore inoperose, quelle bestie così placidamente rassegnate alla loro sorte? E se non le pensavano, non erano esse più felici di me? E perchè tali pensieri dovevo averli io, e non li avevano nè Menico, nè Giovanna? Era questo un mio torto, od un mio merito, od una mia sciagura? Non sapevo nè anche questo, ma pure non avrei osato svelarli ad anima viva.

Qui Maurilio tacque un istante e parve esitare; poi fece quel suo strano sorriso, scosse il capo; e riprese:

– Ned ora tuttavia, nemmeno con te, oso tutto disvelare degli intimi pensieri del mio spirito, degli intimi fenomeni che ha nel suo segreto l'anima mia…

– Perchè? Domandò con calore Giovanni Selva; tu dèi pure avere fiducia nella mia amicizia.

Maurilio stette un minuto a capo chino, poi, come riscuotendosi, disse risolutamente:

– Avrò il coraggio di dirti tutto, perchè molte volte ho bisogno d'aiuto nelle mie interne battaglie, e il tuo affetto e la risolutezza del tuo carattere potranno darmene… Ti dirò tutto, dovessi tu pure stimarmi un allucinato o ridere della vanità delle mie illusioni.

Selva lo interruppe vivamente.

– Ridere non mai!.. E per crederti così agevolmente allucinato, conosco troppo già la tempra del tuo ingegno e la forza dell'anima tua.

– Giovanni, disse Maurilio volgendo verso l'amico il viso diventato più pallido e gli occhi di una strana luce illuminati: Giovanni, credi tu alle apparizioni? Credi tu al mondo degli spiriti? Credi tu che fra questi vivi della vita d'un giorno e i vivi della vita eterna possa esservi comunicazione diretta?.. Io credo!.. A me parlano gli spiriti dei morti; io sento nell'anima il susurro de' loro ispiratimi pensieri, alcune rare volte io ne vedo nelle ombre della sera disegnarsi, lievi come il fumo di poco incenso, le loro incerte sembianze… Non interrompermi, non parlarmi, non dirmi che vaneggio… Odimi sino al fine.

«Non avevo più di sette anni. Ero al solito pascolo. Una sera orridamente bella per lo strano spettacolo del cielo. All'occidente un ammasso di nubi di temporale, nero come il fondo dell'abisso, squarciate di quando in quando da un lampo sanguigno. All'estremità di queste nubi, pei raggi rifratti del sole già tramontato, un orlo vivo color di fiamma. Più in su dell'orizzonte un altro accavallamento di nubi bianche come la neve che correvano, avresti detto spaventate, avvolgendosi su se stesse sotto il soffio dell'aquilone. Per la campagna una luce incerta, biancolastra, freddiccia che dava delle tinte livide a tutti gli oggetti. Un gran silenzio in tutta la natura, cui rompevano tratto tratto il rombare del tuono lontano e l'ululato del vento che faceva piegare con gemiti gli alberi, che sollevava altissimi nembi di polvere e li cacciava in disordine innanzi a sè, e passava. Le vacche di quando in quando levavano il muso verso il cielo e muggivano dolorosamente.

«Io non sentiva paura; quell'imponente spettacolo piaceva anzi di molto agli occhi miei; ma pure avevo una certa ansietà nell'animo e un palpito nel cuore, di cui non sapevo dirmi il perchè. Sdraiato sotto gli ontani, guardavo i lampi nel cielo e stavo lì come aspettando qualche cosa che dovesse intravvenire.

«Ad un punto il vento cessò del tutto e il tuono si tacque. L'orlo di fiamma delle nubi all'occaso si spense, quelle altre nubi bianchissime che correvano pel cielo si fermarono, si oscurarono e diventarono color di piombo; parve cessasse dal respirare la natura intiera. Il mio cuore palpitava più forte. Udii al di sopra del mio capo le frondi degli ontani scuotersi leggermente, e mi stupii che il vento tacesse dappertutto e là soltanto agitasse i rami. Una voce – era essa bene una voce? – certo non umana, la suonava in modo così dolce e così nuovo che io non aveva udito nè udii mai rumore terreno che le si potesse paragonare. La sentii non cogli orecchi, ma coll'anima. Non avrei saputo dire se parlasse fuori di me o dentro me stesso; ma era una voce d'altra persona che non io, perocchè mi stupì forte e mi fece rivolgere a cercar chi fosse che parlava. Una voce mi disse: – Bambino! Povero bambino!

«Guardai tutt'intorno; non vidi nessuno. Mi alzai non atterrito, ma commosso. Gli ontani tornarono ad agitarsi; ed allora vidi – oh certo vidi – una figura, un'ombra bianca, diafana, leggiera, che pareva di donna, le cui sembianze non potevo discernere con precisione, ma che avrei detto mi guardasse benignamente affettuosa.

«Non ebbi timore di sorta. – Chi siete? Le domandai.

«Invece di rispondere alla mia richiesta l'ombra mi disse con quella sua voce di cui non posso spiegare la natura, nè l'incanto:

« – Iddio ti ha dato un'intelligenza, e tu devi coltivarla. Un'anima eletta verrà pietosamente a cercarti nelle tenebre della tua ignoranza. Studia. I tuoi patimenti non ti facciano tristo. Soffri, perdona e credi!

«E si dileguò alla mia vista.

«La notte era discesa quasi del tutto, le vacche muggivan più forte, il tuono e il vento romoreggiavano più intensamente; qualche gocciolone di piova cominciava a cadere con impeto qua e colà. Io mi sentiva tutto commosso e quasi lieto nell'animo. Avviai le bestie verso casa e ci arrivammo correndo che la piova incominciava a crosciare con iscatenato furore.

«Fui crudelmente percosso e condannato a star senza cena, perchè avevo tardato a rientrare. Coi panni tutti bagnati addosso fui mandato sul mio giaciglio. M'addormentai placidamente, senza pure una lagrima. Sentivo ancora dentro di me, come una musica, il suono delle parole della visione.»

– Questa visione, disse Giovanni, altro non era che la tua coscienza. In te latente era fin d'allora il sentimento del tuo valore intellettuale, e per un fenomeno psicologico siffatto sentimento nell'estrinsecarsi prendeva quasi persona di essere estraneo, affine di incitarti all'opera.

 

Maurilio crollò con impazienza le spalle.

– Lascia stare, ti prego, le tue spiegazioni del razionalismo terreno a corta vista. Ascolta tutto in prima, e poi vedrai se quelle spiegazioni possono bastare.

«Il domattina corsi a quel solito luogo con una specie d'ansia desiosa. Speravo di rivedere quella forma indistinta, di riudire quella voce soave. Il fatto nè mi pareva meraviglioso, nè cercavo di darmene spiegazione alcuna. Non l'avrei detto a persona al mondo; già non avevo nessuno a cui favellarne, perchè a Menico ed a Giovanna non rivolgevo mai la parola che quando la necessità lo volesse; ma fossi pure stato uso a tutto svelare a qualcheduno, quel fatto avrei avuto caro di tenerlo segreto, per me solo, e un'istintiva ripugnanza avrei sentito a parlarne.

«Il temporale era passato e splendeva in una bella mattina il più allegro sole del mondo. Mi sedetti sotto gli ontani, là, a quel medesimo posto, e stetti aspettando. Inutilmente!.. Cioè no, inutilmente. La visione mi aveva annunziato che un'anima eletta sarebbe venuta a cercarmi nelle tenebre della mia ignoranza; e quest'anima venne.

«Nell'attesa che la desiata visione si manifestasse al mio spirito, io m'era siffattamente assorto fuori del mondo reale, che non vedevo e non sentivo più nulla. Ad un punto fra i miei occhi e lo splendore del sole nella pianura, cui fissavo inconsciamente, venne a frapporsi un corpo opaco, una persona vestita di nero. Levai lo sguardo, e mi trovai dinanzi le sembianze paternamente affettuose e il sorriso bonario di Don Venanzio.

« – Che fai tu? Mi disse. Dormi?

« – No, diss'io, penso.

« – Oh oh! Pensare, soggiunse egli ridendo, con quella testolina, alla tua età!.. Ma intanto non badi ai fatti tuoi; e vedi un po' che una delle tue vacche è fuori del pascolo, ha invaso il campo di Giammaria e sta mangiando a piene ganascie il suo trifoglio. Così cominci per lasciar far danno a quel pover uomo: e poi la bestia pasciuta di trifoglio gonfierà e potrà anche morire; e per Menico la sarà brutta, e la vedranno brutta anche le tue spalle.

«Mi scossi in sussulto «come persona che per forza è desta» e corsi a parar via la vacca dal campo di trifoglio.

«Quando tornai presso al parroco, questi mi pose amorevolmente una mano sul capo; e guardandomi non senza affettuoso interesse, mi disse:

« – Come sei concio! Tu non ti lavi mai, ci scommetto. Non sai che la pulizia è l'eleganza del povero?

«Io mi sentii arrossire e chinai la testa senza rispondere.

« – La Giovanna, continuava egli, non ti ha mostrato a tenerti pulito?

« – No.

« – Ebbene, ciò non ostante avresti dovuto impararlo da te stesso.

«Io arrossii ancora di più, e chinai più basso ancora la testa. Don Venanzio stette un poco a guardarmi così in silenzio, e il suo sguardo mi rendeva impacciato bensì, ma non mi faceva pena, tanto ci sentivo in esso di pietà e di affetto.

« – Oh Signor benedetto! Esclamò egli di poi come parlando a se stesso; è egli possibile che delle creature umane tirino su un'altra creatura a questo modo senza pulirne in niuna guisa nè il corpo nè lo spirito?

«E volgendo allora di nuovo a me la parola, chiese:

« – Tu non sai nemmeno che cosa sia leggere e scrivere, non è vero?

« – Sì, lo so: risposi levando gli occhi in volto al buon parroco. Vedo bene Menico che fa certi segni su certo suo libretto per tenere le ragioni di quanto vende e di quanto gli si paga, e alla domenica a messa vedo bene Lei che legge nel grosso libro in sull'altare, e al catechismo il vicecurato che legge la dottrina per ispiegarcela.

« – E ne avresti voglia tu di saper fare l'una cosa e l'altra?

«Veramente fino a quel punto, io non ci aveva ancora pensato mai: ma bastò che Don Venanzio me ne dicesse, perchè di subito io me ne sentissi invasare da un grandissimo desiderio.

« – Oh tanto, tanto… risposi con calore.

«Il parroco mi fece una carezza alla mascella a dispetto dello sporco che m'impiastrava la faccia, e mi disse:

« – Va bene. Io faccio scuola a tutti i ragazzi che mi vogliono mandare, e la farò anche a te. Dirò a Menico che vi ti lasci venire, e siccome la scuola è gratuita, non dubito punto ch'egli acconsenta.

«E così fu di fatto. Benchè la Giovanna brontolasse assai, che quella, secondo lei, sciocca superfluità della scuola mi toglieva da farle in casa quei pochi servigi a cui ero buono, e quindi che le mangiavo più che mai il pane a ufo e a tradimento, pure non si osò contraddire Don Venanzio, e tutti i giorni, in quello spazio di tempo che le bestie non istavano alla pastura, io con immensa voglia, insieme con una frotta di altri ragazzi del villaggio, prendevo dal buon parroco due ore di lezione.

«Ben presto fui primo tra i primi, e a seconda che imparavo con ardore, una smania indicibile di sapere s'impadroniva di me. Don Venanzio meravigliato de' miei progressi, e, come diceva egli, della precocità della mia intelligenza, mi pose affetto forse maggiore che non ad altri; e un anno appena era trascorso dal dì ch'egli mi aveva mostrato a discernere le lettere, quando egli mi ammetteva già alla prima comunione e, come ti ho raccontato poc'anzi, mi rendeva istrutto di quanto era a sua cognizione circa la mia origine.

«Un altro fra i ragazzi meco istruiti corrispondeva coi più lusinghieri successi all'insegnamento del parroco, ed era perciò ancor egli distintamente apprezzato da Don Venanzio.

«Per una strana combinazione della sorte, questo tale trovai, dopo lungo intervallo che eravamo divisi, questa sera medesima; e ciò valse ancora non poco a far più vivo in me il ricordo di quegli anni infantili.

«Eravamo ambidue superiori a tutti i nostri compagni per l'intelligenza; egli era tale altresì per la forza e l'avvenenza del corpo. Avevamo la sorte comune; ancor egli è un trovatello al pari di me; oltre ciò molte idee compagne, molte aspirazioni medesime ci assembravano. Fu quello il mio primo amico che avessi; l'unico finchè non ebbi trovato voi altri.

«Il suo nome è Gian-Luigi. Una buona donna lo tolse dall'ospizio per balìrlo, e lo ebbe come suo. Ancor egli ha un segno che può essergli stato messo per riconoscerlo di poi da chi lo abbandonò nella ruota degli esposti; ma un segno vago al pari del mio: una lettera stracciata longitudinalmente per metà di cui non si scorge data nè firma, e non si può capir nulla. Un altro segno di ricognizione a lui diede poi la natura in una macchia che par proprio un fiore di viola mammola sopra una spalla.

«La natura volle esser prodiga con lui d'ogni dono: bellezza, forza, intelligenza, coraggio; ma la sua anima irrequieta ed ambiziosa è dominata da un superbo egoismo che è capace di tutto. Un ardore di sapere ci possedeva entrambi, e ci animavamo l'un l'altro, e ci aiutavamo a vicenda, egli coi meravigliosi indovinamenti della sua ratta percezione e del suo intuito potente, io colle deduzioni forse più profonde della mia riflessione. In breve il buon parroco non ebbe più nulla ad insegnarci, perchè aveva trasmesso in noi tutta quella scienza ch'egli possedeva. Ah perchè quel sant'uomo non ci potè trasmetter del paro la calma sua acquiescenza nella sublime umiltà della fede? Quel poco che avevamo bevuto alla coppa del sapere era ben lungi dal bastare a dissetarci. Il nostro spirito audace andava al di là di quella cerchia che ci pareva troppo stretta e in cui si trovava pure a suo agio l'anima modesta del sacerdote. Avevamo divorato, poi letto di nuovo e riletto tutti i pochi libri posseduti da Don Venanzio. Per questi libri in modo incompleto e leggero pur anche, ma tuttavia in modo efficacissimo per le nostre anime giovanilmente vaghe e ansiosamente curiose, ci parlava il mondo coi suoi gran problemi filosofici, morali, sociali e politici. Sull'arido tema datoci da quei libri innocenti lavorava con ardore la nostra fantasia intemperante. Figurati che uno dei libri che più mi agitassero fu il Discorso sulla storia universale di Bossuet. L'umanità allora mi apparve primamente come una grande individualità esplicantesi traverso ai secoli per incarnare un disegno, un tipo, per effettuare un ideale. Afferrai il concetto della filosofia della storia, senza pur saperne il nome nè conoscerne nemmanco che altri l'avesse fondata, esplicata, tentato determinarla in leggi generali. Fui a me medesimo il mio Vico, mi credetti inventore e ci lavorai intorno con la superba passione dell'inventore. Creai il mio sistema, e con fatale orgoglio non conchiusi in favore d'una paterna provvidenza. La necessità generantesi delle cose e l'ingranaggio della dipendenza ineluttabile di cause e d'effetti, di premesse e di conseguenze mi parvero spiegazione sufficiente. Preso per guida e per esemplare il Bossuet, riuscii ad opposte conclusioni.

«Il verme che rode la moderna umanità intellettuale, lo scettico criticismo ci possedeva entrambi, me e Gian-Luigi. Eravamo proprio figliuoli di quella generazione, che avendo visto rovinar tutto, avendo tentato infinite cose e riuscito a nulla, non poteva più aver fede in cosa nessuna. Gian-Luigi, senza mai aver letto Voltaire, aveva il sarcasmo potente di questo demolitore; quando più tardi mi vennero tra mano le brillanti prose di quell'arguto polemista francese che il secolo scorso scambiò per un filosofo, stupii nel trovarvi le scherzose empietà del mio compagno d'infanzia.

«Don Venanzio s'accorse degli effetti dell'opera sua e molto se ne dolse. Forse si pentì d'averci tolti all'ignoranza, nella quale probabilmente avrebbe continuata la nostra fede. Volle argomentare, vincere la nostra incredulità colla potenza della sua teologia: ma le vivaci uscite di Gian-Luigi lo confondevano, le serrate deduzioni dei miei ragionamenti lo imbarazzavano. Atterrito esclamava che per bocca nostra parlava il demonio. Povero prete! Così buono e ci amava cotanto! E l'abbiamo fatto soffrire!..

«Però se io non aveva più la cieca fede del cattolico insegnatami dal curato, non ero neppure andato all'assoluta negazione, a cui aveva fatto capo Gian-Luigi, il quale, di alcuni anni più innanzi nella vita di me, aveva nelle sue concitate passioni di giovane ribollenti nella sua anima audacissima un incitamento alle maggiori temerità della coscienza. Oltre ciò quell'educazione che il parroco aveva incominciata di lui, era stata compita da un altro, ammirato pure dei tanti e luminosi talenti di quel giovanetto. Quest'altro era il medico del villaggio e, come tutti i medici d'un tempo, aveva per dottrina il più puro e franco materialismo. Gian-Luigi era troppo acconcio a far suoi quel sistema e quelle opinioni. Accusava me, timido ed inconseguente, perchè non sapevo spastoiarmi dagli assurdi pregiudizi, secondo lui, dello spiritualismo.

«Se avesse saputo poi che io nutriva entro me peggio di codesto, una credenza che tutti i dotti battezzano per superstizione; la credenza alle apparizioni degli spiriti umani spogliati della carne!..

«Ti confesso la mia viltà. Non ebbi mai l'ardire di pur fargliene cenno. Avrei temuto un suo scherno su questo proposito come una crudele trafittura nel più delicato dell'anima. Ci credevo, – e ci credo – e quella credenza era ed è una consolazione segreta ed un segreto conforto d'indefinita speranza. Questa credenza nel domma superbo dell'immortalità dell'anima, della permanenza della personalità umana, della perfezione dello spirito, mi riattaccava alla credenza di Dio.

– Ma dopo quella prima visione, disse Giovanni Selva a questo punto, ne avesti tu delle altre?

Maurilio fece un cenno affermativo col capo e con accento sommesso e commosso rispose:

– Sì, ma più vaghe ed incerte ancora della prima; tali però da non lasciare in me il menomo dubbio. Sempre quella medesima forma donnesca in atto pietoso. La voce soave non l'udii più, o qualche rara volta, un monosillabo, un'esclamazione soltanto. Mi appariva – e da qualche tempo tornò ad apparirmi – nel crepuscolo vespertino ad ogni volta. Io vedeva nell'aria un mesto sorriso; e mi si cancellava dinanzi. Le tendevo le braccia, la invocavo col grido dell'anima: era sparita. Quando avevo sofferto di più, quando Giovanna e Menico mi avevano peggio maltrattato, ella soleva consolarmi del suo fugace passare innanzi ai miei occhi. L'aspettavo. Certe volte ero contento d'aver patito assai lungo la giornata, perchè speravo che la sera avrei visto il mio buono spirito. E non sempre veniva, ed era allora in me un'amarissima delusione, nuovo più forte dolore. Mi sentivo allora tanto solo nell'universo! Poichè Don Venanzio mi aveva narrato dell'esser mio, avevo dato un nome a quella ombra, e non avevo pure un dubbio che quel nome non fosse suo. La chiamavo mia madre.

«Il mondo soprasensibile mi parlava così all'anima, ed il mondo reale, crescendo negli anni, mi parlava con agognante curiosità alla mente. Cominciò a travagliare il mio spirito intorno al problema della mia nascita. Volli cercare la ragione per cui de' genitori erano costretti a condannare i nati dal sangue loro a quell'insulto che mi gettavano in faccia gli uomini spietatamente colla parola bastardo; e questa ragione, in mezzo ai miei studi incompleti, mal digesti, fatti alla ventura, mi apparve circondata dagli spinosi avvolgimenti della quistione sociale. Il problema della ricchezza e della povertà mi affannò allora ancor esso con una dolorosa confusione del mio spirito. Il buon Don Venanzio non era a gran pezza capace di dire una parola che mi fosse in quello scombuiamento un richiamo, una guida; egli non aveva che una spiegazione sola, un unico principio a cui tutto subordinava come effetto a causa: la volontà di Dio. Questa spiegazione più non bastava al mio scetticismo crescente. Mi ribellavo a veder chiudere in quell'angiporto i miei audaci perchè. Il concetto dell'armonia universale mi sfuggiva, e facendo, come avviene, centro all'universo della mia povera individualità e tutto ad essa recando, conchiudevo suprema ragione delle cose terrene essere l'ingiustizia. L'umanità, quindi, credevo affatto fuor di strada; la rivoluzione sociale essere una necessità assoluta, chi non volesse la civiltà caduta in vecchiaia, fatta impotente, cristallizzata, per dir così, in forme inefficaci, colpite di morte, e però da spegnersi come le civiltà dell'antico Oriente.

 

«Non abbracciavo tutte le parti dell'immenso quesito. Non apprezzavo e non conoscevo la virtù immensa, e sola effettiva, e sola creatrice, del graduato e lento moto di riforma, in una parola, del progresso, a cui la terra medesima e tutto l'universo deve l'attuale suo stato e dovrà gl'immegliamenti avvenire. Circonchiuso in istretti limiti segnati, me inconscio, dal mio interesse personale, esageravo colla foga esuberante della prima giovinezza.

«Più di me esagerava Gian-Luigi, anche in codesto. Il suo pensiero aveva ancora più temerità e meno logica del mio. Dal medico, il quale con tanto amore l'avea preso a proteggere, egli era ogni anno mandato a Torino per gli studi. Il bravo uomo – senza prole – sognava vedere Gian-Luigi addottorato in medicina, succedergli nella clientela del villaggio, ed a lui vecchio prestare negli ultimi anni le amorose assistenze d'un figliuolo.

«Ma quanto una simile sorte era lungi dal bastare all'irrequieta ambizione del giovane! Fin dapprima questi non anelava che ad una cosa: potersi allontanare di tanto da quel villaggio che nessuno udisse mai più nulla di lui, fuorchè – com'egli si lusingava ottenere – la sua fragorosa celebrità; e non tornarci mai più, fuorchè circondato da una brillante aureola di gloria.

« – Vorrei, mi diceva più volte nei nostri confidenti colloqui, vorrei che strabiliassero tutti che un uomo simile sia venuto fuori dal guscio di quel bastardo che essi disprezzavan cotanto.

«Questo disprezzo era eziandio per lui un tormento uguale se pur non maggiore a quello che io ne provava; quantunque verso di lui siffatto sentimento si manifestasse assai meno che non verso di me, perchè egli era forte, robusto, arditissimo, di sembiante meravigliosamente bello, possedeva una certa autorevole imponenza di persona che faceva effetto su tutti, ed inoltre gli era di salvaguardia la protezione del medico, uomo nel villaggio assai considerevole e stimato.

«Molte volte Gian-Luigi protesse la mia debolezza contro gl'insulti dei compagni, e talora – cosa che mi parve un'audacia incredibile – perfino contro i maltrattamenti di Menico e di Giovanna che io temeva, massime quest'ultima, più di ogni cosa al mondo. La comunanza dei pensieri e dei sentimenti e la riconoscenza che io dovetti mettere in lui per queste ragioni, fecero che io amassi allora Gian-Luigi più di tutti, più ancora del buon Don Venanzio, il quale era pure il solo in cui avessi trovato il tesoro d'un affetto che aveva del paterno. Credevo esser amato ancor io dal mio compagno, ma quanto m'illudevo! Egli ha in codesto uno dei privilegii consentiti alla sublimità del genio: non ama che sè, non pensa che a sè.

«Dappoi che gli era solito venir a passare in Torino, per cagione degli studi, la maggior parte dell'anno, il soggiorno del villaggio era diventato a Gian-Luigi intollerabile. Fastidiva tutto. Nei primi giorni dopo il suo arrivo, si piaceva alquanto a restar meco, per dirmi tutto quello che aveva provato, tutto quello che aveva visto, pensato, sentito, tutte le sue speranze, tutti i suoi pazzi progetti che detti da lui parevano i più facili del mondo a compirsi, tutti i suoi sogni impossibili, che passando per la sua bocca, nella foga eloquente del suo discorso, pigliavano l'aspetto di cosa naturalissima. Ero io il solo in quel paese che potesse capirlo, partecipare a quei suoi sentimenti, completarli quasi coll'appassionato concorso. Io faceva sempre la mia solita vita, se non che lavoravo assai più, pensavo ancora maggiormente, e rubavo le ore al mio sonno, di cui avevo pur tanto bisogno, per leggere e studiare di soppiatto. Gian-Luigi veniva a cercarmi là al pascolo; e che festa per me il vederlo! Ad ogni volta però egli mi si presentava così cambiato in signore che io rimaneva tutto interdetto e non osavo più abbracciarlo. Egli mi recava innanzi gli abiti, le maniere, il profumo, quasi direi, della vita signorile di città; e ti lascio pensare qual effetto tutto ciò dovesse produrre in me. Maggior effetto mi producevano ancora le sue parole. Esse mi svelavano alla fantasia desiosa il mondo novello vagamente immaginato, l'Eden sociale da cui eravamo esclusi noi due, ma di cui egli s'era già pur tuttavia avanzato sino sulla soglia a mirarvi per entro ed in cui giurava di voler entrare.

«Le sue parole mi destavano un tumulto indescrivibile, e me lo destavano del pari i libri che egli mi recava. Furono i primi romanzi che vennero a dar forma più precisa a quella moltitudine di esseri immaginarii che riempivano le scene svariate e confuse delle mie fantasticaggini. Come divoravo quei volumi! Li recavo meco dappertutto e leggevo, leggevo, leggevo, finchè mi bastasse la vista.

«Trascorsi alcuni giorni, quando egli mi avea detto tutto, anche la mia compagnia tornava sazievole a Gian-Luigi. Non solamente non mi cercava più, ma se io andava in traccia di lui, mi sfuggiva. Siccome l'amavo, ciò mi faceva soffrire. Con colpa ben maggiore, egli sfuggiva altresì la brava donna che l'ha allevato, e che aveva ed ha tuttavia in lui un affetto più che materno. A chi gliene muovesse rimprovero, egli rispondeva sdegnoso: non esser egli come tutti gli altri, e le sue azioni quindi da non misurarsi alla regola comune; non aver egli legami di sangue con nessuno sulla terra, epperò averlo sciolto il fato da ogni e qualunque obbligo verso chicchessia. Come nessuno, egli non amava nulla di colà, e quei luoghi che erano sì cari – e lo sono ancora – a me, che pure in essi ho sofferto cotanto, quei luoghi non dicevano niente all'anima sua; ed il suo più lieto momento era quello in cui li dovea abbandonare per tornarsene col pretesto degli studi a Torino.

«Se il medico, il quale lo manteneva all'Università, fosse vissuto, io non so che cosa sarebbe capitato di Gian-Luigi. Forse avrebbe finito per acconciarsi alle voglie del suo protettore ed al destino che questi gli preparava; ma prima che il giovane terminasse il suo corso di medicina, il dottore, assalito da una violenta malattia, in pochi dì soccombette.