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Storia degli Esseni

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LEZIONE TRENTESIMANONA

La storia della vita essenica costava di tre parti distinte. La vita religiosa, la vita interna, la vita pubblica esteriore. Delle prime due parti abbiamo ragionato abbastanza, rimane a vedere della terza ed ultima che dicemmo vita pubblica ed esteriore. Vi ha però un tratto della vita loro, intima privata, che serve quasi di ponte e di transito naturalissimo allo studio, dei loro rapporti esteriori, ed è il rispetto reciproco che professavan tra essi i membri dell’Essenato. Questo rispetto fu sì grande, sì costante, così proprio all’Essenato, che un tratto forma sensibilissimo della essenica fisonomia, che menzione segnalatissima meritava dallo storico della setta, Flavio Giuseppe. Giuseppe vide il rispetto, la deferenza che usavansi tra essi i membri dell’Essenato, ed ai posteri lo trasmise, e trasmettendolo, nuovo e parlante argomento ci porse della identità tra Farisei ed Esseni, da noi propugnata. Se v’ha carattere deciso spiccato prominentissimo nella scuola dei Farisei; egli è questo senza meno, egli è il rispetto che la scuola imponeva tra colleghi e compagni; egli è il precetto che si legge in Abot, il Codice dei Hasidem, di amare, riputare qual proprio l’onor del compagno; egli è l’onoranza dovuta al compagno qual duce e maestro per quello inevitabile incremento di scienza che si consegue negli studj, nelle disputazioni comuni; egli è il titolo di familiare all’Esterno conceduto in Pesahim a quelli che tributano lode e dimostrazioni onorevoli ai compagni loro nei dotti, consessi; egli è il vanto che menavano i più grandi tra i Tanaiti, di non aver mai tolto a vile l’opinione dei colleghi, sino al punto, dice alcuno tra essi, di officiare qual sacerdote abbenchè sacerdote non fosse; egli è il flagello che dicesi menò strage nella immensa scolaresca di Akibà, sol per aver un solo istante obliato il dover sommo del Farisato, il rispetto reciproco e per cui dura tuttavia un vestigio di lutto tra la Pasqua e la Pentecoste; ei sono infine gli esempj grandi cospicui che ci offrono del reciproco rispetto i lumi più grandi del Farisato, e ciò che più monta, per eloquentissima coincidenza, i dottori più celebri del Cabbalismo, Rabbi Akibà quando profonde in carcere la scarsa misura d’acqua per bere, ad uso di un lavacro doveroso soltanto, a detta dei suoi colleghi, perchè, com’egli disse, meglio era subire le torture della sete che dar pubblico segno di indisciplina e disobbedienza; R. Simon, il corifeo del cabbalismo, quando sgrida, non appena uscito dal suo più che decenne nascondiglio, colui che contro la volontà dei colleghi, e ciò che più monta, in coerenza alla sua propria opinione, raccoglieva poche spiche spontaneamente cresciute nell’anno sabbatico. Ma tal rispetto, comunque osservato universalmente tra i nostri Esseni, non era tuttavia in pari modo distribuito tra loro. Fra gli Esseni d’Egitto, che la Storia conosce col nome di Terapeuti, v’era una classe che forse non differisce dai sacerdoti stessi che ministrarono nel Tempio di Onia, di cui ebbi luogo non è molto di favellare e che il nome reca appo Filone di Presbiteroi, d’onde, come dissi altra volta, il prete cristiano. Ora i Presbiteroi di Filone erano i più degni e più meritanti di tutta la scuola, certo i più dotti, e ciò che più monta è ciò che aggiunge Filone, concedersi quel titolo al merito senza riguardo di età. E questo è pretto e puro farisaismo. Presso i quali se la vecchiezza è in somma onoranza, come presso la Bibbia, come appresso i più civili e più nobili popoli dei tempi antichi, non è sì che la scienza non faccia venerando per prematura canizie anche l’uom giovanissimo, che non lo anteponga al vecchio ignorante, e che per tutto ciò che s’attiene ai consessi studiosi, unico criterio di preminenza non sia la scienza maggiore, e solo nei mondani convegni si accordi alla vecchiezza, comunque indòtta, la preminenza.

Ora lo studio della vita esteriore ci dee le soglie far varcare del grande Istituto, e dall’esame dei rapporti reciproci dobbiamo procedere a quelli che gli Esseni legavano cogli uomini, col mondo, colla Società esteriore. La storia ci ha conservato memoria di due rapporti, che due Stati contrassegnano opposti, estremi nelle sorti dell’Essenato, la libertà, la grandezza, il potere da una parte, la sventura, la persecuzione, il martirio dall’altra. Nell’uno come nell’altro, nella trista e nella lieta fortuna, uno è il volto, uno il carattere, uno il tipo, quello dei Farisei. Come gli Esseni, dei quali chiaro attesta Giuseppe le civiche e governative dignità, le città governate, come Giovanni Essena governatore di Jamna, come gli Esseni ebbero i Farisei onori, potenza, impieghi, uffici pubblici, edilizj politici eziandio dal governo romano, o dagli efimeri principati della Giudea; e senza ripetere ciò che fu detto di Menahem, chiamato, dice il Talmud, insieme ai discepoli al servigio di Erode, parecchi esempj si potrebbero fra i dottori citare non solo di regie e imperiali amicizie, ma di offici pubblici sostenuti, e di cui lo esempio non è raro vedersi anco nella storia moderna, nelle corti d’Europa, nei ministri dei Re di Francia, nei tesorieri e medici della corte papale, tra i quali splende qual vivido astro, Rabbenu Iehiel del 9º secolo dell’Era Volgare, tesoriere del Papa allora regnante. Ma le cariche, di cui parla Giuseppe, datano da tempi più antichi, da quando ogni barlume d’indipendenza non era svanito, dai primi tempi del dottorato talmudico, e forse dai tempi gloriosi della guerra d’indipendenza. Di tempi così antichi, scarsi sono ed incerti le memorie talmudiche, e quindi scarse ed incerte le analogie che andiamo cercando. Non sì però che qualche vestigio non ne rimanga. Testimoni Menahem e la sua scuola di cui abbiamo parlato, e testimoni quei primi venerandissimi Tanaim che aprono la serie del dottorato in Abot, un Antignos Is soho, vale a dire Signore rettore di Sohò, un Joseben soezer rettore di Zeredà, un Rabb Halafta rettore di Chefarhanama, un Rabb Eliezer rettore di Bartota, un Rabb Levitas rettore di Jabuc, un Nehunià capo di Chefarabatli; tutti, come concordi attestano i chiosatori, investiti di pubblico, di civile officio, indicato nel vocabolo Is, Signore e Duce. Ma gli esempj e la pratica non solo all’uopo soccorrono, vi è anco il principio, il costume, l’enunciazione generalissima del fatto dai dottori proclamato. Il fatto voglio dire di Dottori, di Farisei, di Esseni, che son tutt’uno per noi, preposti al governo, al maneggio de’ pubblici affari. E non solo una volta, ma bene tre esplicite e chiarissime menzioni ne ricorrono nei libri talmudici, e non solo i Farisei in generale ne sono, come dissi, gli enunciatori, ma quelli in specie che recano manifesti i segni dell’affiliazione cabbalistica, e di cui udito abbiamo altra volta la voce e veduto gli esempj preziosi, autorevoli. Ma uno poi di questi luoghi accennati brilla di una luce tutta propria, speciale, sfolgorantissima, ed al novero appartiene di quei pochi, ma salienti tratti di luce che ci rivelano nel Talmud le traccie dell’Essenato, e che se non soli perchè corredati, accompagnati da quelle costanti e perpetue analogie da noi additate, sono però come soli in mezzo agli astri minori, come i visceri vitali, come i centri organici nervosi in mezzo al continuato organismo, come i nuclei stellari nella materia delle nebulose, come i grandi avvenimenti nella istorica successione, come le epoche organiche genesiache nella formazione della terra; un concentramento di luce, di forza, di vita, di azione e di pensiero. Io dissi che tre sono i luoghi in discorso. Ma se tre sono i luoghi e tre le forme, uno solo è il pensiero, uno solo il fatto che sotto vi giace, ed a cui si allude; il fatto della presenza dei Dottori, dei Farisei al governo della città, il pensiero di fuggire la città da essi governata. Io non starò a notare le grandi riflessioni che questo pensiero ci suggerisce, le vere cause che condussero i più grandi tra i Farisei ad abdicare ogni politica superioranza, ma il fatto resta, ed il fatto ci basta. Quando Rabbi Akibà volle lasciare al figlio alcune regole di condotta per bene vivere nel mondo, fralle altre cose che raccomandògli sì è quella di non abitare un luogo al cui governo siano Talmide hahamim, vale a dire veri e proprj Farisei. Quando Rab volle fare nel Talmud di Sciabbat una scala, una gradazione di merito fra le umane signorie, pose in primo luogo l’araba signoria, dopo l’araba la romana, dopo questa la persiana o cabaritica, e dopo questa la farisaica. Ma il terzo luogo vince di gran lunga i due ricordati; ed è, come dissi, un dei fari, dei punti luminosi che guida chiunque si faccia a cercare nel mare talmudico l’antica scuola degli Esseni. L’autore è quel medesimo della scala politica testè udita, è il medesimo Rab, il pensiero è il medesimo, ma l’espressione, ma la forma, quanto più eloquente! Esorta egli com’esortava Akibà il figlio suo, ma invece del vocabolo Talmid Haham un altro è posto in luogo suo, e questo è il nome di Assè. Non abitare città alla cui testa sia un Assè. Parola grande storica che suona rarissima in tutto il Talmud, e che doveva quindi tornare strana, bizzarra all’orecchio dei chiosatori ignari o incuranti della esistenza stessa di una scuola per nome Essenato. Quindi in Rasci e nel Karuh, un linguaggio perplesso e come a tentoni: ma poi la mente loro dopo breve bagliore, mirate forza del vero! si fissa come aquila nel sole, nella contemplazione dell’unico senso, vero, storico, razionale, e la gran parola pronunziano d’identità fra Talmid haham e Assè, e nell’Assé del Talmud non altro veggono che lo stesso Talmid haham, vale a dire veri e proprj Farisei. Ei fu per me un conforto, un diletto che non saprei dirvi. Oltre il passo talmudico che ha un’importanza senza pari per la storia dell’Essenato, e che è come il suggello posto al nostro sistema d’identità, e che niuna umana potenza ci può rapire, mi doleva non poco dover anch’oggi scostarmi da quegli uomini santi e venerandi che sono Rasci, e l’autore del Lessico Aruh e in genere i Rabbini del Medio-evo. Da oggi in poi potremo dire senza che niuno sia oso di contraddirci, che per l’uno come per l’altro Assè vuol dire e può voler dire ch’egli è uno dei nomi con cui il Fariseo si distingue, ch’è quanto dire, per assumere un linguaggio storico, che gli Esseni non sono che parte nobile sì, ma pur parte del gran corpo dei Farisei.

 

Ma la considerazione di questo gran fatto non vorrei ci togliesse vaghezza di volger il pensiero a cose men grandi; la beltà delle forme si vede nelle grandi come nelle piccolissime linee, e ciò che è vero, è vero in tutto, nelle massime come nelle minime parti. Se il fatto che ci narra il Talmud, se il nome nuovo che accampa, quale denominazione dei Farisei, sono, più che dir si può, eloquenti, non lo è meno il nome degli uomini che il fatto proclamano. L’uno è R. Achibà, il maestro del Ben Iohai, grande e felice visitatore del Pardes, ed egli stesso vivente esempio della ingerenza politica dei Farisei, nella parte grandissima che prese, nel supremo ed infelice conato d’indipendenza, in cui Ben Cozibà fu il braccio glorioso, in cui Achibà fu il capo, il pensiero, il profeta, l’ispiratore, e che soleva dire per l’infelice Barcocheba avere di esso pronosticato Balaamo quando disse: Ecco spunta una stella (Cokab) da Giacobbe. L’altro che abdica il valore politico è Rab, vale a dire R. Abbà lo scriba, il redattore, il collaboratore anzi dello Zoar, il discepolo prediletto di R. Simon, il Beniamino della scuola, il portavoce del gran maestro tanto nella tradizione comune, quanto nella recondita, tanto nel Rito come nel Dogma, nel rito colla redazione del Sifrè, opera di Rab, pensiero del Ben Johai Setam Sifré R. Simon Ben Johai, nel dogma colla redazione dello Zoar, opera egualmente di R. Abba o Rab che è pensiero egualmente del Ben Johai. E ambidue eloquentissimi nomi perchè appartenenti al maestrato supremo del cabbalismo, i quali uniti all’idea che esprimono, essenica per eccellenza perchè allusiva agli storici esteriori rapporti dell’Essenato, formano un concorso di prove, di memorie innegabili in primo luogo della identità tra Esseni e Farisei cabbalisti, e in secondo luogo delle vestigia tuttavia sussistenti nei libri talmudici del grande Istituto. Vedremo nella seguente lezione quanto gli Esseni abbiano comuni coi Pitagorici, il genio, gli uffici, la vita politica, e come grandi si mostrino nella sventura e nel martirio, non meno che nella prosperità e nella gloria.

LEZIONE QUARANTESIMA

Se gli Esseni prendevano parte al governo dello Stato, se molti offici sostennero, come disse Giuseppe, non fecero, come veduto abbiamo nella passata Lezione, nulla di cui esempio illustre non c’offrano i Farisei, e nulla altresì, come vedremo in questa lezione, che non facesse il grande istituto dei Pitagorici, ai quali paragonavali Flavio. Voi lo ricordate, Giuseppe disse gli Esseni i Pitagorici dell’Ebraismo, e quanto bene si apponesse così dicendo, voi lo vedeste in quei casi infiniti in cui le leggi, i costumi, il genio delle due scuole s’incontrano nel corso di queste lezioni, e lo vedrete eziandio nell’argomento presente, sol che vi piaccia invocare le più accertate e comunali nozioni intorno la storia antica dei Pitagorici. Se v’ha punto incontroverso nelle vicende di quella scuola, se v’ha cosa che costituisca profondo reciso, divario tra gli antichi e i moderni Cenobj, egli è il genio pratico, attivo, sociale, politico dei Pitagorici; la parte grande, eminente che presero sino dall’origine nelle sorti, nelle costituzioni della patria loro; delle città in ispecie di Magna Grecia, ove ebbero sede famosa e illustre. Basta dire di Pitagora stesso, tra i cui caratteri splende quello di legislatore degli Italioti; di Archita, di Eudosso, pitagorici antichi essi pure, i quali, al dire di Diogene Laerzio, dierono leggi a parecchie città che abitarono. Il quale genio ed officio politici perpetuaronsi nella scuola sino agli ultimi giorni della sua esistenza. Se v’ha scuola antica che meglio le fattezze riproduca dei Pitagorici, che più abbia di somiglianza, d’affinità coll’Essenato e col Cabbalismo, ella è senza meno la scuola dei Platonici. Ed a Platone non è niuno che negar possa il carattere, il genio e la scienza di statista, di cui fece studio precipuo nelle Leggi, nella Repubblica, ed è a Platone che il gran placito si attribuisce: Non potersi dare stato perfetto se non dove il principe è filosofo o il filosofo principe; ed è di Platone che il Ritter, dopo costatato il pregio e la inclinazione politica, conchiude in questa guisa: On voit donc que Platon considère la société civile comme quelque chose d’utile au particulier, et qu’il croit que c’est une œuvre louable que de prendre part aux affaires de l’État. Queste cose ci diano una idea più adequata dell’Essenato, se frainteso avessimo sino adesso il suo genio, se creduto avessimo gli Esseni non dissimili da quegli asceti antichi e moderni, che maledicendo il mondo e la vita mondana, fuggono lungi dall’umano consorzio solo per piangerne e imprecarne i vizj, i delitti; che non dànno niun valore alla vita politica, che stillano nei cuori l’indifferenza, l’apatia, lo scetticismo politico, che aprono quindi il varco a sensi abbietti e servili, e quindi operando contro il proprio scopo, non offrono più per cibo alle menti che il più vile materialismo; oh quanto non saremmo andati, così giudicando, lungi dal vero! L’Ebraismo, che è il più perfetto e sublime connubio tra la politica e la religione, era là per evitarne gli eccessi; e gli Esseni e i Terapeuti e qualunque altra scuola che nel suo seno sorgesse, non poteva a meno di essere ebrea, e quindi eminentemente pratica e politica per eccellenza. Perchè non lo fosse, perchè facesse divorzio dalla vita esteriore, bisognava che prima facesse divorzio dallo stesso ebraismo, che si separasse dal suo grembo, che ne rompesse la possente unità; e, mirabile a dirsi! la storia ci conferma il dettato della ragione, e ci mostra nel cristianesimo la prima setta che fatto abbia divorzio dall’ebraismo, e nello stesso tempo che abbia fatto divorzio dalla vita politica.

Ma la ingerenza politica che la storia ci mostra nella società degli Esseni, mise in luce quella virtù più preziosa che gli fece magnanimi, eroici, tetragoni nelle persecuzioni, e che nuovo e bel riscontro ci offre colla setta madre dei Farisei. Se Farisei ed Esseni vedemmo confusi, immedesimati nelle opere del pensiero, delle leggi, delle pratiche, della morale, delle storiche vicende, confusi ancora e immedesimati li vedremo nella sventura; e se comuni ebbero gioje, sapienza e virtù, comuni avranno ancora dolori e martirio. Giuseppe che ci narrava le prime, ci narra i secondi; e in seno alla sventura, in mezzo ai roghi e sotto le crudi bipenni, ci fa vedere gli Esseni e’ Farisei stringersi ancora una volta, unificarsi in un amplesso di amore. E non solo il fatto principale da Giuseppe narrato lo attesta ad evidenza, ma le circostanze tutte eziandio che ne costituiscono l’epoca, i caratteri, le cause dei gloriosi martirj. E se io vado errato così giudicandolo, ditelo voi, quando udito avrete le parole di Flavio che io tolgo testuali dal traduttore francese. «La guerre que nous avons eue contre les Romains a fait voir en mille manières que leur courage est invincible. Ils ont souffert le fer et le feu, et vu briser tous leurs membres plutôt que vouloir dire la moindre parole contre leur Législateur, ni manger de viande que le Seigneur défend, sans verser une larme pour tâcher d’adoucir la cruauté de leurs bourreaux.» Qual ritratto, e quale più proprio e conveniente ai Farisei! Se ad una ad una tu togli ad esame le circostanze da Giuseppe narrate, non una vedrai che non si attagli mirabilmente al lungo e glorioso martirio dei Farisei. Se all’epoca tu guardi, ed è la guerra d’indipendenza, egli è appunto nelle nazionali riscosse, nelle crude rappresaglie dei vincitori, che il più puro e sacro sangue si versava dei Farisei; se al genere guardiamo di morte, al ferro, al fuoco, ai membri lacerati, ove è strazio che meglio lo strazio riproduca dei Farisei? se la costanza religiosa nell’indurarlo, ove è, non dico costanza, ma sereno, ilare e quasi esultante coraggio che quello superi dei Dottori farisei menati al supplizio? se al ciglio asciutto, all’orrore di ogni supplica, di ogni bassezza, ei furono tali nei Farisei, fu sì grande l’animo impavido, ei fu tale il prestigio del sovrumano contegno che il cuore ammolliva eziandio dei manigoldi; e non pochi casi si leggono nella storia del martirio, di Dottori che vinsero i loro carnefici, che ricevendone la morte del corpo, li ripagarono colla vita dell’anima, e di pagani carnefici ne fecero, per prodigio di fede, martiri pur essi alla volta loro, e martiri israeliti.

Un’altra storica indicazione della scuola, e avrà termine l’esame del grande Istituto. Come tutti gli uomini sobri, temperanti e viventi di una vita spirituale, come tutti i Cenobj antichi e moderni, l’Essenato esso pure andò famoso per la vita singolarmente longeva dei suoi seguaci. E chi lo attesta è lo stesso Giuseppe, quando dice che la maggior parte degli Esseni perveniva all’età di cento anni; e così dicendo non fa che preludere ai cenni, agli attestati talmudici sui Farisei. Chi volse solo per poco lo sguardo al Talmud, sa quanto suoni preziosa pel nostro sistema la deposizione di Flavio; chi lesse nel Talmud quant’oltre giunse per l’ordinario la vita dei Farisei; chi reca ancora l’eco distinto di quella frase così ripetuta nei due Talmud: Per qual merito vissuto hai vita così longeva; chi vide quella straordinaria durata attribuita ai più celebri tra i farisei, e innanzi a cui resta sgomenta e perplessa la critica istessa; chi queste cose ebbe per un istante considerato, vedrà nella longevità essenica narrata da Flavio un nuovo e non lieve riscontro colla scuola madre dei farisei.

E qui ha termine l’esame intorno dell’Essenato. Nell’ufficio da noi assunto duplice fu il nostro scopo. Esporre la storia tutta dell’Essenato, e al tempo stesso trarre a mano a mano dalle viscere stesse di essa storia le prove, i titoli, gli argomenti di quella identità da me propugnata tra Farisei ed Esseni, e più specialmente tra gli Esseni medesimi e quella classe di Farisei che si dicono Cabbalisti. Quanto lungi si stese l’esame dell’Essenato, quanto profondo s’addentrava l’occhio nella contemplazione della sua origine, delle sue istituzioni, dei suoi dogmi, delle sue pratiche, nelle grandi come nelle piccole parti del grande edifizio, nelle sue piccole e minute ramificazioni, continuo, splendido, eloquentissimo risultava il fatto, il gran fatto da noi proclamato, la identità essenico-cabbalistica. Io non presumo avere il grande subietto esaurito; credo però avere la buona via additata a chi più pronto l’ingegno, più propizie le occasioni da natura abbia sortito. Però, coll’esame interno, colle prove intrinseche dell’Essenato non finisce la dimostrazione della identità essenico-cabbalistica da noi proclamata. Conclusa eziandio la storia loro, resta un ordine di prove, che non ha nè può avere attinenza coll’esame interno del grande Istituto, e che si fonda sempre sopra poche ma momentose circostanze, che solo esteriormente all’Essenato si riferiscono. Si possono queste prove dividere in tre capi distinti. Si fondano le prime sopra il silenzio di antichi autori e monumenti intorno l’Essenato, silenzio che torna eloquentissimo in favore della identità in discorso, come vedremo tra breve. Consistono le seconde in alcune frasi preziosissime degli antichi storici delle nostre sètte, le quali depongono, come vedremo, non meno in favore del nostro assunto. L’ultima e terza prova è tutta cronologica, ch’è quanto dire, si fonda sopra la durata che narra la storia delle due scuole, e mostra un sincronismo significantissimo tra Esseni e Cabbalisti, un sorgere, un declinare o piuttosto un ascondersi simultaneo che depone altamente in favor nostro. E prima del silenzio: del quale vorrei che comprendeste pienamente il valore. Che vuol dire un argomento tratto dal silenzio semplicissimo dei monumenti? Vuol dire consultare gli storici, i monumenti contemporanei, interrogare coloro che per officio storico, per posizione, per carattere, per rapporti necessari, sono i naturali e proprj narratori delle sètte contemporanee; vuol dire cercare tra le scuole, di cui v’è menzione, la scuola degli Esseni, ed ove solo degli Esseni si serbi un singolare silenzio, ove ogni altro motivo di questo tacere sia eliminato, concludere logicamente, trionfalmente la identità della setta della scuola taciuta, con quella fra le scuole rammemorate colla quale maggiori e più sentite corrono le somiglianze, le analogie. Determinato così il valor teorico dell’argomento in discorso, vediamolo alla prova nel presente subietto. Due sono i libri ove a buon diritto ci dovremmo attendere una esplicita e diffusa menzione della società degli Esseni, per i tempi, per le lotte, per il subbietto istesso che evocare dovrebbero ad ogni istante la presenza, la memoria dell’Essenato. E questi due libri sono i monumenti ebraici e cristiani contemporanei, il Vangelo e il Talmud; e per Vangelo intendiamo tutti gli scritti evangelici, e per Talmud le opere tutte della Enciclopedia Rabbinica dei primi secoli dell’E. V. Parlano eglino i Vangelisti, parlano eglino i Dottori nostri del grande Istituto? Sì certo che ne favellano ove il nostro sistema si adotti; quando si vegga cioè in tutti quei luoghi ove è menzione degli asceti talmudici, un vestigio dell’Essenato; ma ciò che chiediamo, è diretto agli avversarj; a coloro che tentati fossero di ricusare la identità da noi proclamata, ove chiariti fossero inefficaci gli argomenti sin qui allegati, egli è a costoro che noi chiediamo, se il nome essenico vi è pronunziato, se diretta propriissima rimembranza ricorre nei libri citati, e la risposta non potria essere dubbiosa. Tacciono i Vangelisti tutti della società degli Esseni; tacciono gli immensi volumi talmudici; e se il silenzio loro è rotto tal fiata da quei brevi comunque parlanti accenti in cui il nome si ode, per un istante, del nostro istituto, egli è da una parte troppo scarsa memoria di tanta scuola, egli è dall’altra così spiccante il carattere farisaico in tal menzione, che anzichè rivocare in dubbio la identità tra le due scuole ne formano invece la più bella conferma. In una parola: il silenzio è generale e costante nei Vangeli, presso che generale eziandio e costante nei libri talmudici. Donde questo fenomeno singolarissimo, d’onde quest’anomalia storica, questa lacuna nella schiera numerosa, illustre delle sètte che intervengono, che parlano, che agiscono, che disputano, che si laudano, che s’infamano scambievolmente, nei Vangeli, nei libri talmudici? Grande è il problema e tale che l’attenzione si meritò dei più grandi scrittori. Non dirò che del Basnage, il quale, siccome noi, chiedeva a sè stesso in qual guisa si tacesse il Vangelo, della società degli Esseni. Come rispose il Basnage alla grave domanda? In modo, è uopo dirlo, ch’è ben lungi dal sodisfare, benchè duplice soluzione abbia proposto alla presente ricerca. Disse in primo luogo come gli Esseni non uscendo dai loro ritiri per disputare con Gesù, non fossevi quindi occasione di rammentarli nelle dispute evangeliche. S’appose egli il Basnage così sentenziando? Io forte ne dubito. Che gli Esseni amassero la vita contemplativa non si nega, ma quanto andrebbe errato chiunque far ne volesse altrettanti solitarj e anacoreti della Tebaide! Lungi dal separarsi dal consorzio sociale, lungi da fuggire il mondo e la sua vita, niuno meglio di essi conciliar seppe la vita attiva e la vita contemplativa, niuno più volontario si sobbarcò ai doveri, agli offici politici, sociali; e se v’è carattere che più distingua gli Esseni di Palestina dai Terapeuti d’Egitto, egli è appunto quel genio, più spiccato nei primi, quella speciale predilezione per la vita pratica, esteriore ed attiva. D’onde dunque il silenzio degli evangelici? Dallo scarso insignificante numero degli Esseni, dice in secondo luogo il Basnage. Ma quanto inconsideratamente! Non vide il Basnage come menzione vi sia negli scritti evangelici di sètte ben altrimenti oscure che non gli Esseni, qual fu a mo’ di esempio quella degli Erodiani ivi rammemorata: non vide, come l’Essenato sia, a detta di Flavio, insieme ai Farisei ed ai Sadducei, una delle tre grandi divisioni in cui si partiva l’Ebraismo contemporaneo: non vide come le sètte non si contino ma si pesino; e non vide infine come l’Essenato, sendo per sua natura ascetico superlativo, non poteva non offrirsi numericamente inferiore alle altre sètte, perchè non molti sono gli uomini i quali aspirano a una vita, a una perfezione straordinaria.

 

Ma per tacere del Basnage, io lessi del silenzio degli Evangeli una ragione che, se non è certo più solida di quelle esposte sin ora, è certo più di esse speciosa, e poco manca che a prima giunta non ti seduca. – Ad udire certuni, se gli Evangeli non favellano degli Esseni, egli è perchè mentre il Cristianesimo pugnava colle altre scuole, mentre dichiarava la guerra agli Scribi, ai Farisei ed ai Sadducei, fu tutto stima, amore, concordia colla società degli Esseni, da cui nacque, con cui ebbe comuni e la sostanza e la forma esteriore, il dogma, il culto, le istituzioni. – Non è ella cotesta la parodia, e la contraffazione del vero? Noi diciamo tutto questo dei Farisei, noi spieghiamo il silenzio farisaico colla identità essenico-farisaica, come il sistema che combattiamo spiega il silenzio evangelico colla identità fra Cristiani ed Esseni, e forse potrebbe credersi che non possiamo combattere la identità essenico-cristiana senza per ciò stesso ferire la identità essenico-farisaica, ambe poggiando sullo stesso argomento, il silenzio talmudico e il silenzio evangelico. Se così fosse, io mi troverei in un bivio pericoloso: non potrei impugnare l’arme contro il nemico senza ferire me stesso, senza soffocare prima di nascere uno degli argomenti più concludenti del mio sistema. Saremo noi condannati a rinunciarvi? Io non lo credo, purchè si voglia mirare a una radicale differenza che corre tra i due casi. S’egli è vero che il Cristianesimo ebbe rapporti strettissimi coll’antico Essenato, se s’inspirò in quella scuola, se ne trasse i caratteri più prominenti, se tutto questo e anco più concedessimo agli avversarj, ci rimarebbe sempre un punto di divergenza che eglino stessi non ci potrebber negare. Che dico? che non potrebbero contestare senza moralmente suicidarsi, senz’abdicare a ogni titolo di storica, di religiosa considerazione; vale a dire la rottura, lo scisma dall’antico ebraismo. Se il Cristianesimo non si separò dagli Esseni, se rimase una sol cosa con essi, se non dilungossi dal grembo ortodosso, e se per questo ne tacciono gli Evangeli, ch’ei rifaccia tutta la via che da noi lo divide, che risalga la corrente che lo ha recato da noi sì lontano, che si riduca infine nella ebraica periferia, se pure la pretensione ei vuol mantenere di essere lo stesso Essenato. – Ma se nuova è la legge, nuovo il testamento, se proclamò sino dal nascere falso ciò che vero confessavano gli Esseni, e vero quello che falso, se rigettò la tradizione ch’era l’anima dell’Essenato, se dichiarò irrite le leggi cerimoniali, se annunciò l’umanazione del verbo incognita e blasfematoria agli Esseni, perchè dunque degli Esseni non si favella, perchè non si veggono con essi quelle dispute, quelle lotte che cogli altri si vedono così frequenti?

Ma su, pognamo che vero sia tutto quello che dagli avversarj si chiede, che nulla ci corra tra Cristiani ed Esseni, che il Cristianesimo sia lo stesso che l’Essenato, e che per questo non vi fosse luogo di farne menzione negli Evangeli. È egli per questo a bastanza spiegato il silenzio evangelico? Non dovrebbe anzi per ciò stesso invocare a ogni tratto gli Esseni? Non dovrebbe fondarsi sopra un passato venerabile, ammesso ortodossissimo, qual fu l’essenico Istituto? Non dovrebbe cuoprirsi colla sua egida? Non dovrebbe valersi del loro nome per mostrare com’ei fosse meno novatore di quel che lo reputavano?