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Storia degli Esseni

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LEZIONE TRENTESIMASETTIMA

Che più? Una religione che secondo ogni probabilità trasse le sue prime ispirazioni dalla società degli Esseni, che stende oggi i suoi influssi sul mondo civilizzato, il Cristianesimo, ci offre il più illustre vestigio dell’antica essenica costumanza esaltata, divinizzata, ed al grado assunta del più sublime dei sacramenti, nel sacrifizio dell’Eucaristia. Il pane eucaristico è pane azzimo, nè potrebbe essere da questo diviso; e per quanto la storia delle Eresie ci offra memoria delle quistioni a questo proposito suscitate, ciononstante, l’uso prevalse sempre conforme alla vetusta pratica degli Esseni.

Tra essi i più austeri tutti i loro giorni trascorrevano in digiuno, e solo a sera prendevano il loro parchissimo pasto. Nella quale rigorosa astinenza ebbero a compagni non solo i più austeri dei Farisei talmudisti, ma quelli eziandio che del Zoar sono autori od attori. L’ebbero nei Talmudisti a cui ci si offre ad esempio un figlio di Rabbinà, del quale si narrano i giorni tutti trascorsi in digiuno, salvo il giorno della Pentecoste e la vigilia del giorno d’espiazione. L’ebbero nel Zoar e più illustri e più numerosi, in tutti quei dottori che si veggono passare parecchi giorni senza prendere alcun nutrimento, assorti com’erano in profonde meditazioni, di cui la storia dell’antica filosofia ci porge esempi non pochi e tra gli altri di Socrate. Del quale si narra che non solo, mentre assisteva ad un banchetto, era sì vivamente colpito da un pensiero che ogni moto perdeva e lungo tempo immobile perdurava, ma che in mezzo eziandio al romore dei campi restava dall’uno all’altro mattino immobile al luogo istesso, e solo i raggi solari gli ricordavan l’ora della preghiera. Nè qui vuolsi due circostanze della essenica vita pretermettere perchè più o meno all’ordine, alle regole della mensa si riferiscono. È la prima quel divieto che interdiceva agli Esseni ogni specie di unzione dalla quale si riguardavano come d’abominevole cosa. Nè la menzione volli di questo divieto disgiunta dall’argomento presente per una semplicissima ragione, perchè appunto le unzioni odorifere entravano tra le generali costumanze dei tempi dopo il pasto conchiuso, come fra poco vedremo. Ora dobbiamo domandare a noi stessi. D’onde e perchè questa interdizione fra gli Esseni? – Quale l’origine e quale lo spirito; e quest’ultimo costatato, più agevole, cred’io, scuopriremo la prima. Lo spirito è l’orrore di ogni mollezza, di ogni effeminato costume, è quel medesimo che non pochi precetti informa della legge di Dio, quello che la interdizione suggeriva onde all’uomo si fa divieto indossare femminile costume, di radersi i segni della virilità, l’onor del mento; e non solo come udiste di avvolgersi in ammanto donnesco, ma di addottare eziandio modi, ed usi, ed acconciature di donna. Testimone lo specchio proibito dai Talmudisti, perchè lo specchio a quei tempi era peculiare costume di femmina, siccome la pagana letteratura lo attesta, e come in ispecie si vede da Apuleio. Al quale un suo censore rinfacciando l’uso di quel arnese troppo a filosofo disdicevole, sclamava meravigliato: habet speculum philosophus; possedit speculum philosophus. Ma ciò che più interessa a sapersi, egli è in qual guisa la pensarono i dottori intorno all’argomento presente, intorno all’unzione. Si può dire generalmente come i dottori distinsero in fatto di unzione quelle che dalla nettezza sono richieste, dalle altre che hanno la mollezza per consigliera. Le prime ammisero; nè forse, se il tempo lo concedesse, tornerebbe ingrato rammemorare come tra queste noverare si debba l’uso dagli stessi Romani adottato di ungersi dopo il pasto con olj odoriferi, e che ripetutamente vediamo ricordato nei libri Talmudici. Le altre che mirano, come dissi, a semplice diletto carnale interdirono specialmente a coloro che professione fanno dei sacri studj, pei quali reputarono abominevole il mostrarsi per le pubbliche vie per profumi olezzanti e per olj odoriferi, consentendo in questo come in infinite altre cose colle esseniche osservanze.

Ma io dissi di un’altra circostanza, alla mensa attinente, e di cui vado a darvi immediatamente contezza, singolare a dirsi! – Non vi è pratica dell’essenico istituto, non è parte della loro istoria che meglio la consanguineità manifesti tra esso e lo antico istituto dei Cabbalisti. Egli è quì che si vede ad un tempo come l’ultimo spinga le sue radici sino alla più alta e profonda antichità, ed egli è quì egualmente che i due istituti si porgono sul capo ai semplici Farisei amica la mano, e ciò che il comune dei Farisei rigettava e rigetta ammettersi, sanzionarsi, e con ogni possa difendersi da Esseni e da Cabbalisti, prova manifesta come gli Esseni non siano Farisei se non in quella misura, e sino a quel punto che i Cabbalisti lo sono, nè temano da quelli dissentire quando nè dissentano i Cabbalisti, nè separarsene quando i medesimi se ne separano. Io non ne chieggo ad esempio che il fatto presente ove vediamo i Cabbalisti permettere, anzi comandare ciò che i Farisei interdicono, e gli Esseni ad imitazione dei primi egualmente permettere e comandare. Vietarono i Farisei tenere la tavola con pane imbandita dopo il pasto conchiuso, temendo non forse potesse cotesto uso precipitare in una pratica idolatrica, di cui si fa veramente menzione nel culto di Roma, e di cui le traccie risalgono sino ai Profeti che simil pratica rinfacciano ai coetanei loro, che la tavola, dicono essi, imbandivano oziosa in onore di Gad, Ahorekin laggad sciulkan. Ora, sia diversa tradizione, sia interpretazione più larga dello antico divieto, sia meno timore di trascorsi idolatrici; fatto è che i Cabbalisti a quest’uso non si oppongono. E non che opporvisi, instantemente lo raccomandano per la sera e pel giorno di sabato, volendo la mensa in quel giorno continuamente imbandita con pane dopo il pasto rinnovato: d’onde un disputare infinito tra i semplici Farisei e i Farisei Cabbalisti, e d’onde in fino nuova arme portai ai nemici dello Zoar a osteggiarne la santità e il valore. Ma io vorrei invitare amici e nemici a legger Filone. Il quale nè più nè meno una eguale identica pratica narra dei nostri Esseni, la cui mensa, egli dice, vedevasi specialmente nei dì festivi perpetuamente imbandita, e pane vedevasi sopra ordinato a somiglianza della mensa ch’era nel Tempio, e ch’è tipo che i Cabbalisti stessi tolgono ad imitare nella mensa loro. – Se gli avversarj dello Zoar hanno imparzialità ed amor del vero, come hanno scienza ed erudizione insigne, riflettano a questo fatto, a questo gran fatto. Pensino allo Zoar che in onta al Talmud, in onta alle sue esplicite interdizioni, in onta agli interpreti, ai ritualisti antichi e moderni, proclama innocente, pia, autorevole una costumanza che gli altri dicono vana, perniciosa, paganizzante. Pensino alla ignoranza certa, provata in cui vissero i nostri dottori di questo inaspettato ausiliare, cioè della società degli Esseni. Pensino all’esplicita menzione che veggiamo in Filone dell’uso contrastato; alla indubitata antichità, al potentissimo ausilio che questa conformità reca ad un tempo ed all’antichità delle teorie zoaristiche ed alla loro identità, colle dottrine e colle pratiche esseniche: pensino a tutto questo, e poi ci dicano se le stesse anomalie che a suo danno impugnarono, non riescano a prova maggior dell’antichità di quel libro, e se di esso, come Dante di San Domenico, dire non si potrebbe acconciamente che percosse

 
L’impeto suo più vivamente quivi
Dove le resistenze eran più grosse.
 
Parad. XII.

LEZIONE TRENTESIMOTTAVA

La seconda parte della Storia dell’essenico culto, quella che riguarda gli abiti e le virtù della setta, ci occupava nelle precedenti lezioni, e ci occuperà eziandio nella presente. E particolarmente diremo delle virtù per cui andavan distinti. – Quando parlammo delle dottrine degli Esseni, toccammo altresì della loro morale, e i principj indicammo speculativi dei loro costumi. – Ora dobbiamo dire in ispecie di quelli che a se medesimi si riferiscono, e che hanno principio e termine nell’uomo interiore. – Quando vollero gli Esseni insegnare la legge generale di ogni virtù personale, dissero che la maggiore tra esse virtù, la più generale, la più comprensiva consista nel domare le proprie passioni, nell’imperio di se medesimo. E se l’illustre signor Munk, il quale ci narra degli Esseni la morale suprema, si fosse dei Farisei ricordato, e delle sentenze in ispecie consegnate in Abot, trovato avrebbe la formula essenica in quel dettato degli antichi padri, ezeu ghibbor accobes et izrò, come in altri moltissimi forse anco più espressivi, che qui lungo saria ricordare.

Ma se ogni rea passione volevano domata, ve n’era una che più ispirava orrore agli Esseni, e che credevano il più grande nemico da superare; e questa era la collera. Nè potrebbe essere diversamente, se i Pitagorici sono gli Esseni del Gentilesimo, come gli Esseni i Pitagorici dell’Ebraismo, al dir di Giuseppe, niuna passione più della collera doveva essere da loro abominata. La quale vincere era còmpito particolare di ogni buon Pitagorico; e tanto innanzi vennero i seguaci di Pitagora nel conseguimento di questa virtù, che la memoria restonne celebre nei filosofici annali, e che Carlo Ritter non temeva di asserire: Le triomphe des Pythagoriciens sur la colère est célèbre.

Mostrato abbiamo la verità dell’asserto flaviano, la pitagorica parentela; sarà d’uopo che la bontà proviamo ora del nostro sistema? Secondo il quale, e voi il sapete, oltre l’origine che con tutte le ebraiche scuole vanta l’Essenato, comune nell’epoche e nelle opere della Bibbia, più specialmente s’identifica, a parer mio, colla grande scuola dei Farisei, e in questa stessa segnatamente, colla frazione più eletta dei Teosofi o Cabbalisti. Or bene, se il nostro sistema non è erroneo, la collera dovrà apparirci esecrata non solo nei libri biblici, ma nei farisaici e cabbalisti eziandio; anzi in quest’ultimi specialmente un carattere particolare dovrà assumere, che meglio consuoni col genio e colle virtù degli Esseni, mostrandoci l’ira avversa specialmente a quella eccellenza contemplativa, a quella santità e purezza di speculazione ch’era il più proprio e più grato officio dei gran solitarj. Io oso dire che tutti i tratti anzidetti escogitati soltanto in desiderio si verificano storicamente a cappello. Non dirò lungamente della Bibbia, la quale siccome libro popolare e soterico non mira, almeno esteriormente, che alla morale o sociale pervezione dello individuo, e solo per via di accenni allude, di tratto in tratto, ai lati più nobili e segreti della umana coscienza, all’intelletto, alle sue leggi, al suo culto, alle dottrine che ne formano lo alimento. Pure la Bibbia, i Proverbi in particolare ci presentano la collera, non certo sotto quei varj, moltiformi e veracissimi punti di vista, sotto cui i dottori la presentano nei loro libri, ma sempre quale passione esiziale all’uomo sociale, al suo corpo, ai suoi amici, ai suoi interessi, al suo onore. Ma i dottori vengono, e le parole bibliche, e i fatti stessi, come quadri, dalle tenebre sottratte, acquistano luce colore verità e merenza. Vengono i dottori, e la collera non solo è predicata micidialissima all’uomo corporeo, come la Bibbia stessa pareva indicarlo, come la Storia e la Medicina concordi lo attestano, ma, siccome non è vero scientifico che non abbia il suo limite in un vero contrario, così non tardarono a trovare nella collera stessa un farmaco alla salute, quando la fiamma onde l’anima s’avvampa, è accesa, dicono essi, non già nel fuoco d’inferno, ultima e vile teoria, Zoamà dell’igneo torrente, Near di Nur che traversa il Creato, ma in quello puro della celeste scaturigine, vale a dire nello sdegno generoso a difesa del vero, dacchè, per un concetto bellissimo, l’Inferno stesso pigli origine dal Cielo, e il fuoco che vi consuona non sia altro che il sudore delle Hajot ch’estollono il trono di Dio, vale a dire la Cloaca massima dell’Universo. – Or quest’effetto terapico di una collera nobile generosa, la Medicina lo ha notato, e molte cure si notano, come asseriva il medico Dementi, conseguite di vecchie e croniche malattie per l’effetto subitaneo salutare di un accesso di collera. Ma la collera non meno all’anima, secondo i dottori, che al corpo è nociva, e non meno alla morale che alla intellettuale perfezione. Alla morale, quando dissero: Dio stesso è preso a vile dall’iracondo, Afillù schehinà ena hasciubà chenegdò; quando aggiunsero tanto empio essere lo iracondo quanto lo idolatra; quando insegnarono sommo antidoto al peccato il non adirarsi. Che diremo degli effetti sull’intelletto? Per essi l’iracondo non potrà mai istruire, e questo notate trovarsi in Abot, vale a dire nel Codice dei Hasidim, e sommamente confacente al genio studioso e contemplativo degli Esseni. Per essi la collera mette in bando la scienza, e intorpidisce lo intelletto. – Per essi Mosè stesso non si sottrasse da questi effetti della collera e vide venir meno il suo saper rivelato dopo un moto di sdegno. – Per essi, e ciò più davvicino s’attiene alla società degli Esseni, se tra le due scuole rivali di Sciammai ed Illel la seconda prevalse qual norma suprema in Israel, egli è perchè tra le altre virtù della scuola Illeliana, quella splendeva massimamente di una mansuetudine a tutta prova; fatto di gran rilievo, se ponete mente come la mansuetudine degli Illeliani e il carattere opposto dei Sciammaiti non siano, a ciò che pare, un fenomeno accidentale, ed uno scherzo del caso, ma parte integrale del loro genio speciale, poichè rimonta ai due grandi fondatori di ambo le scuole; e la docile natura degli Illeliani come il genio severo e sdegnoso dei Sciammaiti si vedono già spuntare in tutta la loro interezza nel docilissimo e mansuetissimo Illel come nello sdegnoso e severo Sciammai. – Ma se ciò è già molto per condurci bel bello dalle idee farisaiche alla società, alle leggi dell’Essenato, un passo più grande avrem compito quando ricordato avremo ciò che si legge in Sciabbat a proposito della mansuetudine Illeliana. Fra poco, quando toccheremo della collera qual aborrita passione dai Cabbalisti, vedremo le prove che i più venerandi tra essi imponevano ai nuovi venuti, contro la passione odiatissima in tempi in cui le dottrine loro erano chiuse ancora in istrettissimo cerchio, e che di uno o due secoli precedono il Mille dell’Èra Volgare. Ma dall’8 o 900 dell’Era Cristiana ai giorni dell’antico Illel corrono più di mille anni, e nonostante vi è un fatto narrato nel Talmud Babilonico nel 2º di Sciabbat in cui, ove tu guardi con occhio fermo penetrante e scevro di pregiudizj, non potrai non ravvisare le fattezze comuni, alle posteriori prove dei Cabbalisti, alle prove più antiche che imposero certo gli Esseni ai loro seguaci. – Ma io però lo confesso, il mio modo d’intendere il fatto in discorso immensamente si dilunga da quello che fu ammesso sin’ora dai chiosatori; e s’egli è vero, com’è verissimo, che a niuno sia interdetto proporre nuovi e più acconci sensi alla parola tradizionale, altro non resta, per assicurare il trionfo del vero, se non vedere ove più sia di ragione, di critica, di plausibilità, di carattere storico. Il fatto in discorso è ovvio e trito fatto tra i Talmudisti. Sono due uomini, dice la Barraità, che scommettono di venire a capo della pazienza e mansuetudini Illeliane; che prendono tutte le loro misure per riuscirgli in mille modi importuni, che scelgono un giorno di venerdì mentre Illel si radeva i capelli, che bussano alla porta sua e con gran pressa chiedono se a caso vi fosse Illel. E Illel, che ricompostosi in fretta gli esce incontro festoso, che chiede a loro che cosa desiino; sono essi che gli propongono una serie di domande degnissime di nota, in quanto preludono alla bellissima moderna scienza etnografica, vale a dire allo studio dei popoli in relazione alla regione da essi abitata, e di cui, se io non erro, solo in Aristotile si vede tra gli antichi un primo albore. – Ma queste domande sono fatte ad Illel in guisa che un moto ne provochino d’impazienza, una parola, un accento; perchè fatte dopo iterato congedo, con intervallo dall’una all’altra, e coi ripetuti preamboli ad ogni novella domanda. Ma nè moto, nè accento, nè segno alcuno dà a divedere Illel d’animo concitato, ma sempre a metà raso accorse alla porta, sempre dolce favella, col nome di figlio sempre li chiama, sempre cortese risponde, e non solo cortese, ma ragionevole e sapiente, come mi fu dato osservare non so se più lieto o sorpreso, in guisa che mille offre analogie colle soluzioni che Aristotele stesso, se non erro, nella Politica, propone agli stessi problemi. – Lo dissi e lo ripeto, il senso storico ch’io veggo nel fatto di Sciabbat, non è quello che tutti intesero i chiosatori finoggi, e forse gli ultimi compilatori del Talmud che tanto vissero lontani e dai luoghi e dai tempi dell’antico Illel, non si addarono o poco del carattere verace del fatto narrato, ed in guisa lo presentarono che nè mostra in essi una coscienza chiara luminosa del suo vero senso, nè è capace nemmeno d’ingenerarla ad una lettura superficiale, e senza il concorso di dati, di elementi estratalmudici. Pure io non m’astenni nè mi astengo dal proporvelo, sì perchè è principio di critica liberalissimo nei nostri studj – potere ognuno liberamente discutere sul senso talmudico – , sì perchè se non al tutto andava errato Ernesto Renan, quando disse potere la ebraica filologia moderna più e meglio penetrare la biblica intelligenza che non i secoli per avventura men dall’origine discosti, egli è certo però che, vuoi nella Bibbia, vuoi nei Dottori, questo fatto si verifica allora, e solo allora che il nuovo senso è tratto dall’Emporio tradizionale che è la corrente perenne ed il pensiero intimo nazionale, che precede, accompagna e segue tutte le opere scritte, l’atmosfera in cui nuotano, la luce in cui sono rischiarate. Nel giro tradizionale la ragione ha libero il moto, libera scelta, libera adozione, e mentre gli è dato produrre ivi quel giro con quei dati, con quegli elementi, tutte le combinazioni, tutte le forme, le figure possibili, che sono Scibghim Panim, e l’immenso Poligono di cui favellano i Dottori, non può a buon diritto creare nè nuovi dati, nè nuovi elementi appunto come nella materia, ove libero s’esercita nel combinare incessante l’ingegno del chimico, ma in cui vano sarebbe tentare la creazione eziandio di un atomo. – Sendo il corpo e l’idea, la materia fisica e la materia ideale campo e limite nel tempo stesso alla ragione dell’uomo, – campo ove libero si muove – limite ove libero si ferma, e campo e limite adombrati nel bel vocabolo Ghebul, che con mirabile sinonimia significa a un tempo limite e campo.

 

Noi però siamo ancora nei confini del puro e semplice farisaismo talmudico. Prima di passare alla più speciale considerazione del farisaismo cabbalistico, che è quello con cui in ispecial modo s’identifica la società degli Esseni, mestieri è che di due altri rilevantissimi cenni favelliamo altresì, tratti dal seno del farisato talmudico, e che serviranno di naturalissima transizione al campo alla scuola più speciali del farisato cabbalistico. Questi cenni non sono di eguale significanza, troppo il secondo sovrastando, come agevole comprenderete. È il primo una frase che precede una sentenza, che non ha guari udivate quando per sommo preservativo al peccato additavano i dottori l’allontanamento dall’Ira, Lò tirtah velò tehetà. E il nome del dottore, a cui si dirige l’insegnamento e il titolo di Hasid che reca manifesto e che non troppo frequente ritorna nelle pagine talmudiche, Rab Sallà Hasida. Ma che cosa è il nome del dottore ammonito di fronte a quello di chi ammonisce; – che cosa è Rab Sallà Hasida di fronte al nome di Elia, del profeta immortale che di un balzo leva la mente a una visione semiprofetica, che ci rapisce di un tratto nel vero e naturale orizzonte dell’Essenato, delle sue visioni, della sua vita contemplativa, che un nuovo anello ci porge tra i due istituti, tra Esseni e Cabbalisti, nelle comuni visioni, nelle comuni apparizioni di Elia profeta; e che dopo avere insieme stretti Esseni e Cabbalisti, insieme poi gli radica, li riappicca nelle più vive e pure fonti del farisato antichissimo. Oso dire che lo incontro di questi nomi di Elia e Rab Sallà Hasida, è lo incontro di due idee che insieme si spiegano, s’illustrano di bellissima luce, la quale poi è levata a grado ancor maggior di potenza dall’oggetto istesso che pone a fronte i due individui; oggetto, legge, precetto essenico per eccellenza, l’orrore, l’esecrazione della collera. E questo, come vedete, è già transito facilissimo dal puro e semplice farisato al farisato cabbalistico, in quanto ne porge nel titolo di Hasid nell’incontro dello Essena con Elia, e sopratutto nell’idea che li pone a contatto, altrettanti sbocchi e riuscite naturalissime alla più speciale scuola dei Cabbalisti.

Ma che parlare di questi transiti, quando una via regia ci si para dinanzi nello stesso Talmud? Formiamo secondo il solito un voto, e vediamo se sarà adempito. Imaginiamo che cosa di più preciso, di più parlante potremmo desiderare nel Talmud, che nell’odio stesso alla passione dell’ira ci offrisse un mezzo nuovo d’identificare Cabbalisti ed Esseni. – Diciamo a noi stessi: Se il Talmud suppone, come non è dubbio, una scienza segreta acroamatica che si chiama ora Sitrè torà, ora Maase Mercabà, ora Pardes, ora la trasmissione del nome Mesirat ascem; s’egli è vero, come dicemmo le tante fiate, che quella scienza, quella scuola segreta, è la scienza e la scuola dell’Essenato; se è provato come gli Esseni imponessero la fuga dell’ira qual morale apparecchio indispensabile alle dottrine gelose; se in pari modo l’imposero i Cabbalisti; se l’uno e l’altro sono quegli stessi nel Talmud designati, come cultori del Pardes, della Mercabà, dei Sitrètòrà o qual altro nome si abbia la riposta teologia; in una parola se il sistema nostro non è bugiardo, che cosa dovrà trovarsi nel Talmud? Dovrà trovarsi, se non erro, la fuga, l’astensione, l’orrore della collera qual condizione impreteribile alla comunicazione della Mercabà, dei Sitrè torà e sopratutti dei Nomi sacrosanti che tanto gelosamente vedemmo custoditi eziandio dagli Esseni. Questo, nulla di più nulla di meno, dovremo trovare nel Talmud, ed ove realmente si trovi, ed ove l’ira vi sia additata qual sommo ostacolo da superare nello ingresso del Pardès, o la logica e la critica non sono più che nomi privi di senso, o il sistema nostro riluce di nuovo, d’inusitato fulgore. Ora l’ipotesi escogitata in desiderio è una bella e preziosa realità. È un testo chiarissimo e luminosissimo in Kedduscin ove aperto s’impongono fra le altre, qual condizione indispensabile alla comunicazione dei nomi divini, l’età virile, e poi la fuga dell’ira. Queste parole non hanno bisogno di chiose perchè troppo eloquenti depongono in favor nostro. Egli è per ciò che per la porta che dischiudono, pel passaggio che ci offrono alle idee cabbalistiche, noi entreremo difilati ad udire dalle costoro labbra non meno solenne ed esplicita la condanna dell’Ira. Ora del Zoar e del suo attestato. Chiede il Zoar a qual segno si debba cercare o fuggire la compagnia di un uomo, e risponde: nell’ira. Se l’anima santa ei dice, custodisce illesa nell’ira, se non la divelle dal suo riposo, se in luogo suo non vi pone un Dio alieno, un idolo, questi è l’uomo perfetto, questi è il servo fido al suo Signore, ma ove fosse al contrario, ci sarà l’uomo ribelle al suo Signore, ed a cui (notate le seguenti parole che l’idea ci destano dei Habrajà Zoaristici che rispondono, come dissi altra volta, ai socj dell’Essenato), ed a cui è interdetto avvicinarsi nè con esso associarsi. Ma ciò che altrove dice lo Zoar merita più attenzione. – Dopo aver chiamato, come udiste, la collera vera idolatria, Èl Zar, Sitrà okarà, conclude con parole che, oso dire, sono a parer mio un lampo vivissimo di luce che progettandosi a traverso i secoli frapposti sulle antiche linee del grand’Essenato, ce ne fa cogliere in un amplesso istantaneo di luce le vere fattezze e i fili segreti che lo congiungono agli uomini, alle teorie del Zoar. E per comprendere questo tratto di luce, due parole d’indispensabile prefazione. Ricordatevi di un fatto, e questo fatto sarà la chiave con cui potrete penetrare nell’intelligenza del Zoar. Il fatto e l’uso che abbiam veduto presso gli Esseni di cibarsi cotidianamente di pane azzimo, e questo è il punto di partenza. – Ma ciò non basterebbe senza che una idea intermedia non venisse a stringere, a legare tra essi l’uso essenico del pane azzimo e parole che udirete del Zoar, e questa idea è idea farisaica per eccellenza, è il lievito preso, considerato qual simbolo naturalissimo di ogni passione che suoni tumore, gonfiezza, la collera, la superbia particolarmente. – Da questo punto di vista, con questo duplice filo alla mano, udite le parole dello Zoar a cui accennava. La fuga dell’ira era l’oggetto delle più calde sue esortazioni. Per mostrare l’Ira qual vera e propria idolatria, il Zoar invoca l’autorità della Bibbia, e per ciò, ei dice, egli è scritto: Eloè Massehà lò taase lah, e poi si legge immediatamente: Et kag amazzot tismor. Ma che intenda lo Zoar con queste parole, qual rapporto abbia l’idolatria col kag amazot, qual rapporto abbiano ambedue col soggetto in discorso, coll’Ira; nè il Zoar lo dice, nè i più autorevoli commentatori lo spiegano, nè troppo parmi suoni agevole a comprendersi. – Solo ha un senso se ci torniamo alla mente e l’uso essenico di cibarsi di pane azzimo, e il simbolo del lievito qual espressione di collera e superbia. Premessi i due fatti ricordati, quanto non riesce piano e naturale il ragionamento dello Zoar! Ei vede nella Contiguità ossia Semikut dei due comandi il cenno del principio suo favorito. —L’iroso essere idolatra– ; egli vede il testo esordire colla idolatria materiale esteriore, sensibile nell’Eloè masseha, e senza sbalzo e senza lacuna proseguire nella idea stessa d’idolatria, non più fisica certo ed esteriore, ma morale e interna nel divieto di ogni lievito, Et kag amazot; ch’è quanto dire, oltre il suo senso positivo e letterale, lo schifo, la fuga della collera, della superbia da cui gli Esseni si guardavano, e in figura e in realtà; in figura coll’odio che ispiravano per la passione dell’ira, in realtà colla massima estensione che davano al precetto in discorso, cibandosi, come vedemmo in fatto che si cibavano, cotidianamente di pane azzimo. Il Zoar con una frase suppone, e la significanza simbolica del lievito qual simbolo di collera, e ci addita al tempo stesso la via per la quale poterono gli Esseni allargare il precetto in discorso sino a formarne regola comune ordinaria di loro vita. Ora dagli antichi ai più moderni Cabbalisti trapassando, seguiamo di queste idee le vestigia sempre più manifeste. Non solo per essi le virtù alla collera opposte, la dolcezza, la mansuetudine, la sopportazione delle ingiurie, sono apparecchio a ricevere lo spirito divino, sono anzi i più eloquenti maestri della scienza riposta; non solo si legge in nome dei più antichi Cabbalisti quai furono i Cichittilia spagnuoli; non solo eglino stessi dicono averlo trovato scritto nei libri dei Cabbalisti, che meritarono di pervenire alla scienza divina; non solo, dico, per essi uno dei preliminari più grandi e più necessarj è la sopportazione delle ingiurie, è la fuga della collera ma ciò che più monta, è quello che segue, ove risalendo a un’epoca antichissima, al mille dell’Era volgare, vediamo la prova contro la collera prevaler qual uso tra i più grandi dei Cabbalisti. E grandi invero sono per esempio Rabbi Jeuda chasid, più antico di Rasci, e grande non meno il maestro suo Rabbi Jaacob Eschenazi. E dell’uno e dell’altro ecco ciò che si legge nel Rescit Kokmà, libro prezioso non solo per la dottrina morale, ma per i frammenti e le memorie di gran lunga più antiche che di frequente racchiude: – «Avvenne che il hasid Rabbi Jacob Eschenazi, che era straordinariamente erudito nella scienza (intendi la Teosofia o scienza per antonomasia), volendo insegnare la sua dottrina a Rabbi Jeudà chasid, provollo prima riguardo alla collera.– » Ma ciò è poco rispetto a quello che segue: «Ed era tradizionale costume appo loro (intendi Teosofi) di non trasmettere la scienza, se non a chi provato essendo negli effetti dell’ira, non s’adirasse. Ora fu provato pertanto R. Jeudà chasid il quale, per molte volte riuscito vittorioso, la settima però restò soccombente.» Queste parole brillano di una luce propria innegabile, nè bisogno hanno di venire illustrate, ogni parola o comento non facendo che oscurarle. Solo piacemi additarvi un punto, non men bello nè luminoso, ma che nel fulgore dell’insieme potrebbe sfuggirvi, come le stelle si ecclissano alla luce del sole. Ed è l’epiteto Hasid invariabilmente appiccato al nome dei due Cabbalisti, del dottore e dell’addottrinato del Hasid R. Jacob Eschenazi, il maestro; e del hasid R. Jeudà suo discepolo. Se tutte queste cose sono a caso, io mi taccio; e solo dirò che se ciò è a caso, non è più assurda quella ipotesi che altri mise in campo per provare la necessità di un ordinatore del mondo, e che non è più impossibile che imborsando tutte le parole del vocabolario latino ed estraendole ad una ad una, ne venga fuori il capo d’opera della letteratura latina, L’Eneide di Virgilio. – Se il caso può partorire le armonie che vediamo nello studio degli Esseni, non v’è nulla di assurdo che possa fare ancora il prodigio indicato.