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Storia degli Esseni

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Ma tutto questo è poco, di fronte a quello che segue, malgrado la mancanza di sanzione talmudica, malgrado la rispettosa denegazione del Caro, un altro antico, meno certo antico di Maimonide, ma più antico del Caro, il luminare dell’Africa, Ribbi Semhon bar Zemak, nel Comento ad Abot ripete alla lettera le parole maimoniche riguardo a Rab, benchè suo stile non sia copiare servilmente il gran Cordovano, e benchè vada egli distinto per una solida e smisurata erudizione talmudica. Ma io dissi che non solo la tradizione estratalmudica rispetto a Rab si trova in Maimonide, ma che eziandio qualcosa trovato avremmo soprammercato. E questo è il preambolo che precede l’asserzione in discorso. E l’epiteto con cui qualifica gli antichi dottori distinti per la virtù del Silenzio, è lo appellativo che noi dicemmo storico antichissimo della scuola degli Esseni, l’appellativo di Hasidim allorchè non poteva tanto mostrarsi Maimonide avverso alle dottrine dei Mistici, che ei non soggiacesse talvolta, come altre fiate eziandio, alla forza del vero, e non divenisse organo inconsapevole di una verità utile e preziosa alla causa loro. Noi potremmo dire qui terminato ciò che a dire avevamo intorno l’essenico silenzio, trovato, come vedeste, conforme in teoria e in pratica al silenzio dei Farisei, e dei Farisei Cabbalisti; pure vi è qualcosa di più, e di più concludente. E se delle cose dette una sola non resistesse alla prova, ciò che io vado a dire basterebbe non solo a provare la comun pratica del silenzio tra Esseni e Farisei, ma formerebbe prova bella, benchè indiretta, della somma omogeneità di pensieri e di genio fra il Ben Johai del Talmud, e il gran dottore del Misticismo. Se io mi illuda, giudicatelo voi. Voi sapete i dubbi suscitati sulla legittima figliolanza del Misticismo dalla sacra antica fonte Ben Johai. Sapete quindi qual valore immenso prezioso abbia per noi ogni tratto che nel Ben Johai del Talmud ci rivelavano somiglianza coll’ispiratore del Zoar. Sapete eziandio qual’opera bella, decisiva, per quanto erculea, sarebbe quella che facendo astrazione dal Zoar come se non esistesse, ricomponesse coi soli esclusivi elementi talmudici la gran figura di R. Simon Ben Johai, e da quel sacro capo sempre col martello talmudico facesse emergere, come Pallade bella e armata dalla testa di Giove, il sistema intero del Zoar, almeno nelle linee sue più preminenti, opra a cui vorrei volgesse qualcuno il pensiero, poichè le forze mie piegano non solo sotto il peso dell’opre, ma persino sotto il peso dei desiderj. Ora, questo desio generalissimo applicabile a tutte le parti, vuoi teoriche, vuoi pratiche, del gran sistema, ci è dato vedere adempiuto in due luoghi d’oro del Jeruscialmi, ove nell’uno si legge il pensiero, nell’altro la pratica di Ben Johai. Voi udiste come del santo dottore dicesse il Babilonese: molto egli meditare, poco favellare. Ora udite come egli stesso della parola umana sentenziò nel Jeruscialmi. Se presente io fossi stato presso il Monte Sinai, avrei chiesto al Signore che altra fosse la bocca con cui uom parlasse delle cose del mondo – altra quella con cui delle cose di Dio. Qual idea della parola! E quanto feconda anche nelle minime sue parti l’enunciazione! In primo io veggo tutta la mente ardita taumaturgica del principe dei Cabbalisti in questo ardito consiglio – veggo la teoria massima dei Cabbalisti dell’officio di Concreazione all’uomo assegnato – il principio eminentemente farisaico e cabbalistico della rettificata natura, vale a dire della emendazione che all’uomo incombe nelle parti anormali imperfette delle cose create, e da cui trae origine l’Arte nella sua più lata significanza, la quale non sarebbe pertanto una semplice imitazione di natura, come vorrebbero i Realisti in Estetica; ma meglio un ritiramento della natura istessa alle eterne norme del bello ideale, come vogliono gli Idealisti, e veggo sopratutto l’idea ch’entro vi sta, come seme racchiusa, che il Silenzio è l’atto più nobile e naturale per tutto quel che concerne le cose mortali.

Ma queste cose basti lo accennare, ed il cenno già troppo grave ne offre materia a pensare perchè di soverchio ci estendiamo. Questo solo non tacerò; quando lessi il voto che formava R. Simone Ben Johai delle due bocche, sovvenivami in quel punto, non di un voto, ma di un presagio che fece Fourier. Fourier, che tante cose predisse in avvenire, diverse da quelle che oggi vediamo in natura, disse fra le altre, come natura avrebbe un giorno pagato un antichissimo debito che aveva coll’uomo contratto, dandogli un occhio di dietro come ben due ne aveva davanti, e che tanto dovrà tornargli in acconcio per cansare i pericoli che lo minacciano di dietro eziandio: io non so quanto valga il presagio di Fourier, ma il voto, il rammarico di R. Simone Ben Johai suona ben altrimenti nobile e grande.

Ma io dissi come non solo la teoria ne porgesse del Silenzio il Jeruscialmi sulle labbra del gran Maestro, ma ben anco la pratica. E la pratica splendida emerge da quel fatto ivi stesso narrato, quando il signor Dottore considerando, specialmente nel sabato, quanto indegna e servil opra fosse ogni discorso profano, pregava silenzio ai domestici, e perfino alla madre sua, fatto più che non credesi significante, non solo per lo studio che ci preoccupa e con cui chiare si vedono le attinenze, ma ancora perchè mi offriva, già sono molti anni, l’unico mezzo che io trovassi a spiegarmi quel concetto, quella dipintura maninconiosa che del sabato ebraico fecero i Poeti latini, mentre tutto pare per contro spirare festa, spirare allegria. Ma anche questo è nuovo campo che noi rasentiamo e fuggiamo di volo.

Ciò che resta innegabile è la nuova e non meno parlante analogia, non solo fra la teoria, come veduto abbiamo nella passata Lezione, ma ancora nella pratica del Silenzio fra Esseni e Cabbalisti, come abbiamo veduto nella presente. E comunque questo nuovo amplesso fra le due scuole si operi in seno al Silenzio, e comunque per onorare il Silenzio essenico troppo più di parole abbiamo speso che il nome non tolleri, non meno provata però ne emerge la suprema identità tra Esseni e Farisei.

LEZIONE TRENTESIMASESTA

Noi dobbiamo ora occuparci degli essenici libri, di quelli di cui usavano e di quelli da cui s’astenevano, del numero dei loro pasti, del regolato alternare del mangiare e digiunare, e infine del sistema dell’imbandire. Io sarò breve, non già perchè la materia scarseggi, ma piuttosto perchè troppo di soverchio ne abbonda, e quindi è mestieri riguadagnare in brevità e speditezza d’esposizione quel tempo che non si può senza ingiustizia fraudare ai fatti, ai rilievi interessantissimi onde avremo da favellare. – Ma la brevità perchè non torni pregiudicevole, due esige impreteribili condizioni. Bisogna che sia chiara, ed a questo m’ingegnerò provvedere. Bisogna poi che l’attenzione e la perspicacia, l’ingegno degli uditori ne colmi le lacune, ne svolga i germi, e intenda in un cenno un pensiero, in un pensiero un argomento, un raziocinio, in un raziocinio tutte le conseguenze potenzialmente in quello racchiuse. E questo è officio vostro, a cui non vorrete venir meno di certo quando più ne urge il bisogno. E prima dei cibi; – di quelli onde gli Esseni si guardavano come da cosa vietata. – È fama, e voi spesso l’avrete udito, ed io stesso ne reco ferma credenza, avere gli Esseni dalle loro mense bandita la carne ed il vino. E pure se le prove dirette si consultano, se le memorie e gli espliciti attestati, non vi è cosa forse meno provata di questa. Se io non erro, egli è San Girolamo pel primo che favella di questo astenersi da carne e da vino. E Dio volesse che San Girolamo così parlando si facesse organo egli stesso di un’opinione, di una tradizione allora corrente. Avrebbe almeno tutta l’autorità e tutto il critico valore che può aver San Girolamo. Ma no; sventuratamente San Girolamo, parlando in questo caso degli Esseni, accenna a Giuseppe; a Giuseppe, il quale, a detta di lui, avrebbe quest’uso, quest’astinenza attribuita agli Esseni nel Trattato ch’ei scrisse contro Apione. Io vel confesso, non ebbi io stesso la pazienza di scorrere di nuovo da capo a fondo la non breve Apologia flaviana: ma autori, ma testimoni gravi, asseriscono formalmente che questo fatto, questa memoria nel Trattato contro di Apione, per quanto si cerchi, non si trova. Dovremo perciò negare e dubitare del fatto? Io credo che non lo dobbiamo. In primo luogo chi ne assicura che il Trattato contro di Apione non sia in qualche parte manchevole, che non sia stato in qualche parte mutilato, che le frasi insomma da San Girolamo accennate non esistessero, siccome egli asserisce, negli antichissimi manoscritti? E San Girolamo è per sè autorevole non poco, autorevole pel tempo in cui visse non tanto dagli Esseni remoto, che la contezza veridica se ne potesse alterare; autorevole per la dimora, il teatro stesso delle esseniche gesta, in Terra Santa; autorevole poi e in grado eminente per la familiarità, sto per dire, in cui visse quel Padre coi più dotti Rabbinici dei tempi suoi, tra i quali scelse maestro nelle Scritture: e tanto addentro entrò nei pensieri, nella conoscenza dei dottori contemporanei, che ebbe fama e meritossi rimproveri da Agostino di giudaizzante. Taccio poi della intima filosofica convenienza di quest’uso presso gli Esseni, perchè essendo questo argomento, come si dice, a priori, può parere a taluno arbitrario, comunque sia stile dei più grandi storici dei sistemi supplire alle parti manchevoli coll’analogia dell’insieme, in quella guisa istessa che in una iscrizione a metà cancellata dal tempo, si suppliscono le lettere dileguate coll’ajuto di quelle che precedono e di quelle che seguono. Ma come tacere dei precedenti biblici tradizionali, d’onde l’essenico uso può aver germinato, e che servono eziandio fino a un certo punto di argomento in favor della sua esistenza? Biblico precedente io chiamo quell’implicito divieto ad Adamo imposto da ogni cibo animale, al quale solo si veggono conceduti i vegetabili, quale alimento, ed al quale primitivo sistema dietetico possono avere voluto gli Esseni restituirsi, siccome quello che anteriore al peccato, meglio pareva loro consentire a quel grado di perfezione a cui aspirava lo Essenato. Biblico precedente l’astinenza onde fa fede la tradizione, e fino a un certo segno confermata dal testo, e dagli Israeliti osservata per lo deserto da ogni cibo animale che non fosse stato all’altare appressato qual sacrifizio, attalchè per questo tempo poteva dirsi a rigore ogni banchetto essere un vero zebah, un sacrifizio. Biblico precedente l’astinenza da ogni inebriante licore imposta ai sacerdoti durante il servizio, imposto altresì, come ricordammo altre volte, a coloro che voti facevano di Nazirato e Nazirei si appellavano; e biblico precedente finalmente la storia grande interessante dei Recabiti di cui abbiamo, non ha guari, mostrato le intime attinenze col nostro istituto. Tra le quali primeggia l’astinenza, onde qui si favella; l’astinenza dal vino da Jonadab recabita imposta a tutta la sua discendenza. Che sarà poi se dagli esempj biblici trascorriamo ai tradizionali disposti? I quali il vino vietarono al giudice prima che sieda pro tribunali a pronunziare giudizio, non solo nelle criminali ma nelle civili e rituali cause eziandio; il vino vietavano egualmente a quello che si accinge alla preghiera, e abominazione quella prece qualificarono che da una mente scaturisce conturbata dal vino. Ma i dottori ci offrono un documento ben altrimenti prezioso: ci offrono memoria non solo di leggi antiche che a certi offici, a certe situazioni interdicono l’uso del vino, come vedemmo, ma la memoria ci porgono eziandio di una sètta, di una scuola la quale, dice il Talmud, non appena colse al nostro popolo l’estremo esizio, crebbesi grandemente di seguaci, che l’uso s’interdicevano di carne e di vino. Misceharab bet ammicdas rabbù paruscim scellò ehol basar vescellò listot iain nitpal laem R. Jeosciua veaamar laem ec. E come si chiama questa sètta in bocca ai dottori? Mirabile a dirsi! Il nome ella reca appunto di Farisei, e la frase ebraica Rabbù paruscim, crebbero i Farisei, se bene la intendi, rivela abbastanza come la esistenza dello istituto risalga più oltre dell’epoca indicata, e quindi consuona anche per questo verso colla società degli Esseni la quale, come i Farisei del Talmud, si asteneva da carne e da vino, com’essa si reclutava cotidianamente di nuovi membri, e com’essa finalmente possono dirsi, siccome ad esuberanza fu per noi continuamente dimostrato, veri e proprj Farisei.

 

Ma i dotti indagatori delle sètte vi troveranno altra cosa eziandio. Vi troveranno ciò che finora fu creduto impossibile a trovarsi: una memoria, un vestigio, una abbastanza chiara e manifesta allusione a quell’Essenato che finora si disse dai talmudisti ignorato; a niuno allor che io sappia potendo meglio convenire che agli Esseni in discorso, i caratteri dal Talmud assegnati ai rigidi Farisei che da carne si astenevano e da vino, come appunto gli Esseni. E non solo la carne e il vino s’interdicevano, ma se prestiam fede a Filone che dei più rigidi dei Terapeuti narra i costumi, un solo pasto facevano in tutto il giorno, e questo per lo più composto di radiche, e di pane e sale. E chi a queste parole non lo ricorda; chi non ricorda il pane, il sale e l’acqua colla misura, a cui ogni studioso deve starsi contento, secondo i morali di Abot? E come poi parlante, espressivo, e di nuova analogia fecondo, l’uso comune necessario del sale negli essenici prandi. Perocchè ei fu da lungo tempo notato come costoro tenessero quale inviolabile costumanza lo accompagnare la imbandigione, il loro pane in ispecie, con due condimenti indispensabili, il sale e l’issopo, attalchè la presenza di questi due ingredienti si può stimare a buon diritto qual pratica obbligatoria seguita sempre, ed allora segnatamente seguita che solenne si imbandiva la tavola nei giorni di festa. Ora la importanza rituaria del sale nelle pratiche nostre, non vi sarà chi neghi ove sentore abbia alcuno delle nostre leggi. Ricorderanvi il sale da Mosè comandato qual compagno indispensabile di ogni sacrifizio, sia pubblico sia privato, e col pomposo nome fregiato di patto ed alleanza del Signore. Che dico? a significare elevato quale acconcissimo simbolo l’alleanza eterna, la legge da Dio sancita, che appunto col nome vien designata di Patto di sale, Berit melah. E siccome non tanto quanto altri s’imagina, distà dalla legge di Dio la primitiva e semiortodossa gentilità, ricorderravvi altresì e con un senso di maraviglia a quelle grandi prove ripenserete, che in seno ai Pagani medesimi non solo l’uso istesso ti rivelano comune e rispettato, ma il concetto altresì te ne mostrano riprodotto nella sua interezza. Ripenserete alla così detta mola salsa, che Eustazio definisce farina di orzo mista con sale, e di cui si aspergeva la vittima intiera; cerimonia tanto essenziale ad ogni specie di sacrifizio, che di essa parlando non temeva Plinio di asserire: Maxime in sacris intelligitur salis auctoritas; quando nulla conficiuntur sine mola salsa: parole che suonano quasi identiche a quelle del Levitico. Ripenserete a Omero, che non è quasi descrizione di sacrifizio che di questa salagione non favelli: a Virgilio che nelle Egloghe e nel 4º della Eneide ne fa esplicita menzione il testo, che da mola salsa deriva il vocabolo Immolatio, tanto stimavasi questa cerimonia essenziale, da qualificarne come qualifica Immolatio tutta l’azione del sacrifizio: a Ovidio nel 1º dei Fasti che alla cerimonia del salare attribuisce una particolare virtù a render i numi propizj

 
Ante deos homini quod conciliare valeret
Far erat, et puri lucida mica salis.
 

Ma ciò che è più, ma ciò che di molto maggior rilievo è per noi, ripensar ai Farisei ed ai Cabbalisti, – ai Farisei, che nel Talmud rammentano, consacrano l’uso di porre il sale a mensa; ai Tosafot nel trattato di Berahot, che sull’opinione raziocinando di alcuno dei talmudisti che la presenza del sale verrebbe omessa quando il pane bianco e sano non lo richiegga, voglion essi, i Tosafot, e concludono impreteribile la presenza del sale, che in termini apertissimi dicono Sacra e palladio di purità, leaabir ruach raà, e soprattutto ai Cabbalisti che alle tutte anzi dette cose lo soscrissero, e sulla necessaria presenza del sale rincararono eziandio. E non solo da questo lato si manifestano i Cabbalisti insieme ai Farisei parenti e consanguinei all’antico Essenato, ma tali pure per un altro verso si manifestano i Cabbalisti, e tanto più concludentemente quanto più soli ed esclusivi. E quando? Quando sul vegetabile presero a ragionare che insieme al sale udiste accompagnare il pane essenico, quando ragionarono sull’issopo. Del quale mentre tacciono, a quanto io mi sappia, i Talmudisti, nè si leggono per contro certe parole nello Zoar, che non solo la lode ne contengono, e tale che a dirittura le stesse qualità purificanti gli comunicano che al sale furono attribuite, ma che eziandio, e per ciò stesso fanno grandemente dubitare non forse i Cabbalisti lo stesso uso ne facessero a mensa, che degli Esseni ci fu narrato, il sale, udiste, fugare ogni malefizio; e dell’issopo ecco che cosa si legge nel Zoar: —L’issopo rimuove ogni spirito malefico, e lungi ne caccia ogni influsso colla sua virtù salutare. Ma che dico lo Zoar? Doveva dire la Bibbia; doveva dire Mosè, che forse in niuno altro argomento più chiaramente ci apparisce informato dallo spirito medesimo dei Cabbalisti: nè meglio addimostra che il genio della Bibbia e dei dottori è unico, medesimo, indivisibile. E quanto nella Bibbia frequente, raccomandato, solenne l’uso, la virtù del vegetabile ricordato! Ecco il primo sacrifizio dagli Ebrei celebrato in Egitto, ed ecco l’Issopo, eccolo intinto nel sangue dell’agnello, e gli stipiti con esso contrassegnati ed i battenti delle israelitiche dimore. Ecco il sacrifizio del lebbroso, ed ecco egualmente l’Issopo. Ecco il rito della Vacca rossa, e non meno interessante ecco l’issopo. E non solo è vero che l’issopo spiccava qual principale disinfettante nei riti biblici, che di esso fu fatto nelle locuzioni poetiche il simbolo più espressivo della virtù purificativa, del lavacro spirituale, della morale disinfezione. Così David penitente quando esclamava: Purificami con issopo e diverrò mondo. Quando prova con questa sola eloquentissima allusione, e la virtù che a quel vegetabile s’attribuiva, sino al punto di farne simbolo del perdono di Dio, e nel tempo istesso la perpetuità, la continuazione ai tempi davidici dei riti, delle leggi mosaiche, in quella forma appunto in cui si leggono scritti oggi stesso nel Pentateuco.

Ma il pane onde cibavansi gli Esseni, almeno quelli che abitavano l’Egitto e che si dicevano Terapeuti, merita che speciale considerazione gli si conceda, grazie a una singolare circostanza che lo distingueva. Il credereste? Gli Esseni, quelli in ispecie che si dicevano Terapeuti, si cibavano giornalmente, regolarmente, di quel pane stesso onde noi ci nutriamo otto giorni dell’anno, di pane senza lievito, in una parola, di pane azzimo. – Io non istarò a speculare filosofiche teorie: starò contento ai fatti, ed i fatti parleranno eloquenti abbastanza; sorgerà la storia patriarcale e dirà come comune alimento fosse tra i patriarchi il pane azzimo; sorgerà tutto il levitico, tutta la legislazione sacerdotale, e dirà come tutti i pani, tranne uno, che sotto qualunque forma e per qualunque oggetto si offrivano a Dio, e sull’altare e sulla mensa di preparazione, fossero tutti di pane azzimo; e il lievito qual abominato presente fosse bandito severamente dall’altare; dirà ancora come i sacerdoti in officio non d’altro pane si cibassero ogni giorno che di azzimo pane, sendo loro nutrimento i pani di proposizione che toglievansi ogni sabato dalla mensa di Dio; sorgerà la pratica secolare che ci fa vivere ogni anno per otto giorni della vita degli Esseni, della vita dei sacerdoti, e del pane esclusivamente ci nutrisce che stimavasi solo degno di essere a Dio presentato, del pane azzimo. E sorgerà in fine lo Zoar. – Dico il vero. Non fu senza qualche trepidazione, che io presi a svolgere le pagine di quel libro, temendo non dovesse nel maggior uopo venir meno lo storico raffronto, tanto più che niuna memoria sovvenivanci di simile pratica o teoria nella scuola dei Cabbalisti. E la pratica non vi era veramente, ma vi era la teoria. Non vi era la pratica, perciocchè, siccome ebbi luogo sin da principio di accennarvi, dividevansi gli Esseni in due ordini distinti, Pratici e Contemplativi, e i dottori nostri al primo dei due appartenevano, mentre l’altro figura sì nel libro di Zoar, ma solo in distanza, e quale maggior raffinamento del medesimo sodalizio, di cui solo di tratto in tratto vediamo i membri entrare in scena, quando dal fondo delle loro solitudini passano qual ombra fugace in mezzo ai loro colleghi della città. E tra questi più rigidi probabilmente si praticava l’uso del pane azzimo per cotidiano alimento. Ma ciò che io non osava sperare, e che pure apparvemi luminoso nel libro Zoar, si è la teoria mercè la quale in termini apertissimi si conclude che dovriasi a rigore tutti i giorni invariabilmente imbandire sulle nostre tavole il pane azimo. Anzi lo Zoar stupisce, lo Zoar ricerca per qual motivo quel pane eletto non sia il pane giornaliero di ogni israelita, e la risposta è tale, che lascia intatto il principio, anzi che più e più lo conferma, ed oso dire ancora che il filo preziosissimo ci porge per cui dalla teoria zoaristica, la parte forse più ascetica dell’Essenato, scese alla pratica di cui si favella. Lo Zoar risponde, ma come? con una similitudine. Egli imagina un Re che un servo suo fedelissimo abbia insignito di un titolo onorando, e che a questo titolo, a quest’officio vadano annessi certi segni, certi fregi particolari. Quando dovrà il servo i gloriosi segni indossare? Certo, ripiglia lo Zoar, che per quanto a suo talento possa quandochessia rivestirsene, ciononostante ei non avviene per l’ordinario che la persona se ne adorni se non nelle grandissime e solennissime congiunture, quale sarebbe a mo’ di esempio il giorno anniversario della sua assunzione a tanta dignità. E pongasi pure, secondo lo Zoar, che il pane azimo, segno distintivo della nostra elezione, non debbasi, appunto qual abito peculiare e distinto, indossare se non nelle grandi, nelle grandissime occasioni. Ma siamo coerenti, e dal principio deduciamo, se vi piace, sino all’ultima conseguenza. Chi potrà negare al servo premiato di recare, se così gli piace, indosso i segni continuamente della sua dignità? chi potrà negare uno stato di perfezione religiosa in cui ciò che per altri si fa per breve tratto di tempo ed a lungo intervallo, si faccia per contro da chi vive in quello stato, in modo continuo, regolare, abituale; e ciò ch’è stato eccezionale pegli uni, sia normale pegli altri? Certo che la conseguenza emerge chiara e legittima dalla teoria stabilita, e chiara quindi e legittima emergeva pei più spirituali tra gli Esseni, quel cibo cotidiano di pane azzimo a cui il resto dei fedeli non è astretto che per pochissimi giorni.