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Storia degli Esseni

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LEZIONE TRENTESIMAQUARTA

L’ultima parte della Storia degli Esseni, quella che riguarda il loro culto, la loro pratica, fu da noi in tre parti secondarie divisa, parte religiosa, parte privata, e parte pubblica. Della prima abbiamo parlato quanto meglio ci è stato concesso: ora diremo della seconda, di quella che ci narra i costumi e le virtù eziandio private dei nostri Esseni. Egli è d’uopo poi che d’una cosa io vi prevenga. Molti fatti vi sono alla privata vita appartenenti dei nostri Esseni, che in questa parte della loro storia non avranno menzione, e non l’avranno per la semplicissima ragione che per la natura loro organica fondamentale l’ebbero, e l’ebbero diffusissima, allorchè della prima parte ci occupavamo di questa storia della istituzione dell’Essenato. Allora, voi, lo ricordate, la tavola e i particolari tutti ad essa attinenti, gli abiti e le loro varietà, il celibato, e lavori, le occupazioni, gli studj furono subbietto, che a dilungo trattammo, ma che non lasciano per questo di essere vere e proprie esseniche pratiche. Per che allora piuttosto che adesso ne facemmo menzione? Perchè meglio tra gli istituti annoverati che tra le pratiche? Io già ve lo dissi, perchè non solo mere e nude pratiche son esse, ma vere e proprie istituzioni, ma elementi integrali della essenica esistenza, e perciò tra le istituzioni le abbiam collocate. Di queste dunque più non si parli, e sol di quelle si faccia menzione che questo carattere non ci offrono organico, fondamentale.

E prima, la nettezza, la proprietà. – Era essa, dice Giuseppe, studio precipuo dei nostri Esseni; e ad essa particolarmente miravano nel sodisfare ai naturali bisogni. Noi siamo in pien Mosaismo, quando Moisè raccomanda di tener sgombro il campo di ogni immondizia, quando vuole che niuna traccia rimanga alla luce del sole, delle impurità corporali, quando, ciò che più monta, la scrittura designa l’atto vilissimo con una parola che dipinge l’attitudine stessa che prendevano i decentissimi Esseni, quando lo chiama Cuoprimento di piede, leassek et raglau, non fanno altro e Scrittura e Mosè che preludere alla rigida proprietà o decenza dei nostri Asceti. Ma che direte quando vedrete, siccome è proprio di ogni idea primitiva, radicarsi l’elogio, il dovere della proprietà, in una parlante e bellissima sinonimia? Vi è una parola nella lingua ebraica che attesta quale idea nobile elevatissima si formassero i primi suoi parlatori della proprietà corporale, e questa parola è Nachi. Nachi in ebraico vuol dir certo proprio, netto, decente, ma sapete che altra idea eziandio vi si acchiude? L’idea di una nettezza ben altrimenti superlativa, l’idea di purità, d’innocenza, di morale irreprensibilità. Avvi forse lingua che offra fenomeno così fatto? Or che diremo dei nostri dottori? I quali s’ebbero in pregio la proprietà corporale; lo dicano quei placiti infiniti che si leggono nei loro volumi, e per tutti lo dicano quei due eloquentissimi testi che vado ad esporvi. – È l’uno quel tratto curiosissimo del Medrasc ove traendo partito dagli usi contemporanei, dalla custodia gelosissima che si faceva su per le piazze, delle imagini, delle statue, dei ritratti dei Cesari, conclude a fortiori, quanto più ragionevolmente si debba il corpo nostro serbare netto, proprio, decoroso, poichè il nome pure meritossi d’imagine e similitudine di benaltro Augusto, di Dio sempiterno. Ma se il passo, esso citato, è ammirabile per leggiadro confronto, per storiche allusioni, per un sapore di contemporaneità che solletica piacevolmente, quanto l’altro non sovrasta per più speciale attinenza coi nostri Esseni? Spero che non l’avrete obliato. Vi è in fondo al Talmud di Sotà un frammento preziosissimo per questa storia che porta il nome di Barraità, di R. Pinechas Ben Jair. In questa Barraità non è frase, non parola che non interessi, e grandemente, il nostro istituto. E in parte lo vedeste voi stessi quando vi additai in quella scala, che tale è veramente, di morale perfezione, il Hasidut (che è lo stato in cui vissero i nostri Esseni) occupare quasi la cima di quella morale gerarchia, e condurre immediatamente al Ruah acodes o Spirito Santo, che è quasi la transumanazione dell’anima umana, mentre vive nel corpo. Or bene: il primo grado di quella mistica scala, la porta quasi che mena alle aule celesti, è appunto la virtù che ora ci occupa, la proprietà. E se a questo aggiungete il nome che porta in fronte scritto la citata Barraità, quel nome che tanto dice di R. Pinechas Ben Jair, il suocero amatissimo di R. Simone Ben Johai principe dei Cabbalisti e Cabbalista egli stesso, e dei più insigni come si vede nello Zoar; se aggiungete le altre non meno belle analogie discorse in altre lezioni, ei non sarà senza grande ammaestramento che la proprietà, virtù tanto Essenica per eccellenza, forma quasi il vestibolo per cui si entra nelle più segrete parti del grande edifizio. Ma i dottori non si limitarono a predicare e celebrare la proprietà in modo generalissimo: – la loro mente così alta non sdegnò scendere basso, molto basso; e le più minute applicazioni studiare, e tutto prescrivere determinare nella vita dell’uomo la proprietà consentanea.91

Ma Giuseppe un’altra minuzia ci ha pure conservata della essenica vita, che ha certo il suo pregio. Quando noi ragionavamo dei superstiti simboli dell’Essenato, di quelle forme a così dire oggi vuote di senso, ma ove il pensiero essenico si era una volta rinchiuso, voi lo ricordate certamente, noi facevamo allora menzione di quel principio di antagonismo, che gli Esseni esprimevano coi nomi di destra e sinistra, la prima chiamando fausta e buona, l’altra rea e veramente sinistra; nè posso qui tacere, giacchè l’omisi a suo luogo, che questo antagonismo venivano eziandio esprimendo talvolta coi nomi di giorno e di notte, simbolo se altro fu mai cabbalistico per eccellenza, come fa fede la celebre dualità o Sigezie che il nome reca appo i mistici di Giorno e di Notte, Middat iom umiddat lailà. Or bene: quando di Destra e Sinistra favellava, io vi dissi allora che una pratica essenica da quel principio s’ingenerava, e di cui a luogo suo ne avrei tenuto proposito. Questo luogo è il presente, e la pratica essenica, onde si parla, ci offre nuova occasione di ammirare lo spirito e gli atti uniformi di due scuole che furon sin’oggi credute diverse, e che l’esperienza e l’esame intrapreso perpetuamente identifica. Quando Giuseppe ci parla del rispetto che gli Esseni avevano per la destra, quando dice che si astenevano dallo sputare da quel lato, fu nessuno che sospettasse le analogie bibliche e farisaiche? Delle prime non dirò, che troppo più lungi ci condurrebbero che non vorremmo. Ma come tacere delle altre? E se pure tacere volessi di quei tanti infiniti casi, in cui negli atti di religione la destra vantò il primato, come tacere del caso in termini da Giuseppe accennato? Chè tale esiste veramente, e per perfetta medesimezza ammirabile nelle pratiche farisaiche. Pei dottori, pei Farisei lo sputare, specialmente nella preghiera, se è concesso di dietro, se è concesso a sinistra non è concesso a destra; e il divieto più che non si crede antico muove non solo dai più antichi Trattatisti, quali sono Maran e Muram, ma vanta esplicita menzione nel Jeruscialmi, che è quanto dire nel più antico dei due Talmud. Ma il rispetto alla destra non finiva con questo e Giuseppe stesso ce lo ammonisce. Reputavasi, ei dice, grande increanza porsi in mezzo o a destra dei lor maggiori. E quest’uso, perpetuatosi fino a noi, ha antica e manifesta sanzione nel Galateo dei dottori. Per essi, tre che vadan per via, in mezzo si ponga il maestro, a destra il maggiore, a sinistra il minore. E non solo il consiglio non potrebb’essere più perentorio, ma il titolo con cui infamano chi lo prevarichi, conferma, se è possibile, l’indole essenica di tal prescritto. – Chi procede, dicono altrove, a diritta del suo maestro, è Bur. Ora che cosa è Bur? Noi il chiedemmo altra volta, e la risposta ci venne eloquente da un frammento d’Abot. – È l’opposto di Jerè ket; e Jerè ket, e questo non meno ci fu fatto palese, è il primo grado che all’altro più eccelso mena di Hassid.

Ma le cose discorse finora debbono cedere il luogo a considerazioni di gran lunga più rilevanti. Il silenzio essenico, il silenzio imposto ai suoi membri come dovere sociale, è più che un uso, più che una consuetudine; e non poco ristetti dubbioso se tra le istituzioni meglio che fra le pratiche non avessi dovuto annoverarlo. Dovunque però collocare si voglia, non si potrebbe disconoscerne la importanza; basta ricordarsi ciò che disse Giuseppe. Quando Flavio, porgendo ai Pagani una imagine delle sètte ebraiche, diceva gli Esseni i Pitagorici dell’Ebraismo, diceva una breve parola: ma quanto eloquente! Noi abbiamo le mille volte veduta l’asserzione flaviana alla prova, noi la vediamo anch’oggi a proposito del silenzio, e sempre vera e sempre confermata dai fatti. L’istituto dei Pitagorici è celebre per la virtù del silenzio comandata ai suoi membri, ed a niuno meglio, a parer mio, se ne addice la pratica, siccome quello che, a somiglianza delle consorterie sacerdotali antiche di Oriente e di Occidente, serbò sempre inalterate le fattezze ieratiche tradizionali, religiose per eccellenza, che in parte ma meno profonde si trasfusero nei sistemi susseguenti dei Platonici, e degli Stoici antichi e moderni. Ma se Pitagorici erano gli Esseni, al dire di Giuseppe, Pitagorici, erano a detta sua, dell’Ebraismo, ed è in questo, ed è nelle viscere dell’Ebraismo, nella sua storia, nelle sue idee, nei suoi dottori che dobbiamo investigare le origini del lor silenzio, e tanto più imperiosamente a noi ne corre strettissimo l’obbligo, siccome quelli che abbiamo incessantemente proclamata la identità generale di Esseni e di Farisei, e quella specialissimamente di Esseni e di Cabbalisti. – La storia ebraica consta di tre grandi momenti —Bibbia, Dottori esoterici e Cabbalisti; ed è in tutti che noi dobbiamo cercare le segrete radici del Silenzio dell’Essenato. La Bibbia è il tesoro del pensiero antico nazionale dell’Ebraismo, ed è appunto siccome tesoro che solo nelle parti più ascose, nelle segrete profondità della lingua, nei misteri della grammatica, nella genesi ideologica delle idee nazionali, che tu trovi, ardisco dire, tutta la successiva esplicazione della dogmatica ebraica, e come mi è avvenuto non poche volte di avvertire, anche i riti e le leggi tradizionali. Ora la lingua ebraica porge colla sola denominazione del Silenzio una idea che si trova poi espressa, formulata nelle opere dei Rabbini; e cosa veramente ammirabile, senza che gli stessi Rabbini vadano minimamente consapevoli del possente ausilio; e nemmeno che sappiano lo affratellarsi delle due idee in seno al vocabolo sinonimo; prova, se altra fu mai, della ingenuità e schiettezza e autorità della parola tradizionale. Io potrei sin da ora additare il vocabolo in discorso, ed insieme scendere come si fa negli scavi scientifici al lume di una critica sagace nelle più profonde sue viscere; ma a costo di stancare la pazienza, ne differisco l’enunciazione sino a tanto che le cose che ho a dire ne facciano più innegabile, e il senso e le conseguenze che ne deduco.

 

Ma oltre il vocabolo in discorso, Salomone celebra la virtù del Silenzio. – Oltre alcune idee, disseminate nei proverbi, l’Ecclesiastico par che preluda a quel dettato che corse famosissimo per le contrade di Europa, e che suona parum de Principe, nihil de Deo. Salomone però è più discreto, ei vuole che poco se ne favelli. Non ti affrettare a pronunciare sentenza intorno a Dio, perchè Dio è in cielo, e tu sei sulla terra; però sieno poche le tue parole. Ma quanto ingiusto sarebbe confondere il suo consiglio col proverbio rammemorato, e quanto più ingiusto confonderlo con quell’ipocrita e vile e codardo e irreligioso silenzio sulle cose divine, che molti predicano, non solo savio e prudente consiglio, ma anche per colmo di sacrilegio, religioso dovere! Questa specie spuria, vigliacca, degenere di Silenzio non è ebraica. Ella è propria di quelle Fedi le quali, inalzandosi sulle rovine della ragione, non trovano nè trovar possono salute che nel silenzio, che nel mutismo della ragione; di quei dogmi che esigono, che predicano la fede cieca, termine assurdo, contraditorio, sconosciuto nell’Ebraismo, il quale nè comprende, e nè pure il potrebbe, in qual modo la fede che vuol dire consenso dell’intelletto, e quindi razionale, possa essere al tempo istesso cieca, che è quanto dire irrazionale. Ella è propria di quei tempi, di quelle età infelici in cui la ragione fuorviata dichiara guerra alla fonte d’ogni ragione, a Dio eterno; ai tempi di Voltaire, di Diderot, di Holback, e quindi scusabile in qualche modo, almeno nei timidi intelletti, nel secolo che ci ha preceduto; e quindi scusabile ancora nella bocca di quell’animo più intemerato che fu Salomone Fiorentino. Il quale ben fece ad essere così ricco come lo narra la fama di preziose virtù, di pietà ingenua semplice veracissima, di costumi specchiati, di probità senza pari, per fare almeno ai posteri obliare che ei fu autore di quell’assurda, vile, blasfematrice sentenza che suona, adora e taci. Ah! in quell’istante Fiorentino non fu ebreo, se pure non vuolsi a sua discolpa allegare che ei fece virtù in quell’istante di una dura necessità, non potendo libera, irrefrenata muovere la lingua contro di quello che lo spingea a battaglia. Ma ebreo, almeno nell’espressione, non fu. Non fu interprete veridico dell’Ecclesiastico, perchè solo le umane speculazioni l’Ecclesiastico interdice, e quelle temerarie e folli irruzioni nei campi del Divino, che la ragione tenta tal fiata senza guida, senza norma, senza la stella polare della parola rivelata; siccome appunto l’indole dell’opera e le idee tutte che entrano nell’Ecclesiaste mirano, com’è noto, a sfiduciare la mente umana nelle sue proprie ingenite forze, e ad ispirare uno scetticismo salutare che può senza fallo paragonarsi a quella specie di scetticismo religioso che professarono Biagio Pascal e Michele Montaigne. Non fu consentaneo allo spirito dei dottori che se il silenzio levano al cielo, e questo è il punto ove volevamo venire, egli è il silenzio delle cose vane, terrene, puramente mondane; egli è quello di cui intesero quando dissero: Mà ummanutò scel adem baolam azzè iassim azmò cheillem, non quello che eccettuarono in termini apertissimi quando aggiunsero: Jakol af ledibrè torà chen, talmud lomar teddaberun; egli è quello a cui accennarono quando dissero ogni parola che esca dal labro dell’uomo un’eco avere nello eterno ed ogni pensiero aspirare, e come il fuoco secondo gli antichi, come vuole la sua natura alle cose del cielo, egli è quello che un dottore in Abot (notate luogo acconcissimo alle esseniche memorie, siccome quello che codice udimmo altravolta chiamato dei hasidim) proclama, dopo la lunga sua esperienza e conversazione farisaica, il farmaco più salutare, frase se altra fu mai opportuna al genio medico, terapeutico; come anche questo vedemmo dell’antico istituto, egli è il silenzio che nel medesimo Abot, notate indizio sopra indizio, un gran dottore R. Achibà, che per colmo di maraviglia è dottore insigne dei Cabbalisti, ed uno dei quattro visitatori del mistico giardino, egli è il silenzio che ivi è detto – siepe e riparo alla scienza – non antidoto e spegnitoio, come altri vorrebbe farne, e di cui bellamente interpretando, ce ne porge circoscrivendolo una idea adeguata il Bartenora, dicendolo silenzio sì ma solo delle cose mondane bedibrè aresciut; ed egli è quello infine che i dottori consigliavano agli esordienti, come appunto i Pitagorici lo consigliavano dicendo Asket, as veahar eah Kattet. Silenzio tutto, come vedeste, di cose, di bisogni, d’interessi, di avvenimenti, di pensieri mondani, non di bisogni, d’interessi, di pensieri comunque morali scientifici dottrinali teologici e per tutto dire religiosi. Nei quali beni lungi d’imporre un codardo mutismo, vuoi per raffinata superstizione, vuoi per timidezza di cuore, lasciarono libero il pensiero e libera la parola purchè i semiti non travalichi della rivelazione, e tanto liberi lasciarono e l’uno e l’altro, e tanto profondo scolpirono l’abito di libertà nell’animo del nostro popolo, che un bel giorno questo si è creduto potere in piena sicurtà di coscienza-dogmatizzare a sua posta, e purchè il corpo assoggettasse ai precetti di Dio, scotere impunemente lo spirito, foggiarsi dogma come Parigi si foggia i suoi figurini; e questa libertà dissero non solo filosofica, ma religiosa e sopratutto, vedete pregio che ignoravamo! privilegio tutto proprio ed esclusivo di nostra fede. Noi abbiamo posto il dito sopra una cangrena terribile che consuma e rode la vita superstite in Israele, e se questo il luogo fosse di chiamare com’Elia i falsi Profeti alla prova, fossero presi costoro come gli antichi a centinaia, mandassero pure grida come gli antichi forsennate, il fuoco celeste non sarebbe per loro. Ma l’anarchia dogmatica, a cui pretendono costoro, prova una cosa, e i miseri non se n’addanno; prova che la libertà è passata per quella via. – Come le ceneri che attestano la preesistenza del fuoco, – come il corpo esanime fa fede che vi abitò uno spirto immortale, così l’anarchia presente fa fede dell’antica libertà. E quale libertà! Pei dottori, il dettato che udiste poc’anzi Parum de principe, nihil de Deo, se sarebbe stato nella prima sua parte un consiglio di prudenza, saria stato senza meno nella seconda un consiglio d’inferno – pel quale solo disse Dante luogo d’ogni luce muto, e la parola è luce del Mondo. – Per essi nella sfera vasta, vastissima della Bibbia e della tradizione, la parola umana, è giusta, legittima anzi regina e sovrana, e se gli imposero silenzio, come vedeste, nelle mondane faccende, ei fu fra le altre cagioni perchè non un atomo spendesse delle sue forze che non fosse per Dio, nè vollero che pel mondo molto tacesse se non per che di Dio e della fede sua molto parlasse. – In quella sfera se i dottori rifar dovessero il verso di Fiorentino, se crear dovessero un grido, una parola d’ordine, come si dice, non sarebbe adora e taci, ma adora e parla. In quella sfera la libertà è santa intangibile, anzi a Dio carissima anco nei suoi voli audaci, anche allora che ignara, come dice Omero, della lingua degli Dei, ne strazia le forme e le locuzioni bellissime, vale a dire quando erra involontaria, quando merita di essere molto perdonata perchè molto ha amato. Allora dicono i dottori, Iddio non solo perdona, ma infinito amore lo prende per quell’anima che balbetta il suo verbo immortale in quella guisa che un padre non rifinisce di baciare e ribaciare il piccioletto figliuolo quando le prime voci emettendo sciupa le forme del linguaggio nativo. Vediglò alai aabà. Nè altrimenti avviene allora che agli spiriti audaci ai quali disse il mondo sorridere sempre benigna fortuna ed amore, ed a cui dicono i dottori sorridere non meno Dio verace fortuna e primo amore. Noi abbiamo veduto il Silenzio essenico approvato, predicato dai Farisei in teoria. In quest’altra Lezione lo vedremo in pratica.

LEZIONE TRENTESIMAQUINTA

Trovare le idee, i costumi degli Esseni conformi alle idee bibliche e, ciò che più monta, ai costumi, alle idee farisaiche, trovare come trovato abbiamo nell’ultima Lezione il Silenzio essenico in quei Farisei d’onde trasse, a parer mio, l’Essenato l’origine, egli è certo assai per la storia dello Istituto, è poco per noi che nel Farisato medesimo abbiamo specialmente identificato i nostri Esseni con quella parte di Farisei che si chiamano Cabbalisti. Se il nostro sistema non è bugiardo, le analogie tra le due scuole dovrebbero, nè meno esplicite apparire nè men numerose. Se Esseni e Cabbalisti sono tutt’uno, gli ultimi non meno che i primi deono avere come squisita virtù proclamato il Silenzio. E proclamato l’hanno quanto basta a darci piena, assoluta ragione. E tanto iterati e diffusi ne sono gli elogi, i pregi, le utili conseguenze, che io farei opera interminabile se qui tutti volessi i testi riprodurre che negli antichi e nei moderni libri del Cabbalismo parlano in favor del Silenzio. Pegli uni come per gli altri due sono gli atti dell’umana generazione, corrispondenti alla doppia natura dell’uomo, la Parola ed il Coito, il germe spermatico ed il germe ideale, la concezione della carne e la concezione dello spirito, ambo unificati nelle lingue moderne, nella parola Concetto, ambo, e ciò che è più ammirabile, confusi, identificati nelle parole Jadagh, Pensiero e Coito. – Generazione di carne e generazione di spirito e quindi dal seno istesso della lingua ebraica, intera e splendida sprigionasi la teoria cabbalistica.92 Per essa due sono i segni dell’alleanza, due i patti, due gli organi fecondatori, il Berit allascion e il Berit amaor, ambi porgenti vana e colpevole ridondanza, ambi recanti da natura prepuzio, come stupendamente accenna la Scrittura medesima nel Aral Sefataim, ambi suscettibili di emendazione e circoncisione; anzi, notate meraviglioso riscontro, ambidue chiamati nel loro stato perfetto con una sola parola che suona milla, quasi dicesse la Corretta, la Circoncisa, nulla ostando la più lieve o più grave pronunzia, perchè ambidue unificati gramaticalmente in una sola radice, perchè d’ambi dicono i Lessici tedeschi Fortasse Malat idem facit quae mul abscindere: e noi possiam dire dopo le cose discorse senza forse, senza fortasse, e perchè finalmente l’organo della parola e l’organo della generazione oltre essere unificate nelle antiche pagane rappresentazioni del Fallo, parola generatrice, sono manifestamente adombrate nella prima Misnà dell’antichissimo Sefer Jezirà, ove sono posti in armonico contrapposto, il Milat alascion e il Milat amaor, nella quale iterazione della parola Milat volle senza meno l’antichissimo autore accennare a quella comunanza di espressione, quella di cui adesso parliamo. Ed ambi, sommessi a gelosa custodia, tanto che pei Cabbalisti non meno è colpevole chi la parola invano disperde, che chi spreca inutilmente il liquor seminale, ambi sendo egualmente colpevoli di fallita generazione, che è mira suprema di natura, nel mondo dei corpi come nel mondo delle idee; nè qui certo avrebbero fine le bellissime analogie se a talento mio potessi nell’argomento spaziare. Non tacerei di quell’aureo riscontro che ci porge tra le altre la Mitologia dei Greci in Mercurio Dio della parola e del Fallo fecondatore, che Cicerone chiama per ciò stesso itifallico, e ch’era adorato in Samotracia, in Beozia, nell’Attica, e nel Peloponneso, identico all’Erme itifallico dei Pelasgi, rappresentato nell’Attica e nell’Arcadia col simbolo del Fallo che Creuzer crede identico a Pane suo figlio (di cui tutti sanno l’officio e i simboli fecondatori), e ch’egli chiama principe de fécondité et source de toute vie, de la vie physique et animale aussi bien que de la vie intellectuelle! (Religions des Antiq. Hermes, in Mercur. 676.) Ma perchè troppo è per sè l’argomento fecondo, di queste come di altri non men leggiadri relievi, si taccia per lo migliore.

 

Ma i Cabbalisti parlano di una virtù del Silenzio, che troppo parmi accennare al carattere dottrinale degli Esseni, dei Pitagorici, perchè io possa senza colpa tacerla. È l’efficacia che gli assegnano al conseguimento dei misteri divini; è l’economia delle forze intellettuali serbate tutte alla contemplazione di quegli altissimi veri; è lo accesso che forzano col loro concentramento nelle parti più recondite della scienza religiosa; è insomma una sublimazione straordinaria dell’Intelletto, parole son queste del R. Loria. Umittenaè assagat akokma scezarih lemaet beddiburò velistok col mà sceiuhal chedè scelò leozi sikà betelà. La quale virtù del Silenzio, dicono essi, può giungere sino alla fruizione dello Spirito Santo, sino a quel grado di Ispirazione che è Ruak Acodes, sino a rapire la mente in quella regione beatissima della scienza divina in cui la mente non ode, nè vede, nè sente più nulla, o per dir meglio sente ed ode il silenzio, la quiete, la pace, che sono proprie di quelle attitudini dove l’anima resta assorbita in estasi soavissima al santuario del silenzio della Mahasabà, della suprema Kokmà, dove tutta la scienza dell’uomo si risolve in una grande ma soavissima interrogazione, e dove al Mi (chi?) infinito che l’anima manda in uno slancio d’amore, non s’ode che un’eco eterna che replica Mi, come l’unico obbietto omai conoscibile.93– Ed a chi vera e santa non credesse la teologia dei Cabbalisti e che pure nel giro si rimangono dell’Ebraismo, la Bibbia si leverebbe, e insegnando loro ciò che i Cabbalisti insegnano: Uomini, gli griderebbe, di poca fede, venite e vedete. Vedete il Silenzio indicatore della presenza di Dio. – Nella poeticissima e profondissima ad un tempo visione di Elia, in cui il vento, il fuoco, il tremoto, non sono che precursori del Nume che s’avvicina, che esteriori vestiboli del riposto Sacrario, e solo nel Silenzio, anzi per antitesi maravigliosa, nella voce del Silenzio col demama stare la maestà dell’Eterno, la essenza di Dio, appunto come il Silenzio dicono i Cabbalisti stare in cima alla scala delle cognizioni celesti. Vedete la intima identità, dai Cabbalisti ravvisata, fra la scienza ultima estatica, intuitiva e il Silenzio, sola condegna espressione di quella nella lingua stessa dei Profeti, nell’idioma antico d’Israel, siccome quello che è semenzajo, come non mi stanco di dire, delle antiche credenze dell’Ebraismo. Ora nell’idioma ebraico v’è una parola, e questa parola è Haras, e Haras, ammirate la forza del vero, è radice significante in pari modo Silenzio e saper magistrale, tacere e meditare. Pensiero e Silenzio, perchè il pensiero per eccellenza è tacito e silente, e perchè come udite dai Cabbalisti, la sede del Silenzio è altresì sede della Mahasciabà e della suprema Kokmà.

Ma la pratica farisaica, ed è tempo che ne parliamo, attesta in modo ben altrimenti eloquente la identità che non cessammo di propugnare tra le due scuole, e ciò che tornerà di gran lunga più rilevante, la identità specifica peculiare fra Cabbalisti ed Esseni. Obliamo per un istante la Storia e domandiamo a noi stessi: Se il nostro sistema non è bugiardo, se i dottori Cabbalisti del Talmud sono veramente, come crediamo, i medesimi Esseni, che cosa dovrebbe mostrare la Storia? La Storia, in mezzo alla gran corrente del Farisato, dovrebbe mostrare, come ci mostra natura in alcuni vastissimi mari, una corrente secondaria, distinta, particolare, che segue inalterata sua via, in mezzo a mille correnti paralelle o traverse, e in questa corrente mostrar dovrebbe non solo i caratteri del Cabbalismo Talmudico, è questa impreteribile condizione, ma per finire di persuaderci, anche la pratica del Silenzio distinta, costante, particolare e pressochè esclusiva in questa istessa corrente. Noi abbiamo formato un voto, abbiamo detto ciò che la mente più esigente potrebbe chiedere al sistema che abbiamo adottato. I fatti ci daranno ragione? La Storia dei Farisei accenna a molti centri, a molte linee, a molte scuole di dottori diversi, e se tra questi ve ne sono tali che i caratteri, che i contrassegni ci porgan legittimi incontestabili della linea del centro, della scuola Farisaico-Cabbalistica, ella è quella senza meno, che incominciando coll’antichissima R. Johanan Ben Zaccai e poi con R. Eliezer Agadol, segue con R. Akibà suo discepolo, continua con R. Simone Ben Johai discepolo del medesimo Akibà, e ferma almeno, a quello che io ora mi sappia, con Rab o R. Abbà scolaro di R. Simone. Ora vi è un fatto luminoso a cui vano sarebbe chiudere gli occhi, e questo fatto è la celebrata e particolare virtù in questa serie di Farisei Cabbalisti, in queste cinque generazioni di Farisei nell’amore del Silenzio. E chi lo attesta non è lo Zoar, non è uno dei parziali a quella teosofia, è il Talmud, quel solo giudice competente fra noi e gli avversarj del Misticismo. – Egli è il Talmud in Succà che narra dello stipite della gran scuola di R. Johanan Ben Zaccai non aver egli parlato mai parola profana; egli è il Talmud che pone in bocca al suo discepolo Eliezer la stessa lode; egli è il Talmud che chiama R. Akibà Ozar Balum; tesoro chiuso; egli è il Talmud che di R. Simone Ben Johai dice tohen arbé umozé chimhà, macina molto e poco espone, vale a dire, molto medita e poco parla, o come di sè medesimo ei dice nello stesso Talmud: Figli miei, imparate le mie regole perch’esse sonoprelevazione di prelevazione– vale a dire, le più elette delle regole di R. Akibà; e se non è il Talmud che narra la stessa pratica di Rab, perchè, della teoria niuno di esso più esplicito, è qualche cosa, oso dire, più del Talmud concludente. – Voi lo ricordate, per completare la serie ci manca un anello, ci manca Rab; e non narrandolo il Talmud, non ammettendo noi qual parte interessata la deposizione dei Cabbalisti, non ci resta che una sola possibile autorità, e questa, grandissima, irrecusabile, gli avversari del Cabbalismo. Ci accade in questa ricerca, come altre volte non poche ci era accaduto: che andando in cerca di una prova, ne abbiamo trovate altre ancora che non cercavamo. – Ei fu quando arrivammo alla persona di Rab che assistemmo al più singolare spettacolo che sin ora ci si fosse parato dinanzi. – Trovammo prima diffusa comune nei posteriori libri la memoria di Rab come celebre per la virtù del Silenzio, e volendo, siccome è mio stile, risalire alle fonti, ne chiesi vestigia ai libri talmudici, ma senza frutto. Allora tenendo una via opposta, scesi dal Talmud ai succedanei scrittori, e il primo in cui trovassi menzione del Silenzio di Rab, il primo che mi fornisse l’ultimo anello della serie farisaico-cabbalistica, ei fu il più grande avversario del cabbalismo, ei fu Maimonide. E non solo, come dissi, completa la genealogia cabbalistica col ritratto di Rab, ma il modo, le frasi con cui ne favella sono sommamente eloquenti per chi le intende. Attesta in primo luogo il Silenzio di Rab, quando scrive nel Comento di Abot: E fu detto per Rab, discepolo di R. Hijà, che non profferì parola inutile tutti i giorni di vita sua. Il qual deposto formulato in Abot, ripetuto e destituito essendo nell’Opera Magna, nel 2º dei Morali (Deot), come dissi di ogni sanzione scritta nei libri talmudici, e parendo quindi inesplicabile al Caro, gli suggeriva ivi stesso queste parole di sorpresa, d’ignoranza: Ma per quello che a Rab si attiene, non saprei dire per adesso ove ne sia l’origine. Pure, Maimonide lo asserì formalmente non solo in due libri diversi, ma ciò che parrà ancor più rimarchevole, in due epoche non poco distanti di vita sua, avendo il Comento intrapreso all’età di 20 anni, e il testo Maimonico a quella dei trenta.

91Una gran parte di queste Regole portano nel Talmud un nome pregno di senno, quello di Cabbalà. Si legge in Berahot queste parole che porgiamo alla meditazione degli ebraizzanti Annan Cabbalà debet akissè seniutà usticutà. I forzati e inutili tentativi degli interpreti, e tra gli altri di Rasci, provano ch’egli è solo dal nostro ordine d’idee che la frase in questione può ricever lume e verità.
92I termini che si riferiscono alle fasi dell’uno e dell’altra generazione seguitano correlative. Così Ara si dice per gestazione e meditazione, onde l’Irur rabbinico.
93Per bene comprendere tutto questo, si avverta come una delle emanazioni cabbalistiche porti i nomi ad un tempo di Mi (chi?), di Sceticà (Silenzio), di Mahasabà e Kohmà (Pensiero e Sapienza). Chi subodorò alcun che della teologia dei Gnostici sa benissimo come i nomi di Sofia Superiore e di Sige o Silenzio sieno proprj dei più supremi Eoni o Emanazioni. E poi si dica che la teosofia cabbalistica è cosa moderna!