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Storia degli Esseni

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Ma noi dei sacrifizj essenici ragionando, abbiamo trovato, se la congettura non erra, un loro tempio, il tempio di Onio in Egitto. È questi il solo che pretenda all’onore dell’Essenato? Io credo che di due altri tempj ragioni la storia che più o meno possan vantare essenica cittadinanza. È l’uno quella famosissima Proseuca o Sinagoga che sorgeva, non saprei dire se presso a Tebe o nelle mura di Alessandria, e di cui è menzione pomposissima nel Talmud di Succà, con qualche curiosa variante, tra il Babilonese e il Gerosolimitano, e che rovinò per ordine, dice il Babilonico, di Alessandro, per ordine, dice il Gerosolimitano, e dice meglio, di Trajano l’empio, Traghianos arasciah. Sono le altre quelle sinagoghe di cui udiste parlare in altre lezioni a proposito della vita campestre dell’Essenato, quelle Proseuche campestri, come le chiamano i dottori, ed in cui parevami e parmi ancora vedere memoria degli antichi oratorj dell’Essenato.

Ora una parola della Preghiera Essenica ed avremo finito. Pregavano gli Esseni, dice Giuseppe, al sorger del sole, gli è quanto dire in quell’ora istessa in cui pregavano i Vatichim del Talmud, altro nome dei nostri Esseni, e di cui videro i dottori nostri cenno in quel verso che dice Irauka im Sciamesc. Non basta: Giuseppe ci porge nuovo riscontro colla preghiera dei dottori. Gli Esseni, ei dice, non parlano di alcun affare prima del sorger del sole. E i Farisei pure, e lo dicono e lo raccomandano e lo osservano. Per essi, non solo gli affari, ma il conversare, ma il saluto istesso è interdetto pria che il sole risorto e l’anima ridesta mandino il saluto alla eterna fonte di ogni salute: tanto che vi furono e vi sono tanti Esseni senza saperlo, che imbattutisi per via prima di orare in un amico, usano frase che non è saluto ma è preghiera. Ma ciò che l’animo non ardiva sperare, ciò che parrebbe superare ogni aspettazione, egli è la esistenza, la conservazione tuttavia nella Liturgia ortodossa di un Inno, di un Canto superstite dell’Essenato. E pure di questi miracoli, ed altri maggiori, è capace la bella e feconda per quanto ardita erudizione germanica. Se uomo vi è capace di dar credito e faccia di verità ad una ipotesi egli è senza meno il Nestore dei Rabbini tedeschi, il dotto e celebre Rapaport, gran Rabbino di Praga. Ora secondo il Rapaport vi è una preghiera tra quelle che si recitano nel sabato, che appartiene all’antica Liturgia degli Esseni; ed è quello un ordine alfabetico che incomincia El adon. Credo l’opinione del Rapaport assai verosimile, e ciò che vi parrà singolare, per quelle ragioni appunto che altri la osteggiò. E questi è un dotto e piissimo Rabbino Tedesco, tolto, non è molto, ai vivi, il Zebi Tro Haiot. Il Haiot nell’Imrè Binà trova la congetura del Rapaport inverosimile, e per quella ragione appunto la credo tale, che dovuto avrebbe persuadergli il contrario. Egli trova nel Fur una diversa lezione nella preghiera in discorso, trova che là ove leggiamo Raà veitkin, vide e formò, leggere si debba invece raà veictin, vide e impicciolì la forma lunare; e siccome tale lezione si fonda sopra un’Agadà del Talmud babilonico, ove si dice che la luna dicadde nella gerarchia degli astri, e di stella che era divenne satellite, egli crede che non si possa a buon diritto supporre nelle preghiere esseniche menzione di questa leggenda. Dico il vero, il raziocinio del Haiot, non dirò mi sorprese, sarebbe poco, mi empì di stupore. Possibile dissi fra me! Possibile che tanto abbia egli negletto ed obliato così scrivendo! che abbia obliato come alla perfine la lezione di cui favella non é la sola; ed ove l’altra, punto all’Agadà allusiva, si addottasse, resterebbe la congettura del Rapaport incrollata! Possibile che abbia posto in oblio, come l’Agadà della degradazione lunare sia eminentemente Cabbalistica: e come tale, e come uno dei punti più culminanti del Cabbalismo talmudico, sia portata in trionfo dai teosofi antichi e moderni. Possibile che non siasi ricordato come appunto la lezione da lui proposta prevalga tra essi alla lezione contraria; possibile che abbia posto in non cale un fatto momentosissimo, e che solo basterebbe a dar ragione a Rapaport; voglio dire la importanza conceduta, i lunghi ragionamenti, le speculazioni Cabbalistiche che fa il Zoar su questa preghiera di El adon: è possibile infine come non abbia veduto che non altro essendo gli Esseni che i Cabbalisti antichissimi, se vi è scuola a cui s’acconci la preghiera in discorso che possa dire altamente vide e impicciolì ec.; eglino sono senza meno i nostri Esseni, a cui in verità e tanto meritamente l’attribuiva il rabbino di Praga. Ma se causa vi è di tanto oblio, ella è questa una: il non avere a bastanza il Haiot riconosciuto la identità da noi propugnata tra Esseni e Cabbalisti; l’aver trovato disdicevole ai primi ciò che avea trovato dicevolissimo ai secondi; e se il Haiot vivesse ancora, tanta era la sua pietà e la dottrina, che, oso dirlo, egli avrebbe plaudito ai nostri sforzi, e trovato avrebbe col Rapaport essenica per eccellenza la preghiera di El adon, perchè potuto non avrebbe negare essere la sua lezione per eccellenza cabbalistica.

LEZIONE TRENTESIMASECONDA

I tempi, i sacrifizj, le preghiere dell’Essenato ci occuparono nelle passate Lezioni. Noi dobbiamo con passo misurato e rapido a un tempo procedere oltre; dobbiamo di quell’argomento favellare che più dappresso si attiene alle cose discorse; dobbiamo, a dir breve, ragionare delle Feste. E prima del Sabato Essenico, siccome quello che torna più di frequente e in cui più luminose spiccano le analogie farisaiche. E queste sono parecchie e di non lieve momento. È la prima quella che riguarda il Muczè. Che cosa è il Muczè? È quel divieto pel quale ogni uso e contatto eziandio ci è interdetto di quegli oggetti, che un officio adempiono proibito nel sabato. – Qual sarebbe a mo’ di esempio una vanga, una scure, delle legna, delle monete, divieto principalmente farisaico e tradizionale. E pure, gli Esseni il conobbero, e non solo conosciuto ma praticato era dal grande istituto, se stiamo a Giuseppe, il quale, con parole che più non si potrebbero esplicite, asserisce a dirittura non solo astenersi gli Esseni nel sabato da ogni opra servile, ma non osare cambiar nemmeno un utensile di posto, ch’è quanto dire il vero e preciso Muczè farisaico. Ma le cose che seguono non solo offrono nuova conferma alla identità favorita, ma anche solo da questa traggono la sola luce e intelligenza possibile; tanto senza la tradizione nostra tornerebbero incomprensibile. Quando Giuseppe, dell’Essenico Riposo favellando, dice che da ogni necessità naturale si astenevano se non costretti, che cosa volle dire Giuseppe? Oso dire che le parole di Flavio riuscirebbero strane, ridicole eziandio, ove al contatto non siano poste della tradizione farisaica. – Ma poste di questa a riscontro, qual cambiamento! Non è dessa che l’uso interdiceva dei purganti nel sabato ove pericolo non corrasi della salute? non è dessa, che alludendo ad uso allor comunissimo, proibiva eziandio quegli emetici che non solo a ristoro della salute perduta, ma per istudio eziandio di crapula, d’intemperanza solevano prendere i parassiti romani? Certo che è dessa, è la tradizione che di tali cose ragiona, ed essa pertanto ci offre quella sola intelligenza possibile all’uso essenico che ricorda Giuseppe. – Ma il terzo punto che concerne il sabato essenico, non meno degli altri eloquente depone in favor nostro. Se gli Esseni, come attesta Giuseppe, portavano abiti distinti nel sabato, se onoravano anche nella loro persona il riposo sabbatico, che segno è? Egli è segno che gli usi, che le pratiche, che le interpretazioni eziandio adottavano dei Farisei, perchè appunto egli è da una interpretazione a Isaia, che trassero i Dottori l’obbligo di recare vesti distinte particolari nel sabato.

Per le Feste, non è questa la prima volta, che ne udite parlare. – Quando cercavamo la derivazione essenica dagli antichi Hasidim, voi lo ricordate. Noi parlavamo di una festa Terapeutica in cui mille spiccavano analogie colla festa della Scioabà; e noi lasciavamo allora indeciso se, salvo il ceremoniale e il solennizzare che era senza dubbio conforme, la stessa festa, lo stesso giorno fosse dagli uni e dagli altri in modo così conforme solennizzato. Ciò che allora mi pareva dubbioso, mi sembra oggi, non so se a torto, indubitato. Io credo che salvo il Rito, e lo ripeto che era conforme, la Festa di cui parla Filone, quella non sia di cui parla il Talmud, non sia cioè la festa dell’autunno, la Scioabà, ma sia per contro la Festa delle Settimane del Pane terreno e del Pane celeste, della terra e del cielo fecondi, la festa di Sciabuot. Io oso dire che se avessi dovuto scegliere a libito mio, qual festa tornar potesse più acconcia al mio sistema, quale più di ragione mi fornisse nelle mie congetture, io non avrei altra festa potuto scegliere se non questa. E pure non l’arbitrio mio, ma le autorità irrecusabili degli antichi ce lo attestano.

E non solo attesta, come dissi, che quella festa era la festa delle Settimane, ma due grandi insegnamenti eziandio ne somministra nell’esporne in primo luogo la teoria e in secondo luogo nel narrarne la pratica. La teoria! Io oso dire che non potrebbe essere più consentanea al vero spirito della Bibbia, e alle più famigerate teorie cabbalistiche. Quando Filone espone le Dottrine terapeutiche sulla festa del Sciabuot, ci pare l’eco fedele delle idee più frequenti e più proprie dello Zoar; ci pare, ciò che è veramente, che uno sia l’insegnamento, una l’origine, una la scuola. Quando Filone fa dire ai Terapeuti il Sette numero santissimo, e quindi santissima la Settima Settimana dopo l’èra nazionale della Pasqua, quando lor fa dire la Settima Settimana casta e sempre vergine, dice cosa che inchiude un mondo d’idee cabbalistiche, che accenna in mille guise a quelle riposte dottrine, che riproduce in modo esattissimo, non solo i simboli e le espressioni più favorite, ma li produce in modo che più non si potrebbe opportuno. Perocchè egli è appunto intorno all’argomento del Sciabuot, che si accumulano, che si affollano nei libri teosofici le idee, i simboli uditi poc’anzi in nome dei Terapeuti, che tu odi, come udito abbiamo dagli Esseni preconizzare, glorificare il Settenario, e quello venerare nella Settima settimana, che ricorrono, come ricorsero appo gli Esseni, i nomi, gli appellativi per la Settima settimana di casta e vergine Bat Scebah, Betulat israel; e che la festa del Sciabuot tu odi come intendevamo or ora dagli Esseni, chiamata il Settenario Sacro e solenne nel Ciclo Annuale.

 

Ma io dissi che non solo la teoria, ma anche la pratica da Filone narrata non riuscisse meno preziosa pel nostro assunto. Io vorrei avere tra i miei uditori coloro che tolsero a testo delle loro declamazioni l’uso prevalso tra noi di vegliare la notte intera in letture, in meditazioni devote, la notte di Pentecoste, la notte, dice il Zoar, in cui la Sposa s’apparecchia pel talamo nuziale; vorrei che fosse tra gli altri il nostro venerando Luzzatto, e ch’egli, a cui niuno può far da maestro, vedesse quanto giova lo studio dell’Ebraismo extrarabbinico, qual’è a mo’ d’esempio la storia delle sètte, per la rivendicazione di certi veri che non prendono faccia di menzogna se non quando sono isolati da tutte le manifestazioni contemporanee dell’idea religiosa. Egli che nel suo recente vicuah apriva la scena con un pio consesso, con una veglia religiosa per mostrarne, s’intende, la inanità e la fatale rovina col rovinare della base che è lo Zoar che la preconizza; egli così schietto e disinteressato cultore del vero, venga e veda. Veda i Terapeuti, che noi abbiamo sempre predicato antenati dei Cabbalisti, darsi in quella sera istessa in cui si danno i loro tardi nipoti, non già a quelle letture, a quelle pratiche istesse, a quel programma inalterato che vediamo oggigiorno seguito, perchè chi questo esigesse, esigerebbe l’assurdo; ma darsi a preci, a canti; e poichè nel recinto del Tempio di Gerosolima i Hasidim si davano pure alle danze, ed essi ancora i Terapeuti, come attesta Filone medesimo, intrecciare parole, e poi all’alba, come udiste altra volta, di nuovo orare, e tutta insomma quella notte trascorrere in offici che se non hanno la forma istessa dei tempi moderni, ne hanno lo spirito. E poi, potrò io tacerlo per timor di sorprendervi? potrei negare che quella danza istessa, che urta tanto gli abiti, le idee, i pregiudizj contratti, che vi sembra, me lo figuro, sfidare tutti gli sforzi che io spendo a trovarne le vestigia fra noi, è tuttora visibile in qualche parte di mondo, ove si voglia frugare per entro ai costumi dell’universal ebraismo. E perchè dovrò tacere ciò che io ho veduto? Perchè non dirvi non solo che l’uso di danzare in Simhat torà è costume predominante tra gli Ebrei di Africa e di Oriente, ma che nella mia più tenera infanzia io stesso ne fui spettatore? E il santo e pio Coribante era un dottore che Livorno vide prima opulente e generoso sino alla prodigalità, e poi povero e anche più generoso, che amai fanciullo, e stimai e rispettai giovinetto siccome quello che mi parve di cuore e mente nobili elevatissimi, e che, a rovescio del ritratto di Petrarca che disse sotto biondi capei canuta mente, conservò già vecchio la candida, la fervida poesia del cuore: egli dotto, ingenuo, facondo, civilissimo familiare in Londra de’ lord John Russel e del Duca di Cambridge, cultore anzi adoratore di ogni sapere, ma più adoratore della patria nostra antichissima che sospirò negli anni suoi tardi, dove trasse, stanco dei favori e dei disfavori della fortuna, e dove pochi giorni dopo il suo arrivo morì di morte repente, per un bacio divino dicono sublimemente i dottori, Mitat Nescicà il giorno stesso di Sciabuot mentre compieva l’atto suo più favorito, mentre parlava. Ed ei danzava e nel suo privato oratorio con leggiadrissimo e piccolissimo Pentateuco alla mano, rinnovava la scena dei Terapeuti, ed io fanciullo stupefatto guardava, e poi risi, e più tardi pensai, ed ora intendo. – E voi pure, ne son sicuro, intendeste. Intendeste come la danza dei Hasidim veossè Maasè nel tempio di Gerosolima, la danza dei Terapeuti che narra Filone, la danza del santo dottore che ora udiste, sia un atto solo ripetuto in luoghi e tempi diversi, l’espressione identica di un sol culto, di una sola scuola, che si chiama ora Hasidim, or Esseni, or Terapeuti, ora e proprio ora Cabbalisti sempre gli stessi e sempre diversi, sempre gli stessi nella sostanza, sempre diversi nella forma e nei nomi. E sopratutto intenderete il solenne insegnamento, ch’emerge dal soggetto principale del confronto presente, le veglie esseniche e cabbalistiche di Sciabuot in pari modo osservate dalle due scuole tra i primi, tra gli Esseni in alta e incontestabile antichità, tra i secondi in tempi a noi più vicini, ma che posti coi primi al contatto ne formano seguito e anella indivisibili, osservate da entrambi per le stesse ragioni, espresse da entrambi cogli stessi simboli, trascorse da entrambi in atti religiosi se non al tutto conformi.

E ciò che vi parrà, ne sono certo, aperto contrassegno di verità è il linguaggio che tiene lo Zoar a proposito delle veglie medesime. Non basta allo Zoar datare le veglie in discorso da R. Simone e dai suoi colleghi, ciò che bastato sarebbe a un impostore. Lo Zoar con uno sguardo retrospettivo, che non è comune troppo nelle sue pagine, ricorda tempi, uomini, esempj, più antichi come più antichi certo del Ben Johai furono gli uomini, i tempi, gli esempj dell’Essenato, nei quali e pei quali le veglie in discorso erano già state introdotte in Israel. E con quali parole ricorda lo Zoar quei tempi più antichi! Con frase che designa direttamente il grande Istituto, se le tante cose dette in queste lezioni sul vocabolo Hasidim non furono invano. E se nol furono, come non credo, chi non sarà di dolce sorpresa assalito leggendo nello Zoar di Emor queste parole: E per ciò i Hasidim antichissimi non dormivano in questa notte: in cui la parola Hasidim non comune nello Zoar è acconcia propria speciale che nulla più all’epiteto Cadmaè antichi che segue dappresso, essendo, come dissi più volte, il nome di Hasid proprio ai Cadmaè cioè agli antichi progenitori dei Zoaristi, agli Esseni e Terapeuti, anteriori certo allo Zoar e allo stesso R. S. B. J. E non solo il passo citato favella dell’uso in discorso, ma la Prefazione eziandio dello Zoar a pagina 8 diffusamente ne parla. Parla dell’uso come da lungo tempo introdotto, degli uomini che si davano opera, e che sono evidentemente non già i Farisei indistintamente, ma quella parte più eletta che si chiamano habrajà dibnè ekalà deeallà. Si parla di nozze, di tripudj nuziali e quindi l’idea risveglia di danze e di canti; si parla di paraninfi, della mistica sposa che sono i dottori rammemorati; si parla nei libri posteriori della recitazione del Cantico dei Cantici mistico Epitalamio, e quindi sommamente consenziente alle idee preaccennate. Si parla di Tebilà nel mattino seguente di Sciabuot, come abbiamo veduto i Terapeuti di Filone dopo i riti notturni purificarsi con generale abluzione, e questo è notevolissimo riscontro come vedete. Infine uno dei punti delle pratiche stimate meno autorevoli dei Cabbalisti riesce così storicamente rivendicato.

LEZIONE TRENTESIMATERZA

La prima parte della essenica vita, della essenica pratica, vuole essere qui terminata, la vita, la pratica religiosa. – Dopo i tempj, i sacrifizi, le preghiere studiate nella prima Lezione, dopo i sabati, le feste studiate nella successiva Lezione, vuolsi qui far menzione di due fatti che la storia degli Esseni ci ha tramandati, e che possono agevolmente in un fatto convertirsi. Riguardo al primo, l’essenico giuramento, non quello che lo iniziato pronunziava al suo ingresso, ma quello comune, ordinario, legale che si prestava innanzi ai giudici. Se stiamo a Giuseppe, gli Esseni reputavano spergiuro il giuramento istesso comunque veridico. – Giuseppe non si spiega di più, ma le analogie farisaiche, la legislazione ebraica del giuramento non solo spiegano, ma limitano e circoscrivono nei termini del vero, del verosimile l’asserzione di Giuseppe. Gli Esseni non possono avere considerato spergiuro quel sacramento prestato in modo legittimo pro tribunali, ed in quei casi, in cui non solo la legge il consente ma imperiosamente lo esige. Se questi pure avessero involto gli Esseni nella comune riprovazione, se detto avessero colpevole un atto chiarito da Moisè innocente, e talvolta altresì doveroso, potrebbero più dirsi veraci Ebrei, come pure lo erano eminentemente i nostri Esseni? potuto avrebbero al tempo stesso tributare quella venerazione stragrande all’uomo divinissimo che pur tributavano a segno, come dice Giuseppe, di proclamare sacrilego chiunque meno che reverente favellasse dell’uomo di Dio. – Che se la ragione, la storia, i fatti più ovvj escludono questa lata, assurda interpretazione di Flavio, che cosa resta nella sua asserzione? Nulla a parer mio che mai sia, non solo in grado sommo conciliabile colla legge e le tradizioni farisaiche, ma anche che da esse e solo da esse tragga luce ed intelligenza adequata. Restano i giuramenti insulsi comunque veridici, lo affermare con sacramento fatti notorj incontestati, di colonna marmorea, come dice il Talmud, che è di marmo, di fatti pubblici incontesi che sono avvenuti, e quella insomma molto diversa dal falso giuramento che reca il nome di vano ed insulso e si dice legalmente Sebuat Sciav. Ma questo stesso quanto non giova al nostro assunto! Se ricusato avessero gli Esseni la tradizione farisaica, se dello spirito dei dottori non fossero pieni, se una sola scuola non avessero con essi formato, avrebbero eglino col solo, col nudo testo alla mano, il giuratore insulso dichiarato spergiuro? Io ne dubito, e tanto più esiterei ad ammetterlo quanto più i testi sembrano favorire l’equivoco tra il Sciav e il Sceker, e presentarle ambidue come identiche espressioni di un sol giuro. E se ogni altra prova mancasse, basterebbe questo fatto soltanto, basterebbe vedere la duplice versione del Decalogo servirsi sempre del vocabolo Sciav nel quale non potrebbe non vedersi il vero spergiuro, il falso giuramento. Che se la sola tradizione, il solo farisaico può avere agli Esseni amministrata la legale nozione del giuramento insulso, che sarà poi ove nello stesso giuramento vero legittimo, necessario vedeste le due scuole porgersi amica la mano, e se i Farisei non disdicendo, come disdir non potevano, il giuramento legale, pure li vedeste ristringere nei limiti che più poterono angusti. Se ne circoscrissero l’applicazione, ed anco nei casi indispensabili lo infamarono? Vi è un luogo d’oro nel Tanchumà ove il prescritto del Deuteronomio «ad esso ti attaccherai e pel suo nome giurerai» ove l’autorevole, il legittimo giuramento è a tali e tante condizioni subordinato, di morale, di religione, di virtù pellegrine, che pochi sarebbero coloro che nei secoli più perfetti ne sarebbero degni.

E sono quelle che precedono il verso citato, il pel nome suo giurerai. – Il timore di Dio nella sua più vasta e nobile significazione – il culto perfetto – l’attaccamento, l’amore in cui i dottori pongono il colmo della perfezione religiosa. Ecco secondo i dottori chi può impunemente subire del giuramento la prova. Ma oltre i limiti e la repugnanza nell’applicazione, oltre le condizioni di morale squisito imposte al giuramento, – i dottori nostri ai litiganti che invocavano in causa il giuramento, imposero il titolo infamante di Resciaim, empj, e non solo tali li dissero sui loro libri, nel loro foro interiore, ma legale e pubblica sanzione dierono a questo titolo ingiurioso nel fôro esteriore, e lo dierono quando statuirono tra le formalità del giudizio civile, che dopo avere il giudice colla solenne formola del Scun o vuoi Monitorio, intimato alla coscienza del giurante le gravi pene dalla legge sancite, e la voce del Sinai minacciosa ripetuta ancor una volta al cospetto dei litiganti, che ove, dico, le parti insistessero nullaostante nelle loro pretese, che tutti ad una voce intuonassero i presenti quel verso con cui Mosè allontanava dalle tende ribelli turbe innocenti e: Lungi, dicessero, lungi dalle tende di cotesti malvagi; nè vi appressate a cosa che loro spetti, affinchè involti non siate nel loro sterminio, volendo alludere alla colpa presunta di ambo le parti, colpa d’insulso o di falso giuro, nel debitore, colpa d’irregolare procedimento e d’imprudente fiducia nel reclamante, e tutti e due causa più o meno colpevole della invisa e dolorosa necessità di giurare.

 

E queste paionmi già abbastanza eloquenti antologie tra Farisei ed Esseni. Ma ciò che vado ad aggiungere è, oso dirlo, di bene altra importanza. Se ciò che prova la identità generica dell’Essenato colla scuola de’ Farisei, egli è, com’è veramente, di non lieve momento, che saranno quelle prove che distinguendo l’Essenato dal comune dei Farisei lo confondono, l’identificano specialmente con quella parte di essi che si dicono Cabbalisti? Se tra il silenzio del farisato talmudico e la formale e solenne asserzione del farisato cabbalistico, vedremo gli Esseni a questi ultimi associarsi e con essi alta e solenne levare la voce in favore di un principio, di un divieto, di una legge taciuta dei Farisei, non sarà egli il più bello, il più urgente, il più irrecusabile argomento in favor della identità propugnata? E che direste se questo singolare fenomeno si avverasse, se un divieto sconosciuto al Talmud, strano, paradossale eziandio secondo il Talmud, fosse dagli Esseni e insieme dai Cabbalisti, e da essi solo, solennemente affermato? E pure nulla di più vero, di più dimostrato. E pure, se ognuno volesse dire a sè stesso, tutto il valore della concordanza presente la identità essenico-cabbalistica, non sarebbe più un problema, e pure se questo fatto solo emergesse dal confronto delle due sètte, bastare dovrebbe a ingenerare grave sospetto d’identità, alla critica più severa. E questo fatto spicca luminoso in Giuseppe, in Filone e poi nel gran Codice Cabbalistico, nel libro del Zoar. In Giuseppe quando interpreta il verso dell’Esodo Eloim lò tekallel quando vi trova, singolare a dirsi! il divieto di maledire, di bestemmiare eziandio i numi gentili. In Filone quando il verso stesso nel modo istesso interpretando, ci trova il rispetto dovuto eziandio alle straniere divinità. E nel Zoar infine, in quel luogo d’oro ove R. Abbà, il compilatore stesso della grand’opera, scrive parole memorandissime che nessuno sospetterebbe potere trovare in libro così ascetico; e che perciò stesso si può credere informato di uno spirito di gretta, di meschina, di esclusiva osservanza. E pure quanto vaste e grandi sono le idee! E non solo la teoria il fatto viene ivi stesso a confermare ed attuare il principio; e la conferma e l’attuazione per felicissima coincidenza, è opera non di uno, di sei dottori Cabbalisti, e tra questi più esplicito proclamator del principio, il dottore dei dottori, R. Simon Ben Johai. Io traduco e voi giudicate, e giudicando spero non troverete troppo enfatico il mio annunzio. Disse R. Abbà: «Ognuno che bestemmiato abbia lo suo Iddio, ricade sopr’esso il suo peccato. Vieni e vedi; quando furono gli Israeliti in Egitto, conobbero quei duci della natura che presiedono sopra i popoli universi, ed ognuno di essi fatto se n’era un Dio speciale. Quando furono a Dio stretti col vincolo della fede. – (vera etimologia di religione, come dice Cicerone, a ligando), ed appressolli Iddio al suo servigio, da quei numi si separarono ed avvicinaronsi alla fede suprema e santa. E perciò è scritto: Ognuno che bestemmiato abbia lo suo Iddio, ricade sovr’esso lo suo peccato; imperocchè comunque Iddii alieni siano cotesti, cionnonostante avendoli io costituiti a duci per governare la terra, chiunque bestemmi, o dispregi il nome loro, certo sovr’esso ricade il suo peccato, perciocchè miei servi e ministri sieno essi nel governo delle cose create: ma chiunque bestemmia il nome di Dio, non solo come gli altri iniquamente opera, ma la presente e la eterna morte sarà al suo fallir pena condegna. E questo è il principio ben chiaro, bene esplicito, bene eloquente, e per eccellenza essenico, come vedete, senza che io spenda altre parole per comentarlo. Ma io vi dissi che, per non comune ventura, alla teoria seguiva nel Zoar immediatamente la pratica, ed il fatto viene in buon punto a dare il più bel comento al principio. Ed eccolo testualissimo. R. Simone procedeva per via, e con esso erano R. Eliazar, R. Abbà, R. Hijà, R. Josè e R. Jeudà. Giunti che furono ad un laghetto di acqua (notate che le parole testuali sono orribilmente oscure e i più grandi interpreti eziandio confessano di andarci a tentoni), stese la mano R. Josè per raccogliere nel pugno acqua per bere, sendo egli assetato, ma preso da impazienza, forse per l’acqua melmosa, o perchè stette, come vogliono altri, per sdrucciolare: O Lago! sclamò, deh tu non fossi!– Dissegli R. Simone: Reo è il tuo parlare; ministro è questo della natura, e rea cosa è il vilipendere i ministri di Dio, e tanto meno si dee farlo, per quelle creature veracissime ch’esistono per legge del supremo imperante. Nel quale passo per cogliere tutti i preziosi reconditi documenti, mestieri è molte cose ricordare; ricordare il culto paganico dei fiumi e dei laghi, e meglio dei genj che ai fiumi e ai laghi presiedevano e in grazia del qual culto proibirono i dottori macellare animali di ogni maniera in riva all’acqua, quasi fosse omaggio prestato alle Najadi, e ai Tritoni; ricordare poi il culto in genere all’acqua prestato dagli Arabi contemporanei che i dottori dicono Cadriim; ricordare il conto grandissimo che gli Esseni facevano delle rive, lo spirito profetico che si sviluppa secondo i dottori più agevolmente sull’acque correnti, e di cui a dilungo parlammo; ricordare le acque, simbolo veneratissimo, come dicemmo in non remote lezioni, presso i Talmudisti, i Cabbalisti in ispecie; e soprattutto notare quel bel pensiero di R. Simon Ben Johai, che non è persino i più vili oggetti della natura corporea, su cui un raggio non si diffonda, benchè pallido e lontano, della gloria di Dio, nella quale tanto più davvicino si illustrano, si beatificano quelle che il Zoar dice Creature veraci, che vivono nella legge del Supremo Imperante, ch’è quanto dire gli Esseri Ideali, gli intelletti separati, come dicea la scolastica, i quali vivono in Dio come Paolo disse in Dio viviamo.

Noi abbiamo conchiuso quanto a dir avevamo sul culto religioso degli Esseni, o per dir meglio di quella parte delle loro pratiche, che a Dio si riferisce. Però mestieri è che io ricordi, quando nelle primissime lezioni favellavamo dell’origine dell’istituto, molte cose discorse abbiamo al culto di Dio attinenti, che per non menare troppo a lungo la nostra istoria, o furono qui per brevità trapassate, o solo un cenno ne fu dato a rinnovarne la rimembranza. Fra questi sono gli Inni religiosi che la storia narra posseduti dai Terapeuti, che dicevano redati dai loro antichissimi, che cantavano, come vedemmo, nelle feste e nei pranzj, e di cui trovammo corrispondenza tra i Cabbalisti antichi e moderni, e specialmente in uno dei grandi protagonisti del Zoar, nel figlio stesso di R. Simone Ben Johai che non il Zoar, sarebbe poco, ma il Jeruscialmi chiama Pajat e Carob. e Tannaj.

Fra queste le danze sacre, non quelle dei Terapeuti di cui discorso abbiamo anche troppo ora a dilungo, ma quelle dei Hasidim Veaosè Maasè, di cui favella la Misnà, che avevano a teatro le aule del tempio, quella di Illel che diceva danzando Im aní can accol can, parole pregne rigurgitanti di sensi cabbalistici siccome vorrei dimostrarvelo, se l’ora lo consentisse; quelle che dice il Talmud meneranno gli spiriti beati intorno all’Eterno, Sole della vita, come la Rosa dantesca si muove in giro danzando intorno il sole degli angioli, come Dante diceva, e se più oltre volessimo spingere lo sguardo, le danze astronomiche degli antichi, siccome astronomiche erano quelle dei Terapeuti, quali raffigurano, dice Filone, nelle loro danze, udite bene una imagine dei cori e delle armonie celesti, lo che solo potremo intendere quando sapremo la Teoria dei Pitagorici, coi quali tanto confonde e assimila Ilario i nostri Esseni, e che vollero gli astri muoversi secondo le leggi della musica, e tra pianeta e pianeta viddero quelle stesse distanze musicali che Pitagora il fondatore si dicea avere trovato, tantochè il roteare degli astri formava, a detta dei Pitagorici, quella che essi chiamavano, e che restò celebre nella storia della filosofia, col nome di armonia delle sfere. Ora il nostro secolo – gli Arago, gli Herschell, i Leverrier non credono più all’armonia delle sfere. Ma l’armonia pitagorica, a cui niuno secolo potrà discredere se non è suicida, è quella che i pitagorici annunziarono al mondo quando dissero anche per l’anima umana essere l’Anima un’Armonia. Parola profonda che vorrebbe un volume per comentarla, e che basterebbe a provarla quella divina potenza che è in noi d’intendere, di cogliere ogni maniera di logica, di musica, di morali armonie. E voi ne date prova luminosissima comprendendo sì bene quelle che io tanto disarmonicamente vo proponendovi tra le grandi scuole del nostro popolo, tra gli Esseni, i Farisei e Cabbalisti, i quali sono i veri astri che si muovono nell’orbita eterna, che Dio loro ha segnato negli splendidi, nei sereni cieli del vero e del santo.90

90Abbiamo taciuto di un uso essenico che ricorda Giuseppe, quello cioè di portar le mani, l’una tra la barba ed il petto, l’altra sospesa ai fianchi. È questo un punto che mi affaticai invano a chiarire. Forse qualche analogia ci offre Champollion Figeac quando nell’Egypte scrive dei sacerdoti egiziani: «Les anciens disent qu’il résultait de ce costume éclatant de blancheur, de la gravité habituelle de la physionomie, de la démarche et des paroles des prêtres, un extérieur imposant que complétait le repos forcé des bras et des mains habituellement cachés dans les plis des vêtemens. Les Monumens confirment cette observation faite par les anciens (p. 113).» Aggiungasi che nei Monumenti egiziani si veggono i subordinati presentarsi al loro superiore e signore «ayant, dice Champollion (Egypte, 185. I.) leur main droite posée sur l’épaule gauche, et leur autre bras pendant en signe de respect.»