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Storia degli Esseni

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Ben fa chiunque impara sino al fine.

LEZIONE VENTESIMASETTIMA

Se degli Esseni abbiamo studiato sinora ciò ch’insegnarono, rapporto all’anima, alla sua natura, ai suoi destini, parmi questo luogo conveniente di studiare altresì ciò che insegnarono delle straordinarie manifestazioni delle facoltà psicologiche nelle predizioni, nelle profezie di cui andarono gli Esseni celebri per il mondo. Giacchè narra la storia parecchi e famosissimi casi, in cui gli Esseni annunziarono da lungi un avvenire, che non mancò giammai, dice Giuseppe, di avverarsi. – Si avverò, dice Flavio nel decimoterzo delle Antichità, quando Giuda, Essena di nazione, per esprimermi com’esso s’esprime, predisse la morte d’Ircano nella torre di Stratone; e tanto superlativo si formava concetto del medesimo Giuda, che non teme Flavio di aggiungere, per valermi della traduzione francese di Arnauld d’Andelby: que ses prédictions ne manquaient jamais de se trouver véritables. – Si avverò, oltre altri casi moltissimi narrati da Flavio, in quello veramente memorabile d’Erode il Grande, quando un Essena per nome Menahem che menava, dice Flavio, una vita sì virtuosa che lodato era da ognuno e che aveva da Dio ricevuto il dono di profezia, vedendo Erode ancor fanciullo studiare insieme coi bambini dell’età sua, gli disse che avrebbe un giorno regnato sopra gli Ebrei. Quando Erode inalzato al trono si vide al colmo della prosperità, ricordossi di Menachem e delle sue predizioni, e chiamatolo presso di sè, trattò da quind’innanzi con segnalato favore tutti gli Esseni. Sono queste parole pressochè testuali di Flavio Giuseppe, nelle quali misi uno studio particolare di fedeltà onde le conseguenze storiche dottrinali che ne dedurremo, sieno sopra basi fondate, solide, incrollabili. – Questi fatti provano, non è dubbio, come gli Esseni s’occupassero di predizioni; e qual credito insigne godessero tra i lor coetanei eziandio più illustri, di veridici vaticinatori delle cose avvenire. Ma l’ultimo dei fatti narrati, l’episodio dello inalzamento di Erode al trono di Giuda, prova inoltre due cose; prova quanto ingiustamente sia stato sinora creduto tacersi affatto gli antichi Dottori della società degli Esseni, dacchè, singolare a dirsi, al fatto or’ora discorso si allude manifestamente nel Talmud, come fra poco vedremo. E prova poi altra cosa. Prova quella identità che non ho cessato un istante di proclamare tra gli Esseni ed il Farisato, non altro essendo i primi, a parer mio, che la parte eletta ed i teologi della scuola. Ora chi non vedrà e l’una e l’altra cosa nel Talmud di Kaghigà? Ove descrivendo le prime primissime origini delle controversie dei Farisei, e i primi tra i Dottori ad erigersi tra essi antagonisti, narra qual prima coppia ch’ebbe discorde il sentire in fatto di religione, un Illel, l’antico il famoso Illel, che il chiarissimo Luzzatto crede identico al Pollione di Giuseppe, e per secondo non già Sciammai che non intervenne che tardi, ma il nostro, lo storico, l’Essena Menachem che precorse a Sciammai nel rabbinico patriarcato e che solo a Sciammai cesse il luogo, l’ufficio, quando la sorte chiamollo altrove, come vedremo. E perchè dico il talmudico Menachem identico al nostro, all’Essena Menachem di cui parla Giuseppe? Perchè è il Talmud stesso che ce lo insegna, per chi bene lo intenda, il quale, dopo aver detto che a Menachem sottentrò nell’officio Sciammai, chiede a se stesso. – Che cosa avvenisse di Menachem leehan iazà. – E Dio volesse che fosse la risposta concorde. Ma no! Da Menachem al Talmud, o per dir meglio, ai personaggi che qui interloquiscono nel Talmud, Abaje e Rabbà, non solo più di tre secoli eran trascorsi, ma l’esilio, lo spostamento delle accademie e dei centri studiosi avevano di tale dubbiezza avviluppate le cose che immediatamente precessero la grande catastrofe, che si vedevano sì, ma come gli obbietti si veggono per l’aer caliginoso. Che volete pertanto? Abajè e Rabbà rispondono sì, ma onninamente discordi, alla domanda del Talmud. Dottori ambidue Babilonesi, nati, cresciuti lungi da Palestina patria di Menachem, ognuno di essi narra le cose tali quali le aveva udite per avventura da una tradizione discorde. Per Abaje, Menachem uscì letarbut rahà, frase talmudica che vale quanto apostatare od uscire dal grembo della ebraica ortodossia. – Per Rabbà invece se Menachem non è più tra i Dottori annoverato, egli è perchè (notate prezioso ricordo!) fu assunto al servigio e ministero del Re, il quale come ora vedremo non è, nè può essere altri se non Erode il Grande. – Ora di fronte al dubitar del Talmud chi oserà asserire che le cose avvenissero come noi le dicemmo avvenute? Quando due opinioni tenzonano, come vediamo, con egual forza, chi ci autorizza a stare piuttosto alla seconda che non alla prima, e soscrivere alla versione favorevole di Rabbà, piuttosto che a quella a noi ostile di Abaje? – Ah! il perchè è facile a dirsi, e voi uditolo, spero, mi darete ragione. Due sono gli argomenti capitalissimi che ci persuadono vera, preponderante la tradizione di Rabbà. È il primo un principio che corre comune e divulgato assai tra gli studiosi del Talmud, che ovunque cioè una controversia si verifichi tra Abajè e Rabbà, egli è al secondo che dobbiamo attenerci, tranne pochi singoli casi nominativamente eccettuati dallo stesso Talmud. Che nelle quistioni critiche storiche, anco dogmatiche, questo criterio non abbia avuto sempre forza di legge, concedo anch’io volentieri, ma con qual giustizia, con qual coerenza? – Certo con quella stessa giustizia e coerenza che manomise nello studio del Talmud tuttociò che non ha rapporto immediato colla pratica religiosa, senza pensare che ove di un albero tu trascuri le radici, il tronco, i rami ed anco le foglie, è vana opera occuparsi del frutto che non crescerà mai, o crescerà misero e tristanzuolo, quale lo fece il mal governo dello stupido cultore.

A noi però che recammo sempre nell’animo la sintesi, la reintegrazione della scienza ebraica in tutte le svariatissime sue parti, teoriche e pratiche, non è lecito adottare criterio diverso nel rito da quello che nella storia, nel domma, nell’esegesi adottiamo, e in queste come in quelle diciamo e continueremo a dire Ilheta che rabà. E questo è argomento che abbastanza identifica il Menachem del Talmud coll’Essena Menachem, di cui Flavio discorre. Ma qual’è il secondo? Il secondo è lo stesso Talmud che ce lo fornisce, ed è tale, che ove pure si volesse niun valore concedere alla massima già esposta che dà ragione a Rabbà contro Abajè, basterebbe per se solo a far prevalere l’opinione del primo contro il dir del secondo. E perchè? Perchè reca un inaspettato ed autorevolissimo ausilio alla tradizione del primo, in un’antica Barraità, che oltre essere opera di Dottori Palestinesi conterranei di Menachem, è di gran lunga più antica del Talmud e dei suoi autori, e quindi maggiormente si avvicina all’epoca di Menachem, e più veridica e sincera ne ragguaglia dell’avvenuto. La Barraità o testo misnico si pronunzia a dirittura in favor di Rabbà, e quella ragione assegna al ritiro di Menachem che Rabbà assegnava, vale a dire i nuovi offici che fu chiamato a sostenere in corte di un Re che non può essere altro che Erode, Tana nammè akì iazà Menahem laabodat ammelech. Non basta. La Barraità ci conserva memoria di una circostanza taciuta dallo stesso Rabbà, e che più compiutamente risponde alla narrazione di Giuseppe. Certo voi non lo avete obbliato. Oltre i favori personali che asseguì Menachem, narra Giuseppe il credito, l’estimazione in cui salirono, la mercè sua, gli Esseni: e come (sono sue parole) da indi innanzi trattasse con segnalati favori i nostri Esseni. Or bene, la Barraità pare che faccia eco alle parole di Flavio, e dopo aver detto come udiste di Menachem che passò al servigio del Re, queste parole aggiunge memorandissime che a voi raccomando: E con esso passarono allo stesso servigio ottanta coppie di giovani dottori in serico ammanto– segno della nuova dignità a cui furono assunti, secondo era stile degli antichi principati rivestire i nuovi eletti di abiti distinti, secondo si legge in Assuero e in Faraone. Ma questi due argomenti, per quanto grandi, non sono i soli: ve ne sono altri due che grandemente favoriscono il nostro sistema: l’uno è la concordanza cronologica dei due fatti, l’altro è la produzione di un’autorità tanto più concludente quanto più inconsapevole e spontanea. Che cosa è la prova cronologica? È quella che dimostra come il Menachem, di cui parla il Talmud, visse appunto in quel tempo in cui visse, al dir di Giuseppe, il Menachem degli Esseni, il favorito di Erode, rendendo tanto più probabile la loro identità, quanto più strano sarebbe ammettere al tempo istesso due Menachem ambo dottori, ambo favoriti da Erode, ambo seguiti da lunga schiera di Dottori favoriti com’essi. Or bene: noi abbiamo un punto fisso di partenza nel calcolo cronologico, ed è la data dell’esistenza d’Illel collega di Menachem. Il quale visse e sostenne il patriarcato cento anni prima della distruzione del tempio, nel quale tempo deve aver vissuto e figurato lo stesso Menachem che gli fu collega nel dottorato, anzi capo della scuola avversaria, alla cui testa si pose, dopo di esso Menachem, il più famoso Sciammài. Questo punto dimostrato costante, che cosa ci resta a fare per compire la dimostrazione e provare sincronici i due Menachem? Dobbiamo, se non erro, provare che il Menachem di Giuseppe visse, fiorì giusto cento anni prima dello esilio. Or bene: aprite Giuseppe, e dove è menzione del fatto della predizione di Menachem troverete notato dall’Arnauld d’Andelby essere ciò appunto avvenuto nell’anno 40 prima dell’era volgare, la quale avendo preceduto circa un 60 anni la distruzione del tempio, torna l’istesso che dire cento anni prima della distruzione, ch’è quanto dire quella stessa data in cui, secondo il Talmud, veduto abbiamo esistere, fiorire il talmudico Menachem.

 

Ci resta ora ad allegare l’autorità la quale indirettamente, e per ciò stesso tanto più concludentemente, depone in favor della identità dei due Menachem. Io non so se ne abbiate contezza. Ma oltre le opere di Giuseppe in greco dettate, e che furono tradotte, si può dire, in quasi tutte le lingue dell’Europa, ve ne ha un’altra in puro ebraico distesa, che mostra di appartenere allo stesso autore, ma della cui autenticità molti dubbj sorsero e durano tuttavia. Or bene in quest’opera ebraica, nel Josifon, al cap. 55, dove si parla della restaurazione del Tempio per opera di Erode, narra pure la famosa predizione del regno fatta da Menachem ad Erode ancor fanciullo. – Ma come la narra? Certo come la narrava l’antico Giuseppe, tranne solo una frase che nel primo non esiste e ch’è per noi il più luminoso attestato della identità dei due Menachem. E là, ove nominando per la prima volta il profeta Menachem, oltre porlo nel novero dei hasidim e hahamim, cenno, come vedete, di gran rilievo, lo qualifica a dirittura collega di Sciammai, lo che è appunto ciò che andiamo cercando, null’altro potendo essere un Menachem collega di Sciammai se non quello che appunto come collega di Sciammai è qualificato dai Talmudisti. Se poi a tutto questo aggiungete che Erode fu, secondo il Josifon, secondo il Talmud, e secondo il greco Giuseppe intimo dei Farisei, sotto le cui bandiere acquistò e conservò la corona; che fu stile generale, costante dei Dottori farisei l’annunziare da lungi i grandi destini, specialmente ai fanciulli come Gamaliel a Giosuè ancor fanciullo prigioniero in Roma, come Rabba di cui leggesi in Berahot ai due discepoli che aveva commensali; che più particolarmente si occuparono di vaticinare il regno ai futuri monarchi, come Rabban Joanan Benzaccai a Vespasiano ed a Tito, come Ribbi Achiba a Barcohaba, l’Arminio di Palestina, se pensate che tutti i Rabbini posteriori come il Seder Adorot che lessero nel Josifon il fatto di Menachem, l’intesero qual personaggio identico di fatti al Talmudico Menachem; se tutto questo aggiungete, avrete un fascio di prove così stretto, così aderente, che insieme al racconto talmudico, rispondente al racconto flaviano, insieme alla concordanza cronologica dei due avvenimenti, forma tale congerie di fatti così cospicui da costituire una vera e propria dimostrazione evidente, da provare soprattutto questi due fatti capitalissimi: la conoscenza che ebbero degli Esseni i Dottori nostri contro la sentenza comunemente adottata, e la identità appunto di Esseni e di Farisei, dappoichè questi ultimi dei primi favellano in guisa nel loro Talmud, come se proprj fossero del Farisato gli Esseni, propria la loro storia; proprie le glorie, e proprio tutto ciò che ad essi si attiene.

E poichè abbiamo preso a narrare le loro predizioni, mestieri è pure che d’altro qui si favelli che merita pure tra quelle narrate luogo cospicuo; e forse pegli autorevoli deposti, merita anzi sovra tutte il primato. Voi avete udito Giuseppe narrare delle esseniche predizioni. Or bene: Giuseppe, siccome quello che visse un anno nella società degli Esseni, doveva pure pretendere al Profetismo, e difatti Giuseppe apertamente v’aspira. Che dico? Narra egli stesso nel 3º libro delle Guerre Giudaiche come, stretto d’assedio in Jotapat, predisse agli abitanti che la città cadrebbe dopo 47 giorni di resistenza in poter dei Romani, e ch’egli stesso sarebbe caduto vivo in poter loro. Non basta. – Ciò che il Talmud narra di R. Johanan Ben Zaccai, ciò che udiste poc’anzi da questo Dottore qual presagio di prossimo regno a Vespasiano, ed a Tito, Giuseppe di sè stesso lo narra. Racconta Giuseppe come condotto nel campo nemico, e presentato a Vespasiano, questi deliberasse inviarlo a Nerone allora imperante; come a sua notizia pervenuto l’intendimento di Vespasiano, alla presenza di Tito e di altri due testimoni lo ammonisse dicendo, lasciasse pure d’inviarlo a Roma perciocchè Nerone ed i suoi successori poco avrebbero ancora da vivere; sapesse che egli solo dovrebbe ormai riguardarsi qual Cesare, giacchè egli, Vespasiano, e dopo di esso Tito suo figlio sarebbero saliti sul trono. Mentiva nel racconto Giuseppe, e fama volle usurpare di profeta agli occhi dei posteri? Così sentenzierebbe una critica superficiale, ma quanto ingiustamente! Poichè se il caso favorisse il temerario annunzio del prigioniero, o piuttosto, le potenze recondite dell’Essena, dell’iniziato, si risvegliassero all’occasione, questo non saprei accertare; ma che Giuseppe non abbia peccato per frode, ella è tal cosa che sfida ogni dubbio in contrario. E sapete chi me lo dice? I contemporanei o poco posteriori a Giuseppe, i Pagani nemici del nome ebraico, quelli che raccolsero di bocca alla fama il prodigioso vaticinio, come correva allor rumoroso sulle labbra di tutti; egli è Dione Cassio nel libro 66; egli è Svetonio nella vita di Vespasiano al 12º libro; e se Tacito non si può annoverare qual testimone della profezia di Giuseppe, si può qual autorità allegare di una predizione almeno congenere. Ella è quella di cui favella nel 2º libro delle Storie, parag. 78. Sorge, egli dice, tra la Giudea e la Siria un monte che si chiama Carmelo, il Dio che in quel luogo si adora reca il nome stesso (qui Tacito sentenzia a sproposito). Nulla statua di quel Dio e niun tempio: un altare solo si erge e il rispetto lo circonda. Vespasiano vi andò e sacrificò. E mentre volgeva nella mente i suoi piani, il sacerdote, consultate le viscere dell’animale, gli disse: Qualunque sia il pensiero che ti preoccupa sappi che ti attendono un vasto palagio, senza limiti possedimento, e lo imperio di genti innumerevoli. Ecco ciò che Tacito racconta. E certo qui di Giuseppe non è memoria; ma se tutte le circostanze valutate del racconto di Tacito; se fate la parte dell’ignoranza nel Dio Carmelo, che non ha mai esistito; la parte del paganesimo nelle consultate viscere dell’animale Beto, sconosciuto e riservato nell’Ebraismo; se cernete infine la narrazione tacitiana di quanto v’ha d’inesatto, d’eterogeneo, rimarrà questo fatto per sè stesso parlante, la predizione del regno a Vespasiano annunziata in Giudea da un Ebreo, da un sacerdote. Il quale fatto posto a confronto colla predizione attribuita dal Talmud a R. Johanan Ben Zaccai, con quella che a sè stesso attribuisce Giuseppe, verrà con essi fuso, assimilato e tutt’insieme faranno un solo fatto, un sol vaticinio, le cui varianti sono in Giuseppe, in Tacito, e nel Talmud, in cui ardua opera sarebbe quella parte d’onore assegnare ad ognuno, che per diritto gli spetta.

Checchè ne sia, gli Esseni si occupavano di predizioni. Ma gli Esseni vantano un testimone di gran lunga più illustre, un pagano dottissimo, un celebre filosofo, il quale conferma le avverate predizioni degli Esseni, e che interdice a chi glie ne pigliasse vaghezza, di prendere non troppo sul serio le esseniche predizioni. E questi è Porfirio, uno dei più grandi neoplatonici che siano sorti nei primi secoli del Cristianesimo. Il quale al dire di Giulio Simon nella Storia delle Scuole di Alessandria, non solo conobbe gli Esseni e le loro predizioni, ma le confessò veridiche e confermate dal fatto. Confessione di gran rilievo, e per la religione e per l’ingegno non comune del filosofo pagano, il quale meritò che nel Trionfo d’Amore di esso poetasse il Petrarca:

 
Porfirio, che d’acuti sillogismi
Empiè la dialettica faretra.
 

LEZIONE VENTESIMOTTAVA

La storia delle predizioni degli Esseni ci ha occupato nella passata lezione, qual corollario della loro antropologia, qual parte della loro dogmatica. Ma di queste predizioni noi non abbiamo fatto che la storia reale esteriore, particolare, di alcuni singoli fatti. Ci manca saperne la teoria, la forma con cui procedevano gli individui che se ne occupavano a preferenza. La forma prediletta, peculiare agli Esseni, era l’interpretazione dei sogni. E chi ne ammonisce è Flavio Giuseppe nel 17º delle Antichità, cap. 15, dove narra di Archelao che esposto il suo sogno ad un’Essena, ne ode la predizione della sua futura caduta la quale avvenne veramente com’era stata dall’Essena vaticinata, sendo stato all’epoca prefissa relegato da Cesare in Vienna città delle Gallie. E non solo gli altrui sogni toglievano a subbietto delle loro predizioni, ma di una spezie di rivelazione fornivano altresì nei loro sogni medesimi. – Alla quale e’ pare che si preparassero con le diurne meditazioni, se prestiam fede a certe parole che sul proposito ne trasmise Giuseppe. Pensano, egli dice, a Dio del continuo, attalchè nei loro sogni altro nella fantasia non sorge loro che le bellezze e le eccellenze delle perfezioni divine, e bene spesso dormendo fanno discorsi mirabili di questa divina filosofia. Queste sono testualissime parole di Giuseppe. E benchè siamo nella regione dei sogni, si tratta di cose seriissime più che non credesi, e da fare molto a lungo vegliare. Noi non solleveremo le gran questioni psicologiche, religiose e fisiologiche altresì, che emergono naturalissime da quel curioso fenomeno che si chiama il sogno. Il volgo che crede ovvio, semplicissimo tuttochè non comprende, crede il sogno uno stato, una condizione fisico-morale, spiegabilissimi. Ma per i dotti! I dotti sieno essi filosofi, moralisti, medici, fisiologi, non hanno creduto il fatto così semplice come il volgo s’immagina. I loro libri, le congetture, i dispareri, e specialmente la grandissima questione si può dire odierna del sonno magnetico e quella più antica dei sonnambuli, fanno fede come qualche cosa vi sia là entro che resta tuttavia indecifrato. Ma queste cose basti accennare, e come da lontano additare, senza più oltre soffermarvici che l’argomento non comporta. Piuttosto diremo dei sistemi delle scuole, che credettero i sogni capaci, suscettibili d’interpretazione, fra le quali quella figura per prima che fu tanto meritamente da Giuseppe equiparata all’istituto degli Esseni, la scuola dei Pitagorici. E chi ce lo insegna è tale che già altre volte abbiamo veduto anche troppo circospetto nella scelta e nella critica delle memorie antiche, è il Ritter nella Storia della filosofia. I Pitagorici dunque anche per questo verso porgono la mano ai nostri Esseni, e nuovo punto ci offrono di contatto col grand’Istituto nella interpretazione dei sogni. E se io dovessi di tutto discorrere di quei tempj, di quegli oracoli, che in Grecia tutta, e fuora eziandio, girono famosi per sogni, che colà si procuravano, s’interpretavano, io farei opera interminabile benchè grandemente curiosa e istruttiva. Piuttosto è da vedersi il Clavier nella Memoria letta all’Accademia di Francia sugli oracoli antichi; e se non fosse troppa temerità per me l’esprimere un voto il quale è forse a quest’ora adempito, io vorrei che qualche scienziato, appo il quale non sono in conto di fole le prodigiose indicazioni di alcuni malati sottoposti al sonno magnetico, studiasse i rapporti di questi sogni, di queste cure istintive, e quasi direi autoterapie, colle famose cure di Epidauro, ove i malati dopo diuturne preparazioni ricevevano la notte in sogno i presagi e le indicazioni dell’esito finale dei loro morbi. Ma gli Esseni non hanno solamente l’antichità a complice del loro sistema di predizione. I tempi moderni ci somministrano esempj grandi, cospicui, vuoi di uomini gravi che non del tutto rifiutarono le indicazioni dei sogni, vuoi di fatti storici straordinarj che molto dànno da pensare sulla natura e sul valore dei sogni. Fra i primi non citerò Menasce ben Israel che un capitolo dottissimo consacrava dell’opera sua alla materia dei sogni, e solo nol citerò perchè sendo egli alla perfine Teologo e Rabbino, meglio alle sacre autorità appartiene che alle profane, delle quali soltanto per adesso ci occupiamo. Nemmeno citerò Galeno che narra di un uomo, al quale parevagli in sogno avere una coscia di pietra e che divenne dopo pochi dì paralitico. – Nemmeno dirò di Plinio il quale riferisce di Cornelio Rufo, a cui avvenne di credere in sogno d’aver la vista perduta, e che si destò cieco per amaurosi; nemmen parlerò di Corrado Gemed, che sogna d’essere morso in seno da un serpente, e che gli nasce in fatti sotto l’ascella un bubbone pestilenziale che lo rapisce in cinque giorni di vita; e di questi ed altri simili tacerò, perchè sanno sempre alcun poco d’antico e perciò stesso per i più sanno ancora di incredibile, di stravagante. Ma quanto più singolare a vedersi non è l’ossequio di alcuni dei più illustri moderni! Fra i quali riluce per splendore d’animo e di mente Beniamino Franklin di cui così parla il materialista Cabanis. «Io conobbi, egli dice, un uomo savissimo e istruitissimo, l’illustre Beniamino Franklin, che credeva essere stato più volte ammonito in sogno degli affari che l’occupavano. La sua testa forte e d’altronde libera di pregiudizj, non aveva potuto premunirsi da ogni idea superstiziosa quanto a questi interni avvertimenti.» Così sentenzia Cabanis. E pur, vedete curiosissimo scherzo di fortuna, o piuttosto grave monitorio di provvidenza! Era riserbato al corifeo del materialismo moderno, a Voltaire, all’uomo che involse ogni cosa in un riso universale, il porgere, e porgere, lo che più monta, nella sua stessa persona luminoso attestato della efficacia o almeno della tuttor enigmatica natura dei sogni. Tutti sanno come opera sua sia la Enriade; ma non tutti sanno un curioso episodio nella genesi di quel Poema. Vi è un capitolo che è opera sì di Voltaire, ma non già di Voltaire desto, ma di Voltaire dormiente. Anzi di Voltaire che sogna, e nel sogno prosegue l’opera incominciata nel giorno, e destato si trova più ricco di un capitolo nella tessitura di quel Poema. Non si legge che Voltaire abbia preso da indi innanzi a rider meno dei sogni; la sua filosofia non era ancora passata allo stato di pregiudizio, perch’egli come degli altrui pregiudizj se ne facesse irrisore: ma si legge bensì di un altro, di un vivente, che io non metto certo a paro di Voltaire, perchè troppo lo amo e rispetto, ma che pure non ci offre a veder bene meno sensibile anomalia. E quando dico anomalia per Luzzatto il prestar fede ai sogni, non è certo per quei sogni storici straordinarj, profetici in cui Dio parla all’uomo che sogna, come parlar può e parla difatti all’uomo ch’è desto; ognuno che creda alla rivelazione, che creda alla Bibbia, non può senza incoerenza, senza empietà, discredere a questa specie di sogni; ma dico dei sogni in generale, di quelli che tutti possiam conseguire, della natura loro semiprofetica, del valore loro proprio naturalissimo, e non solo qual mezzo, qual veicolo d’ispirazione. Le quali cose, se non ammesse, quasi consentite dal nostro Luzzatto provano due cose ad un tempo, che le idee Cabbalistiche quando non entrano in certi spiriti per la gran porta, vi entrano per certi calli obliqui ed oscuri pertugi, e quasi non dissi di contrabbando.

 

Che se dalle autorità e dagli esempi scientifici trapassiamo agli esempi, ai precedenti, ed alle autorità bibliche talmudiche cabbalistiche, vedremo come sempre gli Esseni radicarsi nella più venerata e autorevole antichità ebraica. Io stimo soverchia opera citare gli esempi e le autorità della Bibbia, tanto mi sembrano ovvii e conosciuti. Il sogno non solo lo vediamo figurare in fatto quale suprema manifestazione dei divini voleri, e presagi dell’avvenire in Giacobbe, in Giuseppe, in Faraone, ma egli è altresì, qual grado infimo sì, ma pur legittimo annoverato di profezia, ogni qual volta della gerarchia si favella dei veggenti, e della profetica gradazione; testimone il verso ove Dio parlando ad Aronne e Miriam, chiama a fruire delle sue ispirazioni chiunque per visione o per sogno si sentisse capace di aspirarvi; testimone Saulle, che consultò invano il Signore, dice la Bibbia, per tutte le vie per le quali è consultabile, per la via dei sogni, della profezia e dell’oracolo degli Urim, testimone Giobbe ove qual mezzo di cui Dio si vale per svelare agli uomini le sue intenzioni, parla dei sogni e delle visioni notturne, e di questi tratti chi volesse nella Bibbia raccôrre, ne troverebbe più ch’io non dica espliciti e numerosi. E il Talmud in questo come in altre cose procede alla Bibbia conforme. Non solo il carattere semiprofetico del sogno vi è confessato halom ehad miscisceni bannebuà; non solo il rimanere per sette giorni senza sognare vi è chiarito qual indizio di anima non buona; non solo un lungo novero vi è tessuto delle cose che indicano in sogno lieto o sinistro presagio; non solo i sogni vi si dicono subordinati alla loro interpretazione, massima incomprensibile se non si intende alla luce della pratica essenica che i sogni considerava qual esteriore incentivo, alla mente ispirata dello interprete, non solo si narra de’ Cesari che ai Dottori ricorrevano per la interpretazione dei sogni; non solo mirabilmente conferma il deposto rabbinico una satira di Giovenale, la VI se non erro, ove racconta degli sciocchi Romani che la interpretazione dei sogni chiedevano agli Ebrei colà dimoranti; non solo tutto questo, ma quello speciale carattere eziandio da Giuseppe attribuito alle esseniche visioni quali ispiratrici di discorsi e ragionamenti filosofici, dottrinali, rifulge non meno nei sogni dei Farisei. Nei quali non è raro il vedervi Dottori ammoniti a ritrattarsi di una interpretazione, a più esatta formarsi l’idea di una impurità, a meglio comprendere la pratica di un rito; e ciò che più fedelmente riproduce la fisonomia dei sogni profetici dell’essenato, è quello che vediamo tra i cabbalisti e tra quei Dottori eziandio che senza fare del misticismo precipuo scopo dei loro studj, ne ammettono almeno la veracità e i titoli. Singolar cosa ma pur verissima, oltre gli esempi non oscuri, non scarsi che ne porge lo Zoar, di sogni istruttivi, dottrinali, rivelatori, quali appunto furon quelli dei nostri Esseni, ella è una pratica tra i cabbalisti e tra i loro aderenti, che meglio a capello non potrebbe ritrarre la pratica degli Esseni. – Se qualche urgente bisogno li spinge a consultare l’avvenire; non basta, se qualche dubbio in capo gli tenzona intorno ad un subbietto vuoi dogmatico, vuoi rituale, o in qualche siasi maniera religioso, ella è una via autorizzata, accreditata in cui si mettono speranzosi, anzi fiduciosissimi nella bontà del responso, ed è quella che dicesi sceelat halom. – Nel riposo dei loro sensi, nella concentrazione delle forze loro psichiche, spirituali, eglino credono l’anima capace di comprendere cose che nello stato di veglia saria tornato loro duro a comprendere. E ciò che non è meno singolare a notarsi egli è, come questa specie di responsi siano stati disposti in iscritti e per le stampe eziandio pubblicati, siccome fa fede, per non dire di altro, la edizione non ha guari mandata fuori in Conisberga di un’antichissima compilazione di tai consulti, e di cui informava il mondo israelitico, nel prezioso suo giornale bibliografico Mazchir, il mio dotto amico Marco Steischneider di Berlino.

Ma noi abbiamo detto, se non erro, abbastanza della forma particolare che assumevano a preferenza le predizioni dei nostri Esseni, la forma di sogni profetici: dobbiamo dire ora chi erano coloro che nell’Essenato più credeansi capaci di tale straordinaria irradiazione profetica. Giuseppe, il grande storico dell’Essenato, quì pure soccorre all’uopo opportuno, e naturali e più consultati interpreti dell’avvenire ci addita quei fanciulli che sino, egli dice, dalla loro tenera età venivano alla profezia educati collo studiare dei sacri libri dell’Essenato. – Voi l’udiste, sono i fanciulli al dire di Giuseppe che rendono i responsi sulle cose avvenire in seno agli Esseni, o per dir meglio ei sono i profeti tra gli Esseni, che sino dalla loro fanciullezza si vanno al grande officio educando di profetare. Se vaghi voi foste di pellegrina erudizione, se vi piacesse nella esposizione nostra soprassedere, onde a popoli e a religioni antichissime chiedere esempi e fatti, analoghi a quello che vediamo tra i nostri Esseni, ci converrebbe fare in questo punto lunghissima sosta, e tutte citare le istorie che i fanciulli ci narrano, consultatissimi nel mondo pagano, e ciò che sarebbe più curioso ad udirsi, in seno eziandio del Cristianesimo. Se v’ha scrittura che abbia tolto a insegnare exprofesso i vari modi di consultare lo avvenire, egli è il Clavier che ebbi luogo di citarvi altravolta. Se le sue pagine svolgerete, troverete copia più ch’io non dico di fatti, di esempi, in cui erano i fanciulli quai veridici oracoli, stimati e consultati eziandio delle cose avvenire. E specialmente tra gli Egizi ed i Greci. – Ma ciò che più davvicino s’attiene ai nostri Esseni, egli è la storia dell’ebraismo. La quale nelle due sue grandissime epoche, Biblica e Rabbinica, non scarsi, non oscuri ci offre esempi congeneri a quelli che udiste nell’Essenato. Che i profeti sin da fanciulli si arrolassero nella sacra milizia, che prendessero sino dalla più tenera età ad esercitarsi nel sacro aringo di profezia, ella è cosa che emerge dai sacri libri per poco che si consultino. Basta pensare ai Bene annebiim, che a suono di musica sacra, concitatrice, magistrale schiudevano il petto ai grandi pensieri, ai grandi affetti, scala e prodromo di profezia; basta pensare a Samuello, votato dalla madre sua appena trienne al servigio e al culto di Dio, che ignorando ancora che ci fosse al mondo profezia, ispirazione, ebbe in quella scena di una sublimità ed amabilità senza pari, il primo assaggio di quella profetica elevazione che dovea collocarlo a fianco di Mosè ed Aronne; pensare a Giosuè, che tuttavia fanciullo, siccome io interpreto, già ministrava nel divin culto; pensare a Giuseppe che ebbe sogni e visioni profetiche, mentre inconsapevole del loro senso, andava ingenuamente riferendoli a chi lo astiava; pensare ai Nazirei che si reclutavano principalmente tra i giovanetti, e che non alieni procedevano, siccome vedemmo altra volta, dal profetico officio, e soprattutto pensare a un verso di Joele, ove presagendo i doni profetici restituiti in Israel, augura i figli nostri e le figlie e gli impuberi stessi, ai gradi eccelsi, sublimati di profezia.