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Storia degli Esseni

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LEZIONE VENTESIMAQUINTA

Escluse, spiegate le credenze ingiustamente attribuite agli Esseni, trovata l’origine degli errori che gli si apposero, noi dobbiamo procedere all’esame delle loro dottrine, di quelle intorno a cui niun dubbio sorse a impedirci l’ammissione. – Noi cominceremo da quella parte che riguarda l’uomo, la sua natura, il suo destino, i dogmi tutti che si attengono all’uomo, ai suoi rapporti con Dio e col Mondo; da quella parte insomma delle scienze filosofiche che si chiama Antropologia. La quale formò sempre parte di tutte le religioni, quando si studiarono sopratutto di conciliare la libertà dell’uomo e la potenza di Dio, l’arbitrio e la grazia, l’azione di Dio e la responsabilità dell’uomo. – Il quale problema essendo stato subbietto di una triplice soluzione, così dà origine a tre scuole, a tre sistemi, a tre modi di concepire i rapporti morali, etici di Dio coll’uomo. Fu per gli uni la libertà immolata all’azione di Dio; fu dagli altri ogni influenza negata al divino volere; fu pei terzi l’azione di Dio e quella dell’uomo in guisa contemperate che la responsabilità intera rimanesse all’uomo, senza ledere la universalità e pienezza dell’azione divina. Ora queste tre soluzioni che si verificano in ogni età, in ogni religione, che ebbero rappresentanti in seno al Cristianesimo, nei cattolici, nei giansenisti e calvinisti, e nei pelagiani, si verificò, dice Giuseppe, nel giro delle credenze ebraiche, e furono dalle tre scuole rappresentate che più illustri sorsero nell’Ebraismo. – Proclamava il Farisato destino ed arbitriograzia e libertà. Volere di Dio e volere dell’uomo, quali forze insieme cooperanti all’atto dell’uomo. Pretesero i Sadducei, autonomo assoluto il libero arbitrio. – Vollero per ultimo gli Esseni, aggiunge Filone, che ogni atto dovesse referirsi al destino. – Qui vediamo cosa che sembra a prima vista osteggiare il nostro sistema d’identità essenico-cabbalistica. Vediamo gli Esseni procedere distinti dai Farisei: non basta, li vediamo discordi in una delle quistioni più capitali che siensi divise le coscienze negli antichi e odierni tempi, e se dovessimo stare alla scorza delle espressioni flaviane, ne dovremo concludere non solo la distinzione delle due scuole, ma la loro ostilità eziandio. Ma quanto ingiustamente! Egli è certo che bene s’appone Giuseppe quando i Farisei disse conciliatori e partigiani della grazia e dell’arbitrio. Basta volgere uno sguardo alle pagine talmudiche per vedervi alternativamente costatata l’azione reciproca combinata dell’arbitrio e del volere di Dio nelle azioni dell’uomo, e che parrebbemi opera soverchia in questo lungo rammemorare. Ma non meno, a veder bene, s’appone Giuseppe quando gli Esseni dice, tutte le umane azioni riferire al destino. – Ma qual destino? Io non so che cosa abbia inteso così dicendo Giuseppe. – Forse concepì il destino degli Esseni, nel senso volgare, dello stoicismo contemporaneo e del paganesimo, forse a significare cosa ben diversa di una cieca fatalità, si valse di un vocabolo che forse il più acconcio, benchè inadeguato, suonava allora a significare l’essenico concetto. Checchè ne sia, la formula essenica non potrebbe meglio consuonare colle dottrine dei Cabbalisti, i quali soli proclamarono in seno dell’Ebraismo un principio che vano sarebbe cercare nel Talmud, cercare nei Medrascim, ed in qualunque altro libro estraneo alla scienza dei Mistici; forse perchè solo armonizzando colle rimanenti loro dottrine può deporre quel senso immorale e fatalistico che altrimenti avrebbe immancabilmente. Quando il Zoar, referendosi a libri e dottrine ad esso anteriori, insegnava: Tutto dipendere dal Mazal – fosse ancora la Legge di Dio deposta nell’Arca– annunciava quel principio che meglio consuona col dogma essenico asserito da Flavio, e tanto più intimi ne svela i rapporti quanto più speciale e peculiarissimo ai Cabbalisti appartiene.

Se questo ne fosse il luogo, non malagevole tornerebbe il mostrare quanto il Cabbalistico Mazal si dilunghi da quello che comunemente s’appella Destino. E forse non andrebbe errato chi volesse trovare nell’antico Fato dei Greci alcun che di consimile al Mazal cabbalistico, non essendo, a quel che pare dalle antiche teogonie, destituito il greco di ogni intelligenza e volontà, e solo in tanto distinguendosi dalla folla degli Dei, che a differenza di essi siedeva il Fato in regioni ove le passioni e le lotte umane non giungevano a disturbarne gli impassibili e sovrani decreti. Quello ch’è certo si è, che il senso, la etimologia della parola Mazal bene dà a divedere a chi la intende quanto intimamente si connetta colla Dottrina dell’Emanazioni, null’altro a mirar bene significando che influsso, emanazione, o come dire vogliamo discorrimento.

Ma noi dobbiamo procedere oltre nell’esame degli essenici dogmi, e poichè dell’anima umana abbiamo preso in prima a discorrere, dopo avere stabilito quei rapporti che a Dio la congiungono, al dire degli Esseni, mestieri è pure che di quei rapporti pur noi si favelli che, secondo gli Esseni, al suo corpo istesso la congiungevano. E intorno a questo, Giuseppe e Filone son categorici. Per essi, o per dir meglio per gli Esseni di cui ci riferiscono le credenze, se l’anima al corpo si unisce egli è a suo malgrado, egli è, dicono essi, per una certa invariabile attrattiva che la spinge a subire tutte le vicende della vita terrena insieme al corpo. Ora chi potrebbe negarlo? Chi potrebbe dire che non siano queste le idee, e i più ovvj insegnamenti dei Farisei? Non solo la Misnà, e la più popolare della intera compilazione, ne intima la verità del principio al corhah attà nozar, ma i Rabbini posteriori prendendo a svilupparne i dettati, siccome è loro stile, e drammatizzando la troppo austera semplicità del placito minico, dicono di un Angiolo che invita le anime a rinserrarsi nel femminil chiostro, nell’atto della concezione; dicono delle repulse, delle resistenze che l’anima gli oppone, siccome quella ch’è rifuggente dalle turpezze e infermità della carne; e dicono infine che agli inviti ed alle esortazioni succede la forza, un vero compelle intrare, ma intimato questa volta dal Dator della vita. E qui sarebbe il luogo, dopo le mostrate analogie col farisato, di far scendere in campo Platone e la sua scuola, da cui appunto s’intitola principalmente la discorsa teoria della unione forzata col corpo; e tra i Dottori e gli Esseni da una parte e Platone dall’altra, quei rapporti additarne che corrono forse speciosi e parventi meglio che profondi e reali. Ma di rammentare Platone un dotto rabbino olandese mi dispensa, l’antico Menascè ben Israel. Il quale nella dotta e pia sua opera, Nismat Haïm, non mancò di notare, versato qual egli era nelle filosofiche discipline, come la Misnà, come il Medrass, quello stesso insegnavano che aveva insegnato Platone quando dicevano che gli spiriti scendevano riluttanti a rinserrarsi nel corpo. Il Menascè ben Israel avrebbe potuto aggiungere anche i Pitagorici, i quali, come avvertiva il Ritter nel primo volume della Storia della filosofia, precorsero a Platone in questo modo di concepire l’unione dell’anima col corpo. Se non che, come io dissi non ha guari, l’analogia tra Platone e gli Esseni e i Farisei è più apparente che reale; e se questo fosse il luogo di rilevare la distinzione profonda che divide le due Teorie, tanto più volentieri lo farei quanto più la Teoria platonica ci offre della vita terrena un concetto punitivo e sinistro, che non entrò giammai nei pensamenti dei Farisei e tanto meno dei Cabbalisti. Ma di queste cose ci basti qui lambire soltanto la superficie, dovendoci pel compito nostro interdire ogni benchè seducente digressione che troppo lungi ci meni dal subbietto in discorso.

Che se questi sono dell’anima i rapporti con Dio e quelli col corpo, in qual guisa ne compresero gli Esseni la natura e l’essenza? Distinsero, se bene m’appongo, la sua parte materiale da quella che dissero il Noo, ovvero intelletto. E la parte materiale dissero essere il sangue. – A queste parole chi non ricorda Mosè? Aveva pur egli stabilito, in termini che più non si potriano formali, l’anima essere il sangue. E non solo Mosè, che della immaterialità delle anime umane o si tace, o di oscuri accenni si accontenta; ma i Rabbini pur essi, che questa immaterialità riconobbero, dissero come Mosè l’anima, l’anima del corpo, il principio vitale, il pneuma, come oggi si direbbe, essere nel sangue; prova se altra fu mai concludente come a torto si vorrebbe intendere l’espressione mosaica com’escludente la immaterialità delle anime, dappoichè i Rabbini che a questa formalmente ossequiarono, non si astennero dall’usare la stessa espressione che Mosè aveva usato prima di loro. E non solo la riproduzione della frase mosaica n’esclude la interpretazione materialistica, ma quel senso ce ne offre più adeguato che i Dottori intesero nell’adoprarlo. Il quale si connette colla triplice divisione che fecero dell’anima i Dottori, i Cabbalisti; distinguendone tre gradi o tre parti, la prima che dissero vegetativa, l’altra sensitiva, la terza intellettiva. E la prima forse è quella che dissero parte materiale, e posero il suo seggio nel sangue. Ma non solo sentenziarono del principio di vita e del suo seggio, ma di questo seggio istesso, ma del sangue ancora dierono la teoria fisiologica. Il sangue pegli Esseni era composto di due elementi, di aria e di fuoco. Il quale principio non solo meglio si comprende al paragone dei sistemi medici agli Esseni contemporanei, ma se io troppo non oso, un senso tuttavia potrebbe avere anco nei sistemi dei giorni nostri. La storia della antica medicina, specialmente quella dottissima di Giusto Hecker professore berlinese, ricorda sistemi pressochè agli Esseni contemporanei, che ammettevano nelle arterie circolante una specie di pneuma o spirito vitale, rispondendo con singolar disinvoltura a coloro che obbiettavano l’esperienza la quale mostra l’arteria ferita mandare sangue. Chi volesse poi in linguaggio moderno tradurre l’essenica dottrina, la combinazione di aria e di fuoco, potrebbe pensare alla combustione ed all’ematosi, ambidue effetto della respirazione, la prima palesantesi nella emissione del carbonio, la seconda consistente nella ossigenazione, ch’è quanto dire nell’introduzione dell’ossigeno nella massa sanguigna.

 

Ma gli Esseni, noi lo abbiamo veduto, riponevano in un principio diverso la causa, l’origine del pensiero. Questo principio immateriale è chiamato da Filone il Noo e talvolta Pneuma o spirito divino, ed in mancanza di ragguagli più diretti della essenica nomenclatura dobbiamo contentarci delle indicazioni di Filone, che può avere, come dicemmo altravolta, rivestito di forme greche l’ebraico pensiero, ma che lo mantenne, così è lecito credere, immune di sensibile alterazione. Però non è sì che questa fedeltà filoniana qualche volta non si smentisca, e che obbedendo forse alla necessità in cui era di far comprendere ed accettare dal mondo pagano le dottrine dell’ebraismo, non si valga talvolta di espressioni un po’ equivoche, testimone quando parla della natura dell’anima, quando dice le anime umane della stessa natura essere degli angioli; anzi quando null’altra differenza addita tra le une e gli altri, se non la discesa ed il soggiorno nel mondo dei corpi. – Per Filone può l’anima discendere ed abitare nei corpi una sol volta, può altre fiate ripetutamente vestire la forma carnale, può infine restare in eterno immune da ogni coabitazione e commercio coi corpi. – E in quest’ultimo caso, dice Filone, ei sono gli angioli, anzi e’ sono i genii di cui parlano i filosofi. – Se Filone intese parlare con filosofico rigore, egli ha torto nel senso dell’ebraismo. Il quale tanto profondamente distinse la natura dell’angelo da quella dell’uomo, che niuna più famosa disputazione narrano gli annali dell’ebraismo di quella che a proposito s’impegnava della preminenza dell’una e dell’altra. Nella quale i nomi più famigerati figurano non solo del Talmud e dei Medrascim, ma dei più celebri posteriori Dottori eziandio, quali furono, a mo’ d’esempio, Rabbenu Saadia, Abenesra, ed una schiera illustre di dottori cabbalisti. Ma quanto ad un tempo fedele e felice interprete ai Pagani non si mostra Filone delle antiche dottrine degli avi suoi, quando parla del soggiorno delle anime! – Udito avevano i Pagani i lor filosofi insegnare, avere le anime dei trapassati per abituale loro soggiorno l’atmosfera, o come allor si diceva l’aria intermedia; e basta leggere il Ritter e i cenni ivi contenuti sulle scuole antisocratiche, per vedere quanto comune fosse tra gli antichi questo pensiero sulla sede degli spiriti. Or bene che credete che faccia Filone? Egli traduce nel linguaggio del paganesimo ciò che aveva letto nella Bibbia, non già delle anime de’ giusti ma di quelle dei riprovati, ciò che disse Abigaille accennando alle sorti eterne dei nemici di David, i quali dic’ella: Andranno balestrati in qua e in là, come pietra nella balestra, ciò che gli era giunto da Palestina qual eco della mitologia rabbinica, che ripone nell’aria intermedia gli spiriti che vi nuotano, dice il Talmud, in numero infinito; e per toccare di alcun che di più serio, ciò che aveva imparato nelle dottrine essenico-cabbalistiche, avere le anime residenza nella sefirà che si chiama Jesod, e che per colmo di maraviglia, reca in quelle dottrine il nome di Rakia, di atmosfera, alla quale, dicono essi, alluse Mosè quando parlò degli uccelli che volano per l’aria pei quali intesero le anime che hanno sede e radice nell’atmosfera divina cioè nel Jesod, come Dante chiamò l’angelo, nella Commedia, divino uccello. E siccome tutte queste cose aveva udito e imparato Filone, così quando scrivendo per i Pagani volle dire del seggio delle anime, dir volle in guisa che la terminologia convenzionale restasse intatta, che udito avea dai maestri di religione, in guisa che rispondesse alle idee che d’abantico avevano i Pagani addottato forse per un’equivocata interpretazione dell’antica simbologia patriarcale, e disse, come udito avete poco anzi, aver le anime seggio nell’atmosfera. Ma se i dotti intendevano per rakia, atmosfera, tutt’altro che l’aria che ne circonda, se intendevano la matrice, il repositorio delle anime umane, anzi l’anima universale, il Paramatma degli Indiani, la Psiche di Platone, non è sì che il popolo non intendesse della vera e propria aria che ne circonda, non è sì che gli stessi cabbalisti segnatamente l’Aari non dicesse di vedere le ascensioni e le discese degli spiriti umani nell’aere circostante, non è in somma che Filone non fosse interprete fedele, ancorchè alla lettera interpretato, delle credenze almeno popolari degli avi nostri. – Però eran tra i due popoli, tralle due mitologie una differenza essenziale. Pei Pagani era l’aere seggio delle anime indistintamente, fossero esse buone o ree uscite da questa vita. Pei nostri, per l’Aari, per i cabbalisti, egli è seggio soltanto di quegli spiriti che la sorte balestra errabondi e incerti negli spazzi infiniti, indegni del cielo per che non l’han meritato, indegni ancora dell’inferno e de’ demonj che vi soggiornano per che troppa onoranza avrian d’elli. Io vorrei che tutto comprendeste il poetico magistero dei teologi nostri ed insieme la profondità filosofica che vi si acchiude: prova, se pur altra ne occorresse, che la poesia non è che una filosofia potenziale e implicata, come la vera filosofia non è che poesia esplicita ed attuale, ed altra differenza non correndo tra esse se non quella che corre fra il pensiero intuitivo e il pensiero riflesso. – Chi non vedesse di questi pensieri e teorie cabbalistiche che la corteccia, chi non risalisse ai principj che dominano tutta la scienza, altro non si vedrebbe che vaghe sì e piacevoli finzioni in cui il cielo, l’aria e l’inferno sono designati qual triplice seggio delle anime beate, sospese, e di quelle penanti: ma per poco che si risalga ai principj, qual metamorfosi! Fra i quali, principio capitalissimo per l’ordine morale cosmologico, provvidenziale, egli è quello che ogni cosa terrena dice copia, ombra, riflesso di una idea che vive eterna e sta nella mente divina, principio che ammette anteriore e superiore a questo mondo dei corpi, in Dio, cioè nell’assoluto, nell’infinito, un mondo ideale che è la parola interna di Dio, il Logos endiatetos di Filone, il piano architettonico, il prototipo celeste, il disegno infinito anzi la verace realità, l’essere verace di cui le esistenze corporee non sono che ombre che si proiettano dalla mente di Dio, che figure che passano come le ombre degli astri che si proiettano nell’ecclisse come le vesti di cui parla il Salmista, che i rami estremi del grand’albero della creazione il quale ha le sue radici nell’intelletto divino nell’eterno esemplare, vero Olam abbà, vero paradiso, vera beatitudine. Ora, se rispetto al nostro pianeta, tre si distinguono principalissime regioni; se vi ha la regione celeste dimora degli astri; se vi ha l’aria intermedia, l’atmosfera che tramezza tra il cielo e la terra; se vi ha, come è provato in Geologia, un fuoco centrale, un centro incandescente che è il centro terreno perpetuamente in fusione, e se, ricordatelo bene, il mondo fisico è esemplato sul modello divino; se tutto ciò ch’esiste quaggiù ed ogni forma e relazione delle esistenze tra loro, ed ogni stato terreno risponde a uno stato celestiale supremo che lo ha generato, come l’originale crea la copia; se è vero che non è che il pensiero di Dio estrinsecato, come il pensiero di Dio non è che la creazione stessa mentalizzata; se è vero che la internità del Cosmo è l’idea di Dio, come la esternità dell’idea è il Cosmo, è la creazione; chi non vede la efficacia, la verità del simbolo, quando tolsero a significare lo stato dei Beati, il cielo o la regione suprema, lo stato dei sospesi, l’aria intermedia, e quello dei riprovati l’inferno, o come suona il vocabolo stesso, le regioni infere ultime, fisicamente incandescenti, del nostro pianeta? Egli è questo uno dei simboli che dovrebbe piuttosto, secondo Gioberti, nomarsi Tecmirio, dappoichè fra il simbolo e la cosa simboleggiata non corre solo una relazione e similitudine arbitraria e puramente fantastica, ma una relazione intima, logica, soprasensibile, appunto come la relazione ch’esiste fra l’originale e il ritratto.

Noi abbiamo gran parte esaurito di ciò che concerne la psicologia degli Esseni, le credenze intorno l’anima umana, i suoi rapporti con Dio, quelli che ha col corpo che veste quaggiù, la sua essenza, la divisione delle sue forze, e infine il suo soggiorno. Io vorrei potere porre compimento a questa parte della Dogmatica degli Esseni, se non che l’ora breve mi fa protrarre ad altro giorno lo studio di altri due punti non meno interessanti, la metempsicosi e la resurrezione, secondo gli Esseni. I nuovi studj non faranno che confermare l’antico nostro sistema d’identità essenico-cabbalistica. Noi udiremo, come abbiamo udito sinora, l’eco lontana delle dottrine cabbalistiche ripercuotersi a traverso dei secoli, e giungere sino a noi che eravamo sinora assuefatti al silenzio di quelle dottrine nei primi secoli dell’E. V. Quel sistema che pareva non esistere in quell’antichità, si mostrerà per organo degli Esseni non solo esistente, ma vivente e parlante, e tanto più andremo persuasi col Frank, con il Munk, col Ritter, coi dotti veramente nella questione imparziali, quanto antico sia quel sistema teologico nel nostro popolo.

LEZIONE VENTESIMASESTA

Prendendo noi a trattare della Dogmatica Essenica, e di questa avendo anzitratto discorso di quella parte che si attiene alla Psicologia ossia alle dottrine sull’anima, noi abbiamo, se ben vi ricorda, due punti riservati alla odierna trattazione, e sono la metempsicosi, vale a dire la trasmigrazione delle anime, e la risurrezione dei corpi, quali furono intese e credute dalla società degli Esseni. Io oso dire che se altro punto di contatto non fosse tra Cabbalisti ed Esseni che la credenza alla metempsicosi, se questo solo ci rimanesse documento dell’illustre sodalizio, egli sarebbe già un gran passo compiuto in questa via d’identità essenico-cabbalistica, in cui ci siamo impegnati. E pure nulla di più provato per ciò che riguarda gli Esseni. I quali ossequiarono, al dir di Filone, al dogma anzidetto quando discorrendo della sorte divina che incogliere può agli spiriti immortali, parte dissero, lasciare la vita terrena per mai più ritornarvi, parte iteratamente vestire queste carni mortali, secondo una legge providenziale diversamente dispone. Io farei opera interminabile se qui dovessi il solo novero ricordare dei popoli illustri antichi e moderni, di sistemi filosofici, di teorie eziandio socialistiche che al dogma inchinarono della metempsicosi, e comecchè opera non vana, ma utilissima e profonda sarebbe questa, ciononostante rimarrommene per brevità, sì perchè mestieri è pure che entro i limiti di una storica esposizione mi circoscriva, sì perchè è tale questo delicatissimo argomento, intorno a cui ogni ragione ne comanda riserva. Ma io non posso da due cenni astenermi che troppo degni mi sembrano invero di ricordanza. È il primo quella bella conferma che dalla descrizione di Filone emerge, pel concetto che degli Esseni offriva ai suoi lettori Flavio Giuseppe quando li diceva simili, affini ai Pitagorici. Giuseppe, che io mi sappia, non dice esplicito ciò che disse Filone; non assevera formalmente la metempsicosi presso gli Esseni, ma dice solo essere costoro i Pitagorici dell’ebraismo, come i Farisei ne dice gli Stoici, e come i Sadducei seguaci egli dice di Epicuro. Ma quanto è il suo dire eloquente! Poichè il nome solo dei Pitagorici fa fede, se io non erro, a bastanza della presenza della metempsicosi in seno agli Esseni, non essendo dogma a parer mio per cui siano andati più distinti e famosi i Pitagorici, di quello appunto della trasmigrazione delle anime. E se alcuno di ciò dubitasse, ogni dubbio svanirebbe, ne son certo, dopo la lettura del Ritter. Il quale è il solo, se io non sbaglio, fra gli storici della filosofia che più proceda meticoloso, e secondo me, spesso ingiusto per troppa esigenza nella critica dei testi, nella scelta dei fonti, quasi interamente esautorando di ogni critico valore gli scrittori tutti che per poco furono posteriori agli immediati successori di Socrate; i quali pure sono, come ognun sa, le più ricche e preziose miniere di storici ragguagli intorno le più antiche scuole eziandio antisocratiche, qual fu per esempio quella appunto italo-greca che si disse dei Pitagorici. E pure al Ritter non bastò l’animo negare l’esistenza del dogma della metempsicosi fra i Pitagorici; tanto sembrava a lui stesso caratteristico della scuola, e tanto altresì a fortiori sembrar doveva al nostro Giuseppe che questo special distintivo della scuola aveva, senza meno, presente quando diceva ai suoi lettori pagani essere i nostri Esseni, i nostri Cabbalisti i Pitagorici dell’ebraismo. L’altro punto che voglio toccare di volo, riguarda più davvicino il dogma in se stesso, ed a cose ed a uomini si riferisce a noi coetanei. Io non uscirò riguardo al dogma dalla riserva che mi sono imposto: ma chi potrebbe al tutto trattenere le parole quando il più imponente e vasto pensiero che capir possa nella mente dell’uomo si vede ad una critica soggiacere frivola, superficiale e buona appena per una finzione da romanzo? Ciò che non posso tacere è lo strano spettacolo che mi si offerse non ha guari nel Journal des Débats. In Parigi, nel secolo decimonono, nel grande trambusto e commovimento di religioni, di filosofia, di sistemi d’ogni maniera, si udì una voce che sorse a rivendicare l’antico dogma della metempsicosi, e questa voce fu del Martin, nell’opera che chiamava Cielo e Terra. Ma il Martin doveva subire pena condegna al grave fallo. Nella terza pagina del Débats ove si fanno le apoteosi e gli autodafè delle opere nuove, un filosofo, uno dei guerrieri riservati per le grandi occasioni, doveva fare del Martin e della opera sua adeguata vendetta. Io vorrei potervi qui proporre le obiezioni colle quali si pretese schiacciare l’opera del Martin, e giacchè le mille voci del giornalismo recarono dovunque l’eco ripetuto della disputa insorta, io non so chi ci tenga di mescere a quelle infinite voci anco la nostra. Ma io nol farò, solo per non protrarne all’infinito l’opera assunta. Questo solo dirò, che ciò che tornavami a vedere più doloroso si è il nome che sottostava a quel lavoro di critica filosofica. Io ebbi parecchie volte occasione di nominare il Franck, e con quale stima e venerazione per me si facesse, ditelo voi che ne foste le mille volte i testimoni. Io credo e crederò sempre l’opera del Frank sulla Kabbale ottimo servigio reso alla scienza e alle credenze ebraiche, e Dio volesse che l’illustre Luzzatto e consorti, anzichè occuparsi a denigrarla, mirassero a compirla, a perfezionarla. Ma se gli antichi dissero sed magis amica veritas, io non posso questa volta trovare nè bello nè serio l’officio dal signor Frank adempito. Non bello, perchè male s’addice allo storico e apologista dei Cabbalisti, al discendente degli Esseni, stendere l’atto d’accusa della metempsicosi; non serio, perocchè non è difficile trionfalmente replicare alle obiezioni ivi stesso suscitate dal Sig. Frank. Le quali, parte consistono nelle antiche e più comuni confutazioni del dogma, parte nuove ma tutt’altro che inoppugnabili. Ma questo ed altro simile abbiamo detto trapassare in silenzio, ed al proposito nostro ci atterremo. Solo piacemi ora toccare del secondo dogma in questione: è il dogma della Risurrezione. Per non avere trovato esplicitamente insegnata l’esistenza di questo dogma presso gli Esseni, alcuni moderni critici specialmente imbevuti del genio ipercritico dell’Allemagna lasciarono libero il freno al loro congetturare a priori, e dalle idee che formavansi gli Esseni dei rapporti primigeni dell’anima col corpo, crederono poter dedurre la negazione del dogma resurrezionale in seno agli Esseni. Vi ha in Parigi un giornale letterario che si è tolto l’assunto d’informare la Francia dotta, religiosa, letteraria dei grandi lavori che giornalmente s’imprendono, si compiono nella vicina Germania, che per ciò appunto si noma Rivista Germanica e che per ciò appunto dovrebbe ricercarsi e possedersi dovunque, che per mancanza di rapporti più immediati, non è concesso attingere direttamente alle vive e abbondanti fonti della scienza ed erudizione germanica. Or bene; nel nono numero di quest’anno istesso 1858, trovai inserito un articolo di sommo interesse per le nostre ricerche, e che all’autore Michel Nicolas, professore di Teologia in Montauban, piacque d’intitolare Gli antecedenti del Cristianesimo. In un articolo che si chiama degli antecedenti del Cristianesimo, il nome degli Esseni non poteva non figurare in luogo eminentissimo, come difatto vi figura; e molte delle questioni da noi lambite, vi sono profondamente e maestrevolmente trattate. Ma sia vaghezza di fare meno che è possibile tributario il Cristianesimo della società degli Esseni; sia non avere compreso le strettissime affinità tra gli Esseni ed i Farisei; sia la mania di argomentare per vie insolite e non battute trasandando i raziocinii più ovvii e più alla mano, fatto sta che secondo Michel Nicolas gli Esseni non conobbero o negarono il dogma risurrezionale. E perchè così giudica il Nicolas? Perchè egli crede incompatibile il principio della unione forzata col corpo, col ritorno dell’anime a vivificare i corpi una volta abbandonati, perchè egli crede il distacco da tutte le cose corporee essere stato il perpetuo conato, e la perfezione ideale che l’Essenato si proponeva senza pensare che le tendenze anticorporee dell’anima a sè stessa lasciata, non montano nulla nè agli ordini universali della Provvidenza di Dio, la quale può volere la seconda e ultima volta come volle la prima, quell’unione che non si compiva nè compirassi che a malgrado dell’anima; senza pensare che il dogma risurrezionale implica per sè stesso la rigenerazione, e per dirla tecnicamente la Palingenesi dell’Universo, e quindi il ritorno alla purità primigenia di quella carne che non è, secondo l’Ebraismo, rea per sè stessa ma che tal divenne per un principio a lei esteriore; e quindi per ultimo corollario che l’antipatia o antagonismo fra lo spirito e la materia potrà e dovrà cessare allora, quando la primigenia armonia sarà ridonata, della quale furono preludii e quasi presentimenti Mosè sul monte e soprattutto Elia, Elia che s’incielò vestendo tuttavia carne mortale, per lo cui insigne privilegio io credo che presegga alla culla dell’uomo come angiolo della creazione, ed alla sua tomba come angiolo della resurrezione, quasi perpetuo iniziatore e ierofante della vita mortale, identico al greco Mercurio, all’Erme egiziano, al Sireo o Cane Celeste, guida e conduttore delle anime. E, mirabile a dirsi, i Cabbalisti dierono il cane per simbolo ad Elia e nel nome suo trovarono aritmeticamente il nome Cheleb, ambedue sommando egualmente cinquantadue, e prima di essi i Talmudisti muovendo evidentemente dagli stessi principj dissero le grida gioiose e gli scherzi dei cani annunziare Elia che entra in città. Ma io mi sento trascinare senz’addarmene punto, da digressioni certo nè inutili nè volgari, ma che troppo il libero corso arresterebbero dei nostri studj. Noi dicevamo come a torto negasse agli Esseni il Nicolas il dogma di risurrezione. E fortunatamente non siam soli a così opinare. Il Nicolas stesso s’incarica d’informarcelo. Telle n’est pas, egli dice, l’opinion de M. Hegenfield, qui dans un ouvrage récent (e che si chiama l’Apocalittica ebraica) attribue aux Esséniens la composition des Apocalypses Juives, ou du moins les range parmi les Juifs qui s’occupèrent le plus des idées apocalyptiques. Ora le apocalissi, le idee apocalittiche importando per lor natura il supposto di un ciclo apocalittico, di un cielo palingenesiaco, ossia di rigenerazione cosmica, universale, egli è chiaro come gli autori delle apocalissi non potevano disconoscere un dogma che tanto davvicino si attiene alle loro teorie, anzi che n’è parte inseparabile, che vediamo immancabilmente figurare in tutte le superstiti apocalissi, vuoi spurie o legittime, quali sono, a mo’ di esempio, il libro di Daniel e l’apocalissi o rivelazione di Giovanni. Ma contro l’opinione ricordata, e ch’è la nostra, potrebbe alcuno argomentare; potrebbe dirsi: Filone e Giuseppe sono i soli o almeno i principali storici dell’Essenato. Ora Giuseppe e Filone quando favellano degli Esseni non parlano della Risurrezione, non l’annoverano tra le loro credenze, non ne fanno parte del sistema lor teologico, con qual diritto attribuirgliele, e come la lacuna colmare di nostro arbitrio? Ma quanto labile quest’obiezione! Se io volessi, per sovrabbondanza di prova, far tesoro di argomenti, di repliche vittoriose, sareste voi piuttosto stanchi d’udire, che non io di favellare. Potrei citare l’autorità del medesimo Nicolas quando, in altro punto del suo lavoro mi porge egli stesso le armi onde al nulla ridurre la forza della sua negazione, quando misurando il grado di contezza che dell’illustre istituto possedevano Giuseppe e Filone, dice del primo: «Joseph, qui avait passé un an dans la société, n’avait pas franchi le premier degré de Noviciat, et ne connaissait pas par conséquent le fond de ses doctrines;» e del secondo aggiunge non men categorico: «et Filon, comme Neander le fait remarquer, les présente non tels qu’ils étaient en réalité, mais tels qu’il lui convenait qu’elles fussent pour que les Grecs éclairés vissent dans les Esséniens des modèles de sagesse pratique.» Il Nicolas dice assai, dice anche troppo secondo me, nè io accetterei in tutta la sua estensione il suo asserto se non colle più delicate restrizioni e riserve. Ma finalmente che valore dopo queste parole può avere il silenzio di Giuseppe, di Filone quando tacciono della Risurrezione, perchè veramente di silenzio si tratta anzichè di esplicita e formal negazione? E quante cause non possono avere questo silenzio cagionato, anche allora che gli Esseni avessero ossequiato, come hanno a parer mio veramente ossequiato, al principio di Risurrezione. Può esserci stata ignoranza in Giuseppe e Filone, come il Nicolas istesso ci autorizza a supporlo, comecchè poco invero io inclinerei ad ammetterla trattandosi specialmente di dogma popolare ed esoterico anzichè di insegnamento acroamatico. – Può essere stato studio, desio sincero di non urtare violentemente i pregiudizj pagani ai quali nulla più tornava assurdo e mostruoso ad udirsi che il risorgimento dei morti a vita eterna, testimone il riso, lo scandalo che suscitarono nel mondo pagano le prime predicazioni del Cristianesimo, quando annunziarono Cristo risorto dai morti, e primogenito, come gli Apostoli dissero, del Regno futuro, e se non temessi di riuscire troppo diffuso, non mi sarebbe difficile recare in mezzo prove ed esempj di silenzii discreti, di opportune varianti, di calcolate infedeltà, concesse, ammesse, usate in grazia appunto dell’opinion dominante di cui, per non dire di altri, fu cospicuo e manifesto esempio, ed è tuttavia, la traduzione dei Settanta. – Ma le cose anzidette, che molto han pur di probabile, del verosimile, debbono cedere il luogo al provato ed al vero, alla ragione che io credo solo storica, solo reale, che può essere stata coadiuvata sì dalle altre citate, ma che sarebbe egualmente vera, decisiva, perentoria, quando pure fosse sola. Ed è questa che Giuseppe principalmente ed anche Filone, quando parlano degli Esseni, quando dei Sadducei, Farisei ed altre sètte dell’Ebraismo, solo quelle cose ricordano che distinguono la setta in discorso, dal comune dell’Ebraismo, solo quella parte pongono in luce della sua fisonomia, che discorda dalle generali fattezze dell’Ebraismo; quello in somma che hanno di speciale, di esclusivo. E poi, chi volesse con un sol fatto spogliare di ogni valore il silenzio di Giuseppe e Filone, chi volesse sin dalle barbe sradicare la negata resurrezione degli Esseni, basterebbe citare i Farisei, ai quali non è nessuno che negar possa il dogma della risurrezione, tanto vanno colmi i loro libri di espliciti insegnamenti di questo dogma. E pure, guardate Giuseppe. Egli parla a lungo dei Farisei, come parla degli Esseni, dei Sadducei; ne narra i costumi, le credenze, le somiglianze colle scuole analoghe del Paganesimo, ma nè un sol cenno nè un sol motto avviene che dalla penna gli sfugge intorno il dogma in discorso. Per certo questo silenzio non è a caso, sia che tacere abbia voluto ai Pagani un dogma che destato avrebbe il riso e lo scherno dei loro filosofi, sia, come dissi poc’anzi, che di quelle cose soltanto abbia preso a favellare che eran subbietto di controversia, tacendo delle altre generalmente consentite; sia infine ambedue le ragioni anzidette, fatto è che il silenzio di Giuseppe nulla prova riguardo ai Farisei, e nulla egualmente conclude rapporto agli Esseni, i quali come tutti gli Ebrei, e forse più di tutti gli Ebrei, diedero, come fecero i Cabbalisti, luogo eminente al dogma resurrezionale. Che se a tutte le ragioni finora discorse aggiungete il silenzio del Talmud, che nel mentre narra le dispute dai Dottori sostenute contro i settarj d’ogni maniera in favore di questo dogma, non è mai che tra essi faccia menzione dei nostri Esseni; se aggiungete il dogma della metempsicosi che, per chi bene lo intende, suppone qual ultimo suo corollario la immanente ultima e definitiva unione delle due nature; se pensate a certi fatti e credenze generali dell’Ebraismo che gli Esseni non potevano ricusare sendo esse il fondo e il patrimonio comune dell’Ebraismo, e che menano difilati, per poco che vogliamo essere logici, al dogma in discorso; se pensate, a mo’ di esempio, ad Adamo, creato in principio immortale, a Henoh di cui si tace, anzi si nega fino a un certo segno la morte, ad Elia rapito in corpo ed anima, nella vita celeste, ai singoli fatti dalla Bibbia narrati, di uomini da morte a vita risuscitati, a Mosè che disse: Ani amit va-ahaié, ad Anna che cantò: Morid sceol vaiaal, che cala nel sepolcro e ne riscuote i caduti, a Isaia che poetò: Ihiù meteha ec. a Ezechiele che profetò: Inneni poteah et Kibrotehem, per non dire di Daniel, che una critica troppo ardita potrebbe dire sconosciuto o non ammesso dai nostri Esseni, e che è il profeta della risurrezione per eccellenza. Se pensate a tutti i fatti e alle credenze narrate, chiaro vedrete come troppo precipitosa sentenza abbia proferito il Nicolas, quando volle la Risurrezione ignota, negata dall’Essenato e come per esso e per chi opina con lui potrebbe dirsi con Petrarca: