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Storia degli Esseni

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LEZIONE DECIMASETTIMA

Il giuramento degli Esseni fu da noi nelle precedenti lezioni sottoposto ad esame, e trovato in ogni sua parte conforme alle idee, alle pratiche di que’ Farisei dai quali crediamo avere gli Esseni tratta l’origine. Pure una parte tuttavia restava a vedersi dell’essenico giuramento, che è quella per cui l’istituto Essenico sino adesso veduto quale sociale sodalizio si palesa dal suo lato scientifico religioso dottrinale; in cui l’insegnamento, il mistero era carattere precipuo solenne peculiarissimo; per cui spiegasi più luminosa quell’attenenza da noi certamente propugnata fra la scuola farisaica e la società degli Esseni. Giuravano gli Esseni di nulla nascondere ai fratelli dei misteri della setta, di nulla agli altri rivelare ove n’andasse eziandio della vita, e nei casi di legittimo insegnamento di non comunicare le dottrine sociali se non nella guisa in cui fur ricevute, e finalmente di conservare studiosamente i libri della setta e i nomi degli angioli. Gran parole son queste, vuoi per la intrinseca loro significazione, vuoi per i preziosissimi ravvicinamenti che ci offrono col sistema dei Farisei. Permettete che noi riandiamo gli articoli a parte a parte.

In primo luogo, l’obbligo di insegnamento di comunicazione ai fratelli delle dottrine sociali. Avvi nulla che meglio consuoni colle teorie dei Farisei? Io oso dire che non si potrebbe dare analogia più manifesta. Per essi il maestro, il dottore, chi avaro procede degli ammaestramenti ai discepoli, triste messi raccoglierà di maledizioni dalle labbra dei pargoli, e da quelli eziandio che stanno ascosi nell’alvo materno. «Col ammoneagh alakà, mippi talmid, affilù obarim» ecc. ecc. ei frauda lo innocente del retaggio dei padri suoi, della legge, patrimonio comune di tutto Israel. Per essi quella solamente si chiama Legge di Grazia (torat hesed) che ama diffondersi, che si spande, che si comunica, (Torà al menat lelamed zò torà scel hesed) titolo che a sè unicamente arrogava una religione che da noi trasse l’origine.77

Per essi colui all’opposto che si fa de’ figli altrui istruttore meriterà di sedere nel consesso e delle speculazioni fruire dei celesti: «col ammelamed et ben haberò torà zoké veiosceb biscibà scel maghta» i egli potrà ogni più duro decreto squarciare col merito suo, «affilù gozer ghezerà mebattelà.» Per essi il vanto maggiore onde possa andare glorioso un Dottore, quello si è di aver molto insegnato, testimone il maggiore Eliezer, che prossimo a morire levò al cospetto dei discepoli radunati le due braccia in suono mestamente esclamando: O braccia mie che quasi due aste del santo volume, poichè la lettura si è consumata, siete prossime a ripiegarsi!78 Molto a svolgere vi stancaste i sacri libri per imparare, molto più vi affaticaste nello insegnare. Deh sia la pace nel mio riposo!

Che se santo è l’obbligo d’insegnare a chi indegno non sia, se dal lato positivo tanta veggiamo conformità col giuramento e colla pratica degli Esseni, sarìa egli lo stesso in ciò che il giuramento contiene di negativo, nel divieto cioè di comunicare le dottrine religiose agli indegni, agli stranieri. E questo pure a veder bene è comune ai Dottori; comune quando pronunciavano il divieto di comunicare la legge, le sue dottrine, i suoi misteri agli idolatri, non già perchè avari procedessero dei veri posseduti, ma per la ragione semplicissima che i Gentili volevano e credevano salvi senza le speciali conoscenze dell’ebraiche dottrine, le quali l’officio e il carattere sostenevano verso i Gentili di dottrine jeratiche sacerdotali, e di inviolabile acroamatismo, a cui accostarsi solo era lecito per le vie gelose e riservate di una regolare iniziazione; comune quando ci narrano di un discepolo cacciato per indiscreta propagazione di cose udite già erano vent’anni, come dei Pitagorici si narra che parecchi soci ebbero espulsi per indiscreta divulgazione dei loro misteri. (Ritter, I, 300) Comune quando la legge comunicata allo indegno, alla pietra parificavano, che gli adoratori di Mercurio o del Siro Meeracles deponevano sui mucchi a loro onore innalzati nei capi strada. E quando più specialmente togliendo di mira quelli che espressamente si dicono Sitrè Torà, Misteri della Legge, e che sono appunto a parer mio le dottrine di cui eran pubblici depositari e cultori gli Esseni, precise e severe regole imponevano alla loro trasmissione, virtù, qualità richiedendo particolarissime nello iniziato, come a dilungo può dimostrarsi in Haghigà, e di cui non è qui luogo a discorrere. Che sarà poi se gli specialissimi libri rammenteremo e le regole dei cabalisti? Certo che l’analogia sarà più parlante, se vera è quella identità che non ho cessato di propugnare fra le due sette; certo che troveremo allora nel Zoar frasi siccome quelle che nel terzo volume si leggono della grand’opera ove il verso dei Proverbi chebod eloim aster dabar «si onora Iddio serbandone i santi misteri» ai misteri si applica ed all’insegnamento dei cabalisti, nè troppo saprei dire veramente a chi altro si potrà meglio riferire che agli arcani di religione, alle norme eziandio attenendosi della Esegesi più imparziale. Troveremo nell’istesso volume un verso solo che sembra suonare contradditorio, autorizzando e vietando al tempo stesso la propagazione dei misteri d’Iddio, seco stesso pacificato, distinguendo gl’iniziati, i soci kabrajà, gli entrati ed esciti a salvamento, come si esprime il Zoar per l’ordinario, dagli indegni, dai profani, dagli inesperti, leekol lesobà velimhassè attik. Troveremo a coloro imprecato che trasmettono (per tradurre testualmente) i misteri delle leggi, i misteri della tradizione della Genesi, e della ortografia dei misteri di Dio ad uomini indegni; troveremo infine l’essenico divieto ripetuto ad ogni tratto e qual tutela e palladio raccomandato per la conservazione delle riposte dottrine.

Ma il giuramento degli Esseni un’altra clausola conteneva che noi dobbiamo esaminare. Non solo volevano generosa trasmissione agli iniziati, non solo volevano ogni cognizione interdetta a chi nol fosse; ma volevano fedele eziandio ed inalterato lo insegnamento; ma giuravano eziandio di comunicare le dottrine religiose nella guisa stessa che erangli state insegnate. Potrebbe darsi riscontro più evidente coi costumi, colle regole, colla pratica dei Farisei? Havvi nulla di più provato, di più costante della fedeltà, quasi non dissi servile, che ponevano i Farisei nella trasmissione delle ricevute dottrine? Eppure non si comprese come cotesta bellissima sia e perentoria dimostrazione della veracità della tradizione; e pure gli uomini che si facevano scrupolo di ripetere perfino gl’idiotismi dei loro maggiori, si accusarono di inventori e falsari; eppure non si vide infine quanto Esseni e Farisei procedano per questo verso eziandio per conformità ammirabili; eppure le infinite prove che ne somministrano i Farisei furono travolte in oblio; si obbliarono quelle formule che tornano ad ogni passo nel Talmud; che sono il preludio obbligato di ogni recitata tradizione; che di maestro in maestro, di trasmissore in trasmissore risalendo, ascendono sin dove le superstiti memorie lo permettono; si obliarono quei dottori che per niuna cosa andarono tra i posteri così famosi come per essersi ogni opinione interdetta che dal proprio maestro non avessero ricevuta come si narra in Succà, se non erro, per Eliezer il maggiore: sciellò amar dabar sciellò sciamagh mippi rabbò micòdem. Si obliò come tra i peccati che causa sono della cessata insidienza di Dio in Israel quello si annoveri, la propagazione di dottrine non ricevute; e nulla, a mirar bene, di più ragionevole; conciossiachè la tutela e la possessione del vero eterno siano il segno della presenza di Dio infra gli umani; si obliò lo scongiuro che il restauratore della Teologia, Ben Johai, il Socrate del cabbalismo, dirigeva ai discepoli, ai suoi Kabrajà, instantemente esortandoli non volessero lasciarsi di bocca uscire una parola di religione, che saputa ed udita non avessero da uomo autorevole, o come dice il Zoar, da Albero magno. Bemattutà minaiku de la tafcum mipummaihu milà deoraità dilà scemahtun meillanà rabrebà; e quel titolo obbrobrioso si obliò che ai propagatori di novità imponevano i dottori, adoratori chiamandoli di Simulacri veri e propri, e di quel comando violatori che è secondo nel Decalogo, dove la fattura s’interdice di imagini e sculture; dehol man demappich beoraità ma delà jadagh vela chibbel merabbò alé chetib lo taasé lekà pessel, la taghbed lak oraità ahrà delà jadagh velà amar lah rabbah.79

 

Ma gli Esseni, voi lo udiste, volevano esatta e fedele la trasmissione delle loro dottrine, e quindi a questo fine preordinarono il giuramento. Perciò imposero la fedeltà della orale trasmissione come abbiamo veduto, e perciò stesso introdussero quell’altro inciso che di conservare imponeva, di custodire con cura, con fedeltà i libri e scritture dell’Essenato. Che vi par egli che abbia pensato e praticato a tal proposito la scuola dei Farisei; che idea vi formate della loro fedeltà bibliografica? Ah! che se io volessi trattare dell’argomento in tutta la sua ampiezza bene più oltre ne spingeremmo i confini che l’ora ed il tema non lo consentano. Ricorderemmo il deposto biblico, il suggello di autenticità che reca manifesto, ed a cui piacquersi di porgere ossequio i dottori eziandio della Chiesa cristiana, ed una schiera infinita di critici di ogni stirpe e religione; i lavori prodigiosi colossali dei Massoreti che resero ogni alterazione impossibile col tessere l’elenco minuto circostanziato delle frasi, delle parole, delle lettere di tutta la Bibbia, e queste ed altre infinite cose riandando, potremmo offrire della farisaica fedeltà luminosa testimonianza. Ma noi ci contenteremo di scendere da tanta altezza, e le più antiche e gravi prove trasandando ci acqueteremo nelle più modeste. Ricorderemo il divieto soltanto di conservare eziandio un libro che non fosse corretto, e quindi l’obbligo della rettificazione, e della soppressione. Assur leasciot sefer sceeno mugghè miscium al taschen beaoleha avlá, e soprattutto ricorderemo un passo del Talmud di Gerosolima nel trattato di Chetubot, che mentre conferisce da un lato a sempre maggiore dimostrazione dello scrupolo e delle esattezze bibliografiche dei Farisei, ci offre da un altro lato tutto il carattere ed il valore di una vera Rivelazione. Io non oserei questo vocabolo adoperare se non avessi sempre letto in autori gravissimi, qual fatto costante dimostrato, il silenzio dei Dottori intorno gli Esseni; se le ricerche eziandio più moderne non si fossero arrestate innanzi questo fatto strano incomprensibile, se infine il luogo da me citato del Jeruscialmi a quei pochi ma rari e preziosi luoghi non appartenesse, che nella rabbinica enciclopedia alludono, a parer mio, manifestamente alla società degli Esseni. Giudicatene voi stessi. Vuole il Talmud accennare quei libri, quegli esemplari da cui si può impunemente togliere criterio per la trascrizione dei libri sacri, accennarli insomma quai libri modelli. Rab Kannà amar lemedin misefer mugghé. E quali sono, credereste, quei libri modelli? Sono quelli, aggiunge il Talmud, quei libri che libri s’intitolano da un Esseno o Esseo come più precisamente legge il Talmud. «Chegon illen deamrin sifroi de Assè.» Strano a dirsi! Quando i chiosatori tolsero a darci di questa frase l’intelligenza, che cos’avvenne? Essi ignoravano o in quel punto obliarono che nei secoli misnici, talmudici, eravi una scuola famosissima che si diceva degli Esseni, che come gli stessi farisei avevano libri; che come essi scrupolosamente ne praticavan la custodia, che la gelosa conservazione eragli imposta per giuramento e tutte queste cose obliando, girono in cerca di meschine, di assurde interpetrazioni. Si disse: eravi allora celebratissimo scriba che il nome portava di assè, i cui libri si prendevano per modello delle copie trascritte, e di quest’uomo intese favellare il Talmud quando disse Sifroi de Assè. Ma dov’è questo Assè nella storia? Dove sono i luoghi in cui di esso si ragioni nel Talmud? Come il singolare parlante nome reca egli appunto di Assè, e come infine il solito inseparabile aggiuntivo non si legge di Maestro o di Rab? Ma quanto meglio nel nostro sistema! quanto più naturale, storica, espressiva, piena di vita e di verità la frase talmudica ove degli Esseni s’intenda, ove si ammetta niun più acconcio esempio aver potuto citare il Talmud di esattezza e religione bibliografica, che lo esempio pubblico famosissimo della bibliografia degli Esseni! Il qual esempio vediamo citato in verità nella frase summenzionata, che mentre conferma la fama di periti e probi bibliografi che vantavano gli Esseni, e che è l’oggetto specifico di questa lezione, ci offre al tempo stesso uno dei più pellegrini luoghi che la storia degli Esseni vanti nelle pagine Rabbiniche, siccome quella che prova contro l’opinione generalmente accettata, la cognizione degli Esseni presso i Dottori.

Ma gli Esseni promettevano nel loro giuramento altra cosa non meno preziosa conservare, e voi lo udiste, il nome degli angioli. Chi è che questo giuramento ci ha trasmesso e quindi anco la frase presente? Egli è Giuseppe Flavio che grecamente dettava le opere sue, e grecamente in pari modo narrava dell’essenico giuramento. Come suona nell’originale la frase di Flavio? Suona ella così chiara, così formale che nè incertezza nè contradizioni abbia tra gli interpreti ingenerato? Io vel debbo confessare. Le parole di Giuseppe furono diversamente comprese dai suoi traduttori. Ove Basnage, ove Munk, ove altri moltissimi leggono, come udiste, il nome degli angioli, l’antico traduttore francese Arnauld d’Andilly, e forse altri che io non conosco, intesero e tradussero, il nome di coloro dai quali furono i libri ricevuti, che è quanto dire il nome dei loro antichi autori. A quale delle due diverse lezioni dobbiamo attenerci? Io non vi obbligherò a sì lungo e duro processo; piuttosto più breve e spedito cammino preferiremo, e prendendo in esame or l’una or l’altra lezione, dimostreremo come qualunque versione ci piaccia anteporre, sempre naturale e luminosa sorgerà tra gli Esseni e i Farisei nuova e concludentissima attinenza. Piacevi la versione d’Arnauld d’Andilly? Volete che si tratti degli scrittori, degli autori antichissimi della scuola il cui nome si volle scrupolosamente conservato? Ed allora potrei io tacere quei luoghi autorevolissimi, ove di questa regola e costume si costituisce obbligo, dovere impreteribile? Non sono i Dottori che insegnarono che chi degli antichi autori i nomi ricorderà, è fattore di Redenzione? Non sono essi che ammaestrarono desiare ardentissimamente le anime dei trapassati udirsi ricordate in quanto insegnarono in questo mondo? Non imposero essi ad ognuno immaginare presente nell’atto d’insegnare l’autore dell’antico dettato. Leolam jekaven adam baal scemuà lefanav. Non posero eglino stessi il precetto in pratica risalendo per lo usato nella recitata tradizione, di autore in autore, tutti per nome distinguendo sin dove la superstite memoria lo permetteva? Io vorrei potere farvi qui apprezzare il doppio oggetto che, sì facendo, si proponevano i Farisei; l’ossequio che in tal modo amavano prestare agli antichi maestri, lo spediente che per tal guisa usavano efficacissimo a serbare inalterate le religiose tradizioni perpetuando le vetuste trasmissioni, e quasi i titoli e diplomi di legittimità invariabilmente accompagnando alle loro dottrine. Ma questo troppo più oltre ci menerebbe che il tempo ed il tema non lo consentano.

Voi lo udiste; udiste come non sia la sola versione che si ammise in Flavio. Si volle e per moltissimi e forse pei più autorevoli, che la frase di Flavio suoni diversamente cioè nome degli angioli. Io vorrei che poteste quanto è d’uopo misurare tutta la importanza di questa frase, che ricordaste come la esistenza, nei tempi di cui parliamo, di una scuola che professasse il culto di una recondita teologia, fu subbietto ed è tuttavia di lunghe, ostinate e dottissime controversie, e come in ultimo questa frase gettata nella bilancia non può non farla, a creder mio, inclinare dalla parte del vero, del diritto. Ma queste preziosissime circostanze basti lo avervi accennato. Noi dobbiamo solo domandare: Saremo noi così felici nel rinvenire di questo giuramento il riscontro nei Farisei, come non infelici fummo, se io non erro, nelle cose discorse? Troveremo noi l’obbligo tra i Farisei di conservare dottrine arcane e certi nomi di Dio venerati? Io non rifinerei giammai se qui dovessi tutto quello esporvi che ci porge di analogia il Talmud; e benchè di significato fecondissimo e di momento stragrande meglio che altri non crede, nonostante non riguardando da presso l’argomento presente, e potendo con un singolo esempio tutto ad un tempo provare, ogni altra talmudica citazione preteriremo.80 E qual è questo esempio di cui favello? Egli è tratto da quel libro che nell’officio comparativo che abbiamo intrapreso non potremmo desiderarsi più concludente. Egli è il Zoar al volume 3º sul fine, ove oltre moltissime attinenze che è facile notare colla società degli Esseni, oltre il narrarvi di un libro di un Asseo per nome Cattinà, oltre il citarne le parole che a guisa di commento pare avesse dettato sull’ultimo canto di Moisè, oltre il riferirvi tutto quanto in quell’opera si prescriveva sui doveri del medico, oltre il rivendicarvi la legittimità dell’arte salutare contro i sofismi che in nome di una religione fatalistica ne proscriveva l’esercizio, oltre lo accoppiarvi nella stessa persona, mirabile a dirsi! la cura del corpo e la cura dell’anima, carattere precipuo distintivo della società degli Esseni, oltre il parlarvi di un medico o Assià celebratissimo che più si diceva operare guarigioni colla preghiera che non colle arti sue, qualità se altra fu mai convenientissima agli Esseni, oltre a tutto questo, ed è già molto e rilevante, si aggiunge: quel libro esser stato veduto, esaminato prima da un Nomade, da un Solitario. Tajaha il quale redatolo dall’avo suo, dice tutte le dottrine mediche contenute fondarsi sui misteri della legge, prescriversi certi mezzi curativi che non sono precisamente nè umani nè scientifici; e poi lo stesso libro veduto, esaminato per ben dodici mesi da uno dei più celebri dottori Zoaristici, da R. Eleazar, che da quella lettura riportò, siccome egli narra, un senso di venerazione e terrore. Ma ciò che più davvicino riguarda l’argomento presente, la gelosa conservazione dei nomi degli angioli è il fatto, di cui depone il Zoar istesso. – Il contenervisi in quel libro registrato il nome degli angioli, l’aggiungersi da R. Eleazar, vero e scrupoloso Essena, che quei nomi non parevangli esattamente ordinati, cose tutte che rispondono pienamente a quello che vedemmo praticato presso gli Esseni.

 

Noi abbiamo esaurito il tema del Giuramento, abbiamo parte per parte esaminato questa specie di programma che ogni Essena dovea soscrivere e giurare al suo nascere all’Essenato, e lo esame intrapreso tornò, come dovea, a sempre maggior conferma di quella identità tra il Farisato Cabbalistico e gli Esseni, che fu costante argomento delle nostre dimostrazioni. Adesso un nuovo lavoro ci chiama, un nuovo esame; l’esame delle istituzioni organiche, fondamento del nostro istituto. La comunicazione dei beni, il celibato, gli usi e la vita pratica del chiostro. Ecco gli argomenti che ci occuperanno nelle successive lezioni. – Prove maggiori ci attendono, a me di studio, di indagini serie, a voi di cortesia sempre crescente. A chi valica un mar tempestoso nulla più vale a ispirargli coraggio che una voce amica, che un volto, un’espressione che gli auguri dalla riva propizie le aure.

LEZIONE DECIMOTTAVA

Il sistema che abbiamo seguito nella esposizione della storia degli Esseni ha almeno il pregio, se io non erro, di essere naturale. Noi abbiamo quell’ordine esterno seguito che l’Essena seguiva nel passaggio che dalla vita faceva del mondo alla vita ascetica e contemplativa del chiostro. Passava dal mondo all’Essenato con un tirocinio di tre anni, e questo tirocinio studiato abbiamo sotto il nome di noviziato. Varcato così le soglie dell’istituto, un atto secondo e più intimo celebrava soscrivendo agli obblighi che lo attendevano nella vita claustrale, e questi obblighi e questo impegno abbiamo considerato sotto il nome di giuramento. Entrato così nel novero dei soci e tutti i doveri adempiendo, e che cosa dovrà formarne delle nostre ricerche subbietto? Certo, i doveri appunto che adempiva, le istituzioni a cui s’uniformava, le leggi che ne regolavano la vita. Ma in questa stessa disquisizione un qualch’ordine dobbiamo pure serbare. Dobbiamo da quelle istituzioni esordire, che prendevano lo iniziato al suo entrare; dobbiamo poi a quelle volgere la mente che lo iniziato accompagnavano, e che gli atti tutti informavano della sua vita sociale.

Una istituzione, singolare istituzione, attendeva lo Essena alla porta. Al suo giungere non solo i vizj, non solo l’errore doveva deporre, ma una mano invisibile lo spogliava di tutti i beni eziandio, e questi ora alla comunità appartenevano, all’erario sociale, ora in favore ai congiunti quasi per morte si rinunciavano: così Giuseppe nelle Guerre giudaiche. Ma lo Essena se di ogni presidio terreno si spogliava, ci trovava nella società una madre la quale per mezzo di socj a questi uffici preposti, e che la storia rammenta sotto il nome di Economi, provvedeva incessante agli abiti, al vitto, ai bisogni dei figli. E questa istituzione si dice Comunanza di beni. Furono in questo senza predecessori gli Esseni? Non ebbero modelli, esemplari tra il fiore dei Pagani, nelle patrie ricordanze e nei Dottori contemporanei? Vediamo gli uni e gli altri. I Pagani! Chi potrebbe dimenticarlo? – Chi potrebbe porre in oblio a questo proposito i Pitagorici? I quali oltre le altre moltissime analogie, in parte vedute e che in parte vedremo ancora colla società degli Esseni, questo pure parlantissimo riscontro porgevano col nostro istituto nella Comunanza di beni. Il Ritter, I, 299, crede che la comunità dei beni sia piuttosto dei moderni Pitagorici che degli antichi; ad ogni modo non nega l’istituzione. Ed ai Pitagorici somigliavagli pure il nostro grande correligionario Flavio Giuseppe quando ai suoi lettori pagani voleva porgere un termine di comparazione coi suoi cari solitarj. – Che Flavio Giuseppe non a torto, così sentenziando, si apponesse, abbiamo veduto altre volte e vediamo oggi non meno; ma forse altro meno atteso resultamento racchiudesi nel citato ravvicinamento, se gli Esseni sono ragionevolmente posti a fianco dei Pitagorici, se il carattere e le istituzioni hanno comuni indivisi. Se i Pitagorici, a confessione di valentissimi autori, hanno comuni le fattezze coi cabbalisti, chi non vede per nuova via accostarsi, abbracciarsi, confondersi in uno Cabbalisti ed Esseni? Se è vero in matematica che due quantità uguali a una terza sono uguali fra loro, chi non vede la verità di questo altro ragionamento? Esseni e Cabbalisti sono eguali a Pitagorici – dunque Esseni e Cabbalisti sono eguali fra loro – sono sopra un tipo stesso, un’idea sola improntati?

Il Paganesimo, noi lo abbiamo veduto, ci ha dato i Pitagorici quale ordine, quale istituzione affine alla società degli Esseni. Che cosa ci darà l’Ebraismo, la storia dell’Ebraismo? Voi lo sapete; parliamo qui di una linea sola della fisonomia degli Esseni, della comunanza dei beni, del voto di povertà. E dove meglio potrìa questa istituzione ravvisarsi che trai Leviti ed i Sacerdoti? Sacerdoti e Leviti secondo le leggi mosaiche nulla possedevano. – Sola fra tutte, la tribù di Levi fu di ogni retaggio in terra santa destituita, sola fra tutte vivea del Tempio e dei proventi del Tempio, sola fra tutte avea per ogni avere sortito l’Eterno, la sua Dottrina, il suo Culto. E questa è visibilissima attinenza tra Esseni e Leviti. Ma non è sola, voi lo ricordate. Quando parlavamo dell’astinenza dal vino, quando degli abiti, dei candidi pannilini, quando degli studj e della vita contemplativa, ei furono sempre i Leviti che tutti questi caratteri ci offrirono comuni agli Esseni. A questi caratteri un nuovo dobbiamo aggiungere, e questo è il voto di povertà, la comunanza dei beni. I Leviti appartengono alla biblica antichità e quindi recano i caratteri ed il genio essenico nelle epoche più vetuste di nostra esistenza. Sono soli i Leviti in quel periodo di nostra storia a offrire cogli Esseni questa nuova similitudine? Sarebbe errore il crederlo, riflettendo ai Recabiti dei quali parecchie cose udiste per lo passato. Certo spero non avrete dimenticato come nelle espressioni di Geremia io vi facessi osservare una frase la quale altro senso non può avere che il voto di povertà, che la comunanza di beni. Così prima Leviti e Sacerdoti e poi i Recabiti di Geremia preludono, come in altri infiniti anco in questo carattere, alla società degli Esseni.

Ma l’Ebraismo, voi lo sapete, ha due ère, due grandi, e come oggi si dice, organici periodi; Bibbia e Talmud, Profeti e Dottori, ispirazione e scienza, parola scritta e parola parlata. Abbiamo veduto della comunanza di beni gli avvisi nell’epoca prima; vediamone adesso i segni, il passaggio nella seconda. Questi segni e queste vestigia di due constano principalissimi ordini: idee e fatti, teorie ed esempj, principj e pratica applicazione. Si trova la povertà insegnata in principio, si trova poi in fatto applicata, esercitata. La povertà proclamata in principio, e questo è già molto; ma assai più sarà, se non sbaglio, quando vedremo a chi riferita, quando vedremo qual portano nome i suoi professori. Io ebbi parecchie volte occasione di ripeterlo, l’ho secondo me innalzato al grado di fatto presso che dimostrato. Il nome con cui pei rabbini si distingue l’Essena è quello di Kassid, e riandando tutte le prove da me in mezzo recate, troppo più oltre la bisogna procederebbe che non fa di mestieri. Questo per certo riteniamo, come l’abbiamo ad esuberanza provato, che il nome Hasid è sinonimo in bocca dei Dottori a quello che Giuseppe Flavio ci trasmise di Essena e Terapeuta.

Or che sarà se oltre i contrassegni infallibili onde questi nomi per noi si confusero, s’identificarono, questo pur esso si aggiungesse della comunanza dei beni? che sarà se oltre le condizioni tutte che abbiamo veduto comporre la personalità del Hasid, quello pur esso udissimo annoverarsi della povertà volontaria? E pure oso dirlo, nulla di più ovvio, dirò anche, di più ripetuto. E la parte più popolare del testo Misnico, e il trattato più accessibile, più conosciuto, più recitato di tutta la vasta raccolta, è quello che ricorre eziandio sulle labbra dei parvoli, che prezioso ne acchiude e perentorio insegnamento. E pure non si comprese; e pure tanto può di luce ed evidenza diffondere uno storico ravvicinamento. E pure era tanto facile comprenderlo quando si fosse agli Esseni pensato, quando si lesse nel Testo: Colui che dice il mio è tuo, il tuo è tuo, egli è Hasid; vi fu nessuno che dubitasse che sì dicendo si alludesse ad alcun che di storico, di reale, di organico istituto? Quando si lesse ivi stesso per contrapposto: Colui che dice il mio è tuo e il tuo è mio; vi fu nessuno che pensasse a quei famosi progetti che dopo Platone e Licurgo correvano per il mondo di repubbliche, di città socialistiche; chi esaminasse se in questa frase approvato o riprovato fosse il sistema dai nostri dottori? Certo ch’io mi sappia, nessuno: e se qui il luogo fosse di trattarne per disteso, quanto non riescirebbe interessante l’ultimo di tai raffronti eziandio? Platone, Licurgo, Fourier, Saint-Simon, Blanqui, Owen, giudicati dai dotti Ebrei non sarebbe tema di piccol momento senza dubbio. Ma di questo si taccia per lo migliore. Solo ci piace insistere sulla prima parte del testo Misnico, su quel rinunciamento a cui s’allude dei proprj beni in favore dei poveri. Strana, insulsa, parassita allusione ove un fatto non vi fosse stato contemporaneo a cui si riferisse, quando si fosse di una virtù favellato che nessuno praticava, quando si fosse voluto soltanto un ideale tratteggiare a cui niuno si fosse accostato, quando a fianco delle altre tre classi reali, esistenti, positive, si fosse una quarta accompagnata che condannata fosse stata a rimanere esclusivamente teorica.

Ma noi dobbiamo mostrarla questa virtù in azione, dobbiamo passare nel dominio dei fatti, dobbiamo toccare degli uomini, degli atti, delle circostanze che di questa essenica istituzione ci offrono in numero infinito ad esempio i dottori, e così avremo le due grandi parti della storia ebraica poste a contributo. E prima un tratto caratteristico che si legge in Cammâ. Si narra d’un uomo, che le pietre che la casa ingombravangli, andava rotolando sulla pubblica via. Chi passa, direste, in quel mentre? Passa, dice il Talmud, un Hasid, ch’è quanto dire tale che il titolo stesso recava che noi abbiamo altravolta ad esuberanza provato, proprio propriissimo degli Esseni, e con mal piglio apostrofandolo si narra che così gli dicesse, o Raca, o Sciocco! per che le pietre sgombri dal dominio nostro per gettarle nel tuo verace dominio? Voi lo udiste. Egli il hasid chiama suo dominio il dominio comune, la via pubblica, la proprietà comunale; egli chiama invece dominio non suo la casa, la propria dimora, la privata proprietà, in quella guisa a un dipresso che quel poderoso intelletto di Proudhon difiniva un furto la proprietà. La propriété c’est le vol, e spiegava il Lo tignob del Dicalogo come se dicesse piuttosto non possedere. Chi avrebbe pari linguaggio tenuto se non un Essena, ch’è quanto dire appunto un Hasid, uno di quei cotali che sotto questo medesimo nome di Hasid ci palesarono in mille incentivi la società degli Esseni? Ma gli esempj non scarseggiano, che anzi ve ne sono di avanzo. Fra gli antichi un Monobaze principe degli Adiabeni, che si dice avere i suoi averi ai poveri distribuito, e Monobaze era, curiosissimo a dirsi! figlio di quella Elena regina degli Adiabeni che noi, favellando altra volta del Nazirato, trovammo affiliata all’ordine dei Nazirei,81 che è quanto dire, quell’ordine che tante e sì parlanti analogie vedemmo offrire colla società degli Esseni; alla quale il figlio suo Menobaze avrebbe in quella guisa aderito che i principi e monarchi aderiscono alle più illustri consorterie del loro Stato. E qui pure un Ribbi Isbab di cui si dice essersi di ogni avere spogliato in favore dei poveri; qui Ribbi Iohanan che traendo da Tiberiade alla vicina Zippori e giunto presso un campo, voltosi al suo compagno di viaggio, questo, disse, era mio e lo sarebbe tuttora se non avessi ad esso preferita la vita studiosa, contemplativa. E qui un fatto, un gran fatto che solo dalla storia dell’Essenato, delle sue istituzioni, del suo voto di povertà, può ricevere lume adeguato, ed aspetto di verosimile, voglio dire la manìa che invase, l’andazzo, il trasporto generale ai primi albori del cristianesimo, di togliersi indosso il grave giogo di povertà, ed eleggersi volontaria indigenza; che dico? il genio stesso, le parole formali dell’autore del nuovo culto quando diceva: più agevole il passare di un elefante per la cruna d’un ago che un ricco varcare le soglie del cielo. Quando alle turbe di seguirlo desiose, imponeva dicendo: Dividete tutto il vostro ai poverelli e seguitatemi; quando gli ultimi diceva dovere essere i primi nel regno dei Cieli; ed altre infinite somiglianti sentenze che tutte, consuonano coi principj dello Essenato allora in fiore.

77Chi sa ancora se questo nome di legge di grazia non deriva nei Vangeli appunto da quella divulgazione che Gesù operò fra le moltitudini pagane e israelitiche delle dottrine misteriose dei Farisei, come non ci stancammo di dimostrare nell’opera francese altrove citata.
78Quanto è bella la imagine del libro divino a indicare l’uomo dotto e virtuoso! Galileo chiamò la natura il libro di Dio. L’uomo non meritò meno questo nome in specie appo gli antichi che lo dissero Microcosmo. Nè questo è solo il luogo ove il Codice della Rivelazione e l’uomo vengono dai Dottori ravvicinati. La separazione dell’anima dal corpo è comparata al volume rivelato che va preda alle fiamme; quindi l’obbligo dei segni di lutto che s’impongono agli assistenti. – Sulla bara dell’uomo dotto si poneva ab antico, quale insegna del suo nobile officio, il codice mosaico, e dicevasi: – Costui ha osservato quanto in questo libro è scritto. – Ed ove tu sottilmente consideri, vedrai come il dogma del verbo incarnato non sia che una esagerazione del principio incessantemente proclamato dai Dottori, la immanenza nel cuore e nella mente dell’uomo del Verbo Divino.
79Vorremmo che i negatori della tradizione, vuoi talmudica, vuoi teologica, riflettessero seriamente a questo orrore di novità che trasparisce in questi luoghi, e in altri infiniti che si omettono, e si domandassero in qual guisa è compatibile tal ripugnanza col supposto di origine moderna nell’una e nell’altra. In qual guisa l’una e l’altra tradizione appena nate, avranno potuto spacciarsi quali antichissime, rigettare ogni aspetto di novità, chiudere per sempre quella fonte da cui scaturirono, senza contraddire al proprio principio e senza temere di essere volti in deriso? I Dottori chiamano altrove quest’obbligo di far risalire, quanto più si può, ai primi autori la dottrina che si espone «lescialscel et ascemuà» svolgere la tradizione.
80Senza impegnarci in diffuse dimostrazioni accenneremo qui di volo le massime capitali conclusioni a cui riuscimmo ed a cui riescir deve a parer nostro, ogni spassionata indagine sugli Elementi d’Angelogia, e dei nomi divini che contiene il Talmud. 1º I confini che separano i nomi angelici dai divini sono tutt’altro che fissi e insuperabili, ma anzi mobili e permutabili; onde ogni ostacolo è rimosso alla identificazione dei nomi degli Angioli essenici, coi divini ed angelici talmudici. 2º Che la scienza di questi nomi costituisca nel Talmud una dottrina gelosa ed acroamatica, anche questo non patisce eccezione per chi ne abbia consultate le pagine: nè patisce eccezione pertanto la identità di metodi in ambo le scuole.
81Fra i Terapeuti, si trovavano le Terapeutidi, donne iniziate; nell’istituto pitagorico eranvi le numerose e celebri Pitagoresse. Vedi Ritter, Hist. de la phil. ancienne, vol I, 298.