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Storia degli Esseni

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Ma quanto il secondo sovrasta d’incomparabile maestà! Egli appartiene a uno di quei due antichissimi frammenti la cui autenticità l’ossequio ebbe eziandio di coloro che più dubitosi procedevano intorno all’opera in generale; e che sotto il nome sono conosciuti di due Iddarot.74 È in quella che il titolo riceve di maggiore, che il venerato maestro R. Simone intendendo i più sublimi misteri ai discepoli rivelare, è sovrappreso dapprincipio da cruda perplessità; non sa se parlare o tacersi; chiede una parola che a dire lo conforti; e questa parola si fa finalmente sentire. Egli è R. Abbà il futuro scriba e compilatore del Zoar75 che supplicante gli dice: Deh! o maestro, ti piaccia liberamente favellare perciocchè si trova scritto: «I misteri del Signore sono per coloro che lo temono» e cotesti fratelli tutti timorosi sono di Dio; e in altri augusti consessi sedettero e felicemente ne uscirono. Sedette R. Simone e pianse. Quindi sclamò: Guai se svelo e guai se mi taccio! I soci che si trovavano là si tacquero. Ma sorse R. Abbà e disse: «Piaccia a te, o maestro, di svelarci i misteri, perciocchè dice la scrittura: il mistero di Dio è per chi lo teme. Ora questi nostri compagni tutti temono Iddio e già furono introdotti nella camera del tabernacolo.» Allora dopo avere tutti gli assistenti passati in rassegna, tutti in circolo si posero intorno al maestro. Le mani loro ei raccolse e fra le sue le strinse, e poi quasi in atto di giuramento tutti levaronle al cielo, il cielo chiamando a testimone della sete che tutti consumava per la parola di Dio. Quindi, dice il Zoar, trassero ai campi la prediletta dimora, e là, dice il testo, all’ombra degli alberi sedettero tutti; e il venerato maestro dopo avere in piedi orato, sedette pur esso. Ma egli è qui dove si vede quel riscontro che io dapprincipio avvertiva tra il giuro degli Esseni e il sacramento dei cabbalisti. Perciocchè, dice il Zoar, non appena seduti impose loro il maestro che le mani di nuovo ognuno fra le sue ponesse,76 sul suo petto come legge un testo, sul proprio cuore dei giuranti come legge un altro; e dopo aver tutte in un fascio strette le mani ai discepoli, terribilmente prorompe con quella spaventosa imprecazione con cui i leviti sulla montagna di Ebal dovevano la vendetta di Dio invocare sul capo degli Idolatri, e maledetto con essi ci grida colui che immagine o scultura facesse opera di arte e tenesse celata; volendo con questo premunire i discepoli contro ogni arbitraria e personale intrusione di umani opinamenti, di umane innovazioni nel giro del misterioso insegnamento: prova tra mille come da ogni straniera importazione profondamente abborrissero i Patriarchi del cabbalismo, e come stranamente vadano errati coloro che la origine del cabbalismo ripongono nelle anteriori e contemporanee scuole di filosofia orientale.

Ma la fedeltà non è unico dovere che il maestro imponga ai discepoli: egli ricorda loro immantinente come la riserva, il segreto comandato dalla legge nelle cose del mondo, nelle cordiali espansioni dell’amico che il cuore ci apre; a mille doppi allora più doveroso che Dio stesso ci apre, a così dire, la mente sua sacrosanta, ci inizia ai suoi misteri, ci fa copia dei suoi segreti, i quali voglionsi con quella gelosia custodire che basti agli sguardi sottrarli dei curiosi, degli indegni e dei profani. Quante cose egualmente preziose contenute in questo mirabile esordio! Quale inesausta miniera di peregrine indicazioni! Oltre la maestà del quadro, e a tutto dire il pregio estetico di questo prologo sublime, innanzi a cui impallidiscono le più vivide gemme della classica antichità; quanti bellissimi documenti per noi per la società degli Esseni, per la identità da noi propugnata! Prima di tutto il giuramento; tema della presente lezione, il giuramento che chiaro spicca e luminoso dal fondo del quadro. E poi quante conferme, quanta maniera di prove, quante nuove e minute attenenze! Il grado più eccelso della iniziazione cabbalistica, il nome di soci, di fratelli così parlante, così chiaramente alludente ad una consorteria, ad un legame sociale. L’amore dei campi e degli alberi ombrosi, il mistero comandato, l’orrore delle innovazioni così proprio, come vedremo, agli Esseni medesimi; e finalmente quella attitudine con cui si dipingono colla mano sul petto. Verrà tempo, quando parleremo del culto e delle pratiche degli Esseni, che la storia antica, ignara assolutamente del Zoar e delle sue dipinture, ci parlerà di una attitudine curiosa inesplicata che soleano prender gli Esseni, una mano lasciando andare sul fianco, l’altra al cuore premendo, allora il ravvicinamento fra il Zoar e la vita degli Esseni si farà spontaneamente, naturalmente nell’animo vostro; si farà senza neppure che a così fare siate guidati per mano, ed allora crederete anche voi alla identità delle due scuole.

«A guisa del ver primo che l’uom crede»

LEZIONE DECIMASESTA

Noi abbiamo nelle passate conferenze accennato all’Essenico giuramento. Dobbiamo adesso questo giuramento osservare più da vicino; dobbiamo brano a brano sottoporlo a disamina; dobbiamo al tempo stesso a quell’ufficio comparativo adempire che imprendemmo a principio, rilevarne cioè le idee, gli obblighi in seno al Farisato nei suoi volumi, nei suoi dottori, onde quella identità emerga sempre più luminosa che fu nobilissimo compito di queste lezioni.

Principalmente dicono le istorie: giurava il nuovo Essena Adorare e onorare Iddio, e giustizia e carità serbare alle sue creature.

Parvi egli sterile insegnamento cotesto?

Parvi egli che queste idee a prima vista sì ovvie, sì comunali, così oggi universalmente consentite – non offrano per nulla argomento alla critica ed alla istoria? Così veramente sarebbe se le glorie nostre, le nostre dottrine fossero state sempre nostre credute, se niuno avesse preteso redare l’unico retaggio glorioso che i padri nostri ci trasmisero, il maestrato di Religione; se il primato niuno ci avesse conteso nella proclamazione delle più sacrosante verità religiose e morali; se quando lo Evangelo insegnava Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso, ognuno applaudendo alla santità della massima, all’eco fedele della ebraica morale, non si fosse l’ebraismo fraudato della legittima priorità che gli spetta; se si fosse ognuno di Mosè ricordato quando l’amore prescrive di Dio al disopra di ogni cosa terrena più degli averi, più degli affetti, più della anima nostra; quando imprecando alle vendette private prescrive l’amore del prossimo come se stesso, fosse pur egli nemico nostro, siccome manifesto appare dal contesto; se rammentato avesse Illel, lo stipite glorioso del Dottorato palestinese; quando al gentile che anelava alla cognizione della legge —Ama, gli rispondeva, il prossimo tuo come te stesso. Ecco tutta la legge. Il resto n’è la chiosa; di Rabbi Hachibà quando insegnava: Ama il prossimo tuo come te stesso; ecco della legge l’assioma supremo «Ze Kelal Gadol battorà» di Ben Azzai quando riponeva cotesto assioma nel dettato mosaico: Ama il Signore Iddio tuo come tutto il tuo cuore, l’altro elemento in tal guisa fornendo della morale evangelica. Se infine, per tornare agli Esseni, obliato non si fosse il giuramento che tra essi il novizio prestava ove la morale evangelica costituisce il prodromo, la base dell’Etica degli Esseni. – Proseguiamo l’esame intrapreso. Essi giuravano dopo le cose anzidette di non nuocere a chicchessia, sia per propria volontà, sia per dovere di ubbidienza, e noi vedremo in seguito, quanto fedelmente osservassero gli Esseni gli obblighi assunti, vedremo quant’oltre spingessero l’orrore del nuocere altrui sino al punto d’interdirsi il maneggio e la fabbricazione delle armi da guerra; sino al punto di non offrire ad altri ne manco indirettamente i mezzi di distruzione; e nuova e inaspettata armonia allora sorger vedremo tra Esseni e Farisei. Per ora una idea, una parola sorge degnissima di nota nel paragrafo ricordato. Voi l’udiste, il dovere dell’ubbidienza. Come intendevano gli Esseni il dovere dell’ubbidienza? In quella guisa appunto che i Farisei. L’obbedienza non cieca, non gesuitica, non assoluta, non la teoria assurda, immorale, che annulla l’arbitrio, la libertà, la responsabilità umana sotto il giogo macchinale inintelligente di una autorità collettiva. L’obbedienza sino all’ara, sino al dovere, sino al santuario della coscienza e come dicevano gli antichi Usque ad aram. Obbedienza ove cose non s’impongano contro la voce di Dio e della coscienza En scialiah lidbar aberà. Obbedienza che al suddito, alla creatura non conceda quel primato che si deve al Creatore Dibré arab vedibré attalmid, dibré mi sciomein? Obbedienza che ha un limite insuperabile nella nozione chiara del dovere che favella alla coscienza; tanto, che ove il sommo magistrato della nazione imponga l’esecuzione di cosa che osti direttamente ai principj ricevuti, la rivolta, la disubbidienza, non solo è chiarita giusta e legittima, ma pur anche doverosa, Bet din scesciaghegù veorù laakor guf migufé torà veasa akaal al piem, bet din peturem, vehol ehad veehad haiabim. Obbedienza che non solo la conformità per tal guisa ci manifesta tra Farisei ed Esseni, ma quella non meno tra ambedue e i Pitagorici; dei quali dopo aver alquanto discorso l’illustre Gioberti nella Protologìa, così seguitava dicendo: —Ciò basta a mostrare, che intento del pitagorismo non era di spegnere e snervare il genio individuale nazionale e le virtù native dei soci, ma di avvalorarle, che l’individuo non ci era soggetto a una obbedienza cieca, nè immolato a una falsa unità innaturale, e che insomma la compagnia di Pitagora non era come quella di Gesù. Obbedienza infine che svela quanto erroneamente si vada del continuo identificando spirito farisaico e spirito gesuitico, quasi due aspetti di un sol tutto, mentre nulla havvi, a mirar bene, di più ostile, di più repugnante.

 

Giuravano poi di serbar la fede ai magistrati, ai rettori dello Stato, conciossiachè senza la volontà di Dio stimavano non fosse stabilita la loro potestà. Che cosa s’intende per Maggiori, per Magistrati e per Rettori? S’intenderà forse pegli Esseni, i principi e dominatori stranieri che Dio prepose al governo di Palestina; dei principi tra cui gli Ebrei emigrarono dopo la distruzione del Tempio? Io non saprei categoricamente rispondere: ma se pure così s’intendeva, ella non è la prescrizione degli Esseni senza precedenti, senza esempj grandi autorevoli nella ebraica antichità. Non lo è nei profeti, dove Geremia il popol suo premunisce contro la disperazione, la irritazione e le tentazioni vane perigliose dello esilio, siccome quello che voluto e preordinato era da Dio pietosissimo alle mire ultime e adorabili della sua provvidenza, dove li esorta di cercare nella salute del popolo, tra cui emigrarono, la propria salute, nel suo bene il proprio bene, e una seconda patria riconoscere ovunque li balestrasse fortuna, preludendo con questo consiglio a quel genio cosmopolitico che i padri nostri spiegarono nella loro dispersione; genio e fattezze assumendo secondo lo speciale asilo in cui ripararono senza pregiudicare però all’intima propria speciale caratteristica di ebreo; e con maraviglioso magistero in uno accoppiando e il cosmopolitismo più generale e il più stretto e rigido particolarismo di nazione e di fede. Non lo è in secondo luogo nei dottori fedeli in tutto e continuatori legittimi dei profeti loro predecessorj, quando sotto il flagello eziandio della spietata dominazione romana ammonivano i fratelli a pregarne da Dio la salute, la conservazione per quella ragione grande, filosofica, umanitaria, che sotto alla più orribile tirannide vede sempre la fautrice dell’umano e civile consorzio, l’ultimo vincolo della società perigliante, e che ogni più barbaro reggimento preferisce alla sociale dissoluzione e alla vita ferina e eslege delle genti selvagge. – Raro esempio di meravigliosa abnegazione e di stupenda imparzialità di giudizio che fa tacere i più legittimi nazionali risentimenti di fronte all’ultimo e supremo bene della società in pericolo, quando nel Medrasc Coelet in nome di Dio scongiuravano i fratelli a tollerare pazientemente i decreti, fossero pure dei più acerbi che loro imponessero i nuovi padroni, che non ne scuotessero insofferenti il giogo comunque durissimo. – Che se poi per l’autorità a cui giuravasi dagli Esseni obbedienza, vorremo piuttosto intendere l’autorità religiosa, i maggiori, gli anziani, i principi della Scuola, e’ non sarà senza grave autorità fra gli antichi che a così intendere ci ammonisce. Io vo’ dire di Filone; il quale parlando del giuramento essenico, lo spiega appunto in quel senso che non ha guari udiste, che è quanto dire degli anziani, dei dottori, dei sacerdoti, ed al voto dei più tra i soci, tra i riuniti fratelli. In questo senso sarà egli mestieri cercarne esempj precedenti, similitudini nelle dottrine, nei fatti della storia dell’Ebraismo? Io oso dire che nulla havvi di più naturale, di più proprio, di più speciale nell’Ebraismo, non solo dell’ossequio, della riverenza dovuta ai grandi, ai dotti, ai magistrati della nazione; ma quello che più amo farvi notare perchè men conosciuto, si è l’ossequio, si è la deferenza all’opinione comechè dalle proprie, dalle comuni differenti. Testimone R. Josè che, interrogato come avesse da Dio meritato di vivere così longevo, rispose tra le altre cose di non aver mai preso a vile i dettami dei suoi colleghi comunque dal parer suo differissero; che così oltre ei spingeva l’ossequio, al parere altrui, che non ostante destituito ei fosse di carattere sacerdotale, esercitato nonostante ne avrebbe i pubblici offici, quando così fosse piaciuto ai colleghi. Testimone R. Achibà, quando sostenuto da lungo tempo in prigione, e vedendosi venire allo stremo quel poco d’acqua che giornalmente gli si forniva, preferì piuttosto impiegarla all’abluzione delle mani come volevano i colleghi, che valersene ad estinguer la sete che il divorava, come aveva egli stesso altra volta opinato. Testimone il discepolo suo, R. Simone, quando uscito dopo 13 anni di reclusione da una oscura caverna, sgridò colui che in onta all’opinione dei suoi colleghi andava mietendo alcune spiche cresciute nell’anno sabbatico, nonostante che si giovasse, come ei si scusava, dell’autorità dello stesso Simone. Testimone Accabià figlio di Maalalel, che dopo avere in onta ai colleghi costantemente sostenuto alcuni principj, sendo vicino a morire chiamò il figlio suo, e l’abbandono gli impose delle tesi proposte.

Ma gli Esseni non si contentavano di praticare il rispetto ai maggiori, alle autorità vuoi politiche o religiose; essi ne davano la teoria. Ei dicevano, e voi l’udiste, che l’autorità era essenzialmente d’istituzione divina, e come quella che era da Dio preposta al governo degli uomini tributavangli reverenza. Il credereste! Erano i Farisei non solo nella pratica agli Esseni conformi, ma lo erano eziandio in teoria. Ei credevano niuno poter venire assunto al reggimento degli uomini, se a questo officio non fosse stato anzi tratto destinato dal cielo; ei credevano che non solo a questa prerogativa partecipassero i principi e rettori delle nazioni, ma qualunque altra benchè subordinata autorità, e come essi testualmente si esprimono, eziandio gli esattori di balzelli, e come allor si diceva, i Pubblicani. —

Noi abbiamo veduto quali principj professassero gli Esseni sulle autorità costituite: vediamo adesso come ne intendessero e praticassero l’esercizio. Giurava l’Essena nella sua ammissione, che ove egli dovesse un giorno comandare ad altrui, si guarderebbe dall’imperare con fasto, con alterigia. Come intendevano i Farisei l’esercizio dell’autorità? Ei volevano nel soprastante scopo nobile e puro, e tutto rivolto a gloria e a servigio di Dio, vehol aosechim ghim azibur ijù osechim immaeim lescem sciamaim. Essi esigevano una pazienza, una longanimità nei Rettori del popolo a tutta prova; di subire dei soggetti i capricci, le rivolte, gli scherni e l’odio ancora; e per tutto in breve compendiare, di sostenere imperterrito quel fantasma che spaventa i falsi amici del popolo, e che è sfidato e vinto dai suoi amici veraci, la impopolarità «Al menat sceischehlù ethem; al menat sceibzù ethem,» essi imprecavano a quei maestrati, a quei superiori che spargono di sè terrore e spavento in cuore ai soggetti, veassotem resciaim ascer natenú hittitam beerez haim; zè parnas amattil emà al azibur. Essi benedicevano invece alla memoria di quelli che il gregge di Dio pascolavano con verga di mansuetudine e di clemenza, col parnas scemanhig et azibur benahat, zohè umanigam leolam abbà. Essi proclamavano, or sono 30 secoli, quando la forza reggeva a sua posta i popoli soggetti, quando l’unico diritto degl’imperanti era il diritto del più forte, quando si credeva generalmente il popolo esser fatto pei principi anzichè i principi pei popoli; essi quella teoria politica proclamavano onde si onora il secolo nostro, che è base dei governi più civili, e che nel principe considera unicamente il più eccelso ministro, il più eminente servitore dello Stato, della nazione, vehi serarà ani noten lahem? Scihbud ani noten lahem.

Giuravano poi d’amare sempre la verità, e di svelare i mentitori. – La verità! Niuna cosa più amarono nè più riverirono in atti e in parole i Farisei. – La verità impone Mosè proseguire in ogni cosa «Midebar scecher tirhak.» La veracità posero per condizione i dottori onde conseguire la visione di Dio, da cui dissero separati in eterno i mentitori. Verità praticarono, e verità rigidissima, nelle civili transazioni; testimone quel Rab Safraà che avendo in cuore aderito ad un prezzo propostogli, ricusò quell’aumento che immediatamente profersegli il compratore standosi contento di quello che aveva per lo innanzi in cuor suo accettato. Testimone quell’altro, che essendo uscito a diporto fuori della città, ed essendosi con altro dottore a caso imbattuto che tolse a ringraziarlo per essergli, siccome credeva, uscito ad incontrare, ingenuamente confessò non aver egli avuto siffatto intendimento. Testimone quell’orrore in cui ebbero ogni ipocrisia e simulazione alla quale sotto il nome imprecarono di «Goneb dahat Abiriot.» Sino al punto d’interdire ogni apparenza che un simulacro offrisse di Pietà o Religione non sentite; che dico? che ponesse in luce o divulgasse pratiche eziandio realmente osservate; testimone tra gli altri lo esempio di quel dottore non troppo dai nostri tempi remoto, che trovandosi in amica brigata un certo giorno che trascorreva in digiuno, ed essendosi ad ognuno presentata ospitale bevanda, amò meglio troncare, che palesare la particolare sua devozione ai circostanti. Tanto è vero che a niuno meno che ai nostri antichi dottori si potrebbero quelle accuse attagliare che una Religione rivale non cessò di scagliare in capo ai Farisei. E quanto non riesce la loro veracità più ammirabile al confronto! Al confronto dico di un popolo allora esistente che lo stringeva da ogni parte colle sue leggi, colle sue istituzioni, coi costumi; che aveva dato al mondo la sua letteratura, la sua scienza, la sua lingua, e che maestro sedeva allora di civiltà alle genti. Voi l’avete nomato: ella è la Grecia, la Grecia il cui carattere del mendacio, dice uno scrittore inglese, passò perfino in proverbio, che Luciano e Giovenale rimeritarono colla ironia e col vilipendio; e che in niun luogo così manifestamente si appalesa come in un passo di Plutarco, ove togliendo a dimostrare la opportunità di vincolarsi talvolta con certi voti agli Dei, egli novera tra i voti, possibile tra i laudabili, quello di astenersi per un anno dal vino e dalla lussuria, e quello infine di interdirsi per un certo tempo ogni menzogna: prova a parer mio manifesta come l’eloquio dei Greci ordinario, abituale, non solamente tollerasse, ma quasi non dissi esigesse, l’ingrediente indispensabile della bugia. Ecco quale era l’ambiente morale in cui vivevano i Farisei, ecco l’esempio che porgeva la pagana civiltà, ed ecco quali seppero in mezzo a sì grand’infezione conservarsi; puri, veridici, odiatori del falso e del simulato, della maschera d’ogni maniera. Ed ecco nobilissimo pregio ove, a differenza dei popoli dominanti, convengono insieme Esseni e Farisei.

 

Ma gli Esseni non solo vogliono che si ami, che si pratichi veracità; esigono ancora, e voi l’udiste, che si svelino i mentitori. E i mentitori svelati vogliono essi pure i Farisei quando insegnano mizvà lefarsem et ahanefim, quando dicono cioè dovere ognuno strappare la maschera di faccia agli ipocriti, doverne mostrare i vizi e l’abiezione denudata, dovere trarre d’inganno coloro che presi sono dal fàscino dal bagliore di una falsa virtù.

Giuravano gli Esseni di serbare le mani incontaminate da ogni illecito lucro, che è quanto dire da quei raggiri, da quelle trappole che pur sono tollerate in società, e che non sono giudicabili che dal fòro interiore. Il nostro Farisato non ha bisogno di chiarirsi innocente di siffatte bassezze: quindi in fatto di lealtà non può subire comparazione: egli aspira al primato. È egli per ciò che questo brano dell’essenico giuramento nulla dice, nulla ammaestra, nulla insegna? E pure preziosissimo documento vi è racchiuso, nè a voi perspicaci sarà difficile lo scuoprirlo. Vedrete in quello la prova come quella Comunanza di beni, onde andarono così famosi gli Esseni, non fosse così universalmente dagli Esseni praticata, che una parte almeno di essi non si permettessero di possedere; vedrete in esso le traccie sensibili di una privata proprietà a cui si giurava inviolabilità e rispetto. – Vedrete infine quella istituzione attenuata che può a prima giunta parervi ostacolo alla perfetta e intera identificazione tra Farisei ed Esseni, la Comunanza di beni.

Noi siamo giunti quasi alla fine dell’essenico giuramento. Se le cose che intorno ad esso mancano a dirsi fossero di più lieve momento che non lo sono, noi avremmo quest’oggi al tutto esaurito l’esame proposto. – Ma le ultime formule del giuramento dell’iniziato accennano a fatti, a costumi imponentissimi. L’arcano delle dottrine. – Il silenzio e il segreto ai profani. – L’insegnamento agli iniziati. – I libri. – I nomi degli angioli. – Cose tutte il cui nome soltanto accenna la importanza. Egli è per questo che ad altra volta ne serbo la trattazione, e che intorno a queste mestieri è, come Dante diceva, un’altra volta ancora «sedere a mensa

74Non ha guari ricordavamo le parole di Simone Ben Johai nel Talmud in cui se erano due gli uomini della Camera, questi egli diceva essere esso ed il figlio. Or chi non rimarrà sorpreso vedendo il consesso più augusto del Zoar designato collo stesso nome di Camera Iddarà? Può darsi conferma più bella di questa? E si può ancora ragionevolmente dubitare che R. Simone Ben Johai non sia la stessa mente che informa lo Zohar? Si dirà che l’autore qualsiasi di questo libro si prefisse studiatamente un linguaggio che si affacesse al supposto autore? Ma questo studio contrasta con altre dissonanze cronologiche, storiche e filologiche che escludono nel suo redattore l’intenzione di crearsi una forma ed uno stile artificiale; e tanto più rimane escluso nel nostro caso che il senso di Camera nel nome Iddarà fu poco avvertito generalmente ed altre interpretazioni ebbero corso le quali però non reggono ad una indagine severa. Non vogliamo infine tacere di un’altra curiosa analogia che ci offre il nome stesso di Benè Alià con cui nel Talmud si designano, secondo me, gli speculatori e teologi del Farisato. Questo nome alla lettera significa quelli del luogo alto o delle regioni superiori, nè per altro fu così la Camera chiamata se non perchè occupava appunto la parte più alta dell’abitazione. Ora chi non troverà mirabilmente a queste idee conforme, la seguente di Platone nel Teeteto (Ediz. Paris, pag. 64). Mais, mon cher, lorsque le philosophe peut à son tour attirer quelqu’un des hommes vers la région supérieure etc.
75L’illustre amico mio, signor professor S. D. Luzzatto, scriveami non è guari, e credo anche stampasse, non potersi credere autentico un libro ove si parla di Compilazione scritta, quando ogni redazione tradizionale era tuttavia interdetta nell’ebraismo. Risposi: doversi distinguere la tradizione legale e rituale dalla tradizione teologico-agaditica: se per la prima è lecito affermare (comechè forse non senza gravi restrizioni) che si mantenesse esclusivamente orale per assai tempo ancora; non così per la seconda, della quale sappiamo avere esistito per tempissimo varie compilazioni, di cui a dilungo si ragiona nel libri talmudici. Ora s’egli è vero, come è indubitato, che l’Agadà non è, come altrove notammo, che il nome e la forma mitica e leggendaria della recondita teologia, ognuno comprende come a nulla approdi la ricordata obbiezione.
76Non dimentichi il lettore: 1º Che ogni qualvolta narra il Talmud una cura prodigiosa operata a contatto; è sempre la mano porta e ricevuta. 2º Che Epifanio V ci ammonisce come «les gnostiques (i quali non sono, come provammo nell’Essai sur l’origine des Dogmes ec., che la parte cabbalistica o Essenica degli Ebrei convertiti al Cristianesimo) se connaissaient entr’eux à leurs manières de se prendre la main.»