Za darmo

Storia degli Esseni

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Gdzie wysłać link do aplikacji?
Nie zamykaj tego okna, dopóki nie wprowadzisz kodu na urządzeniu mobilnym
Ponów próbęLink został wysłany

Na prośbę właściciela praw autorskich ta książka nie jest dostępna do pobrania jako plik.

Można ją jednak przeczytać w naszych aplikacjach mobilnych (nawet bez połączenia z internetem) oraz online w witrynie LitRes.

Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

È questa la festa, e questo il ballo, e queste sono le parole della Scioabà. Qui separate le donne, – qui il tempio convertito in sala da ballo, – qui musica, qui canto, qui ballo e qui infine cantanti e danzanti; chi? I Hasidim e Anscè Maasè, cioè quei due ordini che abbiamo superiormente veduto per altri fatti moltissimi corrispondere al doppio essenico ordine di Pratici e Contemplativi, che da Filone nella succitata descrizione della festa ci vengono nella stessa attitudine raffigurati, nello stesso luogo, allo stesso oggetto, nell’atto istesso di cantare e ballare. Ma quando avviene questa festa? Avviene di notte, avviene durante una festa religiosa, e di notte e durante una festa religiosa quella avveniva da Filone descritta. E quanto dura la festa? Tutta la notte, dice Filone, sino all’alba spuntata; e tutta la notte risponde per la sua, la Misnà; e ne fa fede – non vaga lontana tradizione, ma uno degli assistenti, uno dei santi danzatori, quell’eccellentissimo Dottore che i colleghi soprannominavano grecamente lo Scolastico scolastica deoraità: io vo dire R. Ieosciua Ben Hanania il quale nel Talmud si esprime così: Dice Ribbi Ieosciuah Ben Hanania quando gioivamo nella festa della Scioaba (che sublime mestizia in queste parole. Il tempio non era più!) non vedevamo (traduco a verbo), non vedevamo sonno cogli occhi nostri: e come? La prima ora del giorno pel sacrifizio cotidiano, di là all’orazione mattutina, di là al sacrifizio addizionale, di là all’orazione dei Musafim, di là alle accademie, di là alla mensa festiva, di là ai vespri, di là al sacrifizio vespertino, e di là sino al mattino seguente nei tripudi della Scioabà. Ed anche in questo, voi lo vedete, la festa di Alessandria e quella di Solima procedean conformi. Che facean poi al mattino? Per quei di Alessandria così dice Filone: All’alba tutti volgonsi verso il sole nascente, e pregano Dio che conceda loro una buona giornata e la luce della sua verità. Così gli Alessandrini. Che cosa facean in Solima? La Misnà ce ne ha serbata fedelissima memoria. Al canto del gallo, ella dice, il corno mandava un triplice suono,69 e così suonando e strepitando, procedeva la comitiva muovendo verso la porta che guarda ad Oriente. Giunti che erano alla porta che guarda ad Oriente, volgeansi tutti da Oriente a Occidente; e così diceano: I padri nostri che vissero in questo luogo volgeano, come dice Ezechiele, il tergo alla casa del Signore e la faccia loro indirizzavano ad Oriente, all’astro del giorno: ma Noi a Jah sono rivolti i nostri occhi; e ripetevan dicendo: Noi a Jah, ed a Jah i nostri occhi.

Che cosa vedete qui? Tutto procedere appunto come tra i Terapeuti procedeva; tranne una cosa, la parte a cui si volgeano. Gli Ebrei, i Dottori, gli Esseni di Palestina, memori della profanazione che i loro proavi fatto avevan del tempio del Signore, l’idolatrico culto introducendovi delle stelle del cielo, memori dell’attitudine che prendevano nell’adorazione del maggiore astro, che Ezechiele descrive e rinfaccia; giunti ch’erano al punto in cui dovevan pregare, prendevano la contraria positura e il tergo volgeano al sole nascente e gli occhi miravano e la persona al Santo dei Santi che la parte più occidentale occupava del santuario. Pegli Ebrei invece, pei Terapeuti Alessandrini avveniva il contrario. Fosse che a guisa di tutti quelli che vivono fuori di Terra Santa, a guisa nostra anch’oggi, si volgessero nel pregare ad Oriente, fosse che inesatta giungesse loro contezza del modo di pregare della Metropoli, fosse eziandio che il lungo soggiorno dello Egitto, la lunga conversazione cogli infedeli, la diuturna separazione dal cuor della fede, facesse prendere al loro culto una tinta d’Idolatria, siccome l’eco ne perdurava e perdura in scrittori gravissimi che l’adorazione del Sole gli attribuiscono; fatto è, che in questo sol punto tra il culto Essenico di Palestina e quello dei Terapeuti d’Egitto tu ravvisi un’antitesi. Del resto, la somiglianza non potrebbe più esser perfetta, e sopratutto non potrebbe più che in questa festa spiccare il doppio ordine di Pratici e Contemplativi che fu mio officio sinora mostrarvi nella storia, nella discussione, negli atti, nel culto, com’ora vedeste degli antichi Dottori. – E quindi sempre più splendida sorgerà quella conclusione che viene dimostrata perpetuamente dalla nostra esposizione; la identità dell’Istituto degli Esseni colla parte più dotta e più santa del Farisato.

LEZIONE DECIMAQUARTA

Noi dobbiamo oggi proseguire nello studio delle esseniche istituzioni per passare quindi alle dottrine e quindi al culto. Si parli dunque delle Istituzioni, e per procedere con quell’ordine che più io stimo acconcio, cominceremo da onde appunto cominciava l’Essena nell’atto di votarsi alla società, ch’è quanto dire cominceremo dal Noviziato. Ebbero eglino, gli Esseni, un noviziato? Imposero eglino ai nuovi venuti, un tirocinio speciale, una propedeutica religiosa prima di largir loro il nome e le prerogative di socio e fratello? Ebbero eglino un noviziato a guisa di pressochè tutti i religiosi istituti antichi e moderni, a guisa segnatamente del Pitagorico istituto, col quale tanto amava di raffrontarli il nostro Giuseppe? Sì, rispondono le più autorevoli testimonianze, le quali non solo di questo noviziato attestano la esistenza, ma la durata ancora ne ricordano, la divisione, le prove a cui sopponevansi, lo scopo a cui si mirava. Il noviziato durava tre anni, ma questo periodo di anni tre si distingueva in due parti, o per dir meglio abbracciava due gradi che successivamente percorreva lo iniziato. Durava il primo un anno intero, e in quell’anno le virtù che più si volevano splendidamente provate, erano continenza e temperanza, nè per luminosa che ne emergesse la prova, poteva dirsi ancora assolutamente qualificato fratello. La più intima comunanza che conoscessero gli Esseni, la tavola comune, il refettorio, non si asseguiva che dopo altri due anni dl tirocinio più severo. Pria di sedere al fianco a’ fratelli nei sacri agapi intorno al desco venerato, due altri anni dovevano ancora trascorrere dove, come pare probabile, nulla di sè lasciar doveva desiderare il nuovo fratello. A capo di due anni diveniva Essena compito. Noi abbiamo di sopra toccato del noviziato religioso nelle antiche consorterie, noi abbiamo detto come da quelli non differisse il nostro Istituto. Che dico? Noi potevamo farvi toccare con mano non solo i rapporti che da questo lato lo avvicinano ai Pitagorici, ma ad altri infiniti istituti accennare, antichi e moderni. Potevamo dire della iniziazione sacerdotale dello Egitto, del Noviziato tuttavia superstite nel sacerdozio Braminico, ove una rigida preparazione si esige da coloro tra i Brami, che all’amministrazione voglion dedicarsi del sacro culto, e sopratutto avrei potuto additarvi nelle società religiose derivate dal Cristianesimo una immagine fedelissima di quello che tanto tempo innanzi praticavano i nostri Esseni. Ma questi riscontri, comecchè non destituiti di alta e feconda significanza forse più chè non credesi, debbono ad altri cedere il campo che di gran lunga sovrastano e che compiono quanto abbiamo a dire intorno l’essenico noviziato. Io spero che non l’avrete dimenticato. Fu e sarà nostro officio, ad ogni passo che muoviamo nella esposizione della scuola, trarre dalle viscere del subbietto, sempre nuove, sempre maggiori conferme, a quel fatto rilevantissimo che resulta a parer mio dalla più scrupolosa disamina dello Essenato, la identità dell’Essenato medesimo colla parte più dotta e più squisita dei Farisei. Voi lo ricordate; il metodo da noi prescelto a provare siffatta identità fu, se non isbaglio, il più rigoroso. Chiedere al Farisato tutto che di proprio, di organico si trova nell’Essenato, e ove nulla si trovi nel secondo che il primo non contenga, chiarire vera e fondata la propugnata identità. Il noviziato sarà egli occasione di conferma o di dubbio? si trova egli tra i Farisei come la storia ce lo addita in seno agli Esseni? Se non il chiedessimo che alla Bibbia, la Bibbia ce ne offrirebbe un esempio, un tipo parlante nel sacerdozio. Il sacerdozio aveva un noviziato, e se questo noviziato anzichè tre durava invece cinque anni, non cessava per questo di essere vero e proprio noviziato. E d’onde questo noviziato resulta nei libri sacri? Implicitamente dal testo; esplicitamente poi dalla tradizione. Ella è nel testo una di quelle contradizioni che non tollerano conciliazione se non mercè il dettato della tradizione. Sono due testi che sembrano escludersi a vicenda. Per l’uno il sacerdote ministra nei sacri offici all’età di venticinque anni, per l’altro solo ai trenta adempie agli offici del sacerdozio. Che cosa sono questi cinque anni di differenza? Sono, dice la tradizione, il periodo di noviziato. Ma noi dobbiamo chiederlo altresì ai dottori, dobbiamo cogliere nei loro usi, nei loro dettati l’essenico noviziato almeno in germe. Saremo noi tanto felici di rinvenirlo? Io spero che voi non esigerete una perfetta e circostanziata identità. Comprenderete benissimo come una frase, un cenno sia d’immenso rilievo quando si tratta, come in questo caso, di due scuole che non fu mai usato di confrontare, di cui niuno sospettò o almeno asserì non solo la identità ma nemmeno la somiglianza. Ora, io oso dire che questo cenno esiste, ed esiste nel Talmud di Hollin, ove togliendo a ragionare del tempo in cui il discente può veder dei suoi studj profitto alcuno, altri fondandosi sul noviziato sacerdotale, questo tempo pongono dopo anni cinque; altri in più brevi termini restringendolo lo limitano a soli tre; e tre erano, come udiste, gli anni di noviziato prescritti al nuovo Essena.

 

Ma questi anni vedeste in due periodi partirsi; ed il secondo che dicemmo più lungo, nuova prova e solenne preparazione al cibo comune, al refettorio. Che cosa significa questa speciale importanza alla tavola conceduta? Solo allora la comprenderete quando lo spirito della antichità e lo spirito dei rabbini vi sarà familiare; quando li udirete proclamare la tavola, imagine, ricordo, rappresentanza dello altare di Dio; quando la mensa santificata dalla legge divina li udirete parificare alla mensa dello Eterno, e i commensali qualificare commensali di Dio; quando vedrete queste idee a maggior altezza poggiare per opera e nel sistema dei cabbalisti successori legittimi, a parer mio, dell’antico Essenato. I quali parecchi usi e procedimenti ebbero a mensa che poi vedremo radicarsi negli antichissimi istituti dell’Essenato, e più solenne appalesare fra essi quella identità che è perpetuo subbietto del nostro argomentare. Intenderete allora come supremo onore e grado supremo d’iniziazione fosse tra essi la commensazione in comune, e come niuna prova per essi si trascurasse onde riconoscere se degno fosse l’ospite nuovo di questo onore. Il volevano sapere perchè delle idee partecipavano gli Esseni e dei costumi dei Farisei; perchè i talmudisti, i farisei primo studio ponevano, quando trattavasi di banchettare, nel sapere chi avrebbe a fianco loro seduto a mensa, perchè questa indagine solevano fare immancabile coloro che i talmud designano col nome di Nekiè adaat sce-biruscialaim gli animi delicati di Gerusalemme; perchè i farisei avarissimi erano della loro persona, quando si trattava di porsi a tavola con chi castigatissimi non avesse i costumi e l’animo culto; perchè carattere precipuo si predica nel fariseo, il non prodigarsi in conviti plebei; perchè il farisato irrideva con appellazioni derisorie a quei degeneri dottori che ponevano cattedra nei Prandj e aringo prediletto agognavano le laute imbandigioni perchè li chiama in suon di scherno scaldaforni e leccapignatte.70

Nè questi titoli avriano certo convenuto agli austeri membri dell’Essenato. Ma provatane, come dissi, la continenza, trovato degno di sedere alla mensa fraterna, nel novero senza più era introdotto dei fratelli e dei socj. Allora un bel nome lo attendeva ed oh quanto da quelli testè citato diverso! Lo attendeva il nome, il titolo di libero; e perchè? Perchè libero solo allora estimavasi l’uomo che i vincoli più forti avea se non rotti, allentati, che alla terra lo avvincevano; perchè libero si diceva, come disse Platone, eziandio quello soltanto che alla legge subordinava il volere; e forse come altra volta accennai, libero altresì si diceva perchè gli uffici umilissimi in cui i giovani ministravano un carattere a torto lor non annettessero di mercenari o di schiavi. Ma quanto non consuonano coteste idee colle idee dei farisei! La libertà vera riposta nell’affrancamento dello spirito da ogni maniera mondanità, è teoria se altra fu mai farisaica per eccellenza; liberi Benè korim udiste chiamati dai Dottori nel Talmud (Sotà) coloro che a fianco essendo posti dei Kaberim, a ragione, come dissi altra volta, ci rappresentano i giovani Esseni, i neofiti della setta, coloro che Filone espressamente insegna liberi dagli Esseni appellarsi, liberi di quella libertà che i dottori dissero discesa, scolpita sulle tavole della legge; duplice libertà per cui l’uomo e lo spirito si affranca dal giogo di morte, ed il corpo si sottrae alla signoria dei Potenti del Mondo harut mimmalach amavet umiscibud malkijot. Libertà che gli Esseni conseguivano e colla perfezione dello spirito e colla fuga e coll’abbandono del mondo, libertà di cui i dottori favellarono quando dissero che chiunque si toglie il giogo della legge di Dio si affranca al tempo stesso di ogni giogo terreno, delle terrene dominazioni che nulla ponno oggimai su quello che nulla più chiede alla terra, e tra gli uomini vive come se non vivesse; giogo sociale che dissero hol derek erez, in cui i bisogni e la servitù si compendia, che la società impone ai membri suoi e dai quali l’Essena solo poteva dirsi affrancato, e quindi dello Essena soltanto deggiono aver inteso i dottori quando quello dissero andare immune da ogni peso, da ogni legame sociale, ol dereh erez, il quale sobbarcato si sia al giogo della legge di Dio, ch’è quanto dire, siccome io intendo, che abbia, siccome l’Essena faceva, tutto l’esser suo consacrato ad una vita di ritiro, d’abnegazione, di abbandono. Che il sottrarsi ad ogni giogo sociale a niun altro può si bene attagliarsi come all’Essena che fugge il mondo nel silenzio e nella pace del sacro chiostro. Oh quanto bene ancora non si addice al carattere alla storia dell’Essenato quella virile indipendenza da ogni umana podestà, ol malhut! Oh! quanto acconcie non soccorrono all’uopo le parole di Giuseppe lo storico, quando degli Esseni favellando, non rifinisce di esaltare la fortezza dell’animo, la imperturbabile resistenza che seppero ognor contrapporre alle sevizie, alle persecuzioni, ai martirj di Roma imperante! E queste stesse laudazioni di Giuseppe non sono elleno la miglior conferma di quella identità d’Esseni e Farisei ch’è perpetua dimostrazione di queste conferenze? E chi altro se non i Farisei saranno questi audaci sfidatori della romana tirannia? Chi se non quelli che gli annali empierono del giudaismo della eroica loro resistenza, delle lotte incessanti, dei trionfi, dei supplizi più ammirandi delle stesse vittorie, delle morti cento volte più invidiabili della vita più prosperosa? Chi se non i Farisei, chi se non gli stoici di Palestina con cui ama tanto di compararli Giuseppe lo storico, e con cui tanti e sì profondi ci offrono punti di attinenza non meno di questo rilevantissimi, voglio dire il durare impavidi di fronte al fantasma terribile, implacabile, della romana tirannide? E chi tra i Farisei medesimi meglio in sè riproduce la bellissima caratteristica; chi più altiero levossi sulla mala signoria; chi profferiva più terribile sentenza sui vizi del governo imperiale; chi meglio resisteva al prestigio, al bagliore di quella ipocrita civiltà, se non quella parte di Farisei con cui, a parer mio, più specialmente, più intimamente s’identifica il nostro Essenato, ch’è quanto dire la parte teologica, mistica, ascetica del dottorato ebraico? Singolare a dirsi! Il Talmud ci ha conservato un frammento prezioso in cui il carattere e le opinioni politiche si dipingono di tre tra i più grandi dottori in Israele; in cui tu puoi vedere di ognuno il vario sentenziare su quell’impero, che teneva allora il mondo sotto i suoi piedi; in cui ognuno rivela le proprie impressioni tali quali internamente esperimentavali a quello spettacolo di grandezza, di forza, di ricchezza, di lusso, di sapere governativo, di polizia cittadinesca! E chi sono i grandi interlocutori? Sono Rabbi Jeudà soprannominato lo eloquente o meglio il primo tra i parlatori, Ros amedabberim; è l’altro Rabbi Iosè; ed il terzo è R. Simon Ben Iokai. Favellavano essi dell’impero romano, delle sue leggi, dei suoi usi, della sua civiltà. Sorge R. Jeudà ed esclama: Oh quanto sono belle le opere di questo popolo! Quanto senno nel governare i sudditi! Quanta cura del loro ben essere! Qui aprono strade che la città in se stessa e le città le une alle altre e tutto l’impero congiungano fra le sue parti; qui a valicare fiumi erigono ponti; qui di ogni maniera comodità arricchiscono il paese, e bagni e teatri e passeggi aprendo a ristoro, a vaghezza, a diporto degli abitanti. Il cuore di R. Jeudà era ebreo; chi ne dubita? Ma la mente sua non poteva non ossequiare quel prodigio di arte, di grandezza che l’impero ostentava agli occhi dei popoli vinti. Alla generosa apologia tace R. Iosè, ma Simone favella, anzi Simone rugge, Simone tuona e come terribilmente! Sì; elevano costoro ponti ma per preporvi commissari all’esazione dei pedaggi! Sì; aprirono strade, ma per gettarsi come torrenti sul mondo intiero. Sì; schiusero vie, ma per alloggiarvi i loro agenti, i loro proconsoli, le loro meretrici. Sì; aprirono bagni, teatri, passeggi, ma per snervarvi i popoli colle blandizie, e per conchiudere colle parole del testo, tutto che fecero, a pro di sè operarono. Ma Roma era tutta in orecchi, e in ogni angolo, in ogni città, in ogni ritrovo protendeva la rete del suo spionaggio. – Insieme ai tre dottori eravi un quarto, e questo quarto era Ebreo, e questo quarto era il delatore di Roma. Roma seppe poco stante ogni cosa, seppe la lode, il silenzio, la invettiva, e Roma di li a breve sentenziò: Giuda che esaltò sia esaltato, Jeudá sceillá itallé; Iosè che tacque, tragga in esilio, ighlé lezzipori; Simone che sparlò, perda la vita. Narrarvi le cose che seguirono, la fuga di Simone, la caverna, gli studi e probabilmente la coordinazione delle sue dottrine; non è di questa conferenza l’officio. Ma che animo, che mente, che cuore, che indipendenza di spirito! E che riscontro mirabilissimo colla nota caratteristica che Giuseppe attribuisce agli Esseni! L’indipendenza di Simone lo condusse se non al supplizio estremo, a vita peggiore che morte per tutt’altri che lui; ma qual conforto! Nella sua solitudine ei poteva dire a sè stesso: quando i secoli avranno delle cose presenti abolita ogni traccia, Roma non sarà più; ed uno dei miei più tardi discepoli narrerà ai fratelli ammirati le mie prove, i miei dolori, il mio coraggio, la mia gloria. Questo discepolo non oso dire chi sia, ma questi fratelli siamo noi, siete voi stessi.71

 

LEZIONE DECIMAQUINTA

Noi abbiam detto nella passata lezione, come il noviziato degli Esseni constasse di due parti o periodi che dir vogliamo, e come secondo fosse quello che preceder soleva l’ammissione al refettorio. Noi abbiamo così conosciuto la durata, la gradazione del noviziato; ne abbiamo, a così dire, veduta sinora la parte esteriore. Mestieri è che meglio in esso ci addentriamo a scuoprirne la verace natura; mestieri che il valore, la guarentigia morale ne sindachiamo; mestieri che al fatto più cospicuo assistiamo che la intima essenza costituiva del noviziato. Qual’è questo fatto, qual’è l’atto più solenne a cui il nuovo Essena era chiamato a adempiere? Egli era in una parola, un giuramento. Non so se io vada errato, ma il giuramento per se stesso, la sua formula avventurosamente conservataci per intero, le parti tutte di cui è composto, la precisa e minuta descrizione di tutti gli obblighi che il Neofita si assume, la viva dipintura che vi si asconde della vita e del genio dell’Essenato, il suo carattere insomma, di sommario, di catechismo, di compendio di tutte le esseniche istituzioni ne fanno, se io non erro, un documento unico nel suo genere e di una tale significanza che vano sarebbe il disconoscere. Potremo noi a tanto trovato rimanerci indifferenti? Potremo non istudiarne a parte a parte gli articoli di cui è composto? Potremo noi non rimirare quasi in vivo speglio la società degli Esseni nell’atto più espressivo e più compendioso della vita sociale, e come a dire nel suo credo, nel suo atto di fede, nel suo programma? Ecco perchè ho meco stesso deliberato, a costo ancora di mandare più che non volessi per le lunghe il nostro corso, esaminare partitamente il giuramento in discorso; ecco perchè senza por tempo in mezzo mi accingo a dirittura al lavoro. Ma prima siamo con noi medesimi conseguenti. Noi vogliamo, non è egli vero, gli Esseni per nulla diversi, anzi identici assolutamente a quel farisato in cui si contengono come parte nel tutto? Ora se questa identità non è menzognera, non solo i Farisei avranno pure essi un noviziato, e ciò vi fu (cred’io) abbastanza dimostrato, ma avranno ancora, lo che più monta, l’equivalente della essenica iniziazione; avranno un atto per cui noverati venivano nel bel numero, per cui al patto sociale, ai suoi doveri, ai suoi dettati promettevano leale osservanza. Eravi nulla di questo in seno al farisato? Se vi era! Basta gettare ancorchè superficiale uno sguardo sulle pagine talmudiche per convincersene immantinente. Basta aver udito a parlare dei Dibrè habrut, e della iniziazione a questa consorteria chiamata cabalat dibrè habrut, l’assunzione, l’accettazione dei doveri sociali. È vero che la memoria che ne serbò il Talmud va quasi sempre improntata di quel carattere pratico, esecutivo, rituale, ch’è genio specifico di quasi tutto il Talmud; è vero che non conosciamo siffatta consorteria che dal lato suo positivo cerimoniale; è vero che la parte organica, ideale, dottrinale di questo habrut, è rimasta nel Talmud ricoperta da densissimo velo; ma quante d’altra parte non ci offre col nostro Essenato parlantissime analogie! Basti accennarvene le più cospicue, intorno alle quali mi abbisognerebbe dettare un trattato per esaurir tutta quanta la vastissima materia. Vi basti in primo luogo che le più ovvie resultanze delle memorie talmudiche altamente ci attestano come nel mentre che cotesti haberim o soci si radicavano profondamente in seno ai Farisei, e da essi, vita, dottrine, soci, indirizzo e tutto accogliessero onninamente, cionnonostante del farisato medesimo formassero quasi elettissima schiera, ed a certi doveri e pratiche gissero sottoposti a cui sottoposti non erano il comune dei Farisei. Testimone quel rilevantissimo passo della Misnà ove a chiare note si distingue il semplice Fariseo, il semplice Talmid haham, da quello che ivi stesso si noma Haber; e le norme ivi stesso si dettano e le regole che dovranno all’ammissione presiedere dello stesso Talmid haham, prova se altra fu mai irrecusabile, a parer mio, come a senso della Misnà Talmid-Haham e Haber non sono sinonimi; ma il primo di semplice Fariseo alla più elevata condizione può trapassare di Haber, e come io intendo di Essena di Terapeuta. Curiosissima indagine sarebbe, tutte le parti della rabbinica enciclopedia perscrutare ove dei Haberim è menzione, ove questa società innominata, indeterminata, ha lasciato di sè traccie sensibili. Vedreste in primo affaticarsi i tardi comentatori come il Maimonide a giustificare l’appellazione di Haber ai Farisei conceduta, e ragioni così esigue, sì aeree allegare che dopo il pasto hai più fame che pria. Siccome quella V. G. che il Maimodine proponeva non per altro, dicendo, chiamarsi i dottori Haberim o soci se non per che fida e durevol società è la loro, quasichè non resultasse da tutto il Talmud lo speciale e superlativo indirizzo dei Haberim; e quasi infine generale denominazione fosse cotesta dei Farisei, e non piuttosto ad una parte di essi peculiarissima, siccome ho abbastanza, se non erro, provato. Vedreste poi la memoria dei Haberim tornar frequente e rinomata nelle pagine del Talmud, li vedreste nel trattato Niddà, comechè fosse da lungo tempo il sacrifizio abolito, nelle antiche lustrali aspersioni perseverare colle ceneri della vacca rossa. I Haberim, dice il Talmud, tuttora aspergono di acque lustrali in Galilea. Vedreste dottori contraddistinguersi con questi nomi e intitolarsi come dai Haberim Zeirà demin Habrajà. Vedreste in altri luoghi i dottori dirsi in generale Haberim, non perchè tutti lo fossero attualmente, ma perchè tutti erano capaci di divenirlo. «Haberim Machscibim elu Talmidim scemachscibim zè lazè baalakà» Vedresti nel trattato Sciabuot, cap. 4, i dottori l’un l’altro scrivendosi, col noto nome appellarsi di Haber e con quello diverso sì, ma equivalente, di Amit. Vedreste due fatti che più davvicino ci accostano alla consorteria degli Esseni: in primo luogo nel Talmud quelle larve, quei fantasmi che in sembianza umana era dato di suscitare apertamente dirsi fattura dei Haberim, lo che a dirittura ne mena il pensiero al carattere ascetico taumaturgico del nostro istituto. Vedreste poi non più nel Talmud, ma lo che è più, lo che è tutto nella nostra disquisizione, vedreste nel Zoar, che è quanto dire nell’Emporio del cabbalismo, un fatto semplicissimo ma d’una immensa rilevanza a parer mio, ed è questo: che la sola, la comune, la indistinta denominazione che tutti recano i dottori cabbalisti, quella e non altra si è di Haberim, o come in dialetto arameo ivi costantemente si legge, Habrajà.

Io non so se mi faccio illusione, ma più che non fôra mestieri parmi aver argomenti accumulato a provare l’esistenza di un legame, di un vincolo sociale in seno al farisato. Lo prova il carattere e il nome tanto significantemente ripetuto di Haber, lo prova di più l’atto di ammissione di iniziazione, che i libri rabbinici chiamano, come vi dissi, cabbalat dibrè Habrut e di cui le norme, le forme tutte sono prescritte nella Misnà e nel Talmud.

Abbiamo perciò esaurito quanto di più concludente ci offrono gli antichi rabbinici monumenti? Oso dire che rispetto alle cose che intenderete, poco parrarvi l’udito sin ora. Io vi dissi, e non è molto, che sino quasi ai nostri tempi non si credeva in generale che le opere rabbiniche dei primi secoli dell’Era volgare niuna traccia contenessero di Esseni e di Essenato. Oggi però si comincia a sospettare il contrario e non poco studio si rivolge a quante vestigia per avventura ne conservano i libri talmudici. Io credo aver posto la mano su tale memoria che mentre attesta come vedrete la identità degli Esseni e dei Haberim, ci fa udire forse per la prima volta sul labbro ai dottori vivo e parlante il nome di Essena, ed in circostanze e ad uno intendimento siffatto che il valore ne accrescono a mille doppi. Giudicatene voi stessi. Narra il Talmud gerosolimitano come un Assià (alla lettera medico o terapeuta) chiedesse ad un dottore la comunicazione del nome di Dio, come questi lo interrogasse se mai avvenuto gli fosse di profittare degli averi altrui, come a ciò replicasse l’Asseo dicendo essere uso cibarsi della decima che si prelevava sulle derrate, e come infine concludesse il dottore dicendo: non potersi comunicare il santo nome di Dio a chi riceva d’altri qualsiasi cosa in dono. Quanti dubbi, quante domande non provoca il frammento citato! Chi è questo medico o Terapeuta così voglioso di conoscere addentro i nomi di Dio quasi fossero aforismi ipocratici? Che è questo inaudito cibarsi della decima in chi non appartiene alla tribù di Levi? Che cosa significa questa condizione posta alla desiderata comunicazione – il nulla ricevere in dono? Ma quanto bene, se si accettano le nostre premesse! Avremmo allora nell’Assià del Talmud il vero e proprio nome dei nostri Esseni; nella sua domanda, una domanda che nulla più confacente ad uomini che studiavano le arcane cose contenute nella legge di Dio, e sopratutto i nomi divini, i nomi degli angioli che apertamente impromettono di gelosamente custodire nel loro giuramento d’amissione, e tanto più a costoro conveniente s’egli è vero ciò che noi reputiamo verissimo, che non altro fossero gli Esseni che gli antenati dei cabbalisti ai quali mirabilmente si acconciano siffatte speculazioni. Ma che cosa, direte, è la decima di cui si cibano? Ovvio lo intenderla purchè vi piaccia con me convenire che non altro sono gli Esseni, non altro quindi il nostro Assè o Assià del Talmud, che i Haberim o soci talmudici, gli uomini delle raffinate purità. Perciocchè di questi si legge nello stesso Talmud di Gerosolima (Sota cap. 9) che della decima si cibavano al pari dei poveri e dei leviti.

Non solo: ma il nome di Haberim soci è dato dallo stesso Talmud (Nedarim VI) a quei Harasc e Masgher (alla lettera falegnami e fabbriferrai) che si narra nei Re essere stati trasferiti in numero di mille per ordine del vincitore da Gerusalemme a Babilonia. E finalmente un visitatore d’infermi, anzi un loro assistente, era detto nel Medrasc (Berescit Rabbà sez. XIII) appartenente al ceto dei Haberim; senza dire di altri luoghi moltissimi in cui tal nome ritorna; segnatamente nel Talmud già citato (Ghittim Iº) ove i Haberim o soci si fanno interpreti delle dottrine di R. Jeosciuah Ben Levi, uno dei dottori i più manifestamente cabbalisti di tutto il Talmud.

Io dissi non ha guari come il carattere di questa iniziazione talmudica partecipi in grado eminente del carattere generale del Talmud, che mira unicamente ad un complesso di osservanze più minute, più rigorose, alla costituzione di una frateria vivente con regole più severe di purità religiosa; dissi in fine che la iniziazione onde è discorso non si mostra nei libri talmudici, che dal lato suo rituale e positivo, per la semplicissima ragione che il lato rituale e positivo è quello che universalmente primeggia nelle pagine talmudiche. Quindi è, che solo brevi fugacissimi lampi ci è dato vedere per entro al Talmud della interiorità, del midollo del lato ideale dottrinale dogmatico, dell’istituto medesimo e sotto l’opaco velo talvolta adombrato dell’essoterismo dei riti. Egli è per questo che dovremo credere null’altro esser i Haberim del Talmud che uomini più gelosi degli altri del governo del corpo, dei reciproci contatti, del lecito e dell’illecito? Io credo che la conclusione sarebbe assurda in principio ed assurda in fatto, e come oggi si dice a priori ed a posteriori. Perchè dico assurda in principio? Perchè egli è contro ogni sana induzione il supporre un’organizzazione, vuoi sociale, vuoi religiosa, un complesso di pratiche, una regola di azioni senza alcuni grandi principî che siano di quell’organismo la vita, l’anima, il pensiero, il genio supremo; perchè non appena mi vien fatto di udire il verbo dell’uomo, di assistere all’esercizio ragionevole dei membri suoi, di udirlo parlare, muoversi, agire, io sono senz’altro e per questo solo criterio fondatissimamente autorizzato a supporre in lui comechè invisibile, un principio ragionevole che le azioni ne governi, un complesso di idee di pensieri che sieno come le molle dell’azione che mi si spiega dinnanzi, in una parola l’anima di quel corpo. Ho detto che sarebbe anche un errore di fatto. Perchè s’egli è vero, come ho già detto, che l’elemento dottrinale del talmudico Haberut sia in gran parte invisibile, non è sì che altri monumenti, altri attestati, altre sorgenti non soccorrano all’uopo; non suppliscano a quanto ha di manchevole la storia talmudica del haberut; non completino di esso la verace fisonomia e quella non restituiscangli che nei libri talmudici fu unicamente abbozzata. E dove si trova questo? Lo si trova ove deve naturalmente, ove non potrebbe a meno di trovarsi: nel libro del Zoar: che è quanto dire in quel libro che adempie verso le dottrine, il dogma, la teologia, l’acroamatismo, quell’ufficio medesimo che il Talmud verso la pratica, il rito, l’essoterismo.72 Per modo che il Zoar e il Talmud ci forniscono per parte loro una metà per ognuno della fisonomia del Haberut, e quella appunto che alla indole speciale si attiene di ognuno: le quali parti poi insieme combinate non solo bellamente si connettono, si completano, si integrano, prova se altra fu mai della loro intima originaria unità, ma ci danno ancora il vero e fedele ritratto che andiamo cercando. Che voglio dire pertanto? Voglio dire che il Zoar ci offre la iniziazione al Habrut da quel lato che manca precisamente nel talmud dal lato dogmatico, voglio dire che il Zoar contiene per gran ventura pochi, ma preziosissimi fatti, in cui la iniziazione di cui si parla assume il colore proprio al genio dell’opera; e più palesi ne rivela le armonie coll’istituto che studiamo colla società degli Esseni.73 Io lo credo fermamente. Percorrendo con occhio diligente le pagine del Zoar, parecchie altre non meno gravi dimostrazioni, non meno appropriati esempj si potrebbe scuoprire. Ma chi potrebbe a tanta opra non venir meno? Io non pretendo aver ogni ricerca esaurita; e pure due grandi esempi mi fu dato trovare, due grandi scene di cabbalistica iniziazione, due ritratti parlanti dello Epopsi essenico-cabbalistico, l’ultimo specialmente che per la maestà e stupenda semplicità vince ogni credere. E il primo al vol. 2º p. decimoquarta, ove tu vedi il maggiore dei Hyà, Rabbi Hyà Rabbà, tutte subir le prove, le esitanze, le trepidazioni; e infine il premio dei nuovi iniziati; ove lo vedi soffermarsi alla porta del capo-scuola e per parlare il linguaggio dei misteri, del Jerofante; qui naturalmente non altri che R. Simhon ben Johai ove una cortina il divide dal seggio e dalla scuola venerata, ove ode la voce delle sacre dottrine e vaghezza il prende di penetrare, ove l’esitazione s’impadronisce dello stesso ben Iohai non sapendo se degno sia il nuovo venuto di partecipare ai santi misteri, ove tu vedi il figlio suo R. Eleazar profferirsi di fare da Epopta, da introduttore al dotto straniero, dovesse ancora, siccome testualmente si legge, restarne incenerito; ove una voce si dice allora essersi udita la quale con parole che tuttavia riescon dure ad intendersi, sembra volere il soverchio zelo affrenare del giovane dottore; ove lo straniero rinnuova il pianto e le suppliche; ove aperta infine la cortina, si rimane nonostante lo straniero esitabondo non osando penetrare; ove infine levatosi R. Simone, egli stesso introducelo, e vedendo il nuovo iniziato gli occhi tenere sommessi e il capo chino per timidezza soverchia, ordina al figlio suo, udite singolarità! di fare a R. Hyà quell’atto così celebre, così comune a tutte le società che vivono di segreto, voglio dire, la chiusura e l’aperizione della bocca.

69Non sarebbe inverosimile che la predizione di Gesù a Pietro Prima che canti il gallo tu mi avrai rinnegato tre volte– sia una applicazione a se stesso, vero e nuovo Tempio– com’egli altrove si chiama, di ciò che ivi si praticava nel culto di Dio: volendo dire che il canto del gallo anzichè schiudere la giornata religiosa ad essere il segnale degli officii del tempio che cominciavano con triplice suono di corno, sarebbe stato anzi preceduto da triplice rinnegamento: tanto la Divinità da lui rappresentata sarebbesi inchinata alle più profonde umiliazioni. Non dimentichi il lettore quanto fu da noi provato (Lezione XII, Nota 2) intorno la sostituzione che Gesù insegnava di se stesso al Tempio, qual fonte d’ispirazione.
70Ecco la chiave dei lamenti e rimproveri che i vangeli ci narravano dirigere i Farisei contro il costume di Gesù, di sedere cioè a mensa con pubblicani e con malfattori. Nessuno più dei Farisei si adoperava alla conversione dei peccatori; opera che magnificarono nei loro libri più di qualsiasi altro ufficio di pietà; ma non credevano che si potesse senza imprudenza, e senza fallire lo scopo istesso che proponevansi, scender fino a tanta familiarità.
71Nessuno negherà che la vita contemplativa ed ascetica non sieno sommi educatori dell’animo a libertà e indipendenza di sensi, siccome quella che insegna a vincer gli altri col lottare con se stesso. Da ciò nacque la gran forza di resistenza che spiegò il Cristianesimo nel suo nascere e che imparò là dove attinse tutto ciò che forma il suo corredo dommatico e il suo pratico indirizzo. Vi è però un pericolo a cui rado è che fuggano i mistici, e che solo l’ebraico per la sua intima connessione con una religione che era al tempo stesso una norma civile e politica, potè avventurosamente cansare. Difatti gli spiriti mistici onde si prova in varj tempi il nostro popolo, e più in quelli di cui discorriamo, non lo spinsero mai a quegli eccessi in cui caddero tutti quelli che calcarono le stesse orme; ma seppe mantenere più o meno l’equilibrio fra la vita attiva e la vita speculativa, fra la mente ed il corpo. Quanto al fatto di cui si fa menzione nel testo, alla conversazione tra i dottori risaputasi dal governo di Roma, e della successiva fuga di R. Simone, e della lunga dimora in una grotta, vogliamo solo aggiungere che forse in questo cenno troverebbe largo campo di esercitarsi una parte dei critici moderni i quali affermarono che lungi da morire Gesù sulla croce, sopravvisse lunghi anni a quel supplizio, protetto e nascoso dal silenzio e dal mistero degli essenici chiostri. Chi sa che non si dica altrettanto dei tredici anni che visse R. Simone Ben Johai lungi e salvo dal decreto romano che l’aveva condannato a morire? Certo che questo scampo prodigioso non si presta meno acconciamente all’ipotesi di un rifugio in qualche riposto asilo degli Esseni fratelli, tanto pel tempo non breve, quanto per i mezzi ch’ebbero esso e il figlio di vivere in tanto abbandono. Quando ciò possa consentirsi, tanto più intelligibile parrà la tradizione corrente tra i cabalisti che là meditasse e coordinasse R. Simone le sue dottrine e la sua teosofia. Ed oltre al tempo, all’ozio, all’asilo, specialmente se essenico che tanto bene si presta, non mancano nel testo talmudico e medrascico cenni che provino come ben altro uomo uscì il nostro dottore dal suo asilo di quello che vi fosse entrato, specialmente per ciò che si attiene alla dottrina, santità e religiosa eccellenza. È degno di nota il rifugio che anzi tratto si procurano nel Be Medrascià, nell’accademia secondo il Talmud Babilonese (Sciabbat cap. 2), e che dee esser stato luogo e rifugio di un indole affatto speciale per poter sfuggire alle ricerche del governo romano. Il genio ascetico e taumaturgico si palesa nel padre e nel figlio appena usciti dopo tredici anni dal loro asilo, quando si sdegnano al solo vedere uomini occuparsi di lavori agricoli (Ibid), nelle punizioni che infliggono e nelle guarigioni che operano egualmente prodigiose; nella figlia della voce (Berat Calà) che odono annunziare tanto la caduta di un uccello nelle reti del cacciatore quanto il suo scampo (Medrasc Scemot Rabbà sez. 79), e che ha un eloquente riscontro in voci ed annunzj consimili che si narrano uditi dagli uomini stessi nel Zoar; mentre malagevole sarebbe trovarne dell’indole stessa nei libri talmudici. Nè è da tacersi la singolare conformità della illazione, che da questi fatti trae Simone con un analogo pensiero dei Vangeli. Se un uccello non cade nella rete senza espresso decreto di Dio sarà egli possibile che ciò avvenga per l’uomo? Gesù si valse dello stesso esempio degli uccellini per assicurar ai suoi discepoli il sostentamento per la domane. La grandezza religiosa e scientifica a cui s’inalzò dopo il lungo ritiro, si mostra nel vanto che di sè proferisce, dicendo al figlio: Bastiamo noi due pel mondo intiero e che ha riscontro e interpretazione eloquente in altra sentenza da lui profferita in altra occasione quando disse: Veggo che gli uomini della Camera (Benè Alià) sono scarsi. Se sono due, noi siamo quei dessi. (La Camera di cui qui si parla è lo stesso delle Camerette dei Vangeli, in cui Gesù dice che si comunicano le cose segrete); si mostra nella replica che ci fa a R. Pinehas Ben Jair il quale deplorava vederlo nella persona così malconcio: Beato te che tale mi vedi, che se così non mi vedessi, tale io non mi sarei a quest’ora; e il Talmud chiosandone il senso aggiunge che prima del suo ritiro, ad ogni domanda che Simone faceva, R. Pinehas dava 12 risposte; ma dopo quello, ad ogni domanda del secondo opponeva Simone 24 risposte, lo che nel linguaggio iperbolico talmudico significa che la scienza di questi, sopravanzava di gran lunga quella del suocero.
72Questo riempire che fa il Zoar la lacuna istorica che offre il Talmud in fatto dei Haberim, il cui carattere, officio, definizione riuscirebbero vaghi incompleti senza il soccorso del primo, è prova tra mille altre che l’uno e l’altro non formano che un solo corpo di dottrina e si appellano e si completano scambievolmente. È questa in piccolo una immagine dell’officio che sostiene la dottrina cabbalistica o teosofia verso tutto l’ebraismo pratico, cioè quello di fornirlo di una originale e connaturale dogmatica.
73Talmid—Kaham– titolo che si danno i Farisei negli antichi monumenti Rabbinici (Misnà, Talmud ec.) e significa scolaro; —discepolo di dottore meglio che dottore. È espressione suggerita da umiltà; e non si comprende come uomini siffatti potessero agognare al titolo di Rabbi, e ad essere tali chiamati su per le piazze, siccome di tanto li appuntano i Vangeli. Altra importante considerazione ci offre il tempo in cui predicava Gesù. Poichè, secondo attestano memorie autenticissime, il titolo di Rabbi lungi dall’essere allora comune fra i dottori, si veggono anzi i più famigerati capiscuola che in quel torno fiorirono, recare nelle opere rabbiniche il nudo e semplicissimo loro nome. Quindi grave dubbio ne emerge che anche da questo lato meglio che la impronta dei tempi in cui quei discorsi si dicono proferiti, quella rechino invece dell’epoca in cui i Vangeli furono redatti; e gli autori di questi facciano usare a Gesù un linguaggio che solo ai loro proprii tempi si addiceva. Checchè ne sia, il nome Talmid Kaham ha molta analogia, quanto allo intendimento che lo dettava, con quello di Filosofo o amante di sapienza che si davano i savi pensatori di Grecia, differenti dagli altri che per presunzione diceansi Sofi o Sofisti.