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Storia degli Esseni

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LEZIONE DECIMATERZA

Di due sorta classificazioni studiammo nella società degli Esseni nella conferenza passata: abbiamo veduto in che cosa consistesse la prima, e come getti le sue radici in una identica distinzione che la Misna ci additava in seno al Farisato. Abbiamo veduto in che cosa consistesse e su che principalmente si fondasse la seconda distinzione; distinzione di officio, di genio, di peculiare indirizzo, per cui in due principalissime categorie si dividevano tutti gli Esseni, in Pratici, in Contemplativi. Erano i pratici coloro che del tutto non si separavano dal mondo. Eran i contemplativi coloro che all’amor dello studio, al ritiro, alla contemplazione sacrificavano ogni altro culto, ogni affetto, ogni ambizione: di queste due classi noi abbiamo costatato, quanto era mestieri, l’indole, il carattere particolare; abbiamo veduto come più si affacesse ai primi la patria Palestinese, e come piuttosto si acconciasse ai secondi il soggiorno di Egitto. Se questa fosse semplice e nuda esposizione della Essenica organizzazione, se non ci fossimo sin da principio proposti di restituire il nostro Essenato al più vasto seno, alla più vasta scuola dei Farisei, se non dovessimo porre questa identità al raffronto di ogni fatto che si presenta, e da quello nuovo argomento derivare in favor nostro; se questa restituzione non fosse di sommo, di capitale interesse nella storia religiosa del popolo nostro, forse noi, postergato questa sera l’argomento presente, procederemmo difilati più oltre. Però grave debito c’incombe e lo adempiremo. Noi dobbiamo sperimentare quanto e come regga al confronto dei fatti il nostro supposto, dobbiamo vedere se la distinzione di cui si favella nella società degli Esseni, risponde ad altrettale distinzione in seno al Farisato; in una parola, dobbiamo anco una fiata vedere se la propugnata identità non è una favola. Io chieggo dunque: conobbe egli il Farisato distinzione siffatta? Havvi tra esso una scuola, un sistema che sia e che si appelli contemplativo? Havvi al tempo istesso un altro che le dottrine professi e il titolo rechi di Pratici? Io oso dire che la distinzione esiste, e tale esiste che meglio non potrebbe allo scopo conferire. Esiste in tutta la estensione della Enciclopedia Rabbinica dei primi secoli, esiste nei fatti, negli uomini, nelle dottrine e infine sotto due principalissime forme due modi di storica rimembranza. Prima forma io chiamo quei casi innumerevoli in cui l’una o l’altra scuola, i Pratici o i Contemplativi s’introducono ad agire, a parlare isolatamente, separatamente dalla scuola e dal sistema contrario, così che noi esamineremo successivamente, passando prima in rassegna tutto ciò che nella Rabbinica Enciclopedia allude agli uomini, ai fatti, alle dottrine dei Pratici, e poi ai fatti e agli uomini che si dicono Contemplativi. Ma quanto più vivo interesse, quanto più efficacia nella forma seconda! In questa Pratici e Contemplativi, sistema e sistema, dottrina e dottrina più non ti appariscono lontani e disgiunti; ma con bella e parlante antitesi interloquiscono ambedue ad un tempo; e fede fanno ad un tempo della loro esistenza, e la distinzione pongono più chiaramente in rilievo in virtù del contrasto. E prima, che nome recano negli scritti Rabbinici le due scuole? Che nome pei primi i Pratici? – Ora il nome di Iere het, che temono il peccato, ora quello più espressivo di anse maase, gli uomini della pratica, i Pratici, come udirete dagli esempj. Che nome recano i Contemplativi? – Il nome principalmente di Hasidim. Noi dell’uno e dello altro conosciamo i nomi; dove ora le dottrine, dove i fatti e dove gli uomini? Dove in primo luogo i Pratici? – Eccoli quando predicano l’insufficienza della sola speculazione; quando vogliono lo studio delle cose divine congiunto alla pratica dei doveri sociali iafe talmud tora im dereherez, im en dereherez en tora; quando dicono l’uomo non doversi dalla società sequestrare leolam tee datho sceladam meurebat im abiriot; quando insegnano nessuna virtù tornar gradita comecchè trascendente; quando dal centro vivificatore si sequestri, dalla religiosa comunanza, dalla chiesa di Dio; quando levano a cielo la necessità del lavoro ghedola melaha scemehabbedet bealea; ghedolim baale umaniot l’amore dell’industria, la fatica del corpo e i benefici influssi di una vita laboriosa ed attiva alla salute dell’anima. Dove sono i Contemplativi? Vedeteli nel Talmud in Sotà ove coi più celebri Dottori si lamentan perdute altresì le più rare virtù, e dove specialmente con Iose ben Catnuta si dice oscurato il lustro dei Hasidim; vedeteli nel Talmud Gerosolimitano, ove di un’opera e di un titolo si accenna, che non so come si potrebbe desiderare più appropriato pel caso nostro; è la menzione di un’opera che il titolo reca di Misnat hasidim, ed in cui tutto ed al sommo c’interessa, persino una curiosa variante. Interessa una citazione che ivi stesso è riprodotta dell’opera in questione, e dove in brevi ma espressivi tratti ti si dipingon le fattezze dei Contemplativi; ove si legge, p.e.: se tu per un solo giorno mi abbandoni, io ti abbandonerò per due, volendo dire come l’assiduità e la perseveranza sia precipua somma condizione nei sacri studj; e noi sappiamo qual ritratto ci abbia Filone lasciato della applicazione istancabile dei Terapeuti ai cari studj. Dissi persino una variante, e ve lo provo. Io lessi Misna hasidim Lettura o tradizione dei Hasidim per che così recano parecchi autorevolissimi testi, per che così par confermato da altri passi talmudici, come tra poco intenderete, e perchè finalmente, quando pure si meni buona la diversa lezione, pure il senso rimarrebbe a parer mio invariato. Ma qual è la seconda lezione? Leggono invero alcuni testi Meghillat Setarim invece di Misnat hasidim. Ma che vuol dire Meghillat Setarim? Vuol dire il volume dei Misteri. Io non so s’è dato afferrare da ora l’attinenza che corre strettissima fra le due lezioni. Bisognerebbe che precorso aveste in parte il mio dire. Bisognerebbe che voi sapeste come i libri degli Esseni fossero tenuti in gelosissima custodia, nè ad altri ne fosse comunicata contezza, tranne ai più fidi, ai meglio provati. Comprendereste allora l’origine di questa variante; vedreste siccome io veggo come naturalmente siensi presentate ambedue le lezioni, e vedreste ancora come se la vera e originale lezione non è al certo che una, pure non può essere senza grave cagione ammessa, introdotta la seconda lezione, e questa cagione e questa origine e la somma convenienza di libri, di opere esotteriche quando si parla di Esseni; siccome quelli che la storia accenna veramente possessori e custodi di libri siffatti.58

 

Ma in altre parti ancora della Rabbinica Enciclopedia lasciarono di sè vestigia i hasidim. Lasciaronle nel Talmud Babilonico ove a chiunque, ed eziandio a quei Dottori che alle più rigide regole non soggiacquero del Hasidut, e solo allo strettissimo Jure mostrino di attenersi, si suole maravigliando interrogare, ella è forse cotesta la Misna dei hasidim? Quasi dicessero, egli è questo il fare severo, irreprensibile dei hasidim? – Lasciaronla nel trattato Berahot, dove degli antichissimi hasidim si narra il lungo orare, e le protratte preparazioni, e la giornata quasi interamente sacrata agli uffici di devozione quando si dice: Gli antichi hasidim un’ora spendevano in preludio a preghiera, un’ora nell’orare, un’altra pria di congedarsi da Dio e così facevano tre volte al giorno. Ove dunque gli studi e dove l’industria per vivere? – Si ripiglia lo stesso Talmud: sendo costoro hasidim, il poco studio fruttava assai e lo scarso industriarsi sopperiva al bisogno. O io sbaglio, o questo passo del Talmud è un bizarro accozzamento di antiche tradizioni e di più moderne spiegazioni. Mestieri è che sappiate che cosa sia il Talmud Babilonico; come fuori fosse compilato di terra santa, come gli autori che dierongli la forma sua definitiva, nè la Palestina per avventura vedessero mai, nè i partiti, nè le vicende più importanti gli fossero conte di Palestina; quindi i non rari anacronismi nella storia palestinese, i fatti storici a quella relativi narrati in confuso, e quindi infine il sentenziare presente. Per tradizione conoscevano per avventura gli antichissimi Hasidim e li ricordano, udito avevano la vita a perfezione religiosa atteggiata, e così la dipingono; le orazioni lunghissime, la giornata spesa in devozioni e tale la narrano in verità, obbliarono però o non udirono come la speciale loro organizzazione, la comunanza dei beni, il lavoro in comune, questo tenore di vita straordinario gli consentissero, cioè le lunghissime ore trascorse in offici pietosi, quindi le più tarde e forzate spiegazioni, il ricorrere al prodigio, l’attribuire ad una grazia ognor rinnovata ciò ch’era effetto della loro istituzione, e quindi il bizzarro accozzamento di un fatto vero e di una ragione arbitraria, di una tradizione verace e di una interpretazione gratuita.59 E lasciarono di sè manifeste vestigia in Hasidim, in quella eccezione singolare per cui un ceto intero dei cultori della legge viene formalmente dispensato da ogni pratica religiosa, siccome apertamente dispensa il Talmud da ogni religioso dovere coloro che fanno unica somma loro occupazione la meditazione della legge, o come dice il Talmud, che altra professione non eserce tranne lo studio; e quando infine per colmo di maraviglia volendo citare il Talmud un uomo, una scuola che alle condizioni tutte abbia adempito necessarie a questa dispensa, il gran nome cita e la gran scuola ad esempio.60 R. Simon ben Johai e i suoi compagni, insegnandoci al tempo stesso nella citazione preziosissima e il carattere ascetico, speculativo, studioso, eccezionale di quella famiglia e la preziosa indicazione della esistenza istessa di una scuola da quel gran nome capitanata, e infine la bellissima coincidenza delle due dispense, quella che il Farisato consentiva al Ben Johai ed alla scuola sua da ogni pratica osservanza, e quella che gli Esseni rispettavano nel più perfetto del loro Istituto da ogni pratica esteriore;61 e quindi nuova e preziosissima conferma e della identità generale della Farisaica colla Essenica scuola, e tra i medesimi Farisei una più speciale affinità colla scuola mistico-teologica, dei cabbalisti di cui fu principe e restauratore Simon Ben Johai. Ma io vi dissi che non solo disgiuntamente lasciarono di sè vestigio nei Rabbinici monumenti ed Esseni pratici ed Esseni contemplativi; dissi ancora, e vado a provarlo, che la coesistenza in seno al Dottorato di questa duplice ramificazione, resulta anco più spiccata, anco più manifesta in tutti quei luoghi, e sono molti e sono parlanti, nei quali gli uni figurano a costa degli altri, in cui Pratici e Contemplativi si fanno lume, si spiegano, si suppongono scambievolmente, ora Dottrina contrapponendo a Dottrina, ed ora professori a professori. E dove fan questo? Dove in primo luogo l’antitesi delle dottrine? Antitesi, io dico, chiarissima nel Talmud Berahot, dove Pratici e Contemplativi scendono a disputare. – E qual’è del disputare l’obbietto? Niente meno che la quistione grandissima che tra essi verteva, voglio dire la eccellenza maggiore di ambo le vite, della vita pratica e della vita contemplativa. Voi comprendete il gran momento di questo trovato. Ma che sarà poi se il nome intenderete dei disputanti, se vi dico, per esempio, che l’avvocato della vita pratica, della vita socievole è Ribbi Ismaele, e se aggiungessi di più che l’apologista della vita contemplativa è R. Simon Ben Iohai? Certo che in questa disputa, in questi nomi vedreste l’impronta del vero. – Certo direste, ma non invano, il Ben Iohai è sempre nelle pagine del Talmud l’infallibile rappresentante della vita, delle dottrine, della società degli Asceti. Certo, direte, che i vincoli che le sua alla scuola stringevan degli Esseni, vincoli dovevano essere forti, numerosi, strettissimi. Ma che? La verità si fa strada da sè, e non fa d’uopo che lasciarla parlare per rimanere convinto. Udiste poc’anzi un cabbalista, un Fariseo, R. Simon Ben Johai, attribuirsi, patrocinare il sistema, la vita, le idee degli Asceti. Udite ora un altro Fariseo, un altro Cabbalista gli stessi principii propugnare e le stesse dottrine: e chi è cotesto? Egli è Ribbi Akiba, il cui nome nei fasti cabbalistici suona non meno celebre del suo celebratissimo discepolo Ribbi Simon Ben Johai. Ma quanto del disputare il campo non si estende! Quanto più ampliata la discussione! Quanto più il tema elevato! Non si tratta già di sapere soltanto se la vita pratica, la pratica sociale debba entrare qual elemento, qual ausiliare alla vita dell’anima; ma si tratta sapere se la pratica in generale, la sociale come la religiosa, la civile come la spirituale, se sottostia, se sovrasti alla vita speculativa, studiosa, contemplativa. Era pur grande consesso cotesto ove siedevano i più illustri tra i Tanaiti, tra le mura di Lydda in Palestina dove il gran tema fu proposto —Qual sia delle due più eccellente, la vita pratica o la vita contemplativa.

 

Chi sostenne la prima, chi difese la pratica? R. Tryphon. Chi antepose la contemplativa? Voi l’udiste. Egli è R. Akiba, il visitatore del mistico Pardes,62 il maestro di Ben Iohai, il corifeo del Misticismo. Or che sarà se vedremo la caratteristica del Hasidut apposta a R. Akiba in tre luoghi del Talmud, vale a dire il distintivo e l’appellazione essenica come noi presumiamo? Nel primo (Berahot 27), secondo la lezione di R. Nissim nell’Ammafteah (25. 2), in cui si dice che chiunque vede R. Akiba in sogno aspiri al hasidut. Nel secondo (Sanedrin XI), ove il verso dei salmi: radunatemi i miei pii (hasidai) s’interpreta per R. Akiba e suoi compagni. Il terzo infine ove per significare, come quel Dottore si dilunghi talvolta dalle abituali sue dottrine, si dice: Abbandonò R. Akiba il suo hasidut.

E non sono persino le più minute circostanze che non abbiano in questo racconto il lor valore. Per esempio quel Mesubbin, quello stare a mensa seduti, quello alternare il pane del corpo col pan dello spirito, quel discutere a mensa, quanto non vi riescirebbe prezioso se potessi dir tutto! Se vi dicessi che questo era il costume proprio, proprissimo della società degli Esseni, a quanto ne attestan Filone e Giuseppe; che dico? se vi narrassi come non dissimile procedesse il costume dei Zoaristi i quali per lo più, mentre a mensa sedevano, un testo togliean a interpretare della legge, e il sobrio pane mescevan col più soave dei condimenti, la scienza.63 Ma di questo più diffusamente a suo luogo. Dovrò io citare dopo questi luminosissimi, esempi per avventura di men rilievo? Dovrò dire di due altri campioni che la pratica o la contemplativa vita tolgono a propugnare nel 4º di Kidusin? Difende la prima R. Meir quando l’obbligo inculca ai genitori d’insegnare al figliuolo un mestiere: propugna l’altra ivi stesso Ribbi Neorai quando dice: Ogni arte rigetto, ogni mestiere, e solo il figlio mio inizierò allo studio. E chi è Ribbi Neorai? singolare a dirsi. Vedeste R. Akiba, vedeste Ben Iohai, ambo Farisei non solo, ambo cabbalisti, farsi organi, farsi rappresentanti delle idee degli Esseni. Vedetene ora un terzo! Poche, forse non altre volte è di questo Dottore menzione tra i Rabbini, tranne questa ed altra fiata nella Misna di Abot. Ma quanto però e come significativamente nelle pagine del Zoar! Ove R. Neorai è uno dei più famosi anacoreti, anzi è quegli stesso che voi, non è molto, udiste rammemorare tra coloro che il Zoar ci narra abitare la solitudine, e solo nelle feste solenni alla città convenire. E quella fiata istessa che n’è parola in Abot, quanto non ha ella la fisonomia e il linguaggio di un Essena! Curioso a dirsi! Niuno, che io mi sappia, lo notò; eppure notabilissime suonano le sue parole. Chiede R. Neorai che muovasi esule lontano per istudiare la legge, e oh meraviglia! nel Zoar è egli stesso Ribbi Neorai che la gran sentenza profferiva che con questa torna a capello, cioè non altrove potersi con frutto meditare la legge se non nell’esilio, se non nella solitudine. È la menzogna, è il caso che ha create siffatte armonie? No, è la verità che solleva un lembo del suo velo, è l’armonia che, tolto l’ostacolo, prorompe sonora fra la Misna e il Zoar, fra tutte e due poi è la società degli Esseni in quella guisa che due stromenti accordati all’unisono, mandano l’un l’altro amica risposta.64

Dissi nella passata lezione come non solo le dottrine degli Esseni, ma gli uomini eziandio sono posti nel Talmud talvolta in contrasto; non solo la Pratica e la Contemplazione figurano una a fianco dell’altra, ma i Pratici eziandio, ma i Contemplativi vengono ad un tempo designati, e in bella e parlante antitesi presentatici quasi due ordini diversissimi. E dove? Tempo è che il veggiamo, che il veggiamo in Abot, ove il Bur è detto non potere essere Jèré het (che teme il peccato), nè l’ignorante poter farsi (Hasid). Ma che cosa è Bur? Chiedetelo a tutti gli interpreti, e tutti vi risponderanno concordi, vi diranno che Bur è colui non solo che di ogni scienza procede destituito, ma le attitudini e qualità eziandio non ha dell’uomo civile. – E che cosa si dice del Bur? – Che non sarà Ièré het, che è quanto dire che non sarà non solo negli studi felice, ma nemmeno uomo civile, uomo pratico, uomo socievole. Che cos’è il Am Aarez? Voi l’udiste, egli è l’idiota, egli è l’ignorante. E che cosa non sarà il Am Aarez? Non sarà, dice il Misnico testo, hasid, ch’è quanto dire non sarà uomo studioso, dotto, contemplativo, e ciò che più fa bella l’evidenza di questa chiosa, si è il nome hasid, nome che voi da lungo tempo udiste qual sinonimo di Essena, nome che quello precesse eziandio di Esseni, siccome gravi autori, e tra altri Scaligero, ce lo attestano, e nome infine che quale specialissima designazione di una setta viene ricordato nei Maccabei.65 Vi par egli che io proceda nel ragionare stringato? Vi par piuttosto che troppo generosa conceda significazione all’appellativo di Ièré het. Vi par egli che non sia ancora troppo la sinonimia dimostrata, colla parte pratica del nostro Istituto? Or bene udite ancora, e continuate poi se vi dà l’animo, a dubitare. Udite pria in Sotà dove tra i mali che la Era, che la venuta precederanno del re Messia, due ceti, due ceti religiosi si ricordano che dal loro antico lustro miseramente decaderanno. E come si chiamano i due ceti? Si chiamano i primi Soferim, e ad essi si attribuisce la scienza che allora sarà invilita vehohmat soferim tisrah. Si chiamano i secondi Ièré het e si dice che allora saranno in obbrobrio. Non vi dice nulla questo nome di Soferim? Eppure i Soferim di Jah bez, i Nazirei chiamati dal Targum Soferim, il vederli procedere qui di conserva coi Ièré het, dovrebbero a creder mio farvi pensare. Ma voi chiedete più, e la verità non dice mai, basta. Havvi nella Misnà (per altri è Barraità) un frammento antico, preziosissimo che sotto il nome corre di R. Pinehas Ben Iair e che si chiama Barraita di R. Pinehas Ben Iair. Si può chiamare in verità la Scala dei santi. È una descrizione dei gradi per cui dalle più infime virtù si può raggiungere le più eccelse, le più trascendenti senza interruzione, senza salto, ma per una transizione naturale, facile, necessaria. Di tutti i gradi di santità ivi notati, che sono assai, due osserviamone tra i più cospicui, i quali sono il Hasidut e l’Irat het, la pietà eroica e il timore del peccato. Qual posto occupano nella scala dei santi, e quale l’una rispetto all’altra? Il loro posto è il massimo, e dopo il culmine della scala che è lo Spirito Santo, io trovo come gradi sottostanti, più alto il Hasidut, la pietà eroica, quindi più basso lo Irat het, il timor del peccato. Ma non solo massimi ambedue, ma ciò che troppo più monta pel caso nostro, sono contigui, l’Irat het timor del peccato precede, il Hasidut vi conduce, vi predispone. Hasidut n’è lo stadio successivo, la fase ultima, conducente, educante al Ruah acodesc, spirito santo. Che cosa si volle dunque per Irat het? Non certo quel timor del peccato, come ognuno intende, ch’è virtù di nome e di fatto puramente negativa, che consiste meglio nello scansare il male, che nello esercitare il bene. E perchè dico questo nostro Irat het virtù non volgare? Per molte ragioni che me lo persuadono. Me lo persuade in primo la sua contiguità al Hasidut, grado se altro fu mai eccellentissimo e che, come udiste, mena direttamente allo spirito santo, Ruah Acodesc. Me lo persuade poi eziandio non solo le virtù che conseguitano, ma le virtù ancora che lo precedono, ma i gradi eziandio inferiori, i quali tutti, troppo, come vedrete, sovrastano al volgare timore, perchè possano di quello meritamente considerarsi preparazione. Precede non solo il Farisato, lo stato dei Farisei, le virtù farisaiche, lo che già accenna, come intendete, a una parentela strettissima tra ambidue; ma il precede anche la anava, come udiste, l’umiltà, sublime se altra fu mai nella gerarchia teologica delle virtù e appo a cui il timor di Dio è chiamato altrove dai Dottori suo vile calzare, achob lesandelà; e il precede insieme anche la santità, siccome del timore del peccato essa pure avviamento e prodromo. Che cosa dunque vuol dir ciò? Vuol dire, se io non erro, che colle parole che teme il peccato intesero i Dottori uno stato morale che generato è pure dal Farisato, e che di gran lunga eccede tutte le virtù sottostanti, la purità, la umiltà, ed anche la santità, e che è affine, e ch’è contiguo, e ch’è conducente al Hasidut cioè a quello stato, a quel grado onde ebbe nome la società degli Esseni Contemplativi negli antichissimi tempi. O io erro, o fatti sono cotesti che altamente depongono in favor mio. Che sarà poi se il nome intenderete dell’autore della Barraità in discorso? Voi vedeste e vedrete costantemente i Dottori più insigni della scuola cabbalistica farsi nelle pagine del Talmud gli oratori, gli avvocati delle idee, delle massime dell’Essenato, vedeste Rabbi Simon Ben Iohai, contro a R. Ismael, Rabbi Akiba contro Ribbi Tryphon, Rabbi Neorai contro R. Meir, e Ben Iohai e Ribbi Akiba e R. Neorai al tempo stesso cabbalisti e rappresentanti e organi dei principi dell’Essenato. Vedetene adesso un altro nell’autor della Barraità. E chi è l’autore della Barraità? Voi l’udiste: è Rabbi Pinehas Ben Iair, non solo il suocero di R. Simon Ben Iohai, non solo veneratissimo nel Talmud, ma quel che più monta, celebratissimo nel Zoar, le cui parole, le cui dottrine sono ivi con venerazione registrate, e le parole e le dottrine sono esse pure della scuola teologico-mistica dei Cabbalisti. E tutto questo a caso? È a caso che di tratto in tratto sorgono nel Talmud due idee parallele, concomitanti, talvolta opposte, antitetiche, ed alle idee corrispondono dei pratici, dei contemplativi? È a caso che gli avvocati della contemplazione nel Talmud sono sempre quegli stessi che più vanno rinomati pel loro ascetismo? È a caso che tutti i loro nomi primeggian nel libro del Zoar? È a caso che niuno al contrario vi figuri dei loro avversari, non Ismael, non Tryphon, non Meir? Io credo che non è caso. Quel che non è certo a caso son le parole che seguono: e chi ne è l’autore? È lo stesso Pinehas Ben Iair. Dal giorno ei dice, che fu il tempio distrutto furono confusi i soci, i fratelli e i liberi e cuoprironsi il capo e decaddero I pratici. Chi sono i soci, i liberi, e chi sono i pratici? Io lo chiesi agli antichi interpreti e quale n’ebbi risposta? Per pratici l’idea vaga generalissima di religiosi; pei soci o pei liberi sensi che, o nulla significano, o se qualcosa significano, giovano non poco al mio assunto. Ma quanto bene nel nostro sistema! Soci (Haberim), sono i Soci i fratelli della società e della Essenica Frateria; i Pratici, sono i Pratici la frazione più urbana, più cittadinesca dell’Essenato. Ma chi sono i liberi. Benè-horin? Ah chi sono i liberi? Ve lo dica per me un’aurea indicazione da Filone serbataci; quando parlando della costituzione degli Esseni narra di quelli che di fresco introdotti nella società, consumavano il noviziato nel servire, nel ministrare ai provetti, ai maggiori.66 E come dice Filone che si chiamavano dagli Esseni, cotesti? Si chiamavano Liberi, sì, si chiamavano Liberi volendo, siccome ei dice, con un nome contraddistinguerli, che ogni carattere servile escludesse dalla loro persona al quale non poco avrìa indotto a credere i riguardanti, l’officio veramente servile in cui ministravano. Ma liberi essi erano, Benè-horin, e dicevansi liberi comecchè umilmente ministrassero a mensa ai veri soci, ai veri fratelli.67

Voi vedeste già molte volte ed ora stesso aperta vi fu mostrata la esistenza di Pratici, di Contemplativi in seno ai Dottori. Non mi resta che chiamare la vostra attenzione sopra un altro fatto soltanto, ma cospicuo, ma rilevantissimo fatto; ove non solo questa duplice ramificazione riprodurrassi e più distinta e spiccata; non solo vedremo Esseni Pratici ed Esseni Contemplativi; ma ciò che a dismisura più monta, li vedremo parlare, agire e certi atti caratteristici eseguire che Filone ci narra, propri, particolari agli Esseni. Dissi un fatto perchè invero ambi s’identificano, si confondono, si unificano in un solo fatto, ma per ora sono due, l’uno fornitoci dagli Esseni è narrato da Filone, l’altro fornito dal Farisato è raccontato dalla Misnà. Qual’è il fatto da Filone narrato? È una festa ed una festa da ballo, ma di quelle ch’è capace di dare un Istituto religioso, un sodalizio quale era l’Essenico. Narrarvi per filo e per segno tutte le circostanze di questa festa da Filone descritta, troppo più a lungo ci menerebbe che nol consentan l’ora e le forze. Pure mestieri è che le cose più rilevanti vi sien conte. Festa era questa che celebravano i Terapeuti, in una delle solennità religiose che resta difficile determinare, ma che ogni analogia ci persuaderebbe essere i Tabernacoli. E dove si celebrava cotesta festa? Si celebrava, dice Filone, nell’aula del chiostro che lor serviva di Tempio. Colà si riuniva la numerosa famiglia dei Terapeuti, e indossata ognuno la bianchissima stola, sedeva ad una mensa, donne ed uomini separatamente da ambo i lati, dove tutti prendevano cibi parchissimi, d’onde carne e vino erano assolutamente banditi, ove ministravano quei Liberi di cui vi discorsi, ed ove i sacri ragionamenti allietavano ed istruivano i commensali. Soddisfatto il bisogno del corpo, ognuno levavasi. Il Presidente intonava un Inno alla gloria di Dio composto da esso o da qualcuno dei predecessori, e tutta la compagnia lo cantava con lui, quindi i giovani recavano in mezzo una tavola, per memoria di quella ch’era in Gerosolima nel vestibolo del Tempio; quindi i balli, e al ballo uniti e suoni e canti; e ballo e canto protraevasi insino a giorno. All’alba, tutti come un sol uomo volgevansi al sole nascente, e supplicato da Dio il buon giorno e la luce della verità, ognuno si ritirava nella sua cella ove riprendeva le usate occupazioni. Questa è la festa che narra Filone, e questo è il fatto che vuole essere adesso paragonato alla storia che di una gran festa ci han trasmesso i Rabbini. Qual’è questa festa? Ella è quella che si celebrava, dice la Misnà, (in Succà) nei vespri del primo giorno dei Tabernacoli, e che fama altissima lasciò di sè in tutta la Rabbinica Enciclopedia sotto il nome di Simhat bet Ascioaba e di cui il nostro Simhat Attora non è che pallida copia e debile reminiscenza. Dove si celebrava il Simhat bet Ascioaba? Si celebrava in quella parte del Tempio che si chiamava l’Atrio delle donne perchè alle donne era quello il limite assegnato, che non poteano valicare. In quell’atrio, dice la Misnà, stabilivasi grandissimo ordine, Ticun gadol. Che vuol dire quest’ordine, dice il Talmud? Vuol dire, risponde, che l’atrio stesso in due parti era diviso ove uomini e donne potuto avrebbero assistere alla festa separatamente. Ma quanto splendido non c’è descritto l’apparecchio! specialmente perciò che riguarda i candelabri, i doppieri, i lampadari infiniti che gettavano per ogni parte del Tempio, degli atrî e di tutta la montagna d’intorno, torrenti di luce. Vi basti dire, dice la Misnà, che non v’era casa, non cortile, comecchè distante dal Tempio in Gerosolima, che un raggio non ricevesse della sacra montagna che tutta pareva divampare in un mare di fuoco. Piacerebbevi egli, o miei giovani, che ove conceduto ne fosse l’accesso, quelle aule visitassimo e quegli atrî santissimi? Orsù, entriamo ed osserviamo. Che spettacolo è questo! Non solo la vastissima sala splende per miriadi di luci, non solo un dolce suono mandano i Leviti, oggi in gran completo dalla loro numerosa e svariatissima orchestra, non solo il caro idioma dei sacri libri risuona in bocca agli astanti nelle lodi, negli inni che celebrano all’Altissimo; ma che cos’è quest’agitazione che veggo: sogno io o son desto? È pure un ballo! Un ballo nella casa del Signore! Un ballo che al canto si marita, si marita al suono istesso dei sacri strumenti, dei sacri cantici, e che pare ad un culto rivolto, ad un oggetto pur esso santissimo! Tersicore negli atrî del severo Dio di Solima non avrei pensato io giammai. Eppure è così. E chi sono i danzanti? giovani forse? adolescenti? pensate! Altro che giovani! Ravvisateli bene, sono venerabili aspetti, sono canuti, sono Dottori, sono le stelle più fulgide del Farisato, ogni altro eccettuato, dice Maimonide, sono essi soltanto, essi soli; sono, diciamolo una volta colle parole testuali della Misnà, sono due ordini di Dottori, i Hasidim e i Pratici, sono essi i quali, in uno slancio di gioja celeste, in un’estasi di mistico amore, intrecciano dotte e mistiche danze, raffigurando nelle armoniche cadenze quello che gli antichi tutti vollero raffigurato nelle danze religiose, vuoi l’armonie delle sfere, vuoi l’armonia più segreta dell’animo umano e delle sue facoltà, vuoi insomma qualche altro consimile intendimento, che lungo sarebbe voler constatare. Sì, sono essi, sono i Hasidim, i Contemplativi e gli Anscè Maasè, alla lettera i Pratici, i quali santificavano, riabilitavano nel culto del vero Dio le danze che narrava il Paganesimo dei Dattili, dei Telchini, dei Coribanti, delle Baccanti. Non sappiamo noi da Luciano egual costume appresso ai Greci? Non è il più bel premio di una mente culta e religiosa quello di potere riposare in una uniformità ammirabile tra il mondo Ebraico e il fiore del Paganesimo? Non abbiamo bisogno in mezzo a tante discrepanze, a tanti antagonismi, un po’ di armonia, un po’ di pace tra Ebraismo e Paganesimo che valgano a costatare che ogni filo non era spezzato tra l’uno e l’altro? Oh! come è bello, per tanto, udire Luciano a descriverci le paganiche danze! «La danza di Bacco (ei dice) specialmente nella Jonia e nel Ponto è esercitatissima; e vi ballano persone nobilissime e i principali della città, che lungi d’averne punto rossore, si compiacciono meglio di questo esercizio, che della nobiltà degli uffici e della dignità dei maggiori.» (ed. Capol., vol 3, 206) Non par egli udire l’apologia di David che danza innanzi l’arca, e i Dottori che lo imitano nella festa della Scioaba?68 Sublime invero, santo Coribante R. Simon Ben Gambliel, il quale, dice il Talmud, quando tripudiava nel tripudio della Scioaba, otto faci teneva in mano e l’una e l’altra successivamente scagliava in aria e tutte in cadenza regolarmente riafferrava, senza che niuno dei moti complicatissimi fallisse il segno. Ma non solo io li veggo con ordinate movenze menare un ballo, ma parole io odo e canti dal labbro loro sgorgare. Che parole son coteste? Porgete l’orecchio e l’eco lontano ne addurrà la Misnà – Dicono i Contemplativi, dicono i Pratici che incanutiti eran nella fede, nello studio —o felice gioventù, che la vecchiezza nostra non fai arrossire! Ma altri pure altra lode proferiscono, e lode diversa – Che lode è questa? Felice vecchiezza, che il fallo emendasti di gioventù.

58Queste cose andavamo tra noi stessi conghietturando privi, come siamo, del gran sussidio della letteratura germanica, quando la sorte ci fe’ imbattere in un illustre ausiliare, dell’amicizia del quale ci onoriamo, ed è il sig. Jost nella Storia del Giudaismo e delle sue sètte. Ecco la traduzione delle sue parole recate in idioma francese: «Les Esséniens n’observaient pas si rigoureusement les scrupules rabbiniques sur la transcription de la loi orale, et les Meghillat Setarim mentionnés dans le Talmud ont été écrits par des Esséniens.» Il Redattore dell’Univers israélite, che riproduce queste parole, a torto aggiunge: «Nous ne connaissons quant à nous que les Meghillat Setarim de R. Hija:» dico a torto, perchè altre pure ve ne sono, e la nostra del Talmud Gerosolimitano è tra queste. Che si tratti poi di volumi scritti e non di libro ed opera, lo attesta il verbo Catub che nel citarli si adopera, come il nome di Meghillà indicante invariabilmente volume e non opera, come saviamente avvertiva giù Rasci sul Talmud (Irrubin). Come astenerci dal rammentare altro autorevolissimo erudito tedesco (specialmente in tutto che tende a favorire l’antichità della teosofia ebraica, alla quale si protessa avverso), ed è lo Zünz di Berlino il quale così esprimesi, Cap. VII.: Altra opera pregerolissima andò perduta la quale ragionava di Morale e di Civiltà (Dereh Erez): è chiamata talvolta Meghillat Setarim vale a dire libro in cui si ragiona di misteri; tal altra Meghillat Hasidim, il libro dei Hasidim. Quindi apparisce come questa opera non di leggi rituali soltanto favellasse, secondo che altri pensò, ma più e meglio di Morale e di Dottrina; e tanto significa il nome che reca, e quello eziandio che per entro vi è contenuto. Due punti pertanto emergono dall’opinione del Zünz 1º Che Meghillat Setarim e Meghillat Hasidim non sono due opere, ma una soltanto; 2º Che reca il nome di Setarim pei misteri ch’ella conteneva. L’autore del Rabia ed Ofen, 1837, benchè di gran lunga più ortodosso del Zünz, non consente nelle conclusioni rammentate, e crede che lo Zünz siasi indotto a credere alla identità delle due opere pel fatto che il Ialcut Simeoni, pag. 73. 2, chiama Meghillat Setarim ciò che altre opere (Talmud Gerosolimitano e Sifré) chiamano Meghillat Hasidim. È lecito credere però che non solo questo sia il motivo che della identità fece persuaso lo Zünz; sibbene ancora l’intima convenienza di libri misteriosi ai Hasidim noti nella storia come proavi degli Esseni, come accennammo e accenneremo più volte. Ma il nome di Meghillat Setarim significa veramente libro de’ misteri, come vuole lo Zünz, o piuttosto libro apocrifo (nascoso), come pare intendere Rasci ed altri, e come oppone il Rabia? Noi inclineremmo a credere come il primo, per certe analogie rabbiniche che lo persuadono. Difatti Meghillat Setarim ha la stessa forma che Bet Assetarim. Ora è indubitato che quest’ultimo lungi da significare il luogo riposto, suona invece il luogo ove stanno le parti riposte; così Meghillat Taanit, significa il libro ove sono descritti i digiuni, e non il libro digiuno. —Meghillat Joasin suona il libro che contiene le Genealogie e non il libro Genealogico, – Meghillat Sammamanim vuol dire il libro ove sono descritti i profumi e gli aromi, e non il libro profumato. —Meghillat Kinot, il libro che contiene le elegie e non il libro elegiaco. Non si vuol dire con questo che il Meghillat Setarim non fosse libro riposto oltre il contenere dottrine riposte, che ansi il primo fatto è conseguenza del secondo; nè si vuol negare che contenesse anche disposizioni rituali, ma non si deve nè si può concludere, come fa il Rabia, dal fatto che non sono citate che queste nel Talmud, che altro non vi si contenesse, stante che il supposto da cui si muove, cioè il carattere misterioso delle altre dottrine, impediva che queste pure si citassero. Inoltre vi sono certi caratteri persistenti in tutte le citazioni che del Meghillat Setarim si fa nel Talmud, che formano a parer mio grave indizio della sua parentela Essenico-cabbalistica. Basti osservare: 1º Che nei tre luoghi onde di essa è menzione nel Talmud (Sciabbat p. 6, 2, e 96. 2 Mezia 92, 1) egli è sempre Rab o R. Abba, che dice averla letta e ne riferisce i dettati; ed è sempre presso R. Hija ch’ella fu trovata. Ora Rab e R. Hija sono due personaggi eminentemente teosofici, l’uno come redattore presunto da Zoar di parte di esso, l’altro come uno del soci (Haberim) e interlocutorio. 2º Il Mazati (trovai) onde si vale invariabilmente Rab nel riferirne il contenuto, tanto poco conviene ad una raccolta di ricordi rituali che dovevano essere frequentissimi e molto letti e studiati, quanto bene si acconcia a libri e dottrine per loro indole misteriose. Altrettanto si dica del Vecatub ba (Ed era in quello scritto) locuzione che torna nel Talmud solo allora che si tratta di libri esoterici come il libro di Balaamo (Sanhedrim XI), e quando la citazione non è consentanea al subbietto generale dell’opera. Lo stesso Isi ben Ieuda le cui parole si citano registrate in quel volume: vi è grave ragione di credere che sotto uno dei sette nomi che reca in Pesahim (113, 2) appartenga agli studiosi dell’Agadà, vale a dire della scienza esoterica.
59I dottori Talmudici, se quando ripetono le ricevute tradizioni sono Autorità religiosa nell’Ebraismo, non così quando spiegano, e sono allora discutibili come qualunque altro dottore. Ciò intesero ab antico i più antichi loro successori, i quali spinsero soventi volte l’ardimento sino ad interpetrare il testo misnico diversamente da ciò che fecero i Talmudisti, lo che è bene altrimenti grave che non il trovare inesatta la spiegazione di un fatto per loro stessi remoto, e del quale non era imposto loro il ricordo quai maestri di religione. Di questa e maggior libertà usarono anche largamente i moderni, comecchè in fama di Ortodossi quale il Rapoport nel suo Ereh Millim altra volta citato. Quanto all’orazione protratta e quasi continua che nel Talmud si attribuisce ai Hasidim, non è a tacersi un curioso raffronto che ci porge la storia delle Eresie. S. Epifanio rammenta due ordini di Messaliti, nome notoriamente derivato dall’Arameo Zalla o Zalle pregare (V. Bergier Dict. de Theologie vol. 3º p. 246), i quali s’imponevano la preghiera continua, che credevano adempisse le veci di ogni altro dovere. Non è difficile ravvisare nel più antico di questi due ordini le fattezze dei nostri Hasidim, coi quali se non s’identifica assolutamente, pare senza meno un ramo Cristiano del più antico ceppo Ebraico. È vero che S. Epifanio dice di questo più antico ordine nè Cristiano essere, nè Ebreo, nè Samaritano; ma si rifletta alla distanza di luogo e di tempo che divideva Epifanio dai nostri Hasidim, alla vita eccezionale e in tante parti discordante dalla comune Ebraica che menavano i nostri Hasidim, o Messaliti, e chiaro si vedrà come l’asserzione di Epifanio non ci toglie la pensata affinità tra i suoi Messaliti ed i Hasidim del Talmud; onde non è da redarguirsi Scaligero se negli stessi eretici vede una frazione degli Esseni. (V. Bergier, Ibid.) A costo poi di precorrere in parte le cose che saremo per dire, il testo talmudico, onde qui si ragiona, ci mena irresistibilmente, per l’affinità delle idee che qua e colà si acchiudono, a far menzione sino da ora di parecchi e preziosi testi antichissimi riferiti nel Talmud, ove sotto un altro nome eloquentissimo si allude, a creder mio, alla società degli Esseni; e che sono da porsi fra quelle tante memorie che debbonsi oggi restituire alla storia degli Esseni contro la divulgata sentenza che l’Enciclopedia rabbinica dei primi secoli non rechi della società degli Esseni niun vestigio. Questo nome che offre invariabilmente l’idea comune e in sommo grado rilevante di Società, di Sodalizio assume non dimeno tre forme: differenza che a senso mio ad una sola cagione debbesi ascrivere, alla diversa origine e stile dei testi che ne fanno menzione. Queste tre turme sono: 1º Cheillà Caddescià di beruslem (Santa Società ch’è in Gerusalemme); 2ª Edà Chedoscià (Santa Società); 3ª Bene Akeneset (figli della Società). Incominciamo per dire (e per quanto negativo, ci sembra fatto di gran calibro) che le interpretazioni date sinora o sono vaghe o mal sicure; che p. e. per la Keillà Caddiscià mentre il Talmud Gerosolimitano (Mahaser Sceni, cap. 2º) intende due soli dottori ivi nominati (interpretazione, come ognun vede, tutt’altro che seria o verosimile), il Talmud Babilonico ci pone nella impossibilità di sottoscrivervi porgendoci non pochi esempi in cui la stessa Santa Società (Keillà Kaddiscià) si distingue evidentemente da uno almeno de’ due Dottori, onde a detta dello altro Talmud è composta, a segno di figurare al suo fianco come indipendente e distinta (Vedi Talmud Bezà e Iohasin Lettera Iod al nome Iose ben Mescuillam). Che per la Edà Chedoscià (Santa Società) il suo nome si legge nel Medras koelet, ove, oltre altre preziose indicazioni che proveremo fra poco convenientissime ai nostri Esseni, si domanda: E perchè si chiamano Santa Società? Dopo queste parole occorrono due varie lezioni. La prima è quella del Lessico Aruh (alla parola Kaal) ove si risponde «perchè dividevano in tre parti la loro giornata, la prima dedicavano alla preghiera, la seconda allo studio, la terza al lavoro, altri dicono perchè studiavano nell’inverno e lavoravano nella state.» L’altra versione legge dopo la domanda ricordata: Perchè sono R. Iose ben Mesciullam e R. Simon ben Manasia i quali tripartivano la loro giornata ec. L’autore dell’Aruh non ha i nomi proprj rammentati, e niun dubbio che la sua lezione sia da preferirsi non essendo luogo a rammentare chi fossero, dopo aver domandato perchè si nomassero Santa Società. Checchè ne sia, abbiamo qui un motivo del nome loro che mirabilmente si addice al nostro Istituto del quale sappiamo come la preghiera, lo studio ed il lavoro dividesse tutto il loro tempo, come più oltre vedremo. Si avverta però che mentre queste indicazioni si attagliano agli Esseni, non è possibile convenire col Medras Koelet che per ciò solo prendessero il nome di Santi, non essendovi in questo tenore di vita niun carattere che meriti il nome di Santo per eccellenza, e che non sia comune ad altra maniera di dottori. Infine il terzo nome ch’è quello Bene Akeneset ricorre come abbiamo detto nella misna Zabim 3, p. 2. E qui ancora, siccome quello che suona straordinario ed eccezionale, non solo creò interpretazioni disparate, ma diè luogo a differenti versioni. Così il Maimonide nel Comento legge Bet Akenesset il Tempio; ma chi legga attentamente il testo di leggieri s’accorgerà come il senso venga da questa interpretazione forzato, non essendovi memoria che i lebbrosi e gli affetti di gonorrea avessero luoghi apportati nei tempj. Assai meglio però l’altro comento di R. Simson che legge come noi Bene Akenesset e intende oheli hulleen betaará vale a dire coloro che non si cibavano che di cose pure, alieni da ogni immondo contatto; lo che da una parte identifica i Bene Akenesset con altro ordine e nome molto più comune nel Talmud, quello di Haberim o Socj che avremo luogo di ripetutamente citare in questa storia, i quali appunto questo tenore di vita conducevano, e dall’altra porge la mano ad un preziosissimo passo del Talmud Gerosolimitano ove un Asseo (Asia) possessore e insegnatore di nomi divini misteriosi si dice cibarsi di Maaser.
60Possiamo ragionevolmente esitare a riconoscere sotto questi varj nomi la società degli Esseni? La loro convenienza non potrebbe essere più manifesta. Il nome di Keillà Caddiscià, Santa Società, che fra gli altri luoghi si legge nel Talmud di Ioma 69, 1, reca tutti gli elementi necessarj a costituire il nome vero e proprio dei nostri Esseni. Chi ha sentore dello stile misnico e talmudico non può non fermarsi al nome di Keillà, unico, meglio che raro, per designare una Società qualunque, e che nel nostro caso tanto per la sua anormalità, come per la identità costante dei suoi supposti componenti, accenna meglio ad un consorzio regolare ed organico, che ad un adunamento precario e accidentale. Quanto poi eloquente l’epiteto di santo che in tutte le lingue sta ad indicare una perfezione religiosa, superlativa, e che nell’Ebraico è l’equivalente dell’Arameo Faruscim, Farisei. Potremmo d’altra parte tacere che il più antico nome onde si distinsero i Cristiani, propaggine secondo noi dell’antico Essenato, fu appunto quello di Santi come sovrabbondantemente attestano Vangeli ed Epistole ad ogni tratto? Nè recar deve fastidio la indicazione topografica di Biruslem in Gerusalemme, poichè se è indubitato che gli Esseni ponessero stanza sulle rive del Giordano sappiamo non meno di certa scienza, come Gerusalemme ne ospitasse parecchi specialmente dei Pratici. Che anzi, a parer mio, tale indicazione lungi dal dilungarci dall’Essenato, più e più ce ne avvicina, non potendosi comprendere come in un’epoca qual è quella in cui si fanno le citazioni in discorso, in cui Gerusalemme avea cessato di essere sede della autorità Rabbinica sottentrandogli in questo ufficio or Tiberiade ed ora altra città di Palestina, venga indicata costantemente Gerusalemme qual centro della Santa Società, se questa non si distinguesse spiccatamente dalla comune scuola dei Farisei, e non fosse per natura più aderente ai luoghi antichi, meno nomade di quello che erano le grandi individualità, ma pur non altro che individualità del comune Farisato. – Il secondo nome di Edà Keduscià, Santa Società offre lo stesso senso e torna egualmente a capello ai nostri Esseni. Più curioso e più nuovo è quello di Benè Akeneset, gli uomini della Società, abbandonato, se non erro, sinora in un canto nell’oscuro e negletto trattato Misnico di Zabim cap. 3º e che non meno si acconcia al nostro consorzio come evidentemente si ricusa ad ogni altra interpretazione, come più sopra accennammo. Che se i nomi suonano in sommo grado espressivi al nostro uopo, ciò che più monta però, e che non mi è dato qui che in parte lambire, si è una indagine delle dottrine che in nome di questa Keillà Kaddiscià, o Edà Caddiscià o Benè Akeneset si recano in mezzo negli antichi libri Rabbinici onde si vegga sino a qual segno queste dottrine o idee si attaglino alla persona degli Esseni. Il secondo di questi nomi figura nel Medrasc Koelet; e ciò che merita di avvertire si è che qui come in Ioma, pag. 69, 1, Bezà, p. 27, egli è Giuda il santo, il Redattore della Misnà che riferisce la loro dottrina, lo che prova la grande loro autorità ed antichità ed insieme la identità della Keillà Kaddiscià del Talmud colla Edà Chedoscià del Medrasc; e che tanto in Rosc Ascianà 19, 1, quanto in Iomà (loc. cit.) egli è R. Ieosanah Ben Levi il personaggio più Cabbalistico e misterioso di tutto il Talmud, che è l’ultimo depositario delle loro tradizioni insieme a R. Simon Ben Pazl, altro dottore il cui nome e la cui storia sono celebri nelle pagine del Zoar. In due luoghi poi (Berahot, cap. I Rosc Ascianà, 19, 1.) ricorre la forma autorevole ed antica ehid, attestò, che non si usa se non quando è riferibile ad antichi personaggi. Non sono nemmeno da pretermettersi le dottrine che in nome loro si recano in mezzo. – Il lavoro raccomandato insieme allo studio, e la vita loro stessa porta ad esempio (Medras Koelet) il nome di sposa che ivi reca la legge, e sopratutto le decisioni attenenti al Calendario e ai computi Astronomici (Rosc Ascianà, 19, 2.) che non vanno mai disgiunti nei libri Talmudici dalla scienza Acroamatica, che ne hanno tutta la riserva e il mistero e che per ciò stesso sono detti pur essi (Sod) Mistero.
61Ei fu sempre e dovunque proprietà inseparabile dal Misticismo, la incuria e il dispregio delle pratiche. Il Talmud rivelandoci in seno ai Farisei una scuola che ad ogni pratica si credeva ed era stimata superiore, ci attesta per ciò stesso la presenza del Misticismo, non potendosi mai credere che se altri studj non si conoscessero tra essi se non quelli che il Talmud acchiude in seno, e che si riferiscono unicamente alla pratica, tanta fosse la stima che se ne faceva da anteporli alla pratica stessa, il mezzo non potendosi mai qualificare superiore allo scopo al quale conduce. Nonostante se il fenomeno comune ad ogni misticismo si verificò pure nel misticismo Palestinese, come vediamo, saria ingiusto disdirgli un’indole al tutto diversa da quella prevalsa in altre parti di Oriente. Mentre in queste era la contemplazione oziosa talvolta ridicola, la inerzia delle facoltà mentali, o come con più nobile nome si chiama la estasi, la quale era il sommo grado della perfezione perchè conducente all’assorbimento in Dio, o Nirvana; in Palestina invece era lo Studio, la Scienza, la speculazione attiva, il moto mentale, il discorso nel suo doppio senso, l’Alaha in una parola, sia che si riferisse alla pratica, sia che alle dottrine, la quale sola aveva virtù di dispensare, quando diveniva Abito permanente, dalla pratica dei doveri religiosi specialmente ove avea per obbietto l’acromatismo, la parte più nobile dei sacri studj. Non potrebbesi mai abbastanza insistere sulla presenza di questi fatti e queste dottrine in Palestina nel secolo che il Cristianesimo cominciò ad operare il suo distacco dal centro Ebraico, proclamando prima con Gesù e poi con Paolo la inutilità della legge e delle opere. Più bello, indizio non potrebbe darsi di quella verità perpetuamente da noi dimostrata nell’Essai sur l’origine des Dogmes et de la Morale du Christianisme (premiato nel concorso dell’Alliance Israélite 1863), vale a dire che non d’altronde originarono le dottrine cristiane se non dal centro Essenico-Cabbalistico ove il Cristianesimo imparò di buon’ora ad anteporre la scienza teosofica alla pratica dei precetti, la quale scienza ei propose all’universale sotto il nome di Fede (Pistis), agli eletti, sotto quello di Gnosis come superiore e dispensatrice di ogni dovere, e costituendo così, mercè la divulgazione dei dogmi riposti, tutto il mondo Ebraico e gentile in quello stato di perfezione peculiare ed anormale in cui l’Esseno-Kabbalismo poneva pochissimi eletti. Se qualche cosa ci sembra dimostrato, nelle tenebre delle origini Cristiane, questo transito ora accennato ne pare dimostratissimo, e lo stimiamo chiave unica capace di aprirci il senso di quella rivoluzione che scisse il Cristianesimo primitivo dalla Ebraica ortodossia. Basti per ora questo cenno del vasto e nobilissimo subbietto.
62Nome di origine persiana che i Greci adottarono, tipo del nostro Paradiso e che fa parte della lingua Biblica e Rabbinica. In questa ultima sta sovente a indicare la scienza o teologia recondita, e genera una sequela di metafore secondarie come ad esempio lo strappare le piante ecc. Facendo la scienza sinonimia di Paradiso, i dottori identificarono in guisa mirabile la beatitudine e la contemplazione, e furono in ciò imitatori e seguaci di Mosè che nel suo Paradiso pose la scienza, con tutti i suoi pericoli e con tutti i suoi diletti. Forse non si andrebbe lungi dal vero dicendo che il Paradiso Mosaico porse ai dottori la prima idea del loro Pardes, che vale quanto il Gan o Ganeden della Genesi. Sarebb’egli possibile disconoscere nei vangeli la traccia dell’antico essenico costume, quando Gesù volendo col suo esempio mostrare come i maggiori debbano farsi servi ai minori, lava egli stesso i piedi ai discepoli, primo atto a cui procede l’ospite innanzi di sedere a mensa? A noi pare vedervi una reminiscenza della scuola Essenica in cui il fondatore del Cristianesimo era stato educato, come un fatto congenere ci pare ravvisare in quegli esempj che ci offre il Talmud di antichi dottori che a segno di umiltà ministrano a mensa ai loro colleghi seduti, esempj che se da una parte si collegano alle esseniche costumanze, dall’altra ci additano nell’Ebraismo rabbinico le origini delle scene evangeliche.
63Il sacrifizio ebraico come il pagano erano una vera e propria Comunione eucaristica, una partecipazione alla mensa di Dio in quanto il fedele e i sacerdoti si cibavano di parte dell’animale immolato, mentre l’altra era arsa sugli altari. Per tal guisa l’ara era una mensa religiosa, e il nome di mensa porta veramente in Ezechiele, come per converso la tavola ivi stesso porta il nome di altare. Egli è per ciò che i dottori furono interpreti fedelissimi delle idee bibliche quando la mensa comune dissero stare invece dell’altare, e la scienza farvi la parte del fuoco sacro o della presenza del nume, quando la fecero come l’altare propiziatrice ed espiatrice, e sopratutto levaronsi ad altissimo e nobilissimo pensiero i Teosofi nostri quando videro nella commestione l’atto per cui la materia si eleva allo stato di mentalità mercè il processo di Assimilazione onde i corpi inferiori si assimilano all’organismo dell’uomo. Non d’altronde hanno origine le metafore evangeliche, se pure dapprincipio non furono intese alla lettera, della Tavola in cui Cristo berà del frutto della vite insieme ai discepoli; che ha il suo tipo e la sua fonte in una identica metafora dei Rabbini i quali dicono l’Eden essere il vino conservato nei suoi grappi sino da sei giorni della creazione, che la coppa ne sarà benedetta da David (Padre e tipo del Cristo) nel banchetto finale, ed altre simili. Potrebbesi tacere a questo proposito del sacrifizio eucaristico, e de’ suoi strettissimi vincoli con tutte le idee sopraccennate? Il lettore già ne coglie le grandi attinenze, e ci dispensa dal maggiormente diffonderci nell’ampio e nobile argomento.
64R. Neorai nei varj luoghi in cui di esso è menzione offre tutti i caratteri dell’Essena Kabbalista. Egli ha un giuramento poco noto altrove: pel Cielo Asciamaim! (Berahot, 53), che ci spiega come Gesù il condannasse appunto vedendola usata tra i suoi quando disse non giurate nè pel Cielo nè per la terra ec. e si connette mirabilmente colla supposta adorazione del Cielo che agli Ebrei in generale ed agli Esseni in particolare fu attribuita dai Pagani chiamandoli persino col nome di Cœlicoles, onde poi si distinse una setta Cristiana che come le altre non rappresenta che una setta frammentaria dell’antico complesso organico, delle dottrine e della simbologia dei Teosofi Esseni (V. per la storia fra noi del simbolo Cielo, mie note al Pentateuco, Em Lammicrà, Genesi Cap. I.). Egli è identificato con R. Elazar Ben Arah personaggio eminentemente teosofico o Kabbalistico nel 2º di Haghiga (V. Talmud Sciabbat p. 147); egli ha gli istinti democratici come tutti i Farisei (Sanhedrin 20), ei predice pei tempi messiaci, discordie intestine tra figlia e madre, tra suocera e nuora, quali si leggono nei Vangeli espressioni Cristiane dello Spirito Essenico (Ibid. 97), e infine egli ammette una sovrumana efficacia ai nomi divini tratto ad un tempo Essenico Kabbalistico e, oso dire, anche cristiano; perocchè al nome Gesù si attribuisca sino nei Vangeli una straordinaria e miracolosa potenza.
65Il Nicolas (Des doctrines qui ont précédé etc., T. 6º p. 86) non sa come porre d’accordo l’identità degli Esseni cogli antichi Hasidim rammentati nei Maccabei, quali strenui difensori della patria libertà, coll’orrore per la guerra e l’esclusivo studio delle arti pacifiche che Giuseppe appone agli Esseni suoi contemporanei. Vi sono pure due fatti che attenuano grandemente il valore dell’obbietto. In prima, non si può negare che la difesa nazionale sia tale dovere religioso eziandio nell’Ebraismo, da obbligare chiunque ad esso appartenga; e più chi più rigorosa se n’è imposta la osservanza. E poi Giuseppe stesso attesta che gli Esseni procedevano armati, del quale uso siamo in procinto di trovare un maraviglioso riscontro nel Zoar e nei suoi personaggi, e tale da rendere quasi inevitabile la parentela dell’Essenato coi Teosofi Ebrei o Kabbalisti. Non possiamo tacere di un autorevole ausiliare che troviamo nell’illustre amico nostro signor S. Munk socio dell’Istituto; il quale nei suoi Mélanges de philosophie juive et arabe, pag. 468, ci offre da un lato una dichiarazione preziosa intorno la identità originaria della Kabbale o Teosofia Ebraica e dell’Essenismo; dall’altro ci reca la testimonianza di un dotto correligionario tedesco, essere gli Esseni i Hasidim del Talmud. La prima così suona: «Les Esséniens avaient donc une doctrine dans laquelle à côté de certaines spéculations métaphysiques, l’Angélogie jouait un rôle important. Il est probable qu’ils cultivaient certaines doctrines qui plus tard faisaient partie de la kabbale, doctrines puisées à des sources diverses et qui ont inspiré les premiers fondateurs de la gnose.» La seconda così si esprime: (ivi in nota) «M. le D. Frankel a essayé de démontrer que les Esséniens sont souvent mentionnés dans le Talmud sous le nom de Hasidim (pieux), et il a fait d’ingénieux rapprochements entre les notices de Joseph et divers passages talmudiques. Voy. Zects Christ für die religiosen interessen des Iudenthums 1847, Décemb., p. 441 et suiv.» Noi non conosciamo gli studj del Sig. Frankel.
66Le qualità di Ministro e Discepolo andarono riunite nell’antichità Biblica e Rabbinica. Nella prima Giosuè discepolo di Moisè è chiamato suo Ministro (Mesciret), e nella Rabbinica abbiamo la esortazione al maestro di non astenersi dal fare ministrare il discepolo a proprio servigio; anzi lo studio della legge orale che più dell’altra esige e suppone l’addottrinamento magistrale, è chiamato Scimmusc Ministerio. In senso opposto il Maestro riunisce le due caratteristiche di precettore e maggiore, e la parola Rab tanto significa. Non ne abbiamo noi pure Europei un esempio eloquentissimo nel nostro Maestro, Maître, Signore e Precettore ad un tempo? Si vede nel testo come questi iniziati e novizj si dicessero liberi per torgli ogni imputazione servile. Basti pure ricordare come i figli si dicessero latinamente liberos e come figli chiamino egualmente i Profeti e i Dottori i loro discepoli (Banim). Ma se nell’officio servile dei discepoli convengono Esseni e Dottori, non meno convengono nello studio di escludere il sospetto di condizione servile gli Esseni e i Farisei, nel dar loro il nome antonomastico ai Liberi e più ai Farisei particolarmente nell’escludere dagli offici in cui il discepolo ministrar debbe, quelli che sono per lor natura esclusivamente servili. Entro questo limite, l’antico costume essenico-farisaico ebbe imitatori in Parigi nel secolo decimoquarto quando gli scolari di quella Università servivano come di paggi ai professori.
67Vedremo più oltre quando e come acquistassero gli Esseni questo nome di liberi, e vedremo non meno come per altri rispetti oltre quello qui menzionato si meritassero tal nome. A questi altri motivi vogliamo qui preludere con quanto si legge in Plotino (Enneades, vol. I, pag. 472, e pag. 185, nota 1ª): «L’homme est libre quand il exerce la faculté de l’âme raisonnable, quand il s’élève de l’ordre physique qui règne dans l’univers aux choses intelligibles qui ne dépendent de rien. Il est soumis à la nécessité et il devient une partie de l’univers quand il exerce les facultés de l’âme raisonnable et du corps. La Nécessité ou Fatalité est l’ensemble des circonstances extérieures, savoir l’influence des astres.» E (vol. 2°, 3me Enneades, pag. 17): «Quand l’âme prend une détermination et l’exécute parce qu’elle y est poussée par les choses extérieures, qu’elle cède à un entraînement aveugle, sa détermination et son action ne doivent pas être regardées comme libres… Au contraire, quand elle suit son guide propre, la raison pure et impassible, la détermination qu’elle prend est vraiment volontaire, libre, indépendante, l’action qu’elle fait est réellement son œuvre, et non la conséquence d’une impulsion extérieure.» E più oltre: «Donc quand elle manque de prudence, les circonstances extérieures sont cause de ses actes: on a raison de dire alors qu’elle obéit au destin comme une cause extérieure.» Per meglio comprendere ciò che Plotino intende per destino, eccone la definizione di Iamblico, che il sig. Bouillet (Enneades. Paris, 1859, vol. 2º, pag. 16, nota 1ª) dice potere servire di Comento alle frasi di Plotino: «Toute l’essence du Destin consiste dans la Nature: j’appelle nature la cause qui est unie au Monde, et qui contient unies au monde toutes les causes de la génération etc.» Plotino stesso avverte come si debba «compter au nombre des causes extérieures l’influence qu’exerce le cours des astres.» S. Agostino che, come dimostrò altrove il Bouillet, si valse grandemente delle idee di Plotino, scrisse pur esso: Libertas nulla vera est nisi beatorum et lex divina adhærentium. Gli stoici pure avevano detto: Solum sapientem esse liberum. E persino Aristotile disse con frasi più peculiari: Homo sapiens dominabitur astris. Non sono quasi le stesse parole dei Dottori nostri, che udremo fra poco? In ciò dunque consentono egualmente gli scrittori rammemorati: 1º In quanto ripongono la vera libertà nella conformità del volere alla legge divina. 2º In quanto considerano lo stato opposto come stato di subbiezione al destino. Ora è innegabile che oltre al consenso che ofirono queste dottrine col nome di liberi che gli Esseni si davano, e di cui vediamo traccia nel Benè horim del Talmud (in Sotà), tornano a capello con moltissime altre idee e dottrine che i pratici del Talmud e dei Rabbinici dettati in generale incontrano ad ogni passo. Così in Abot la libertà è detta retaggio esclusivo di chi accetta il giogo della legge. Così la classica distinzione rabbinica tra figlio e schiavo, la quale, ove si comprenda alla foggia dei Kabbalisti o Teosofi ebrei che veggono nel figlio quello che non accettando che l’imperio divino è superiore alla natura e al destino, e nello schiavo il suo contrario o un grado almeno inferiore, presenterà un’affinità ancor più singolare colla teoria morale di Plotino; ed è che l’uomo, che colle opre e coi pensieri si è fatto superiore alle attrattive, alle forze esteriori, non è più soggetto alle leggi della natura e del fato, e in premio e in conseguenza della libertà morale da sè procacciata, acquista una libertà più sublime sul mondo fisico ch’ei domina, anzichè esserne dominato. Ciò inteso i dottori, sia quando fecero da Dio dire ad Abramo, già circonciso e tuttora ossequiente alla scienza astrologica, Esci dai tuoi pensieri, Abramo non generava, Abraham genererà, sia quando aggiunsero che Dio nella visione in cui gli promise la prole lo elevò al di sopra delle stelle, per significare la libertà da esso acquistata dalle leggi e indicazioni degli astri; infine quando aggiunsero non vi essere fato o legge astrologica per Israel; che rappresentano i liberi i veri figli di Dio. Non sarebbe difficile che anche queste ultime idee si trovassero in Plotino. Ciò ch’è innegabile, si è come il primo Cristianesimo abbia attinto a queste sorgenti, alle sorgenti Israelitiche, tanto il concetto di figli di Dio in opposizione a schiavi della Legge e del Peccato, quanto l’idea concomitante di libertà dalla legge e dal mondo, doppio pensiero che in niuna parte meglio traluce che negli scritti e nelle parole di Paolo, il più dotto Israelita del primitivo Cristianesimo, quegli che studiò la Legge ai piedi di Gamaliel, il Fariseo figlio di Fariseo com’ei si qualifica. Però il concetto nel passare nel Cristianesimo subì una modificazione; anzi si arricchì di un elemento al tutto nuovo, cioè la Libertà dalla Legge invece della libertà della Legge, la quale fu considerata insieme col Mondo come la potenza che la virtù del Redentore avea vinto ed abolito sulla terra. Chi si faccia a studiare con occhio critico le epistole di Paolo, chiaro vedrà come Legge e Mondo procedano appo lui di conserva, e siano in pari modo bersaglio delle sue invettive. D’onde questa dilatazione dell’antico concetto Ebraico e se abbia o no radici nell’Ebraismo stesso, è subbietto grave troppo perchè qui si tratti, e di cui altrove abbiam disputato. Aggiungiamo solo come l’adagio stoico: il solo sapiente essere libero abbia riscontro con altro della stessa setta: il solo sapiente essere re ed entrambi nei Dottori, gli stoici dell’Ebraismo, come li chiamava Giuseppe. Gli antichissimi Esseni Kabbalisti, e quindi i primitivi Cristiani, sono creduti da alcuni autori progenitori della Francomassoneria e Frammassoni eglino stessi. Questo sistema ch’ebbe ed ha dotti patroncinatori, non manca di verosomiglianza solo che si ammetta o che le dottrine riposte dei Massoni sono quelle stesse dei Dottori, o che quelle degenerarono col lungo avvicendarsi di secoli. Ove ciò si consenta, non negheremo che vi sono non solo nei libri esoterici ma negli essoterici eziandio dei primi Farisei, curiosissimi indizj di quest’antica identità. Non è qui luogo a farne menzione. Solo diremo alquanto di ciò che si attiene al soprannome di Liberi, dato agli Esseni, ai Terapeuti nello stesso Talmud come si vede nei testo. Ora è noto come i Frammassoni dicansi Liberi Muratori o Francs-Maçons. Quale è l’origine di questo epiteto di Liberi o Franchi che tanto già suona conforme ai Liberi dei Terapeuti ed ai Benè horim del Talmud? Sentiamo un dotto scrittore della Società, in un’opera che, se avesse tanto ordine quanto mostra ingegno e dottrina, potrebbe noverarsi tra le prime del genere; il Reghellini di Scio nella Maçonnerie considérée comme le résultat de la Religion égyptienne, juive et chrétienne. Ei crede (vol. 2, pag. 97) che i Liberi Muratori cominciassero ad esserlo di fatto dando opera ai lavori architettonici, e che quindi alla loro corporazione si aggiungessero soci liberi, o come si dice onorarj: «Après ce qu’on vient d’exposer, la corporation des Maçons étant la plus illustre, elle devait être par conséquent la plus recherchée: il était facile à des hommes de qualité et à des lettrés de s’y faire admettre; et comme ces individus n’étaient pas de la profession, ils furent distingués des autres par le titre qu’on leur donna de libres ou francs.» Potrebbe forse escogitarsi simile ragione pel nome di liberi dato agli Esseni; e dire che così fossero chiamati perchè non Medici Assia eglino stessi e non ancora astretti a tutti i doveri sociali? O per avventura non sarebbe meglio intendere nei Liberi Muratori o nei Francs-Maçons lo stesso senso che si annette a quel degli Esseni, vale a dire o un epiteto che stia ad escludere la vera e propria servitù nei novizj, come vuole Filone, o che accenni a quella libertà morale spirituale che campeggia così solenne nelle dottrine kabbalistiche, neoplatoniche, gnostiche e cristiane come più sopra dicevamo? Al lettore l’ardua sentenza.
68Platone non isdegnò occuparsi nelle leggi (lib. VII) delle danze sacre. «Le legislateur, egli dice, assortira ces danses, aux autres parties de la musique, les distribuira en suite entre toutes les fêtes et les sacrifices, donnant à chaque fête la danse qui lui est propre ec.» (edit. Paris, 1842). Il concetto del Ballo fu preso a simboleggiare il moto, l’aspirazione delle anime verso Dio, il perpetuo conato dei Beati; – e ciò nei Dottori ebrei, nei Padri della Chiesa, e finalmente in Dante. Nei primi quando dissero Dio intimerà un ballo ai beati in Paradiso e stando egli nel centro, ognuno mirerà ad esso dicendo: Ecco Dio a cui aspirammo «Atid acadosc baruh u laasot Mahol lazadichim – be – gan – eden ec. Nei Padri, là ove si legge in S. Basilio (Omil. sul rendimento di grazie). Ti manca alcun figliuolo? Ti restano gli angioli coi quali menerai danza intorno al trono di Dio.– E il gran Dante nel Paradiso, come è noto. L’Israelita che nel santificare tre volte Dio ogni giorno solleva il Corpo da terra tre volte, è erede e discepolo senza saperlo di tutta la grande e buona antichità ebraica e gentile. Tanto è vero che l’ebraismo adempie mirabilmente a quell’officio di Nido di Neno che è distintivo di vera religione (religio a ligando) come volle Cicerone.