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Storia degli Esseni

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Io non vi dirò adesso ciò che scrisse Beniamino di Tudela nelle sue peregrinazioni. Ebbi luogo di ricordarvelo quando voleva provare la provenienza Recabitica del nostro Istituto, e spero che non l’avrete obliato. Narra Beniamino di aver veduto nel Iemen tra le numerose popolazioni israelitiche di quella regione, uomini, Dottori, Asceti che perseveravano nell’antico costume degli Esseni, nella solitudine e nel ritiro. Non vi dirò nemmeno come i nostri meno antichi moralisti, p. e., il Hobod Allebabod, che fu non ha guari trasferito in italiano, il Rescit hohma di un Cabbalista discepolo del Rabbi Isaac Loria, facciano tutti e due menzione di una scuola di religiosi che predilegeva l’isolamento e la vita anacoretica, l’ultimo in ispecie che fa menzione siccome tale di un Rabbi Abraham apparus che vita menava non disforme da quella più sopra descritta. Queste cose pretermetterò volentieri poichè ho fretta di giungere all’ultima quistione; non ultima però al certo per lo interesse che desta, ed è quest’una. Rimane egli tra noi tuttavia traccia veruna di questi antichissimi costumi e degli Esseni e di una frazione dei Dottori? cioè, v’è nulla che tragga l’Israelita dal romore delle città per levare la sua mente colla vista della natura, col silenzio, colla maestà del creato, a pensieri più celestiali? Io ardisco dire che vi è, vi è almeno nei libri, conciossiachè e belle e nobili istituzioni sien cadute fra noi in disuso, ed un gran brivido mi mettesse un giorno per l’ossa il Lamennais, quando lessi nel suo Romanzo les Amshaspandas et les Darvands quella frase terribile les Hébreux ont perdu le sens de leurs institutions. Dopo avere tante cose perduto, perdere ancora il senso delle proprie istituzioni pareami troppo orribile cosa in verità; e vedendo tanti e tanti inconsci assolutamente di aver perduto il senso delle nostre istituzioni, pensai non forse avvenisse nella perdita del senso morale, come avviene nei sensi del corpo che non sappiamo d’averla perduta. Fatto è che la memoria, che la reliquia esiste; ed esiste in un uso a noi incognito, ma che pure praticato fu dai Talmudisti, e che solo fu in progresso ed è forse in qualche parte ancor praticato dalla scuola Cabbalistica, io vo dire il Ricevimento del sabato. Che cosa è ora? Egli è ora pei più un canto incompreso, egli è per pochissimi lo stare per qualche istante ritto colla persona, l’inclinare un poco a destra, un poco a sinistra, un leggiero dimenare di capo; e tutto è detto. Che cosa era e che cosa dovria essere? Era purificarsi anzi tratto il corpo, era vestirsi di candidissimi pannilini, (vi ricordi il bianco uniforme dei Nazarei, le stole dei sacerdoti, le candide vesti degli Esseni, e tra poco, vedrete anco le bianche insegne degli Esseni moderni, dei Cabbalisti,) e sopratutto egli era uscire all’aperto, rinfrancare lo spirito coi vastissimi orizzonti, colle aure purissime, colla maestà del tramonto, rannodare le antichissime tradizioni patriarcali, salutare il sabato imminente, la sposa mistica che s’avvicina. Così fecero i Talmudisti quando dicevano l’uno all’altro esciamo ad incontrare la sposa. Così il verace continuatore delle loro tradizioni l’Aari, quando per attestato dei suoi discepoli (conciossiachè egli o poco o nulla abbia scritto), vestito di quattro abiti bianchi a guisa dei sacerdoti, traeva fuori per le campagne di Safet, città boreale di Palestina, e alternando i salmi di David e il mistico poetare, riceveva il sabato. Così a tempi più tardi i Dottori di Sionne perseverando nell’uso antico cercavano pei campi la mistica sposa. L’autore del Hemdat iamim, Cabbalista se altri fu mai, gran scrittore, gran moralista, dolorando come divelto dalla cara Sionne non potesse dar opera, come l’usato, all’amabile rito, così si esprime in suon di lamento: e nei giorni del mio esilio quando la sorte mi divelse dalla Eredità del Signore, nei luoghi ove ramingai pellegrino, non fummi per molte cause conceduto di proseguire nell’antico costume; sibbene questo io faceva: traeva fuori al vestibolo della sinagoga ove vasto e libero ti si schiude l’orizzonte, ed atto all’accoglienza della sposa, e colà io leggeva il Ricevimento del sabato. Avete inteso? È l’aria aperta, è il libero orizzonte, è la vista del creato che sta a cuore al pio Dottore; egli a questo spediente si appiglia non potendo far meglio: ma ciò ch’ei fare vorrebbe, ei lo ha detto, ei lo dirà anche meglio nelle parole che seguono: Ed ove ti sia conceduto, ascendi sulla cima di alta montagna, provvedi che il luogo sia puro, e colà recita il Ricevimento del sabato. Quanto diversi i tempi presenti! Le persecuzioni, le reclusioni, le tirannie fecero certo gran male e più male alle anime che ai corpi, perciocchè se la Religione si conservava nei Ghetti, a caro prezzo si conservava; a prezzo di divenire rachitica, atrofica, impotente, ingenerosa, a prezzo di perdere quel fare nobile, grandioso, poetico, sentimentale che le è proprio. I Ghetti caddero, è pur vero; e gli uomini ne uscirono frettolosi, ma vi dimenticarono preziosissima gemma, la Religione. La Religione è sempre in Ghetto; e sempre tra le angustie, tra le tenebre, tra la melma di quei schifosi meati. Meno infelici i soggetti dello Islamismo! i quali le pratiche religiose spiegano impunemente alla luce del sole; i quali possono mostrare davvero che sia, che possa la fede ebraica. Il Fariseo Cabbalista che ascende la montagna per salutare il giorno santo, è cosa grandiosa per chi la intende, per chi non ha perduto il senso delle nostre istituzioni; è più grande di Byron che si affida su barca leggera al mar tempestoso per essere spettatore e forse vittima della natura infuriata, che vuol assaggiare la morte tanto per poterla descrivere; è più grande di Iacopo, la creatura del Foscolo, che cerca per balzi e dirupi emozioni fortissime. E perchè dico più grande? Perchè i poeti cercan nella natura, nelle sue grandi scene, le sorgenti del Bello, mentre i poeti teologi dell’Ebraismo ve lo recano, ve lo diffondono: conciossiachè vi rechino, non vi cerchino le grandi idee ed i grandi effetti; conciossiachè viva nel loro petto Dio creatore della natura, fonte suprema del bello e del sublime; conciossiachè abbiano in petto il tipo increato del Bello al cui raffronto sorgono giudici meglio che spettatori del Bello creato. In una parola, i poeti ricevono il raggio di Dio riflesso dalla natura, i poeti teologi dell’Ebraismo diffondono sulla natura il divin raggio riflesso dall’anima loro. – La natura divinizza i poeti – non è così? ma i poeti teologi dell’Ebraismo divinizzano la natura.

LEZIONE DECIMASECONDA

Parecchie cose furonvi conte finora intorno agli Esseni. Oltre il nome, l’origine, di cui a dilungo parlammo, sappiamo dove abitavano – il mezzogiorno di Palestina – sappiamo ancora, lo abbiam veduto nell’ultima lezione, come abitavano, ch’è quanto dire solitari nella quiete dei campi. Se queste cose come le avvenire, maggior tempo richiesero a trattarsi che per avventura non sembra dicevole, lieve è lo scuoprirne la causa. Ella è quel duplice e complessivo lavoro che noi imprendemmo, e quel volere ad ogni passo, ad ogni nuovo elemento della loro esistenza, trovare nuova conferma a quel postulato supremo che vi enunciai dapprincipio, la restituzione dell’Essenato a quella scuola più vasta che s’intitola dai Farisei; e più specialmente a quella frazione che dagli altri si distingueva e per l’austerità della vita e per la sublimità degli studj. Rinunciare a questo scopo nobilissimo sarebbe certo ridurre a più angusti termini il nostro lavoro, ma sarebbe altresì rinunciare a quel benchè modesto resultato che ci è concesso sperare dalle nostre fatiche, a quell’unico titolo che possono queste lezioni vantare alla estimazione dei dotti. Ella è dunque stasera una nuova circostanza di lor vita esteriore che noi dobbiamo apprezzare. È quella predilezione e quell’amore che gli Esseni ebber mai sempre per le piagge, per le rive dei fiumi. Se meno gravi, se meno concordi fossero gli attestati degli antichi autori, io dubiterei non forse il caso meglio che la elezione avesseli per ordinario fatto stanziare sulla ripa dei fiumi. Ma il potremmo pensare, dopo che Plinio e Filone abbiamo ascoltato? Che dice Plinio? Plinio parla specialmente degli Esseni di Palestina, e quanto ei dice al capitolo 5 del libro XVII solo ad essi dobbiam riferire. Ora, se non m’inganno, io ebbi luogo di accennarvi in altra lezione, quanto Plinio ci narri in proposito. Egli asserisce come gli Esseni vivessero tutti quanti in riva al Lago Asfaltide ossia Mar Morto, e solo egli aggiunge tanto se ne discostavano quanto tornava indispensabile a cansare le mefitiche esalazioni di quel lago insalubre. Or che sarà se intenderete Filone lo storico dei Terapeuti dirci altrettanto dei suoi solitari? Certo direte che non è senza grave cagione che così accadeva. Or bene; aprite Filone nella Vita contemplativa, e poichè vi avrà dette come taluni di quei religiosi dimorassero qualche volta nelle città, queste parole nonostante ne intenderete apertissime. Ma i principali, dice Filone, si ritirano quasi tutti in un luogo che hanno fuori di Alessandria vicino al Lago Mereotide sopra un’eminenza, che fa il luogo securo e dove l’aria è salubre. E qui i Terapeuti non potrebbero mostrarsi più che non si mostrino conformi ai loro fratelli palestinesi. Com’essi parte vivono in società e parte in ritiro, com’essi amano le campagne, i luoghi salubri, sopratutto com’essi ancora prediligono le rive. Havvi a quest’uso un perchè? Erano eglino gli Esseni, i Terapeuti nella scelta di questi luoghi guidati da un principio, da una tradizione, da un esempio che glieli additasse? La storia, il culto, la religione, la letteratura ebraica ci rispondono propizi. Non dirò come le acque fossero sempre simbolo, immagine venerandissima in bocca ai profeti, simbolo d’Ispirazione quando alludono alla futura effusione dello spirito, simbolo di Beatitudine quando Dio è presentato qual sorgente perenne di acque vive, simbolo di Dottrina quando spargansi, dice Salomone, le tue acque per ogni dove, intendendo della propagazione dei buoni studi. Non dirò nemmeno come non solo atto si stimano a lavare di ogni corporea impurità, d’onde le infinite e multiformi abluzioni di ogni maniera immondizia, ma bensì la virtù lor si conceda altresì di santificare e predisporre ai più nobili offici di religione, siccome vediamo aperto nelle ripetute abluzioni del sommo Pontefice nel giorno di Espiazione. Non dirò come la vista del mare, la navigazione si dican capaci di preparare gli animi all’acquisizione del (Hassidut), e già sappiamo gli Esseni dirsi Hasidim d’onde l’adagio i marinari per la massima parte essere Hasidim. Non dirò infine come le rive fossero dai Dottori desiderate dopo la Terra Santa, siccome il più puro ricetto a ospitarne le ossa, siccome vediamo in Ribbi Meir, il quale per attestato del Talmud di Gerusalemme essendosi addormentato (bella metafora55 per dir trapassato!) in Assia, luogo come altra volta intendesse dell’Asia minore, lasciò detto ai Discepoli Deh! vogliate seppellirmi in riva al mare. Che se questo brevemente trapasso per non tediare, come potrei tacere di cose che tanto a questo sovrastano per gravità? Come tacere che per dottrina tradizionale, per esempi grandi cospicui della Bibbia, il solo luogo atto dopo la terra santa alla fruizione di profezia, sono i lidi del mare o le rive dei fiumi? Come non dire che se Ezechiele profetò, tutto che fosse oltra i confini di Palestina, ei fu solo perchè, dice la tradizione, acconciamente vi si dispose stando in luogo purissimo cioè sulla riva del fiume Chebar? Come non dire che se Daniel ebbe visione, e non in Palestina, ei fu, dice egli stesso al cap. VIII, sul fiume Ulai? Come tacere del capitolo X dove, se ci si narra l’ultima sua visione, ella è pure in riva ad un fiume, il fiume Tigri? Come tacere che se festa vi era in cui si stimava potere l’ispirazione conseguire, quella si era in cui le libazioni di acqua si praticavano;56 non troppo dissimile da quanto i Pagani favoleggiarono intorno la profetica virtù dell’onda Castalia, dell’Ippocrene, dell’Aganippe e del Lebitrio? Come non ricordare ciò che dice Massimo Tirio parlando dell’oracolo Jonico. Lo Ipopteta, ei dice, della Jonia dopo avere attinto e bevuto l’acqua del sacro fonte predice lo avvenire? E come infine tacere dell’atto più importante della monarchia israelitica della unzione del nuovo Re? La qual cerimonia, è la Bibbia che lo attesta, si faceva e doveva sempre farsi, aggiunge il Talmud (in Oraiot), sulla riva di un fiume, in quella guisa appunto che vediamo nei Re praticato, in Salomone, il quale per ordine di Davide condotto presso a Ghihon, piccola riviera che scorreva vicino a Solima, vi fu solennemente sacrato e proclamato monarca? Ma quanto non riescono al confronto insignificanti cotesti esempi ove ad un fatto grande significantissimo si riferiscano, di cui la Tradizione ci ha serbato memoria! Perocchè tra i Pagani, nei tempj loro più venerandi, negli oracoli più famosi, non altrove, sorgesse l’altare, non altrove si locasse la Pila, a inspirarsi del Nume che colà abitava se non sull’orifizio di un pozzo, questo sapevamo e per storici antichi e per moderni: sapevamlo sopratutto dal Clavier (Les oracles des anciens) di cui non ha guari scorsi le pagine, ove in una dotta Memoria presentata all’Accademia sugli Oracoli degli antichi tolse a dimostrare con squisita erudizione, il fatto da me accennato nei due più famigerati tempj ed oracoli di Grecia antica, in quello cioè antichissimo di Dodona e in quello di Delfo. Il sapevamo da Origene il quale dice la Pitia essere posta sull’orifizio della fonte Castalia; da Euripide nella Ifigenia in Tauride, dove facendo Apollo parlare, sì gli fa dire: Il mio Santuario divino sulla corrente Castalia. – Da Temistio che scrive: Gli Anfizioni furono i primi fondatori di Delfo, un pastore del Parnaso sendosi trovato invaso dallo spirito profetico del fonte Castalio; da Nonnio nei suoi Dionisiaci, che disse: L’acqua divina della previdente Castalia era in ebullizione; da Ovidio che all’antro della Pitia dà il nome di antro Castalio; e infine da Pausania che così si esprime nella descrizione di Delfo: Volgendo a sinistra all’uscire dal tempio di Delfo voi trovate la tomba di Neottolemo; un poco più in alto si vede una pietra che non è grandissima. È unta con olio; ogni giorno ed i giorni di festa è coperta di lana grassa. Questa pietra è, dicesi, quella che fu fatta inghiottire a Saturno invece del figlio e che poi in questo luogo rejesse. Ritornando di là verso il tempio, tu osservi la fontana Cassoti (altro nome della sorgente Castalia) essa è circondata di un muro poco alto, in cui è praticata una porta per cui si crede che quest’acqua si conduce per vie sotterranee nel santuario del Dio e ch’è dessa che ispira le donne che vaticinano lo avvenire. Così tutti gli scrittori summentovati dell’oracolo Delfico. Possiamo dire altrettanto di quel di Dodona? Sì, se portiam fede a Servio nel commento a Virgilio, il quale al libro terzo dell’Eneide sopra il v. 406 così si esprime: Questo paese di Dodona è sui confini della Etolia. Gli antichi vi consacrarono un tempio a Giove ed a Venere. Presso al tempio, immane quercia sorgeva, a quanto sen dice, dalle cui radici una fonte scaturiva, il cui mormorio per divina ispirazione una vecchia donna per nome Pelia interpretava. Ex cuius radicibus fons manabat qui suo murmure instinctu deorum diversis oracula reddebat. E questi furono i due più celebri oracoli della greca antichità, e questo il modo dei loro responsi; nè da questi differirono altri infiniti, comunque meno famosi; non quello dei Branchidi nell’Asia minore di cui così favella Jamblico nel libro sui Misteri: Una donna appo i Branchidi predice lo avvenire, vuoi tenendo la verghetta in origine donata da qualche Iddio, vuoi assisa sopra il tripode, forse ancora i suoi piedi o il lembo del suo vestito stanno immersi nell’acqua, e infine il Dio a lei si comunica col vapore di quest’acqua. Nè quello differiva dei Colofoni, al dire di Jamblico, che ne discorre in questa guisa: Quanto all’oracolo dei Colofoni, ognuno conviene che egli è per mezzo dell’acqua che ci si annunzia lo avvenire. Una fonte vi ha in un edifizio sotterraneo. In certa notte dopo parecchie cerimonie e sacrifizj, il Profeta bee l’acqua del fonte, e non veduto da quelli che vennero a consultarlo predice lo avvenire.

 
 

Ma quello che colmare vi dovrà di stupore, quello che io temo forte vi sarà riuscito sinora ignoto, siccome quello che poco eziandio è divulgato tra i cultori delle lettere sacre, egli è questo fatto curiosissimo, il fatto cioè che non altrove era situato il grande altare dei sacrifizj nel tempio di Dio, tranne sulla bocca di un pozzo, pozzo, dice Rascì nel Talmud (14º di Succa), che riceveva tutte le libazioni che si versavano sull’altare; pozzo che si chiama Scitin nel Talmud e che si proclama antico quanto il mondo, Scitin nibrau miscescet ieme berescit, d’onde il curioso anagramma berescit bera-scit; pozzo, secondo i dottori accennato da Isaia, ove paragonando Israele ad una vigna dice: e vi fabbricò il suo padrone una torre, e questo è l’altare; un pozzo vi scavò, e questo è la cavità sottostante; pozzo, interpreta il Moarscià, ch’era come la scaturigine di tutte le acque mondiali, ristretta, contenuta ai piedi dell’altare, sì perchè (stupendo pensiero) imponendovisi sopra quasi suggello l’altare di Dio, rispettin le acque i naturali confini, nè più irrompino a inondare la terra; sì perchè vengano benedette le acque dalla sorgente di ogni benedizione, e le libazioni scorrano all’oceano quasi sangue novello perpetuamente infuso nelle arterie del Globo. E questa è parlantissima analogia oltre le altre già menzionate, oltre altri fatti in gran numero che ometto per brevità col costume che vediamo prevalso tra gli Esseni di ogni colore di abitare le rive. Ma quanto non amerei che più a lungo mi fosse dato d’insistere sull’ultimo e supremo fatto da me accennato di sopra – il pozzo sacro su cui poggiava l’altare! Non solo i tempj e gli oracoli greci potrei chiamare, come dissi, a rassegna, ma molte altre idee con questa principalissima concomitanti potrei accordare, vedreste le idee dei Pagani su quel pozzo, su quelle acque poco procedere dissimili da quelle da Moarscià enunciate, comecchè il solo genio delle dottrine talmudiche gliele abbia ispirate; potrei mostrarvi come ogni qual volta si dava ai Pagani un pozzo profetico, non mancava un idea, una tradizione che lo accompagnasse, voglio dire la credenza comune in Grecia, comune in Fenicia che da quell’orifizio, da quel condotto, fossero tutte scolate e tutte inghiottite le acque del Diluvio quando si ritirarono; e che il tempio e l’altare e l’oracolo quivi eretto, fosse un perpetuo religioso scongiuro contro le onde frementi; vorrei dirvi come quell’intimo comunicare dello altare di Dio colla profondità della terra, quel veicolo che univa l’ara alle viscere più segrete del Globo, riceva lume e tolga senso principalmente dalle dottrine dei Pitagorici. I quali non solo chiamavano il fuoco centrale torre di fortezza (Pyrgos) come i dottori appunto, cosa sorprendente! chiamarono il centro della terra il sito dell’altare col nome Migdal, torre di fortezza, ma ciò che più monta chiamavano i Pitagorici quel centro stesso altare dell’universo come appunto nel centro della terra secondo i Dottori, sorgeva l’altare e il fuoco perpetuo quasi vampa projetta e quasi prolungamento del fuoco centrale di cui favellano i Pitagorici. Ma di questo basti per ora; basti lo avere provato come nemmeno in questa circostanza, in questo costume, nell’amor delle rive si dipartissero gli Esseni dal comune pensare e dalle idee predominanti tra i Farisei.57

Rimettiamoci dunque in cammino e procediamo spediti. Che cosa abbiam fatto sinora? si può dire senza errore che poco più abbiam fatto fuorchè aggirarci intorno agli Esseni senza mai investirli. Nome, Origine, Patria, Regione, Solitudine, Sito particolare, tutte cose senza meno opportune, ma che non sono ancora gli Esseni. Tempo è che gli Esseni stessi consideriamo più davvicino. Ma anche adesso conviene procedere ordinatamente e a grado, conviene sapere se sono tutti omogenei o in qualche parte diversi fra sè; in altri termini conviene sapere se classi vi erano, e quali, e quante nel grande Istituto. E qui non potrei senza colpa dissimularvi che le notizie che intorno al subbietto ci son pervenute, procedono a senso mio così confuse e talvolta eziandio così contraddittorie, che dura cosa è mettere ordine e luce in tanta repugnanza di idee.

Voi non volete certo sobbarcarvi a una sottile disamina, nè io lo esigo. Vi risparmierò dunque il Processo, vi risparmierò altresì i considerandi della mia sentenza; questo solo vi dirò, che a quanto ho potuto capire dal confronto dei Testi, due classificazioni debbono ammettersi nel nostro Istituto. Notate che dico due classificazioni e non due classi, dico due ordini di classi, due gradazioni, due gerarchie. La prima riguarda la maggior o minor purità a cui s’obbligavano nel contatto delle cose esteriori, e si deve intendere in quel senso tutto ritualistico e positivo a cui accennano i Trattati sulla materia. E in quest’ordine d’idee, in questa gerarchia quattro gradi o classi rammenta la storia in seno agli Esseni. E principalmente ne favella Giuseppe nel libro secondo delle Guerre Giudaiche, dove così si esprime: «V’ha d’essi secondo il tempo della loro professione quattro differenti classi; e i più giovani sono talmente inferiori agli anziani, che se accade che uno di classe più alta ne tocchi uno della più bassa, convien che si lavi come se avesse toccato un incirconciso.» Resta ora a parlar della seconda classificazione della seconda gerarchia. Ma prima di procedere più oltre, e seguendo il nostro stile, domandiamo a noi stessi: se egli è vero che gli Esseni non altro sono che una frazione, la più sublime frazione dei Farisei, siccome per me si estima; mestieri è pure che di questa quadruplice divisione non solo appo i Farisei resti serbata memoria, ma che i Farisei stessi a dirittura se l’approprino, voglio dire che di se stessi narrino i Farisei ciò che degli Esseni i loro storici ci raccontano. Dov’è questa menzione, e in qual guisa se la appropriano i Farisei? Voi comprendete che ove la divisione esista realmente, laddove poi ai Farisei istessi sia applicata, fatto non indifferente sia cotesto in verità, per la identità da noi propugnata tra Essenato e Farisaismo. Ora dov’è la quadruplice divisione? Voi la troverete a capello nel 2º capitolo di Haghiga dove leggerete le seguenti espressioni: bigde am aarez, medras lapparuschem, bigde paruscum medras leohele maaser scheni, bigde ooele maaser sceni medras leohele teruma, bigde ohele teruma, medras lacodes, bigdes codes medras lehattat.

Dove più cose sono da osservarsi; prima la quadruplice gradazione di purità rispondente ai quattro gradi di purità nella società degli Esseni, per ciò che riguarda il reciproco contatto; e dico quattro nel testo Misnico; giacchè ognuno comprende come coloro che sono al di fuori del farisato, cioè bigde amaarez, non possano ammettersi in conto. Il fatto poi dalla Misna rivelatoci come vi fossero uomini tra i Farisei che senza appartenere al ceto sacerdotale, come Iohanan Ben Gudgheda ivi stesso rammemorato, od anche al ceto sacerdotale appartenendo come Iose ben Ioezer che vien chiamato col nome significantissimo di Hasid, come dico, tali vi fossero che in tutti i loro rapporti quella rigida osservanza serbassero di purità, ora qual si conviene al sacro cibo di Teruma come Iose il Hasid, ora qual si addice anzi alle offerte stesse approssimate agli altari, come l’altro, Iohanan Ben Gualgheda. E questa è la prima classificazione e la memoria ed il segno che di essa è rimasto nei libri rabbinici. Ma io dissi, se ben vi ricorda, come duplice classificazione distinguesse gli Esseni. Qual’è la seconda classificazione? Ella è quella che riguarda, non già come la prima il diverso grado di purità, ma ciò che più monta, il genio riguarda e l’officio diverso delle classi che la società componevano. E quante erano queste classi? Eran due. Si dicevano i primi Esseni pratici, si dicevano i secondi Esseni contemplativi. Che cosa erano gli Esseni pratici? Eran coloro che senza troppo gittarsi nel turbine delle faccende mondane non lasciavano però di conversare familiarmente cogli uomini in società; che non solo praticavano il matrimonio, ma lo predicavano eziandio santo e legittimo, e conforme sopratutto alle mire provvidenziali per la conservazione della specie umana; erano coloro di cui così favellava Giuseppe nel 2º delle Guerre: «V’è ancora un altro ordine di Esseni che ha l’istesso metodo di vita, i medesimi costumi e le medesime regole, toltone l’articolo delle nozze, questi dicono che sia tôrre alla vita umana una delle sue parti più considerabili, lo impedirne la successione col non ammogliarsi, e che se tutto il mondo fosse di questo parere il genere umano presto correrebbe al suo fine. Ma spendono tra anni ad esplorare gli animi delle lor spose; e quando sono state tre volte in questo tempo purgate conchiudono che sono atte ad aver figliuoli, e le sposano.» Queste sono le parole di Giuseppe intorno agli Esseni che si dicono pratici. Se fossero a voi famigliari i libri e le sentenze dei nostri Dottori, trovereste siccome io trovo, una mirabile uniformità di linguaggio tra gli Esseni, secondo Giuseppe e i Dottori più celebrati, intorno la necessità, il dovere del matrimonio; tantochè se non mancano esempj, come altra volta vi dissi, di celibato volontario ascetico in seno ai Dottori, non si può negare che il comun genio e le prevalenti dottrine non consentano piuttosto col genio, colle dottrine di quella parte di Esseni che si nomano pratici. Ma una seconda divisione nell’Essenato vi additava, ed è quella degli Esseni contemplativi. Che cosa sono gli Esseni contemplativi? Sono quelli che ponevano ogni amore nello studio e nella vita contemplativa, quelli che passavano i loro giorni, dice Filone, a meditare i libri sacri e la filosofia dai maggiori imparata; che continuamente rinchiusi nelle loro cellette, nè uscivano, nè parlavano con chicchessia, e che di fronte alle speculazioni e allo studio, continua Filone, ogni altro religioso dovere tenevano a vile. Queste sono le due classi, e questo il ritratto che ce ne offre principalmente Giuseppe. Filone istesso non lascia di autorizzare la esistenza di questa duplice classe. Filone, come altra volta vi dissi, scritto aveva due libri l’uno «ogni uomo onesto è libero» e parlava degli Esseni l’altro, de vita contemplativa e vi trattava dei Terapeuti; ma ciò che grandemente interessa la questione presente, si è il modo, si è la frase con cui Filone trapassa dal 1º libro al 2º da quello cioè che concerne gli Esseni a quello che riguarda i Terapeuti. Egli usa parole che non solo confermano la esistenza della duplice classe da noi accennata, ma ci additano altresì la speciale composizione dello Essenato Palestinese ed Egizio e quale e nell’uno e nell’altro predominasse degli accennati elementi, Pratico o Contemplativo. Avendo già, così dice Filone all’esordire del 2º libro, avendo già fatto parola degli Esseni (e già aveva detto precedentemente come cotesti la Palestina avessero a patria), i quali menano una vita pratica e attiva, conviene al presente ch’io tratti di quelli che si danno alla Contemplazione. Che cosa vedete in queste parole? Non solo vedrete la identità generica, la suprema medesimezza degli Esseni e dei Terapeuti che taluno volle revocare in dubbio; non solo vi vedrete la distinzione delle due classi, ma ciò che al tempo stesso non vi potrà non apparire manifesto si è, come benissimo avvertiva l’illustre sig. Munk, il prevalere del pratico elemento tra gli Esseni di Palestina come la preponderanza che aveva la parte contemplativa tra i Terapeuti, ch’è quanto dire tra gli Esseni di Alessandria. Nè altrimenti poteva procedere la bisogna. L’Egitto, e specialmente l’Egitto siccome fatto lo avevano la greca filosofia e le religioni orientali, era la patria naturale, propria di ogni ascetismo comecchè trasmodante. Il celibato, la solitudine, il disprezzo del mondo, il divorzio di ogni civile consorzio, erano piante che in niun altro terreno meglio avriano potuto attecchire che nel terreno egiziano. Non così per Palestina, dove se la vita contemplativa non cessava di essere in onore grandissimo, non era di quella tempra viziosa, esclusiva che colpisce di paralisi ogni più attuosa facultà, e le più prestanti e rigogliose aspirazioni consuma in un misticismo vaporoso. La vita contemplativa dei Dottori non procedeva per lo più scompagnata dall’esercizio della umana attività, dalla santificazione del corpo, mercè il culto esteriore, dalla santificazione del mondo e dei piaceri e delle occupazioni del mondo, mercè il suggello e quasi non dissi il crisma che gl’imponeva la fede. Misticismo, vi era chi lo nega? Ma era quello di buona lega, quello che non scinde, non smembra, non mutila l’uomo a favore delle facoltà sue superlative, ma che tutto l’uomo, i pensieri come le opere, gli studj come la pratica, il corpo come lo spirito, prende a santificare, e tutto, anche le opre più vili, gli fa praticare in ispirito e verità; era quel misticismo sincero, di cui nobilissimamente discorreva Vincenzo Gioberti presso a cui s’impara più d’Ebraismo che non per avventura presso a tanti sedicenti israeliti scrittori, quando nella Filosofia della Rivelazione dettava queste parole, a cui ogni buon Israelita potrebbe soscrivere «La vera vita contemplativa implica l’attiva, o esterna e sensata. L’attiva perchè la somma anzi l’unica attività, è quella del pensiero. L’esterna perchè questa è necessaria a svolgere l’intelligente e a passare allo stato di mentalità pura; gli orientali e gli ascetici che rigettano la vita esterna e collocano la vita contemplativa nella mera passività, non s’intendono di vera contemplazione.» E Gioberti ha ragione per l’oriente eterodosso. L’oriente ortodosso però, i Profeti e Dottori, comecchè recassero la vita contemplativa sino alle sue ultime conseguenze, non la fuorviarono mai dalla via che conduce al perfezionamento dell’uomo intero, e Paradiso e Civiltà se non eran per essi due termini sinonimi, certo eran strettamente correlativi. Moralmente parlando l’Ebraismo aveva collocato da lungo tempo la terra in cielo, pria che nascesse Copernico. E questo era il misticismo palestinese, e questo principalmente il suo Essenato, in cui la parte maggiore si componeva, voi la udiste, di quei Dottori, di quei fratelli, che tutto che vivessero e conversassero tra gli uomini in società, e nozze contraessero, e gioje e dolori e vicende coi fratelli tutti dividessero, ciononostante tale inflessibile regola presiedeva ad ogni loro atto, tali i vincoli che li univano comecchè disgregati talvolta, tale l’unità di vita e di mire a tutti comune, che per essi non sarebbe profanazione ripetere ciò che fu detto per quel Dio che sì nobilmente adoravano: che la sua circonferenza non è in nessun luogo e che il suo centro è da per tutto. Non si vuol dire con ciò che contemplativi veri, proprj, esclusivi, non esistessero in Palestina, e se io lo dicessi, non solo Giuseppe, ma i Dottori stessi, ma il Talmud, ma il Zoar sorgerebbero a smentirmi. Ciò che dico questo si è, ch’eran pochi, non solo, ma che anche nel concetto universale era quello uno stato di sovrumana perfezione, a cui non avrebbero potuto senza periglio aspirare che pochissimi, a cui natura avesse conceduto la forza di vivere sulla terra la vita dei Celestiali. Ma pure esistevano, e se esistevano, mestieri è per essi come pei Pratici, rinnovare quella inchiesta che non cessammo di ripetere ad ogni nuovo elemento che ci si porse dinanzi della Essenica esistenza. Havvi di questa distinzione memoria tra i nostri Dottori, consuona questa duplice divisione di Pratici, di Contemplativi, con quel che di sè narrano i Dottori delle proprie divisioni? Abbiamo insomma, anche da questo verso, ragione di credere alla identità da noi propugnata delle due scuole di Esseni e di Farisei? La prossima conferenza ce ne darà adeguata risposta.

55Questa locuzione è comunissima nei due Talmud, e in generale nell’antica Biblioteca Rabbinica. Egli è da quest’uso che Gesù apprese a dire a proposito di Lazzaro morto, Lazzaro nostro amico dorme. (Gio. XI, 11). Ma ciò che torna incomprensibile egli è che uomini israeliti com’erano i discepoli, abbiano potuto fraintendere, e capire vero e proprio sonno, replicando: Se egli dorme sarà salvo (anche così dicendo si mostrano seguaci della terapeutica talmudica). Questo equivoco non troppo naturale in uomini che ascoltavano tuttodì dormire per morire e che dovevano in quest’ultimo senso tanto più interpretarlo, essendo Gesù a quell’ora troppo da Lazzaro lontano, per saperne tutte le più minute vicende (la morte siccome cosa troppo più importante poteva da essi presumersi conosciuta per chiaroveggenza profetica), farebbe credere che ei fu soltanto appo lo scrittore del quarto Evangelo, siccome dai tempi alieno e dai luoghi ch’ebbe nascimento, e ch’egli per induzione analogica pose a carico dei discepoli.
56Questo avveniva nella festa dei Tabernacoli, ed era in quei giorni che ricorreva la straordinaria esultanza ove, dice la tradizione, prendevano parte quasi esclusiva i Hasidim (nome a senso nostro più antico degli Esseni) ed i Pratici come fra poco vedremo; lo che ci riconduce per altra via, alla predilezione degli Esseni per le acque. Il Talmud dice apertamente che si nomava festa della Scioabà perchè di là attingevano (Scioabim) lo Spirito Santo, siccome è scritto: Attingerete acqua con esultanza dalle fonti della salute; e questo fatto come queste parole stringono in un sol fascio. Hasidim antica appellazione degli Esseni, la libazione delle acque; e la ispirazione onde furono celebrati gli Esseni, unione sopra ogni altra eloquentissima. Non taceremo come questa festa e questo Testo Rabbinico spargano gran luce sopra un passo del quarto Evangelo. (Cap. VI, V. 37.) Or nell’ultimo giorno, che era il gran giorno della festa (dal V. 2 apparisce che questa festa era quella dei Tabernacoli) Gesù stando in piè gridò dicendo: se alcuno ha sete, venga da me e bea. V. 38. Chi crede in me, siccome ha detto la Scrittura, dal suo ventre coleranno fiumi d’acqua viva. V. 30. Or egli disse questo dello Spirito il quale riceverebbero coloro che credono in lui. 1º Si noti la qualificazione di grande data all’ultimo giorno dei Tabernacoli, appunto come i Dottori lo chiamano il giorno del grande Osanna. Ma questo titolo ha un valore speciale in bocca a Gesù, perciocchè prova come non siamo andati errati in una Scrittura Ebraica, diretta a confutare le idee del Signor professore Luzzatto, quando asserimmo che il carattere penitenziale e solenne di questo giorno risale a tempi antichissimi. Fra gli altri cenni, questo dei Vangeli non è l’ultimo, mostrando Gesù, che invita in quel giorno a convertirsi alla sua fede, e chiamandolo gran giorno appunto come il Talmud Gerosolimitano chiamato giorno per eccellenza, e lo pone al fianco del Capo d’Anno (vedi mia opera citata). Non è da trascurarsi neppure come il gran giorno dei Vangeli per l’ultimo dei Tabernacoli, abbia non poca analogia col nome gran digiuno Zomà Rabbà dato dal Talmud al 10 di Tisri. 2º Gesù dice Se alcuno ha sete, venga a me e bea. Come non vedere in queste parole un’allusione, vuoi alle acque che si pregavano in quei giorni copiose per tutto l’anno, vuoi alla libazione delle acque nel Tempio che non si faceva mai, tranne quei giorni istessi? E si noti che Gesù proclama questo nel Tempio (V. Giov. VII, verso 14-28), ove questo rito si celebrava, e si mostra per ciò stesso fedele a quella trasformazione ch’egli mirava a operare nel culto ebraico sostituendo sè stesso al Tempio, e appunto chiamando sè medesimo col nome di Tempio, tanto quando promette distruggere e rifabbricare il Tempio in tre giorni, quanto allora che per giustificare i discepoli che profanavano il sabato, cita l’esempio dei Sacerdoti che eseguivano ogni illecita opera nel Tempio, e aggiunge: «Ora io vi dico in verità che vi è qui qualcuno maggiore del Tempio.» Gesù trasporta dunque nel senso figurato delle sue proprie dottrine il rito materiale che allora si celebrava, e neppure così facendo si dilunga dalle dottrine farisaiche, conciossiachè siano esse appunto che hanno detto «chiamarsi quella festa Scioabà perchè vi si attingeva lo Spirito Santo.» Ecco il senso metafisico innestato sul rito delle libazioni. E qual è il verso che s’invoca dai Dottori a sostegno? Quello appunto che dà Gesù. È vero che verso come quello da Gesù rammentato, non si trova affatto nella sua giacitura in tutta la Bibbia, ma è innegabile del pari che il verso a cui si mira (per qualsiasi ragione alterato) è quel che si legge in Isaja XII, V. 3 (non X, 4 come vuole Diodati) vale a dire attingerete acqua con esultanza dalle fonti della salute, che diventa in bocca a Gesù, dal suo ventre coleranno fiumi d’acqua viva. A spiegare la quale differenza, basta osservare che Gesù applica a sè stesso, ciò che il profeta intende per la salute politica e la morale, e i Dottori per la ispirazione. Quindi è che le frasi ebraiche prestandosi mirabilmente a tal metamorfosi – le fonti (Mahianè) da cui si attingerà l’acqua divengono – il Ventre del Messia – dicendosi in ebraico per ventre Mehé per fonte Mahian– ed anche Mahiane; – e la salute Jesciuha è sostituita dal sottinteso Messia Gesù – chiamato Jeosciua che suona all’orecchio come all’intelligenza, quanto Jescuha (Salute). L’imagine poi di ventre ricettacolo di dottrina, se suonerebbe impropria nelle nostre lingue, che per la scienza progredita esprimono più esattamente la situazione d’ogni viscere, è per contro comune e approvata nel biblico e nel rabbinico idioma, dicendosi nel primo: la tua legge nel mio ventre. (Salm.) Vetorateha betoh meai e nel rabbinico: Gioisci, o mio ventre, per dire vo superbo di aver raggiunto la verità. – Questa trasformazione torna tanto più accettabile, ove si riduca a memoria quanto più sopra dicemmo, dell’intendimento a cui mirava Gesù di sostituire o anteporre Sè stesso, le sue dottrine e la sua autorità al Tempio. Ma sopratutto torna qui opportuno notare, come la teosofia cabbalistica, che a senso nostro forma il fondo delle dottrine degli Esseni, e del primitivo cristianesimo, chiami fonte o pozzo di acqua viva Beer maim haim non solo il Tempio di Gerusalemme, (V. Nacmanide e com. al Pent. Sig. Vojerà) ma il suo prototipo, emanatistico – la Sefirà chiamata Regno Malhut e Tempio che è nella serie delle emanazioni – il principio della incarnazione, la umanazione del Verbo o Logo (Tifheret) lo che spiega come Gesù Avatara, chiami sè stesso Tempio, e a sè stesso arroghi l’epiteto di fonte o pozzo d’acqua viva. Si vegga anche nello stesso Vangelo di Giovanni, il colloquio di Gesù colla Samaritana e le parole significantissime che Ei vi pronunzia. Soprattutto non si dimentichi che lì come qui, è Gesù che proclama sè vera sorgente salutare, vera acqua, vero pozzo capace di dissetare. Nella scena del Tempio, come in quella del pozzo colla donna Samaritana, non saria possibile disconoscere le allusioni ai fatti, e alle dottrine dell’Ebraismo, e l’influenza mitica apparisce qua e colà evidente. Nel Tempio non solo, come dicemmo, Gesù ha di mira la ispirazione che in quei giorni reputavasi diffondersi sulle menti a guisa delle acque, che allora appunto l’unica volta in tutto l’anno si spargevano appo dell’altare; ma non si può negare nemmeno che qualche allusione non voglia egli fare eziandio al pozzo, su cui posava l’altare e di cui toccammo nel Testo. Nel colloquio colla Samaritana al pozzo, il Mito non è a parer mio meno sensibile. Chi ne voglia diffusa dimostrazione la troverà nel mio Essai sur l’origine des dogmes et de la morale du christianisme (Manoscritto premiato nel concorso dell’Alliance israélite universelle di Parigi). Solo ci piace qui di aggiungere, come la donna Samaritana si dica avere avuto sette mariti, numero e circostanza di conto indubitatamente cabbalistico, onde il principio d’Incarnazione, il Regno chiamato anche Pozzo, si dice il principio femminile di tutte le Sette superiori emanazioni, e perciò stesso chiamata ora figlia dei Sette Bat Sebah, ora l’ottava (Sceminit. Esmun egizio). Quanto al pozzo, un autore che se ne intendeva appartenendo egli alla Società dei liberi muratori, così s’esprime «Les puits étaient des emblèmes communs à toutes les initiations. Dans tous les temples égyptiens où on initiait, il y avait le puits où descendait le néophyte… La Maçonnerie considérée comme le résultat ec. per R. D. S. vol. 2. p. 65.» La esistenza dei segni dell’esoterismo e della iniziazione nel Tempio di Gerusalemme, malgrado le apparenze contrarie, dovrebbe ammonirci come sia verissimo ciò che altrove dicemmo, cioè che la sola differenza tra il metodo pagano e l’ebraico in ciò consiste, che il primo pose l’esoterismo e il mistero nella teologia e la divulgazione nella mitologia, mentre il secondo fa patrimonio comune della teologia e pone il mistero nella mitologia, siccome quella che serve d’involucro non alla sostanza ma alla scienza dei Dogmi. Per modo che si può dire che il paganesimo non è che un ebraismo a rovescio.
57Alle cose esposte nel Testo vogliamo aggiungere come della sorgente che era nel Tempio ragioni eziandio Aristea nei frammenti riportati da Eusebio. (Prep. evang. ed Paris, vol. 2, pag. 51) Cette eau (che terge il sangue delle vittime) provient d’une source placée dans l’intérieur: source intarissable et abondante ec.; come i Dottori eziandio predilegevano le Rive come sede atta ai buoni studi, leggendosi nel Talmud Oraiot 3: quando leggete o meditate, fatelo, presso ai fiumi; così, in quella guisa che scorrono le acque, scorreranno pure le vostre cognizioni; e finalmente come questa simpatia e quest’uso condusse i primi cristiani a prediligere essi pure le rive, di cui non vogliamo citare qui che un solo esempio. E nel giorno del Sabato (si legge negli Atti, cap. XVI, V. 13) andammo fuor della città presso del fiume dove soleva essere il luogo dell’orazione, e postici a sedere, parlavamo alle donne quivi raunate. Una lettura del Vangelo mostrerà come quest’amor delle rive risalga sino allo stesso fondatore del Cristianesimo, il quale tolto lo ebbe senza meno alla Scuola Essenico-farisaica a cui appartenne.