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Storia degli Esseni

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LEZIONE DECIMAPRIMA

Io vengo a proseguire l’opera incominciata. Noi abbiamo degli Esseni studiato già e il nome e quello che più c’interessava, l’origine loro. Noi abbiamo, a parer mio, trovato in mezzo a tante etimologie la vera etimologia, e tralle tante congetturate origini la vera origine. Per svolgere ordinatamente il nostro assunto conviene che io vi riduca a memoria il piano, l’ordine, la seguenza che imponemmo al nostro dire. Io vi promisi sin dalla prima lezione che dopo il nome, dopo l’origine degli Esseni noi avremmo preso ad esame la loro costituzione, le loro leggi, le lor sociali discipline; e le loro costituzioni, leggi e discipline formeranno oggi il soggetto che io prenderò a trattare. Egli è naturale che dopo avere conosciuta per nome la cosa che vogliamo studiare, se ne cerchino le leggi costitutive, le leggi che presiedono, che regolano la sua esistenza. L’Essenato è persona, persona sociale, collettiva, morale, certamente, ma pur persona. Noi sappiamo come si chiama, sappiamo d’onde tratto si abbia il nascimento; che ci resta ora a sapere? Le leggi della sua esistenza, i principii regolatori della sua associazione. Però, vi ha uno studio che deve per sua natura andare innanzi alle cose accennate, ed è lo studio, ed è l’esame del teatro in cui sorse, in cui ebbe stanza il grande Essenato, in cui scelse, in cui fermò la sua residenza. In questa guisa, procedendo noi dalle cose, dalle circostanze più generali a quelle più proprie, più intime, più speciali al grande istituto; andremo sempre più intorno ad esso stringendo il cerchio delle indagini nostre: in questa guisa potremo dire che nulla di quello ci può sfuggire che può per diretto o indiretto riguardare l’Essenica associazione.

Qual è dunque il teatro in cui nacque, in cui crebbe, in cui ebbe vita il grande Istituto? Notate, o miei giovani, che io non chiedo la loro patria. La loro patria è conosciuta, e questa è la Palestina. Chiedo la loro residenza, il loro soggiorno che dal concetto di patria molto come sapete è diverso. Lo chieggo in primo luogo a Filone siccome quello che tanto studio pose nella storia dei suoi cari, dei suoi ammirati Esseni. E che cosa mi risponde Filone? Mi risponde con un passo dell’opera sua, che se non coglie precisamente nel segno, pure non lascia di avere il suo valore e grande valore nella presente quistione. Egli addita gli Esseni ai suoi lettori Pagani, e se riscontrare, ei dice, volete la fedeltà della mia dipintura, mirateli ovunque sono diffusi pel grande, per l’immenso vostro impero; mirateli tra i Greci e tra i barbari, ove vivono dispersi. E così dicendo Filone, voi di leggeri comprenderete come venga a stabilire senza meno la loro universale diffusione non solo nell’Impero Romano ma eziandio al di là dei suoi confini, fra quei popoli che i Romani seguendo l’esempio dei Greci qualificavan col nome di Barbari: (cioè secondo la genuina sua significazione forestieri forse da vocabolo Arameo, siccome io da molti anni congetturai che suona uomo di fuori, gente straniera.) Gran parole son coteste di Filone e che compiono il concetto vero, storico degli Esseni qual ce lo aveva Plinio accennato nella sua storia. Plinio e Filone sono i due Restitutori del vero carattere della società degli Esseni. Plinio dove pone in sodo la loro antichità, dove, come udiste altra volta, gli assegna un’antichità di secoli e secoli, Filone in questo luogo dove sancisce, autentica la loro universalità, Plinio restaura l’Essenato nel tempo gli rende la sua antichità, Filone lo restaura nello spazio, cioè gli rende la sua universalità. Ma in qual guisa cotesta universalità, cotesta diffusione si acconcia al nostro Istituto? come a quelle idee che pure da parecchi storici si avvalora d’isolamento, di concentrazione, di particolarismo? Come a quel concetto sinora predominante che volle gli Esseni limitati, circoscritti ai confini Palestinesi? Come? intendendo pegli Esseni ciò che noi intendiamo, ciò che essi son veramente, ciò che sarà continuamente dimostrato dal corso di questi studi. Intendendo cioè per Esseni la parte più alta, più nobile, più dotta, più spirituale del Farisato pel quale veramente e pel quale soltanto è vera alla lettera la sentenza Filoniana; pei quali, e pei quali soltanto, si poteva dire che sparsi, che diffusi, vivevano tra Barbari e Greci. Il poteva Filone se gli Esseni fossero diversa scuola, diverso Istituto da quel Farisaico? Poteva dire per essi che eran diffusi tra Barbari e Greci; poteva dirlo di fronte al silenzio generale, al silenzio specialmente di Plinio, e di fronte infine all’esempio degli altri settari i quali, vuoi pel numero scarso, vuoi per poca virtù espansiva, se ne vissero sempre ristretti, rannicchiati tra i patrii confini? Ma quanto bene poteva dirlo se gli Esseni non sono altro che il più bel fiore che il patriziato dei Farisei! Quanto appropriate per essi le parole tra i Barbari e Greci! Essi col grand’Illel in Babilonia anzichè in Palestina non emigrasse, e essi in Damasco con Rabbi Iose il Damasceno; essi in Egitto con Filone stesso, coi Terapeuti e coi Dottori Egiziani che figurano nella Misna come Anael l’Egiziano, e con quelli che ivi stesso si narrano pellegrinanti in Egitto; essi in Nisibi in Persia con R. Ieuda ben Betera che è il discendente di quegli Eroici Betera che allo straniero Illel cessero la posseduta dignità di Nasi, solo perchè più d’essi erasi mostrato nelle patrie leggi erudito; essi in Media con Nahum il Medo; essi in Arabia, in Grecia e in Italia con Ribbi Akibà che queste regioni visitò e che lascio ricordate; ed essi nell’Asia minore in Laodicea, in Antiochia, in Assia dove traevano, come altra volta vi dissi, a sedere in concilio, e dove morì il grande Rabbi Meir, come più tardi vedremo; essi nelle Gallie non solo col rammentato Rabbi Akibà che ne ricorda i paesi, i costumi, la lingua, ma anche con Dottori, dalle Gallie denominati demin gallià; ed essi infine in Roma. In Roma non solo colla sinagoga già lungo tempo stabilitavi, non solo coi più celebri nostri Dottori che la visitarono e preziosissime indicazioni ne lasciarono scritte, ma principalmente per due tra essi, per due grandi Farisei che da Roma s’intitolarono e in Roma ebbero stanza durevole e cattedra e maestrato. L’uno è Todos o Teodozio che il Talmud chiama Todos Is Romi, Teodozio il Romano, quel desso di cui si narra nel Talmud di Pesahim, come a ricordare forse il sacrifizio pasquale, istituito avesse tra i fratelli di Roma l’uso di cibarsi d’agnello arrostito nei vespri di Pasqua; quel desso a cui s’intimava, pena la scomunica, di cessare da quell’uso; quel desso che per animare i Fedeli al martirio soleva citar loro l’esempio dei Zefardehim Rane o Coccodrilli, che al cenno di Dio, comecchè irragionevoli fossero, si gettano nei forni ardenti del popolo Egiziano. L’altro poi è Rabbi Mattia ben Haras ch’ebbe seggio e cattedra in Roma e fu per lunghi anni Pastore e Dottore di quella chiesa con tanta celebrità, che quando volle il Talmud offrire l’idea di una cattedra e di un pastore modelli disse fra gli altri: Zedek Zedek tirdof; ahar R. Mattià ben haras leromì.

Se qui, o miei giovani, fosse il luogo, vorrei mostrarvi come il soggiorno di Roma, il suo consorzio, la sua civiltà inspirassero talvolta il linguaggio di R. Mattia, siccome il registra il Talmud; vi mostrerei le nozioni mediche che vi raccolse e che bellamente applicava all’osservanza dei riti, lo specifico contro la idrofobia che egli addita nel fegato del cane idrofobo, la gravità somma ch’ei concedeva alle infiammazioni della trachea onde voleva il sabato per quelle impunemente violato, la indicazione del salasso nelle tracheiti istantanee da eseguirsi anche di sabato; e sopratutto mostrarvi come cogliesse nell’esperienza degli uomini e delle cose romane, nelle repentine cadute e nelle repentine elevazioni dei Cesari, quella sentenza che voi recitate al tornare di ogni primavera e che suona; fatti coda ai leoni e non capo alle volpi; e come infine dallo stesso soggiorno di Roma gli fosse quel detto suggerito troppo necessario a praticarsi nella città delle continue rivoluzioni: Sii il primo a salutare ogni uomo. E dove non recarono le loro idee, la loro presenza i Dottori antichissimi? Persino qui nella nostra Toscana, e come a me fu dato, ch’io mi sappia il primo, notare in Pitiliano quando muovendo inverso Roma ne traversavano le vie d’onde, dice il Medrase, udendo il frastuono, il trambusto lontano della città lasciva, sclamarono: se questa è la grandezza, o Dio! dei riprovati, qual è quella che tu tieni in serbo pei tuoi eletti?45

Che se gli Esseni erano universalmente diffusi, se questa diffusione ad altri non può convenire che ai più illustri membri del Farisato, se la identità ne rimane perciò stesso sempre più confermata, vogliam dire per questo che un centro non vi fosse dal quale raggiassero per ogni dove i grandi lumi dell’Essenato, e dove vivessero secondo le norme del loro Istituto? Ciò non si vuol dire, che anzi la storia attesta il contrario, attesta cioè come vedemmo, che patria del nobile sodalizio fosse la patria Palestinese; non basta: attesta ancora che dell’istessa Palestina una parte sola fosse quella ove la società a preferenza abitava, e dove le sue scuole e dove fossero tutti i suoi centri, i suoi romitaggi. E qual’è questa parte? È la parte meridionale, è tutto quel tratto di paese che lasciando al nord Gerusalemme, è circoscritto a levante dal Lago Asfaltide, in ripa al quale, o poco stante, si ergeva anticamente Gerico la città dei palmizi dove abbiamo veduto abitare i Cheniti e dove infine più al sud è notata sulla carta Arad dove prese succesivamente ad abitare la discendenza di Jetro. Colà, dice Plinio nel quarto libro, si vedevano gli Essenici abituri. Non basta: egli accenna per nome alcune città ove a preferenza avevano stanza Masada p. e. Engaddi l’antica, detta pur essa così pei palmizi che vi abbondavano; d’onde poi quella celebre frase con cui Plinio caratterizza gli Esseni, gente dicendoli delle Palme amica. Gens socia Palmarum. Io dissi che in quei dintorni preso avevano eziandio antichissimamente ad abitare i progenitori degli Esseni, i vetusti Cheniti. Doveva dire di più; doveva dire che su quelle rive vissero, fiorirono le più distinte scuole dei profeti, siccome abbiamo dai Re, che su quelle piagge sorgeva prima della conquista di Giosuè, una città che il nome reca caratteristico di Kiriat Sefer la città dei libri, il quale poi in quello fu tramutato di Debir non meno del primo significante, perciocchè suona il seggio della parola, dell’oracolo; siccome egualmente appellavasi il Santo dei santi il seggio dell’oracol di Dio, l’oracolario, appunto perchè di là emanavano i venerati responsi. Gioberti lo notava scrivendo: Fra le città cananee vinte da Giosuè vi è Chiriat Sefer detta poscia Debir; questo nome può farci subodorare un antica cultura. Forse era l’Archivio dello Stato (Protologia 371).46 Doveva dire che tutta quella regione andò celebre per l’ingegno, pel sapere dei suoi abitanti; che là sorgeva Patria di quella donna che i profeti dicono savia, forse una Terapeutide, la quale col dolce parlare placò il paterno risentimento di Davide, quella stessa città di Tekoa che per l’olio che produce squisito fu creduta perciò stesso dai Dottori educare la più colta e svegliata popolazione. E qual meraviglia se nello stato medesimo una regione si distingueva per ingegno ferace, se Cicerone diceva l’aria di Atene sottile e quindi più degli altri popoli greci gli Ateniesi vivaci e briosi, se diceva l’aria di Tebe pesante, quindi ottusi e rozzi i Tebani? Se Platone ogni giorno ringraziava gli dei per averlo fatto Ateniese e non Tebano, comecchè Tebe ed Atene città fossero, come sapete, ambedue di una stessa provincia?

 

Che se il mezzogiorno di Palestina fu soggiorno gradito, ordinario della società degli Esseni, del dottissimo Istituto, che l’antica fama d’ingegno accrebbe a quelle regioni, ci sarà egli dato rintracciare come nella Bibbia le antiche, così nei Dottori le moderne vestigia del loro passaggio? Io ardisco dire che lo potremo. Voi udiste come per noi fu altra volta falso addimostrato il parere di coloro che dicono tacersi affatto i Rabbini della società degli Esseni. Voi udirete in avvenire citazioni, se è possibile, anco più concludenti. Quelle però che adesso vi espongo ne sono un preludio, un apparecchio di cui non potreste disconoscere la gravità. Vuoi tu veramente far acquisto di scienza? dice il Talmud: volgiti a mezzogiorno. Che vuol dire volgiti a mezzogiorno? Vuol dire forse tenere la persona nell’orare rivolta da quella parte? Così certo la intesero alcuni, ignari come io credo, del vero senso. Ma quanto meglio i più antichi! Quanto meglio, p. e., l’autore del Aruch Rabbi Natan figlio di Iehiel tesoriere di papa Bonifazio! Quanto meglio, dico, R. Natan non coglieva nel segno quando diceva interpretando il passo Talmudico: Vuoi tu fare di sapere tesoro? Va’ presso i Dottori che hanno stanza a mezzogiorno di Palestina e impara da essi la scienza. Udite ora Simeone il Giusto, Simone che per tanti anni gloriosamente ministrò nel sommo pontificato. Giammai, egli diceva, io volli le labbra accostare al sacrifizio dei Nazirei, tranne una volta quando vidi al tempio presentarsi un Nazireno dal mezzogiorno (e voi sapete quali rapporti stringano, secondo me, gli Esseni al Nazirato) il quale, continua Simone narrando per filo e per segno tutto lo accaduto, mi disse come simile a Narciso, specchiatosi un giorno in una fonte s’innamorasse del suo bel volto; come indi vergognandosi del vano sentire, facesse voto di Nazirato, e come infine venisse adesso a bruciare l’antico oggetto del suo orgoglio, la bellissima chioma, nelle braci ardenti del sacrifizio. Ma poco è questo. Voi udiste poc’anzi l’autore del Lessico Aruh parlare dei Dottori più insigni che vivevano nel Darom, a mezzogiorno di Palestina. Or bene uditene adesso menzione dalle labbra istesse dei Talmudisti; e dove, o miei giovani? Nell’ultimo capitolo di Tamid. Là si narra di un famoso abboccamento intravvenuto tra Alessandro il Macedone e alcuni tra i più illustri dottori in Israel: e come si chiamano questi Dottori? Si chiamano i savi del mezzogiorno. E su che cosa si aggira il loro favellare? Sopra parecchi e gravi argomenti in cui Alessandro la celebrata sapienza loro pone al cimento, e che troppo attestano l’indole, il genio speciale dei gravi studi dell’Essenato. Chiede Alessandro le relative distanze dal Sole alla Terra; chiede quale creato prima, se il Cielo o la Terra; chiede quale dei due abbia preceduto, la luce o le tenebre; e se a tutte le precedenti inchieste ottenne risposta, a quest’ultima però si udì intonare un modestissimo Nescio. Perchè non risposero gli Esseni mentre il testo mosaico sì chiaro favella? E qui permettete una piccola digressione che pure ha la sua importanza. Perchè io ridomando non risposero al testo conforme? Il Talmud tanto posteriore all’avvenimento, ne chiede, ne indaga il perchè, ma mestieri è pur confessarlo, troppo mostra nella risposta l’incertezza, l’imbarazzo nelle idee, troppo nella risposta si scorge la distanza dei luoghi e dei tempi.47 Perchè veramente non risposero? Il perchè ce lo dirà Aristotile, il maestro di Alessandro, l’interrogante. Ci dirà Aristotile, per parlare col linguaggio del Ritter, que les anciens Théologiens étaient en général persuadés que le meilleur sort du pire, l’ordre du désordre, puisqu’ils faisaient naitre toute chose de la nuit et du chaos. Avete inteso? Dalla notte e dal caos, ch’è quanto dire ch’erigendo in persone reali questi Enti fantastici, ne crearono altrettanti primi principii, altrettante Divinità cosmogoniche, e Notte e Caos adorarono quai numi. Poteva darsi silenzio più opportuno? Potevano essi i Dottori del mezzogiorno, che sono a parer mio gli Esseni, risolvere secondo Mosè la quistione, concedere cioè alle Tenebre il primato di creazione senza concedere perciò stesso il principio d’onde la Teogonia greca prendeva le mosse, senza pericolo, senza conferma d’Idolatria?48

Io vorrei, o miei giovani, più a dilungo soffermarmi a studiare con voi altre cose e bellissime che contiene il precitato frammento del Talmud.49 Mel contende il bisogno di procedere ordinato e spedito alla mèta proposta, mel contendono gli altri non meno gravi, i parlanti attestati che degli Esseni del Sud ci porge il Talmud. E dove? È il primo a pagina 70 di Pesahim, dove si narra di un Ieuda ben Dostai che, sendo venuto a contesa intorno alla convenienza del sacrifizio in giorno di sabato, si separò, dice il Talmud, dal centro Gerosolimitano, ritirossi egli e il figlio suo nella Palestina Meridionale dove assieme ai Farisei ivi stanziati, notate la frase, protestò contro la decisione dei Colleghi e più assai contro Semaja e Abtalion due antichissimi Dottori anteriori di assai all’E. V.; lo che prova quanto antico fosse Ieuda ben Dostai e quanto la raccontata sua separazione. È il secondo a pag. 23 di Zebahim dove e’ s’introducono ad esprimere una opinione circa la materia delle impurità di cui sapete omai i nostri Esseni tanto gelosi.50 E infine è il terzo se non erro nel Rabba, e non temo di aggiungere il più interessante, il più prezioso di tutti. Io vorrei, o miei Giovani, che sapeste che vuol dire Aggadà, vorrei potervi esporre a parte a parte tutti i dati che mi hanno da lungo tempo persuaso non altro essere in bocca ai Dottori che la veste, la forma popolare, esoterica, parabolica, dirò anche iperbolica delle dottrine loro più riservate, la Mitologia nel cui seno vive rinchiusa la Teologia,51 vorrei sapeste da ora, come gli Esseni, e specialmente quelli tra essi che si dicevan contemplativi, andassero sopra ogni altro famosi per lo studio, per la cultura, di una gelosa e segreta Teologia come più tardi intenderete. Or bene! Che cosa dice il Medras? Dice non solo come disse il Talmud che al mezzogiorno di Palestina una scuola intera vivesse di Dottori illustri; ma dice di più, dice cioè che loro speciale, loro precipua occupazione era la coltura dell’Agadà, e dice infine che i più eruditi Rabbini non isdegnavano ad essi ricorrere per la interpretazione dei Testi; e in queste parole lo narra: Disse Rabbi Ieosciuah ben Levi: di questo verso richiesi tutti i maestri dell’Agadà che vivono in mezzogiorno, e niuno me ne porse risposta adeguata. Che più? Non è persino il Zoar istesso, che altra non cen fornisca e solenne conferma, il Zoar l’Emporio delle idee Cabbalistiche, il Repositorio delle più recondite tradizioni, il Zoar che in più luoghi appella ad una scuola di Teologi Mistici che abitavano il Sud e che chiama apertamente, i compagni nostri, i soci nostri, che abitano il mezzogiorno. Compagni, soci! Che gran parola! Non vi dice punto alla mente la bella frase? Non vi accenna ad una consorteria, ad un corpo, ad una società, a cui tutti appartenevano egualmente? di cui tutti si dicevano indistintamente i compagni, i soci, i fratelli? Io avrò luogo più tardi di ritornare su questa frase preziosa, e la Misna e il Talmud e il Zoar ne proveranno ad esuberanza, se già non l’hanno provato, il significato che per noi gli è concesso, e che suona sì favorevole come vedete alla identità Essenico-Cabbalistica da noi propugnata.

 

Noi dicevamo in principio di volerci occupare del luogo, del teatro ove ebbe stanza principale la società degli Esseni. Noi sappiamo già qualche cosa della loro dimora; sappiamo da Filone che per quanto un centro di convergenza avessero, pure i loro raggi si estendevano, voi lo udiste, tra Barbari e Greci; sappiamo da Giuseppe che questo centro era in Palestina e nella parte meridionale di Palestina; sappiamo in ultimo che queste due indicazioni, ve l’ho provato, si attagliano a meraviglia ai Farisei, alla parte speculativa filosofica mistica dei Farisei.52 Ma se la parte abitavano gli Esseni di mezzogiorno, quale presero ad abitare a preferenza, le città o i campi? qual vita menarono a preferenza, solitaria od urbana? cittadinesca o anacoretica? Solitaria, vi risponde Giuseppe nel secondo delle Guerre Giudaiche, ove dice amare costoro a preferenza la solitudine, i campi ove avevano eziandio domicilio; solitaria, vi risponde Filone (De vita contemplativa) quando dice dei Terapeuti che per la massima parte vivevano fuori di Alessandria presso ad un lago; solitaria, vi dice Plinio quando li pone ad abitare poco lungi dal lago Asfaltide; e solitari pure ragion vuole che fossero i grandi contemplativi; che non a caso scelsero gli Esseni per loro stanza la quiete, la pace, il silenzio dei campi. È là, è nella solitudine, è nel libero e forte ripiegamento dell’animo sovra sè stesso, è nella concentrazione di tutte le nostre morali facoltà, tanto lungi dallo sperperamento cotidiano della vita cittadinesca, è là che l’anima si tempra a forte, a maschio sentire, che lo spirito si eleva nei grandi pensieri, che l’immaginazione spicca libero e naturale il suo volo, ed è là che si educavano, che si dovettero educare gli Esseni contemplativi. Credete che siano ubbie coteste mie, che faccia a guisa dei poeti il panegirico della solitudine, e come i poeti, ponga i piedi sul vano, sull’aereo, sull’imaginario? Io ne voglio a giudice, a testimone l’uomo più competente, la scienza più positiva e per ciò stesso più decisiva; voglio che lo udiate per me da un medico, e da un medico filosofo, e chi è questo? È il Descuret in quell’aureo trattatello della Medicina delle passioni. Sentite come si esprime il Descuret. Lo scrittore, ei dice, può acquistare in società facilità e stile brillante, eleganza e gentilezza di frasi, ma giustezza di vedute, profondità e concatenazione di pensieri, fuoco e vita nel discorso, trovano origine per consueto nel ritiro, nella meditazione. I più grandi scrittori hanno creati i loro immortali capolavori nella pace della solitudine, tanto atta ai concepimenti del genio. Che cosa si contiene in questo squarcio, che io non abbia detto, e che cosa che a capello non si acconci al nostro Istituto? Il quale non solo nel preferire e rive e campi, obbediva al proprio genio, ma sì ancora si conformava fedelmente al genio ebraico, alle tradizioni ebraiche, ed agli esempi ebraici. Io dico cosa che forse parravvi strana, e appunto per questo non la direi, se non avessi argomenti di avanzo, e se tanti non ne avessi da dovere perciò stesso affrettare anco più il mio passo. Dissi il genio ebraico, la fede ebraica, amare i campi; e come no? Abramo prega e sacrifica all’aria aperta sopra un monte; nel silenzio, nella solitudine pianta boschetti, e là sacrifica e là adora il Signore, nel che è imitato di poi dal suo figlio Isacco: Isacco per pregare lascia l’abitato e trae su per i campi orando dice il Testo, orando conferma la tradizione e orando, conferman pure essi i Samaritani per quanto non ligi al certo alle nostre tradizioni. Giacobbe ha visioni, prega, fa voti in una solitudine nelle vicinanze di Luz o Bet El. Agar ha visioni promesse e prodigii nel deserto di Beer Scebah; Mosè pascola, medita per quarant’anni, e poi ha visioni, rivelazioni portentose nelle solitudini dell’Oreb; se Mosè vuol orare al Signore, egli trae fuori dall’abitato e colà alza all’eterno le palme; se ha in Egitto rivelazioni, le ha nei campi lungi dalla città. La legge, la legge di Dio non è data nè in Egitto nè in Palestina, ma nel deserto, per accennare, dicono i Dottori, alla copia che gratuitamente fa di sè ad ognuno; per non far nascere, dicono altri, tralle tribù gelosia, rivalità. Eliseo fonda la sua scuola profetica nelle prossimità del Giordano, e quivi vedeste in altra lezione adunarsi la bella scuola di quel Signore dell’altissimo canto, i Recabiti di Geremia, progenitori a senso nostro degli Esseni, Ezechiele, che fuori di Terra Santa patisce difficoltà a profetare, trae fuori pei campi e profetizza. Che diremo poi se dai Bibblici trascorreremo agli uomini e ai tempi rabbinici? Qui gli esempi si accumulano, si affollano e in guisa tale che appena è tempo di accennarli; qui nel Ieruscialmi (Scebihit 6.) parecchi esempi come di Ieuda Js Cozi, che si ritira in una spelonca e dice addio al mondo per viversene a Dio soltanto; – qui nel 2º di Sciabbat il fatto più cospicuo, il fatto modello, il tipo degli anacoreti, il grande Essena Rabbi Simone ben Iohai che per tredici anni vive solitario in una grotta, ove si fa così perfetto nella legge di Dio, che al rivedere il suocero dopo tanti anni, tutto che estenuato si fosse nella persona, non potè a meno di esclamare: Beato me che malconcio mi rivedi, poichè ricco cotanto esco dal mio romitorio; ed ove infine secondo i Cabbalisti meditò gran parte delle cose contenute nel Zoar. Qui il Zoar istesso, e questo è grave assai, poichè attesta sempre più quella conformità di genio che è base all’identità da me sostenuta, qui il Zoar, ove si può dire senza tema di errore, non è colloquio, non è incontro, non è polemica, non esposizione che non avvenga o all’ombra di un palmizio, o presso i recessi di una spelonca, o in un campo seduti, o sul ciglio di un fiume, o in una rustica abitazione. Non basta; qui il Zoar che non solo vi dice essere tutte queste cose avvenute laddove avvennero, ma che il fatto vi offre altresì preziosissimo di stanza, di soggiorno, di domicilio che in quelle solitudini avevano i soci, i fratelli come tra essi si chiamavano, della società cabbalistica. Egli è questo un fatto, un gran fatto a cui non si potrebbe prestare abbastanza attenzione, nè io dubito che un dotto di buona fede non ne trarrebbe argomento a gravissime reflessioni. Aprite il Zoar, apritelo nel vol. 2º a pagina 13, dove non solo vedrete come i Cabbalisti dimorassero nella pace dei campi, ma le vestigia vi troverete eziandio luminosissime di ben altre sorprendenti analogie che vorrei tutte analizzare, ma che per ora non mi è dato. Troverete consorteria, organizzazione sociale, e sopratutto vi troverete libri acroamatici ove i misteri si contenevano della Religione; i quali libri non si mostravano che di volo e ai meglio provati, appunto come accadeva in seno al nostro Essenato; – apritelo nello stesso volume 2º, a pag. 183. Che cosa vi vedrete? Vedrete Rabbi Simone, Rabbi Eleazar suo figlio, Rabbi Abba, Rabbi Iose che procedono per via. Chi è questo che gli si fa incontro? È un vecchio ed ha per mano un fanciullo: al solo vederlo dice Rabbi Simon a Rabbi Abba: Cose nuove apprenderemo da questo vecchio. Chi sei tu, gli chiede quando è vicino, e d’onde sei? Ebreo io sono, risponde l’altro, e la mia dimora è tra i farisei del deserto ove do opera allo studio della legge. Gioì Rabbi Simone e disse: Sediamo; conciossia che Dio a noi t’abbia inviato, deh! non ti spiaccia farci udire delle parole nuove, ma antiche (Che bell’antitesi novità e antichità ad un tempo!) che piantaste laggiù nel deserto intorno a questo settimo mese. Allora sorge il vecchio e colle parole esordisce di Mosè ove agli Israeliti ricorda l’assistenza divina per lo deserto, e in mezzo alla sua sposizione esce fuori con questa aperta allusione ai suoi, alla setta di cui era parte: E noi egualmente ci separammo dall’abitato per vivere nei deserti onde meditarvi la legge, conciossiachè non si comprendano davvero le parole di dio se non nel deserto; quindi riprende il santo vecchio il divisato argomento, e tante e sì belle cose va dimostrando sui giorni e sui riti pasquali che l’anima elevano ed il pensiero al solo fraintenderle; tanto vanno improntati di una sublime e trascendentale metafisica. Che sarà poi quando udirete il termine con cui il Zoar conchiude la narrazione? Intanto, dice il Zoar, piangeva Rabbi Simone; ed era pianto di gioia: levarono tutti gli occhi e videro cinque di quei Farisei che dietro al vecchio procedevano per raggiungerlo; alzaronsi tutti. Disse Rabbi Simon: Dinne il nome tuo – Rispose lo straniero: Neorai il vecchio, conciossiachè altro più giovane Neorai sia fra noi. – Disse Rabbi Simone ai nuovi venuti: Qual’è il vostro cammino? – Noi seguiamo, risposero, il santo veglio le cui acque noi beviamo del continuo per lo deserto. Allora gli si appressò Rabbi Simone e baciollo,53 e disse: Luce tu ti appelli, e luce è con te: nè guari andò che accommiatitosi da quei solitari ripresero i tre Dottori il loro cammino. Questi sono i due fatti che volli citarvi appunto perchè sendo registrati nel libro più illustre dei Teosofi nostri o cabbalisti, tolgono sempre più a confermare quella identità che fu ed è mio officio il dimostrarvi fra l’antica scuola dei nostri Teologi e l’Istituto degli Esseni.

Egli è forse per questo che gli altri rabbinici monumenti ci porgano meno significanti gli esempi di questa predilezione dell’amore del ritiro, della quiete dei campi e del sommo suo confacimento agli studi ed agli atti di Religione? Tutt’altro. Vi dissi, non è molto, come esempi non pochi vi fossero d’insigni Dottori in ambedue i Talmud che chiesero al silenzio, al ritiro, l’acquisizione dei misteri e delle religiose dottrine,54 e solo perchè meglio gli individui riguardavano le istituzioni, gli usi e i generali costumi, ne feci separata e preventiva menzione. Ma quanto più non tornan all’uopo efficaci gli esempi generali, gli usi, le istituzioni, le leggi stesse da questo spirito informate! Le leggi, quando sentenziano che ove tra i coniugi sorgessero contestazioni sulla scelta del domicilio, a quella parte si debbe piuttosto attendere che preferisce alla città i villaggi, conciossiachè, dice il Talmud, il soggiorno delle grandi città torni non poco alla morale periglioso, pei costumi pel solito più molli e più rilassati. Le idee più intime dei nostri Dottori quando ponendo in bocca alla Chiesa Israelitica quelle parole di Salomone: Deh, gli fan dire (Talmud Tract Irrubin) al Signore; deh non giudicarmi come gli abitanti delle grandi città, tra i quali è violenza, lussuria e maldicenza; ma usciamo ai campi, (notate queste parole) ove ti mostrerò i cultori della tua legge che meditano del continuo e tra angustie la tua parola, mattiniamo alle vigne, cioè (continua il Talmud) ai tempj ed agli studi dove vedremo la vite fiorire, cioè la Bibbia coltivarsi: e così via discorrendo. Ma quali parole quelle che attribuisce alle città i vizi discorsi! E quanto bene consuonano con quel che dice Filone a proposito del ritiro e delle solitudini dei Terapeuti; maravigliosa consonanza in verità! Primieramente, dice Filone, abitano in campagna e schivano le città grandi, a cagione del mal costume che in esse regna per ordinario, persuasi che siccome si contrae una malattia col respirare un aria infetta, così i mali esempj degli abitanti fanno impressione indelebile sull’animo nostro. Ma io dissi anche gli usi generalissimi, anche istituzioni permanenti. Potrò io dimostrarlo? Sarei io in grado di provarvi che tanto spinsero oltre l’amore pei campi, da farne il prediletto, il durevole, il venerato soggiorno? Facilmente, solo che io vi rammenti la benedizione di Meen Scebach. Che cosa è questa? Voi lo sapete, perciocchè l’udite la vigilia di ogni sabato. È quella benedizione che dopo la preghiera sommessa pronunzia il Ministro e che non è, a veder bene, che un compendio o sommario della istessa Amida. Che cosa è questa benedizione e perchè istituita? Chiedetene al Talmud, ai Ritualisti, chiedetene ad ognuno, ed ognuno vi dirà quello che andiamo cercando; cioè vi dirà che ai tempi misnici, ai tempi talmudici gli oratorii, gli studi sorgevano tutti in mezzo ai campi, lontano dall’abitato, nella solitudine e nel silenzio; vi diranno che all’orazione vespertina convenivano da ogni parte i fedeli, che parte solerti giungevano a tempo e la preghiera cominciavano e finivano col popolo tutto, parte trattenuti dai negozi o dal cammino protraevano le loro orazioni alquanto più tardi. Perchè non rimanessero soli costoro fuori dell’abitato, che cosa fecero? Istituirono il Meen Scebah che mandando un poco più alla lunga la orazione offriva agio ai ritardanti di terminare prima che il popolo si partisse. Un gran fatto emerge da tutto questo; ed è la presenza delle antiche sinagoghe e dei pubblici studi nella solitudine; ch’è quanto dire un nuovo riscontro col costume presso che generale degli Esseni, dei Terapeuti.

45Un fatto generale ci avrebbe forse potuto dispensare da tutte queste particolari citazioni; ed è la presenza di Sinagoghe ebraiche per tutta la distesa del romano impero, le quali supponevano certo a capo loro Rettori e Dottori. La storia evangelica ed apostolica è piena di fatti che provano questa presenza, dovunque l’Evangelio fu predicato.
46La tradizione che ha per stile di trasformare nell’antica storia ebraica gli avvenimenti guerreschi e politici in fatti dottrinali, o in morali controversie, vede nella promessa di Caleb. Chiunque avrà battuto Kiriat Sefer e l’avrà presa, daragli Ahsà la figlia mia in donna, una ricompensa promessa a chiunque avesse molte leggi restituite che erano cadute in oblio dopo la morte di Mosè. Nulla di più paradossale a prima giunta di questa interpretazione; ma quando riducasi a memoria che cosa questo nome di Kiriat Sefer vuol significare, e quanto saviamente avvertiva Gioberti, facile lo accorgersi come i dottori non abbiano inteso che appigliarsi ad un felice addentellato in cui la espressione storica si presta mirabilmente alla chiosa tradizionale; anzi con questo senso sino a un certo punto s’identifica; volendo dire che colui che sarà da tanto da sottentrare nell’officio che Kiriat Sefer adempiva nel concerto o Antizionato dei popoli Cananei come Archivio dello Stato, e potrà essere utilmente consultato in quella città come lo erano i suoi abitanti Cananei, sarà rimunerato ec. Potremmo aggiungere che in questa trasformazione di guerre politiche in lotte spirituali i dottori nostri non si dilungarono punto dal genio che predomina nelle più antiche epopee orientali. – Ma qui lasciamo per brevità; fidente che il lettore compia il nostro pensiero, solo che attenda per breve istanti a ciò che sono i poemi indiani del Mahabaratta e del Ramayana.
47Vedi per la giustificazione di questo supposto, quanto è riferito più oltre in nota a proposito di ciò che narra il Talmud sulle occupazioni dei Hasidim.
48Simile circospezione ci viene narrata nel Talmud (Meghilla) dei Traduttori del Pentateuco in greco per ordine di Filadelfo.
49Il citato frammento del Talmud forma subbietto di profonda indagine nel rammentato Lessico Ereh Millim del dottissimo sig. Rapoport Rabbino di Praga. Ci sia permesso anzitutto costatare coll’illustre autore la grande antichità di quel frammento, ch’egli crede redatto o almeno formulato molto innanzi al Talmud in qualche raccolta d’Agadot, che, come è noto, precorse il Talmud, e da cui questo l’avrebbe copiato. Sono fondamento a questa plausibilissima congettura, varie singolarità filologiche proprie ai libri Agaditici, e che l’autore saviamente pone in luce. Quello che non potremmo mai consentire al gran critico, si è la pretensione da esso accampata di vedere nei savj e dottori del mezzogiorno, con cui Alessandro favella, uomini pagani anzichè ebrei, e più specialmente sacerdoti etiopici o Brami indiani. Il testo ha un bel opporsi a questa interpretazione mercè le parlanti intercalazioni che corrono fra domanda e risposta. Il nostro autore con un colpo di magica verga le dichiara posteriori addizioni al testo più antico; nel quale egli non crede doversi ravvisare niuna traccia d’Ebraismo. Questo concetto che l’illustre autore si forma degli interlocutori di Alessandro, capovolgendo le basi su cui poggia tutto il nostro argomentare nel testo, e facendo sparire una delle vestigia più splendide, che a senso nostro abbiano lasciato gli Esseni nella Biblioteca rabbinica, merita, anzi esige, che con qualche pazienza vi ci soffermiamo d’intorno, e lo esaminiamo più davvicino. Si noti anzi tratto come: Fra i neologismi nota il Rapoport Atristun di cui dice non esservi la radice nell’antico lessico Aruh. E pure egli non avrebbe dovuto che gettare lo sguardo sopra taris (bis) per vedere (in fine) il verbo taras col suo esempio tratto dal Talmud (Jevamot 121. 1). Osserviamo ora le traccie d’ebraismo nel racconto Talmudico che il Rapoport crede estraneo alla primitiva leggenda, e solo aggiunto, vuoi nell’atto della redazione Talmudica, vuoi da copisti posteriori. Lasciamo per ora quanto vi ha di arbitrario a priori nello scindere una narrazione omogenea in tanti frammenti di cui altri avrebbero appartenuto al tessuto primitivo, ed altri sarebbero stati introdotti posteriormente. Guardiamo solo se questo criterio comunque inverosimile, è applicabile al fatto concreto. – In primo luogo, la locuzione Ziknè Anegheb non contiene veruna indicazione che miri piuttosto ai pagani che ebrei. – Anzi il nome Ziknè implica una idea di venerabilità che male si affà, in bocca ai dottori, ai savj gentili. Essi hanno altre locuzioni per indicare questi ultimi, e non si comprende come qui se ne siano discostati; per esempio quella di savj gentili, hahme umot Aolam; Flosofim, che sarebbero state qui tanto più opportune, quanto meglio avrebbero posto in rilievo l’opposizione che segue dei dottori israelitici (Vakakamim omerim) intorno alla distanza dal cielo alla terra. Non ne conviene lo stesso autore quando confessa che l’epiteto di Zikné Anegheb ad indicare i sacerdoti etiopi ed i brami, è nuovo ed unico nello stile rabbinico? Egli, è vero, non ne conclude che una maggiore antichità; ma non so quanto sia lecito trovare anormalità, laddove la locuzione sembrerebbe regolarissima ove intesa come noi la intendiamo, pei dottori dimoranti nel sud di Palestina. Potremo dunque noi vedere in questi Zikné Anegheb altri che i dottori meridionali celebri appo i Rabbini, par la loro squisita sapienza, come attestano le citazioni, recate nel corpo dell’opera? Il Rapoport crede che ciò non solo si possa, ma si debba. Per esso altro è Negheb (mezzogiorno) da cui qui s’intitolano, altro Darom (altro nome di mezzogiorno) da cui altrove si qualificano. (op. cit., pag. 73, 1). Con quanta ragione però non saprei dire, dappoichè è ovvio, che Negheb e Darom son due nomi egualmente approvati per mezzogiorno o sud; come Iam e Maarab per occidente; e come levante e oriente nel nostro idioma, onde, tanto vale Ziknè Anegheb quanto Zikné Darom. Si dirà che altrove dissero per la parte meridionale di Palestina piuttosto Darom che Negheb? Ciò non si nega, ma se prova qualcosa, ei prova piuttosto l’antichità di questa tradizione che usa di un vocabolo che sa di Arcaismo. Ma vi è nel Talmud un caso a cui pur non badò il Rapoport per triplice ragione, conchiudente in favor nostro, non solo perchè Negheb vi è usato per mezzogiorno di Palestina; non solo perchè tutto il frammento affetta uno stile ricercato e arcaico, ma anche perchè fu usato appunto quando s’intese a significare (come nel nostro caso) la gran scienza dei dottori meridionali. Narra il Talmud (Irubin pag. 53) di varj dottori che affettarono talvolta uno stile figurato e antiquato, e tra gli altri accennando ad un collega che si era ritirato nel Darom presso quei valenti teologi, per impararne la dottrina, si dice «Nitiaaz bemahtir veinghib limfiboscet» si volse al sud verso Mefiboscet, lochè, secondo comenta Rasci, vuol dire: – Si partì pel mezzogiorno di Palestina verso i Zikné Darom sopra gli altri tutti dottissimi, e perciò detti Mefiboscet per la sua gran scienza ch’era causa a David di vergogna. Le conseguenze si fan vedere ad ognuno. 1ª Negheb, pel mezzogiorno di Palestina. 2ª Impronta di vetustà come nel nostro caso. 3ª Infine usato ad indicare, a celebrare i dottori di quelle regioni. Il sig. Rapoport, come dicemmo, crede che questo sia uno dei casi in cui si riferiscono dal Talmud le dispute o le divergenze occorse fra i savj gentili e quelli d’Israel. Ma se questa fosse la intenzione talmudica, non già colla semplice designazione di Vakahomim omerim avrebbe indicata la dottrina israelitica, che ritorna solo allora che sorge controversia fra i dottori israeliti medesimi, ma coll’altra più peculiare ed esclusivamente usitata di vekakmè israel omerim come ad esempio nel Talmud (Pesakim) ove è questione del moto delle sfere e degli astri. – Non si nega per questo che la menzione della dottrina del Kakamim ed il ragionamento che segue non possano essere stati aggiunti posteriormente al racconto primitivo, ma in ogni caso provano ad esuberanza come a senso di chi operò tale aggiunta, e che non può esser posteriore al Talmud, i savj con cui parlò Alessandro fossero israeliti. E se ciò resulta da una aggiunta, resulta non meno da una frase inseparabile dal tessuto primitivo, ed è quella di Ziknè Anegheb come abbiamo veduto. Altro indizio non meno appartenente al tessuto primitivo è la prova che i savj del mezzogiorno traggono dalla genesi (Scenneemar) a provar l’anteriore creazione del cielo. Avrebbero ciò fatto savj gentili? Il sig. Rapoport dirà che anche questa è una intercalazione arbitraria. Ma in primo, ella fa troppo parte integrale della redazione primitiva, per autorizzare il supposto; e poi, prova ad ogni modo come il Talmud, anzi le versioni anteriori al Talmud tenessero per fermo non altro essere i Zikné Angheb, che dottori israeliti. – Questi alla domanda di Alessandro, quale tra luce e tenebre abbia preceduto, si tacciono. Il Talmud dà a questo silenzio un motivo che non si acconcia che ad uomini israeliti. E qui come ognun vede il carattere israelitico investe l’ordine stesso dei fatti, ed appare manifesto in uno dei suoi più singolari incidenti. Si dirà qui pure che il silenzio loro ebbe altro motivo, e che il Talmud ne escogetò tale che consuonasse colla origine israelitica degli interrogati? Ma allora conviene trovare quale sia questo altro motivo: e in ogni modo sarà una conferma di più, che il Talmud non dubitò mai dell’ebraismo di quei dottori. Ecco però l’argomento capitale, l’Achille dell’illustre Rapoport; ma che però, come l’eroe di questo nome, ha veramente vulnerabile il calcagno. Alessandro nel dialogo in questione conclude con questa domanda: «Perchè ci avete voi combattuto?» E i dottori: —Satan vinse.—Ebbene, dice Alessandro, voi sarete uccisi per regio comando. – Ed essi: —Il potere è in mano dei Re; però ai Re non si addice mentire.– Qui il sig. Rapoport pone, e non a torto, in rilievo quanto la opinione che in questo combattere intende un dissenso religioso, il perseverare nell’Ebraismo, sia comento piuttosto forzato; ma non avremo però bisogno per fuggire da questa chiosa improbabile ricorrere ad una vera e propria guerra, la quale verrebbe, a senso suo, da Alessandro rimproverata ai sacerdoti indiani, quali istigatori di quella tra esso e Poro combattuta. Perocchè noi diciamo: Come non un cenno, nè del teatro, nè della causa di questo rimprovero, nella narrazione talmudica? Bisogna dire o che di gentili qui non si può parlare, o almeno che gli autori della redazione che noi abbiamo sott’occhio intesero per questi savj del mezzogiorno, veri e proprj Israeliti; resultato al quale inevitabilmente riusciamo, da qualunque parte prendiamo le mosse. Ma è poi inesplicabile la conclusione del dialogo senza la divergenza religiosa, o la vera e propria guerra? A credere mio, una terza via, ed è la buona, ci viene indicata dal Moarscià, il quale vede nel rimprovero d’Alessandro un lamento superbo della libertà colla quale avevano avvilito ogni più cara cosa, onde egli andasse superbo; – la Scienza, quando risposero che il vero savio è l’uomo previdente, e quanto poco egli lo fosse, gli avvenimenti il dimostrano; il valore, il coraggio, quando dissero vero prode colui che vince le passioni, nè di questa maniera di prodezza ebbe Alessandro. Gli averi, i beni, la potenza, quando chiamarono, solo ricco colui che è lieto e sodisfatto di quanto possiede. – Qual più amara ironia della vita e delle idee di Alessandro! Ma esso è preso più evidentemente di mira in altre loro sentenze. S’ei chiede qual sia il modo di goder la vita essi rispondono di mortificarla. S’ei cerca il mezzo di tornare agli uomini accetto, essi gli additano il sistema opposto a quello che ei seguiva, quello cioè d’odiare il regno ed il potere. Ed è appunto per questa costante censura di tutti i suoi atti, e del suo genio, ch’ei chiede: «Perchè mi combatteste?» – E si noti che Atrastun, che è il verbo che noi traduciamo per combatteste, deriva da Taris, scudo, arma esclusivamente difensiva, ed ha un senso peculiare che si addice molto più a una lotta verbale, a una ardita confutazione o meglio apologia o diatriba, che a una lotta a mano armata. Basta dire che il Talmud chiama Targati (Baalè Terissin) i campioni più abili nella controversia religiosa (Talmud Berakot) e che quell’altra sola volta in cui questo verbo è usato nel Talmud (Jevabot, 121) è appunto nel senso che noi crediamo, vale a dire di un’ardita opposizione scientifica, come a un dipresso noi diciamo oggi Polemica da Polemo guerra in Greco a significare ogni maniera di Controversia. Che rispondono i Zikné Anegheb ai lagni del Macedone? Satan vinse.– Per quelli che veggono nella sua domanda un senso religioso ciò vuol dire: – «Satan vi vince e seduce coi sui errori, quindi fra noi opposizione nel sentire religioso» – e questa interpretazione, come si disse delle orazioni di Demostene, pute di lucerna. L’altra del Moarscià non è meno infelice; il senso suo significa, Noi tuoi avversari (Satan) ti vincemmo colle ragioni. E pel sig. Rapoport che vuol Alessandro lamentarsi delle loro istigazioni alla guerra, che cosa significa? Egli nol dice. Per noi il senso ci pare ovvio. Alessandro si lagna del loro ardito linguaggio. Essi si scusano dicendo. «Satan vinse.» Vale a dire, fu un mal genio che c’ispirò questo parlare a te increscioso. – L’idea del predominio di Satan per significare una sventura che incoglie è usata nel Talmud dal medico e astronomo Samuel, Satanà bitrè ummé la sciallit; e ciò che più monta, ragionando come ragionano i dottori del mezzodì, con un pagano, vale a dire coll’amico suo Ablat, che noi abbiamo gravi motivi per credere non altri essere che lo stesso celebre Plotino fondatore della scuola Neoplatonica di Alessandria. – Un altro segno che questi savj sono sacerdoti tebani, è pel Rapoport (pag. 71) il suggerimento che porgono ad Alessandro per poter penetrare senza pericolo nei deserti affricani. Notiamo come poco innanzi (pag. 69) ei vi vedesse piuttosto etiopi o brami, e che ora divengono sacerdoti tebani come più atti a porgere di questa specie consigli. Non sarebbe però questa la prima volta che nel Talmud, filosofi e principi pagani ricorrono ai dottori ebrei per lume e direzione; testimone fra gli altri i messaggi che Antonino inviò ripetutamente a Giuda il santo per consultarlo intorno ad affari di stato. – Ciò che non dee tacersi però si è, come per espressa dichiarazione del Talmud questi suoi consiglieri, con cui di nuovo confabula al suo ritorno, sono Rabbanan, vale a dire i nostri maestri. Sono essi che vedendolo sorpreso perchè tutto il suo argento e l’oro non bastasse a contrappesare un occhio che aveva riportato dalla sua visita in paradiso, gli porgono il consiglio di provare a porvi sopra un po’ di terra. – Lo che fatto, torna al suo peso naturale. Ora non è difficile scuoprire in questo significantissimo consiglio la impronta della precedente conversazione con Alessandro, lo stesso indirizzo morale, che in quella apparisce. E se autori del primo sono Rabbanan, mestieri è credere che eglino stessi siano i primi interlocutori. Fosse pure provato che un doppio strato d’idee, di locuzioni si distinguono nella redazione talmudica, che il primo appartiene ad età più antica e nulla abbia di ebraico, l’altro ad epoca più moderna e abbia israelitica impronta: ciò che non potrà in ogni caso negarsi si è, che a senso dell’ultima e definitiva redazione talmudica tutte le cose quivi narrate si riferiscono ai dottori ebrei abitanti nel mezzogiorno. Ora quando pure ciò non avesse nessuna realtà storica, basterebbe, nonostante, al nostro supposto, e bisognerebbe vedervi egualmente un’allusione all’Essenato colà abitante. Giacchè non è possibile che il Talmud attribuisca tutti i fatti e gli incidenti occorsi tra Alessandro e i sacerdoti tebani, ai dottori abitanti del mezzogiorno, se ai tempi medesimi che quest’alterazione si operava, nella tradizione più antica, non fossero esistiti dottori i quali tutte le qualità riunissero atte a rendere verisimile l’applicazione che ad essi si faceva di ciò che spettava in origine ai brami o ai sacerdoti d’Egitto. Non è possibile, in una parola, che il Talmud rapisca ai suoi veri proprietarj una veste per ricuoprirne un Ente imaginario. E ciò basta, come diceva, per vedere nella intenzione dei redattori del Talmud una allusione trasparente allo Essenato. Questo resultato, non è critica che ci possa rapire, ove pure si meni buona la ipotesi dello illustre Rapoport.
50Il comento Tossafot osserva (loc. cit.) come dal contesto apparisca esser gli anziani del mezzogiorno, dell’ordine dei Taneiti. Il sig. R. Rapoport Erek Millin, alla parola Alessandro a p. 73. – crede poter fondarsi su quanto si legge (Talmud ivi pag. 22.) Tacah lehu Res Lachis lidromaé; per dedurne che appartengono piuttosto all’ordine successivo degli Emoraiti. Veramente la frase Talmudica non prova; e tanto meno, quanto non si osserva nel contesto quella forma dialogica che sarebbe stata seguita ove Res lachis (degli Emoraiti) avesse coi dottori del mezzogiorno confabulato. Ma ove pure fosse provato che vi erano dottori meridionali che appartenevano all’ordine e all’epoca degli Emoraiti, ciò non osta affatto al supposto che fossero Esseni, siccome noi veramente crediamo, poichè Esseni esistevano in Palestina tanto ai tempi tanaitici quanto a quelli più tardi degli Emoraiti. Anzi, a veder bene, questo trovarsi nel Talmud dottori designati coll’epiteto semplicissimo di meridionali, tanto in tempi antichi che in altri posteriori, prova che si volle con ciò alludere piuttosto a una famiglia di savj che aveva stanza comune e legale e conosciuta in quella contrada, che non a una dimora arbitraria che avrebbe lasciato sempre incerto, di quai dottori a preferenza si favellasse.
51L’ebraismo biblico non ha mitologia. Ciò fu da lungo tempo notato e valse a provare sempre più la sua divinità e la superiorità dei nostri sacri libri sulle mitologie paganiche. Però di questo fatto vero in generale non è qui luogo a parlare. In ogni modo questo invertimento d’epoche nella storia dall’ebraismo, questo precedere inatteso, irregolare del vero, e dello storico, del proprio, – al mito, alla finzione, al figurato; – questo tardo comparire della mitologia nello Ebraismo che non comincia fra noi a spuntare che colla cessazione dell’era profetica, e col principiare dell’era rabbinica, è fatto eloquentissimo che dovrebbe dare grandemente a pensare. Non par egli mostrarci a dito che fino a quest’epoca ultima, la mente ebraica, il pensiero umano si rimase ozioso, supplito com’era da una potenza superiore che ispirandolo a suo grado, gli risparmiava naturalmente quelle fasi, quelle transizioni che lasciato a se stesso non può a meno di percorrere; e che appena cessata questa azione straordinaria sul pensiero ebraico, vale a dire al cominciamento dell’era rabbinica, la mente ebraica si trovò a quel punto istesso in cui la mente pagana si sentì all’esordire della sua civiltà, e cominciò allora soltanto a svolgersi per tutte le fasi che le sono naturali? Noi non facciamo qui che accennare una idea, la quale esigerebbe il massimo sviluppo, a cui siamo certo preparati, ma che il luogo non comporta. Ciò valga soltanto a spiegare la parola Mitologia di cui ci siamo valsi ad indicate la Letteratura Agaditica del Talmud.
52Vi è in ambo i Talmud un frammento che sembra ostare alla superiorità da noi attribuita ai meridionali, nella scienza dell’Agadà, e quindi sopprimere uno dei punti di contatto che tra gli Esseni abitatori di quelle regioni, e la scuola dei teosofi cabbalisti, abbiam creduto ravvisare. Pure dopo breve esame parvemi vedervi piuttosto ragione di confermarmi sempre più in questo supposto. Ecco i due frammenti preziosi anche per altre conclusioni che sarebbe ovvio inferirne, se qui ne fosse il luogo. – Nel Babilonese si legge (Pesakim V. 62). R. Samlai presentossi e R. Johanan dicendogli: Insegnami, ten prego, il libro delle Genealogie. (Sefer Johassin). Risposegli: D’onde sei tu? da Lydda. E ove dimori? In Neardeà. Non è lecito dunque (replicò) insegnarlo, ne a quei di Lyddà, ne a quei di Neardeà.– E nel Gerosolimitano al luogo istesso. —R. Samlai presentossi a R. Jonatan dicendogli: Insegnami, ten prego, l’Agadà. Risposegli: Ritengo per tradizione dei miei maggiori, di non insegnare Agadà, nè a’ Babilonesi nè ai meridionali, perchè sono alteri, e nella legge dappoco. Tacciamo di molte altre rivelantissime considerazioni che il confronto dei due testi ne suggerisce; – della equivalenza di Sefer Jokassin (Talmud Gerosolimitano) e d’Agadà (Babilonese); di una non meno pronunciata avversione pei Babilonesi che si riscontra nel Zohar; dell’alterigia, ostacolo all’insegnamento della Agadà; come la umiltà fu titolo e pregio singolarissimo per penetrarne i segreti come più oltre vedremo; della importanza che assume l’Agadà in ambo i frammenti; del carattere tradizionale e antico di questa trasmissione a segno d’avere ricevuto per tradizione le regole della trasmissione medesima; del personaggio di R. Samlai – qui studiosissimo dell’Agadà, e celebre nelle pagine del Zohar (76, 2.) come maestro di penitenza, sotto il nome eloquentissimo di Asià, medico o terapeuta; – della identità del Darom (mezzogiorno) del Gerosolomitano con Lydda (Lud) del babilonese frequente soggiorno dei teosofi nel Zohar, e d’altre per avventura non meno importanti considerazioni. Domanderemo soltanto come conciliare la scienza, la celebrità altrove vantata dei dottori meridionali nelle dottrine dell’Agadà con questo rifiuto d’insegnarliela, che sorprendiamo in bocca a R. Jokanan o Jonatan? Specialmente ove si abbia occhio al motivo che di questo rifiuto si narra —l’alterigia loro e la inferiorità nella scienza religiosa. Ma la obbiezione si tramuta in prova, solo che si attenda al comento di Rasci, il quale, non saprei dire troppo il perchè, non vede nel motivo allegato al rifiuto che un pretesto, e riduce per conseguenza la negata trasmissione a un giudizio poco favorevole che dell’attitudine personale del richiedente, avrebbe fatto R. Jokanan o Jonatan. Difatti si legge in Rasci —che non ebbe di mira così dicendo che a respingerlo con un pretesto – o meglio perchè Babilonesi e meridionali non hanno sicura genealogia in Israel. – Ognun vede come nella prima alternativa l’ostacolo è scomparso; ma non tutti veggono a prima giunta come nella seconda sia trasformato in appoggio. Non si comprende invero come Babilonesi e meridionali non hanno sicura genealogia in Israel, dappoichè sappiamo che Essa non si partì da Babilonia, finchè non la lasciò quasi farina schiettissima; come si esprime il Talmud e che il Darom o Lud era parte di Palestina ove pare inconcepibile che vivessero uomini interamente d’origine spuria o dubbiosa. Ma si comprende benissimo ove in questi meridionali almeno si veggano i nostri Esseni, discendenza, siccome più sopra vedemmo, dei Recabiti e ramo gentile innestato in Israele, la gente aliena Benè Nekar di cui parla Isaia. Può darsi dunque che dopo tanti secoli scorsi dai Recabiti e dopo il continuo incorporarsi alla società loro di tanti elementi israelitici, quelli che erano conosciuti per discendenti da quei proseliti (che allor ve ne fosse lo sappiamo da R. Iosè, che è detto nel Talmud apertamente della prole di Jonadab ben Rekab) fossero tenuti in conto di meno degni di penetrare le dottrine agaditiche. Checchè ne sia, ci sia lecito prima di passare ad altri fatti di osservare alcuni indizj che nel testo talmudico di Zebakim ove si parla di Jeudà Ben Dostai, e di cui si fe’ parola nel testo, ci conducono per altre vie alla società degli Esseni. – È il primo il nome peculiare che il Talmud dà a questo Ieudà ed ai suoi, di Parouscim farisei per eccellenza, nome che essendo comune a tutti i dottori, e che da se stessi si dànno, non può essere inteso che come una più onorifica designazione: quasi i più farisei tra i farisei. Il secondo è il fatto che il comento di Rasci pone in luce quando dice che Ieoudà e il figlio elessero stanza lungi da Gerusalemme per non recarvisi nelle feste, nè sacrificare l’agnello pasquale, nè gli altri sacrificj di Haghigá. Non par egli porgerci la chiave di quel dato singolarissimo che ci somministra Giuseppe intorno gli Esseni dicendoci che non entravano nel tempio per sacrificarvi; e che tanto sembra opporsi alla identificazione loro colla parte più eletta dei farisei? Avremmo dunque nel fatto di Jeoudà ben Dostai la spiegazione di questo astenersi, e in guisa l’avremmo da dissipare ogni nube che sembra elevarsi sulla identità da noi propugnata. Non si dimentichi che Jeoudà è più antico di Giuseppe, di quasi un secolo e mezzo.
53Poche linee più sopra, il gran maestro della Teosofia piange di un pianto di gioja. Qui è il bacio che officia come segno di fraterna approvazione. Ambo, a parer mio, indizj significantissimi. L’uno e l’altro provano come questi farisei così posti in mala voce per formalismo, per insensibilità, per ipocrisia, fossero d’una sensibilità, così esquisita da prorompere frequentissimamente in quelle dimostrazioni spontanee che ne sono il più efficace argomento; e che d’altra parte tanto bene si acconciano a quel Misticismo che noi vediamo nelle loro dottrine. Chi scinde i dottori zoaristici, i mistici dai dottori talmudici, non poco dee durare fatica a spiegare quella pronta, vivace, energica estrinsecazione dei proprj affetti che negli uni come negli altri apparisce ad ogni tratto. Ma se la gioja, il pianto, il bacio fraterno, attestano indistintamente qual cuore si avessero questi farisei calunniati, l’ultimo specialmente, il bacio fraterno, ha una significazione particolarissima in quanto accenna a quella filiazione di cui altre volte toccammo del primitivo cristianesimo, e dei suoi più eminenti rappresentanti, dalla famiglia dei mistici farisei e dei teosofi, si appellino essi Esseni o Kabbalisti. Non è troppo il dire che spesso più nelle piccole analogie che nelle grandi, più nelle minute circostanze che nelle linee più prominenti, si vede la vera affinità e derivazione dei sistemi; perciocchè le prime come più particolari più urgentemente ne fanno fede che non le seconde, siccome quelle che essendo più generali, è più agevole il supporne la fortuita apparizione simultanea in varj sistemi. Così, a mo’ d’esempio, il bacio di cui è discorso. Chi conosce il Zoar sa che non v’è cosa che vi torni più di frequente. Ma ciò che più monta si è che negli altri monumenti rabbinici come Misnà Talmud, ecc. o non vi si nota, o se tu ve lo scorgi, egli è solo in quei casi in cui dei Misteri è parola. – Per esempio della Mercabà o carro di Ezechiele (V. Talmud trat. Haghigà, 14). Non è questo eloquente indizio che questa forma di approvare e di salutare era peculiarissimo un genere di studj, a quelli cioè dove ebbe culla il Dogma Cristiano? Che sarà se vedremo poi il bacio fraterno apparire nei Vangeli e tra i fondatori della fede cristiana come saluto consigliato e approvato? Salutatevi, dice Paolo, (Ep. ai Rom. sub fine) gli uni gli altri con santo bacio. – E così I. Corint. XVI, 20. – 2ª Corint. XIII, 12. – 1ª Tessal. V, 26. – I. Piet. V, 14. – Nè mancò neppure chi lo avvertisse. «Dès l’origine de l’Eglise la coutume s’introduisit parmi les Chrétiens dans leurs Assemblées de se donner le baiser de paix. (Bergier. Diction. de Theolog. III. 571.)» Forse non sarebbe erroneo aggiungere che quest’uso fa fede d’un’antichità particolare di quel consorzio, se si dee giudicare dagli esempi della nostra Europa, in cui non è raro vedere il bacio essere il saluto per eccellenza e la forma di esso più antica. Oggi pure in Inghilterra tanto è dire salutare che baciare. «Sous le règne de Henri VII, quand les arrières grand’-mères des douairières actuelles d’Angleterre saluaient un parent, un ami, ou même un étranger, c’était en échangeant avec lui un innocent baiser. Le mot salute est resté en anglais comme synonime de Kiss ou de baiser. – Revue Britannique, Mars 1860, p. 91.
54La mèsse è talmente abbondante, che non crediamo con quanto fu detto averla esaurita. Plinio aveva detto (lib. V, VIII,) degli Esseni, Gens socia Palmarum. Ora, oltre la residenza che abbiamo veduto scelta dai Teosofi nella regione delle Palme, il mezzogiorno di Palestina, non si dee tacere come nel Zoar ci si offrano spesso que’ contemplativi a ragionare all’ombra dei palmizj tuté diclé; che notarono la sessualità di quei vegetabili non solo, ma di tutte le creature dell’universo in questi termini. R. Eleazar e R. Hisà andavano per via, e vedendo due palmizi, l’uno maschio l’altro femmina, disse R. Eleazar a R. Hisà: Certo, tuttociò che vegeta sulla terra, è maschio e femmina non solo, ma eziandio tuttociò che cresce in seno al mare. È noto come Empedocle fosse il primo ad osservare la sessualità delle piante; ed Empedocle presenta più di una analogia nelle sue dottrine in generale coi teosofi nostri, sulle quali ameremmo fermarci, ma che i limiti di quest’opera ci contendono. Diciamo solo come il gran poeta e filosofo nostro Ben Gabirol, conosciuto e citato da tutto il Medio Evo sotto il nome di Avicebron, come con grandissima sodisfazione dei dotti, avvertiva l’illustre sig. Munh di Parigi, è reputato dal suo abbreviatore e traduttore Ben Falakira seguace fra tutti gli antichi a preferenza di Empedocle. E ciò torna tanto più verosimile in quanto sappiamo per confessione dei critici stessi più indipendenti, che tra Ben Gabirol e la Dottrina Cabbalistica o teosofia corrono numerosissime affinità a tal punto che fu creduto il primo modello e la seconda la copia. Ma ciò non toglie che questa particolare conformità del Zoar alle teorie botaniche di Empedocle, non abbia il suo valore. Quanto ai Dottori Essoterici abbiamo già avuto luogo di vedere nel raffronto da noi istituito tra le loro dottrine e quelle deposte nel libro di Filone de vita Mosys come della intima struttura delle Palme favellassero come favella la scienza odierna. È inoltre narrato nel Medras Rabbà, il fatto di due Palmizj che divennero fecondi quando ogni ostacolo fu rimosso che li divideva, lo che consuona mirabilmente con quanto narra il Verati, vol IV, p. 268. «È veramente degno di attenzione, scrive il Prof. Gaetano Savj, ciò che si racconta della Palma maschio di Brindisi e della Palma femmina di Otranto. Questa da lungo tempo pareva ed era sterile, ma allorquando ambedue furono cresciute a segno che gli spadui si trovassero al di sopra degli ostacoli che si frapponevano alla diretta comunicazione fra loro, la femmina abbonì dei frutti.» Abbiamo nel testo veduto gli oratorj posti in mezzo ai campi. Là pure si studiava e s’insegnava ai discepoli. E nulla vi ha di più frequente non solo nel Zoar, ma nei libri essoterici non meno, che i Dottori meditanti o insegnanti ai discepoli all’ombra di un palmizio o di un fico. E molto sarei inclinato a credere che da questo uso derivarono le similitudini tolte dalla vita dei campi a significare la scienza sacra, le sue parti, e i suoi cultori. Forse anche altre allusioni si annodano nel nome Pardes, giardino, dato alla Teologia arcana, ma è probabilissimo che tanto esso quanto l’idea correlativa di guastare o sbarbicare le piante per indicare la introduzione d’errori, o la negazione di alcune verità, non d’altronde abbiano presa occasione a così dirsi. Non è da questo diverso il nome di Cherem (Vigna) dato alle scuole, ed alle accademie. Se pure non vogliasi vedervi una Vigna vera e propria ove si studiava, lo che non pare affatto inverosimile, egli è certo però che la interpretazione che si dà a questo nome, (antichissima, a dir il vero, perchè origina dal Talmud Gerosolomitano) e che significherebbe un luogo distribuito e diviso a guisa di Vigna, non è molto atta a sodisfare la buona critica. Non sarebbe piuttosto una derivazione o una reminiscenza della situazione delle scuole e delle accademie in mezzo a campi ed a vigne? Nè la similitudine quietò in questa idea generale, ma scese analiticamente a distinguere parte a parte i prodotti delle vigne e dei campi, ed a designare col nome di ognuna di esse, una delle parti più cospicue della scienza religiosa. Così il fiore della vite adombra la bibbia. —L’agresto la Misnà. —Il melogranato il Talmud (Irubim, Cap. II, V, ivi Moarscià che connette questa similitudine coll’altra generica della Vigna.) E altrove il grano Dagan significò l’Alakà, il Rito la legge, e il vino Tiros l’Agadà (si noti come Agadà a senso nostro sia la veste leggendaria della Teosofia; e come la Dottrina evangelica che non fu in origine che una Teosofia propalata prenda il nome nei vangeli stessi di Vino): Infine l’uomo pieno di scienza varia fu detto Escol Grappo (Sotà sub fine), come l’indotto, il volgo fu chiamato col nome di pampani che valgono a conservare e difendere i grappoli (ibhun rahamé aalaia deitcaiemùn atcalajà.) E per quanto valenti critici come il Rapoport vogliano vedere negli Aschelot (Sotà ibid) una corruzione o ebraizzamento di scuole, pure, tutto considerato, non si può a meno di conservare a questa locuzione, almeno come senso fondamentale e primitivo, quello proprio di Grappolo.