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Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire

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Questa educazione civile e politica, chi pensa a darla ai napoletani? Si pubblicano giornali, o quotidiani o settimanali o mensili, accessibili per ogni conto al povero, e in cui si esponga il significato delle nuove istituzioni ad esso largite? Si sono aperti corsi pubblici e gratuiti in convenienti locali, ove il povero possa ricoverarsi, imparando a benedire la Provvidenza per la libertà acquistata ed intesa? Io non avrei scritte queste pagine, se avessi udito che una sola delle tante cose da farsi fosse stata fatta. Ma vedo gli anni succedersi rapidamente; vedo gli effetti della generale ignoranza rallentare e talvolta impedire il progresso del nostro nazionale sviluppo; e non vedo che si tenti rimediare a tale ignoranza dell'attuale generazione. Si insegna a leggere alla generazione futura, e si spera forse che questi nuovi letterati faranno buon uso della scienza acquisita per istruirsi in ciò che loro spetta di sapere. Ma parmi questa una vana speranza. I contadini lombardi hanno tutti, o pressochè tutti, frequentato, nell'infanzia loro, le scuole comunali; ma sino a che in codeste scuole non si acquista altro che uno strumento per imparare ciò che veramente è necessario sapersi, non si può sperare che il giovanetto, licenziato dalla scuola perchè ha raggiunto il duodecimo anno di sua vita, e rimandato alle fatiche ed alle sofferenze domestiche col solo vantaggio di poter leggere, scarabocchiare il proprio nome, ed eseguire le due prime operazioni dell'aritmetica; non si può sperare, dico, ch'esso impieghi utilmente il suo magro corredo di cognizioni per acquistarne altre indispensabili ad un popolo che vuol essere libero. Ciò che deve invece accadere, e che accade diffatto, si è che il giovinetto stesso che sapeva leggere a dodici anni più non lo sappia passati i venti.

Della Toscana, e delle provincie che componevano prima del 59 e del 60 gli stati romani, non posso parlare in modo assai diverso da quello con cui ho parlato sin qui delle altre parti d'Italia. Il toscano ad altro non aspira che ad un dolce ed innocente riposo. Si accontenta di una mediocre agiatezza; si accontenta ben anco del puro necessario, purchè gli si conceda di goderne pacificamente e senza sforzi nè fatiche. Così ci figuriamo ad un dipresso la vita dei pastori arcadici; ma nulla v'ha al mondo di meno arcadico dell'attuale società. Già lo dissi più sopra: chi non lavora, chi non tende ad uno scopo che non può raggiungere senza sudori, chi si compiace nell'ozio, e soltanto nell'ozio, non trova spazio ove adagiarsi nel trambusto del perpetuo progresso, e viene schiacciato sotto il pesante carro di Zaggernaught delle scienze, dell'industria, del commercio, della civiltà e della ricchezza.

La Toscana è un piccolo e povero paese, abitato da un popolo gentile ed intelligente, ma pigro, inerte, che non mosse mai passo sulla via che percorrono oggidì le nazioni libere e civili. – Tutto rimanevagli a fare quando fu annessa all'Italia, che si veniva allora costituendo. Sono ora due anni, se non più, che una combinazione per essa fortunata trasportò sul suo territorio la sede del governo italiano. Firenze fu prescelta per succedere a Torino; e siccome Torino erasi amaramente risentita di ciò ch'essa considerava come una sciagura, era naturale che Firenze se ne rallegrasse come di un acquisto. Ma Firenze prese la cosa in tutt'altro modo. – Che la sua popolazione si raddoppiasse numericamente in pochi giorni, che molti nuovi edifizi s'innalzassero nelle sue mura, che il denaro circolasse in quantità e con rapidità assai maggiore che per lo passato, che nessun forastiere distinto e ricco che visitasse l'Italia potesse d'ora in poi trascurare di visitare anche Firenze; tutto ciò poco ad essa importava, anzi le cagionava rammarico ed inquietudine. E perchè? Perchè una cosa sola le apparve fra tutte le altre; e fu che tanta affluenza di nuovi abitanti farebbe crescere il prezzo degli affitti, ed il prezzo corrente altresì degli oggetti indispensabili alla vita di ognuno. Egli è pur vero che se le case di Firenze crescevano di valore, queste essendo proprietà dei fiorentini, il vantaggio era loro altresì; e lo stesso poteva dirsi degli oggetti necessari alla vita di tutti, come le farine, le carni, gli ortaggi, i latticinii, ecc., ecc. I fiorentini non sono punto gonzi, e intendono tutto ciò come lo intenderebbe l'uomo più versato negli studi economici. Ma un'altra cosa intendevano pure; ed era, che il cresciuto consumo dei viveri, ed il cresciuto bisogno di abitazioni, sola cagione dell'aumento dei prezzi, renderebbe necessario un accrescimento di produzione, e per conseguenza di lavoro e di fatica. Nè valse far loro osservare, che insieme coi consumatori verrebbero dal di fuori, cioè dalle altre parti d'Italia e dallo stesso toscano contado, dei produttori, cioè degli operai, che si assumerebbero con lieto animo quell'eccesso di lavoro, che essi fiorentini non potrebbero o non vorrebbero eseguire. – In tal caso, rispondevano i fiorentini, nascerà la concorrenza: dovremo contendere coi nuovi arrivati per ottenere quel poco di lavoro che ne bastava sin quì; l'opera nostra non sarà più così gradita a chi la riceve; i nuovi arrivati faranno altrimenti, e si dirà che fanno meglio di noi; dovremo studiare, esercitarci, ecc. E piuttosto che esporsi ad un accrescimento di occupazione, che produrrebbe loro un sicuro aumento di guadagno, i fiorentini hanno in gran numero emigrato dalla capitale, per ritirarsi sui territorii di Pescia, di Prato, di Pistoia, di Lucca, ecc., come in oasi non ancora invase dalla moltitudine e dalla civiltà, e dove si può tuttora vegetare placidamente in un ozio decente e dolcissimo. Il sagrifizio costò loro assai, e non poche maledizioni salutarono l'arrivo di quelli irrequieti, cupidi ed ambiziosi che nulla rispettano, e che sconvolgono senza rimorsi il placido andamento degli affari in Toscana. Ma per amaro ch'ei fosse, il sagrifizio si compì, ed oggi un certo numero degli opifici più prosperosi della capitale sono nelle mani di piemontesi o di lombardi; chè a fronte dei fiorentini noi lombardi siamo prodigi di energia e di ambizione.

Io non mi maraviglio punto che ciò accada in Italia; e saremmo invero esseri di una tempra più che umana, se la perpetua servitù in cui vivemmo non avesse lasciato traccia alcuna nel nostro carattere. Nè suppongo un solo istante che tale nostra piaga sia incurabile. Anzi sono convinta ch'essa cederà tosto ad una cura conveniente, e che la seguente generazione sarà fors'anco perfettamente sana e robusta. Ciò che mi accora si è il non vedere che alcuno si accinga a medicare quella piaga; e neppure in Toscana, ove la capitale raduna in sè le forze vive della nazione, ove tanta coltura fu sempre onorata, nessun farmaco fu ancora proposto e discusso.

Di ciò mi lagno, e non del bisogno che abbiamo del farmaco; il quale bisogno è la cosa più naturale del mondo.

Le provincie che componevano prima del 59 e del 60 gli stati romani, come le Legazioni, l'Umbria, ecc., ecc. non hanno dato sin qui segni manifesti di non intendere i diritti e i doveri di un popolo libero, o le leggi della moderna civile società. Quelle popolazioni, rette e tiranneggiate dal clero, non diedero sin qui un solo indizio di fanatismo o di superstizione: hanno accettato ed eseguito tutti i sacrifici richiesti, senza dare mai segno di malcontento, e vanno gradatamente migliorando le loro condizioni coll'apertura di nuove strade e ferrovie, colla applicazione di un discreto governo comunale, collo stabilimento di nuove scuole e di nuovi tribunali rispettabili, e coll'esercitarsi nelle cose della guerra. Quelle popolazioni dovrebbero in vero servire a tutte le altre di esempio e di modello; ma v'hanno alcuni passi che i popoli non possono dare, se l'iniziativa non è presa da qualche individuo o da qualche associazione più di loro esperti e più ricchi. Le popolazioni degli antichi stati romani sono ad un tempo maschie e prudenti. – Sanno soffrire, sanno tacere, sanno combattere; e credo che saprebbero anche studiare ed imparare. – Ma non furono mai ciò che volgarmente si chiama popolazioni industriali, ossia dedite alla industria ed al commercio. Debbono però diventar tali e diventarlo in breve tempo, poichè l'agricoltura non vi si può sviluppare in vaste proporzioni, per la natura del suolo. Sino al 59 e al 60 quelle popolazioni vivevano in gran parte della elemosina degli innumerevoli conventi d'ambo i sessi; ma ora quella è una fonte disseccata ed esausta. Se alcuno tentasse di fondare stabilimenti industriali, opifici, ecc., non vedo quali ostacoli incontrerebbe, e sono convinta che la popolazione andrebbe a gara per prestarvi l'opera sua. Nulla si ottiene senza lavoro e senza fatica. Ma la buona volontà e l'attitudine non bastano quando manca la direzione; e la direzione non appartiene alle moltitudini, bensì all'individuo.

L'Italia può dirsi materialmente fatta, in quanto che la intera o pressochè intera penisola è raccolta sotto un unico reggimento, e più non vi sono padroni stranieri. L'Europa tutta ha riconosciuto il diritto che noi abbiamo di esistere come nazione indipendente. Nel corso dei sette anni, che compongono l'età nostra come nazione, abbiamo ottenuto dei mirabili risultati: la distruzione del brigantaggio; l'abolizione dei conventi; il nuovo assetto che sta per darsi all'asse ecclesiastico; il traslocamento del governo e della rappresentanza nazionale da Torino a Firenze; la riunione delle provincie venete al rimanente d'Italia; e la probabilità di trovarci fra poco in condizione di trattare direttamente col Santo Padre; la cessione del potere temporale, e i compensi che può meritare simile cessione. E l'avere ottenuto tutto ciò senza attraversare quelle tristissime e sanguinose crisi di rivoluzioni, di reazioni e di guerre civili, che lasciano indelebili tracce e dolorose memorie nelle popolazioni che vi soggiacquero, sono benefizi di cui non possiamo mai essere abbastanza grati alla Provvidenza ed agli uomini che la Provvidenza scelse per suoi strumenti. Ma appunto perchè siamo stati così evidentemente e gratuitamente protetti sin quì, dobbiamo mostrarci degni di tale protezione, porci arditamente e devotamente all'opera, e nulla lasciare intentato, nè stancarci, nè disgustarci od annoiarci di ciò che può contribuire a porre il nostro paese fra i più inciviliti e i più rispettati del mondo.

 

Quali sono gli ostacoli che si oppongono al nostro progresso? Due sono i principali.

1.º La depravazione lasciata nel carattere delle popolazioni da una tirannide di tanti secoli, astuta ed iniqua, che non contenta di ridurci colla violenza e coi mali trattamenti ad una cieca obbedienza, lavorava a renderci incapaci di usare, senza però abusarne, di una saggia libertà.

2.º La scarsezza del denaro, mentre avremmo così ingente bisogno di abbondanti ricchezze, per dotare il nostro paese di tutte quelle conquiste della scienza e della industria moderna, strade ferrate, canali navigabili, opifici, macchine, ponti, per mantenere un poderoso esercito, una forte marina: cose tutte che i nostri antichi padroni non si curarono di procurarci.

Il primo di questi due ostacoli, è certamente il più grave e il più difficile a superarsi; potendo il secondo considerarsi come conseguenza del primo.

Ma per trovare la via di vincere questi ostacoli è primieramente necessario di studiarne attentamente la natura, il carattere, la potenza e l'azione sull'indole e sui costumi delle popolazioni italiane. Abbiamo veduto come la secolare oppressione, sotto cui visse l'Italia sino al 59, ne ha spogliati della energica operosità, che è forse la prima delle condizioni indispensabili alla vita di una nazione, ed è propriamente ciò che corrisponde alla forza vitale dell'individuo. Ma questo difetto di vitalità si strascina dietro di sè una deplorabile sequela d'infiniti danni. Il despotismo ha fra gli altri effetti quello di offuscare e di traviare il sano giudizio delle sue vittime. I fatti e gli avvenimenti non portano più con essi le naturali loro conseguenze, che sono altri fatti ed altri avvenimenti. L'uomo ignorante non aspetta di veder succedersi i futuri eventi, a seconda della tendenza degli eventi anteriori. Le nozioni di causa e di effetto si confondono nella mente di lui, poichè a sconvolgere il corso regolare delle cose, sempre interviene la capricciosa volontà del despota, che di nulla tien conto, fuorchè della soddisfazione delle private sue mire. Un uomo tenta una pazza speculazione, e la tenta senza possedere alcuni di quei mezzi che potrebbero renderla meno rovinosa; ed il pubblico argomenta accuratamente che una terribile catastrofe sta per piombare sul temerario speculatore. Ma questi gode la protezione di qualche oscuro membro della casa del padrone; il quale conosce le vie ingannevoli e tenebrose che conducono all'orecchio di quello, e se ne vale in favore del pericolante amico. – Ed ecco che all'ultima ora, quando il precipizio si apre sotto i piedi dell'imprudente, quando la sua caduta è certa, la mano onnipotente del despota lo afferra, lo solleva, e lo depone sovra un solido terreno; e di ciò non contento, impedisce talvolta a' suoi creditori di costringerlo al rimborso del danaro che loro è dovuto. Il principale insegnamento che i popoli traggono da tali fatti è questo: che il favore del principe è la sola áncora di salvezza su cui è ragionevole di affidarsi. La quotidiana esperienza nulla insegna oltre ciò. La imprudenza non è più una sorgente di disastri, la sapienza, l'avvedutezza, la moderazione, la precisione delle vedute, la fecondità degli spedienti, la puntualità nell'adempire gli assunti impegni, non sono più una garanzia di felice successo. Il favore del sovrano tien luogo di qualsiasi dote, e senza di quello nulla si ottiene. Quando viene repentinamente a cessare la onnipotenza di tal favore, o quando una costituzione vieta ad esso d'intervenire negli affari dei cittadini, a chi si rivolge per ottenere una direzione o un appoggio il popolo educato da più secoli a non fare assegnamento che sulla protezione del padrone?

Così avviene di noi. – Dal 59 in poi si sono tentate molte cose; ma si sono tentate come se il felice o l'infelice successo di esse fossero accidenti di nessun conto, indipendenti dal modo con cui si dirigono e si conducono gli affari. Si suol dire che gli speculatori italiani si affidano nella stella d'Italia; ma il fatto è questo, che la immensa maggioranza dei nostri speculatori non ha mai studiato le condizioni in cui deve esser posta una speculazione perchè se ne possa sperare un favorevole risultato. V'ha di peggio. Benchè nulla attendano dal sovrano favore, gli speculatori che soggiacciono a qualche sventura, ne incolpano nel segreto de' loro cuori la poca benevolenza del governo. Il ministro non ha mai veduto di buon occhio questa infelice impresa, dicono a chi li interroga sulla loro sventura; non so che cosa il segretario generale abbia contro di me, ma egli non mi ha mai dimostrato nè interessamento, nè simpatia; e se la mia impresa andò fallita, ciò accadde perchè il governo nulla fece per salvarmi, mentre egli poteva facilissimamente impedire la mia caduta. E mentre lo speculatore fallito parla con tale apparente moderazione, esso accusa sovente in suo cuore il governo di mala fede, di animo vendicativo, di venalità, di corruzione, ecc., ecc.; perpetuandosi in tal modo fra i cittadini e i membri del governo quella diffidenza e quel malumore, che sono di sì grande impedimento al regolare sviluppo della nostra prosperità.

Lo speculatore non si inganna però sempre, quando dice che il governo avrebbe potuto salvarlo se lo avesse voluto. Ma il governo avrebbe allora oltrepassato i limiti della sfera di azione a lui prescritta. Il governo di un paese libero non deve intervenire nelle faccende dei privati, se non per far eseguire le leggi che possono riferirsi ad essi. Un governo costituzionale non deve assumere il carattere paterno: il governo è il delegato della nazione, non ne è il tutore, e molto meno il padrone. Questo è quello che non sappiamo ancora intendere. Dai precedenti governi, tanto dall'austriaco pretto, quanto dagli altri più o meno indirettamente austriaci, non aspettavamo che persecuzioni, vessazioni, ingiustizie, violenze, ecc. e la nostra aspettativa era sovente superata dal fatto. Ora aspettiamo dal nostro governo tutto l'opposto di ciò che aspettavamo dall'Austria, e ci troviamo necessariamente delusi nelle nostre speranze; perchè non abbiamo imparato ancora che da un governo costituzionale si richiede principalmente che esso si astenga da qualsiasi intervento negli affari dei privati, almeno sino a tanto che le leggi non sono da questi violate. Quel costante bisogno di appoggio, di protezione, di favore e di direzione, è la più profonda piaga che ci abbiano lasciato le nostre infrante catene. È questo un sintomo troppo evidente della debolezza del nostro carattere, del nostro criterio e della nostra volontà; è una tentazione pel governo, il quale vedendosi implorato dai cittadini perchè intervenga negli affari loro, e sentendo che il suo rifiuto eccita mali umori e risentimento, è necessario che conosca perfettamente i propri impegni, e sia fornito di singolare onestà per non cedere, e per non trasformarsi insensibilmente in ciò che chiamasi governo paterno ossia dispotico.

L'ignoranza in cui vegetiamo e in cui ci mantennero scientemente i nostri padroni, combinata colla naturale indolenza, propria a tutti i popoli meridionali, ci rese sin qui incapaci di competere colle nazioni vicine nelle industrie e nel commercio, e ne lascia senza difesa contro la superstizione, l'assoluto, il tirannico e talvolta immorale dominio del clero, non meno ignorante, è vero, e non meno inerte dei laici, ma che riceve le sue istruzioni e la sua parola d'ordine da Roma. L'Italia meridionale è per così dire esclusivamente ligia al suo clero, e a quelle torme di frati e di monache che la divorano. L'Italia settentrionale non è così acciecata, o almeno gli abitanti delle sue città si sono sottratti alla tutela clericale; ma le popolazioni delle nostre campagne sono nelle mani del clero tanto quanto le popolazioni del mezzodì. Il clero delle provincie settentrionali d'Italia è meno sensuale e meno ignorante del clero napoletano e siciliano, e della moltitudine di frati che occupavano tutte quelle contrade; ma in compenso esso è forse meno sincero. Obbediente ad alcune sommità clericali, le quali sono in perenne ribellione contro il governo italiano, e sempre intento a macchinare congiure contro il medesimo, il clero delle nostre campagne dispone come gli piace de' suoi popolani, e mentre finge tendenze liberali, mentre deplora di essere impotente a fare il bene, si oppone copertamente a tutto ciò che potrebbe sollevare il contadino dalla sua secolare ignoranza, e illuminarlo sui veri suoi interessi, e lo mantiene in uno stato di stolida ostilità contro i naturali suoi protettori.

I possidenti delle campagne dell'Italia settentrionale avrebbero cento mezzi per combattere l'influenza del clero e per sostituirvi la loro. Ma nulla si ottiene senza qualche sforzo e senza qualche fatica. Ora la fatica è la cosa che più ripugna all'attuale generazione italiana. Le terre più produttive, quelle che danno tuttora qualche valore alla possidenza fondiaria, sono situate in quella parte che chiamasi la bassa Lombardia, e che comprende il Lodigiano, il Pavese, il Cremasco, il Piacentino, il basso Novarese e la Lomellina: paese tutto di pianura, e spoglio di quelle attrattive di cui abbondano i paesi di montagna. Oltre a ciò l'aria di quei fertilissimi luoghi è sovente impregnata di miasmi palustri, e gli abitanti vi sono esposti a ricorrenti febbri intermittenti, che degenerano talvolta in perniciose, e forniscono ai possidenti di quelle terre un plausibile pretesto per non visitarli. Tali poderi, che formano ora tutta la ricchezza effettiva dei signori dell'Italia settentrionale, poderi assai più estesi di quelli situati sulle sponde dei nostri laghi, o sui colli della Brianza o del Varesotto, sono affittati ad una classe di cittadini che non esiste forse altrove che in Lombardia ed in alcuni stati dell'America.

Parte della classe degli affittaiuoli della bassa Lombardia trae la sua origine dalla classe dei contadini, ed ha tuttora comune con questi la profonda ignoranza e un eccessivo amore del lucro.

Alcuni affittaiuoli emergono dalla moltitudine degli uomini di contado, quando uno di essi, o più fortunato o più accorto o meno tenero di coscienza de' suoi compagni, è riuscito a mettere insieme qualche migliaio di lire. – Esso prende un piccolo podere in affitto, e vi si stabilisce colla sua famiglia, incominciando una nuova esistenza. Ogni legame di consanguineità o di amicizia cogli antichi suoi pari è da lui spezzato. Da quel momento in poi il contadino diviene il renitente, l'infedel servo dell'affittaiuolo; e questi assume il carattere di tiranno volgare, brutale, e talvolta crudele.

Il contadino che riesce a salire in più elevata sfera e a prendere posto tra gli affittaiuoli, deve necessariamente possedere qualche dote naturale di cui sieno privi i compagni de' suoi primi anni. Queste doti sono per lo più l'accortezza, la dissimulazione, l'avidità di lucro, ed un certo istinto che lo strascina verso alcune speculazioni piuttosto che verso certe altre. Convien pure ch'egli non sia nè trattenuto nè incomodato da delicatezze o da scrupoli di coscienza, nè da pietosi riguardi per le sofferenze de' suoi dipendenti, o pel danno ch'ei cagiona altrui affine di giovare a sè medesimo.

Queste facoltà naturali non sono già quelle che formano e che distinguono l'onesto uomo ed il cristiano; e le ricchezze, che vanno cumulandosi nelle mani di siffatti uomini, sono e rimangono sterili pel paese. A quelle facoltà, che meglio sarebbero chiamate vizi, si aggiunge a poco a poco l'orgoglio e la vanità generale del successo; poi l'ambizione di ulteriori successi ed un odio acerbissimo contro tutto ciò che gli si oppone, o che giova ad altrui piuttosto che a sè stesso.

Avvezzo dalla più tenera infanzia alle privazioni dell'estrema povertà, il contadino arricchito tratta col massimo disprezzo i lamenti che gli fanno i contadini rimasti poveri; ma ritiene di avere acquistato il diritto di compensare a sè medesimo le sofferenze antiche colla più ampia soddisfazione di tutti gli istinti materiali. Siccome però le delicatezze, e le ricercatezze del lusso elegante, sono ad esso sconosciute, gli istinti ch'ei vuol soddisfatti sono limitati al mangiare, al bere, al fumare, all'annusare tabacco. I contadini che da esso dipendono non hanno agli occhi suoi diritto alcuno di voler migliorata la loro sorte. Perchè non seguono essi il suo esempio? Perchè non seppero arricchirsi? Il povero deve patire; tale è la moralità del contadino arricchito.

 

Un'esistenza così spoglia di aspirazioni elevate, di tenere affezioni e di onesti propositi, deve necessariamente corrompere e degradare la condizione morale di chi se ne accontenta; ed è cosa veramente deplorabile che la sola industria in cui l'italiano abbia progredito con qualche successo anche sotto il dominio straniero, la sola industria che produce qualche vantaggio al paese, sia in parte almeno affidata ad una classe d'uomini sì poco degna della sua missione. Nè v'ha speranza che quel senso di religiosa fede, che regna generalmente negli animi dei poveri abitanti delle campagne italiane e li mantiene entro certi limiti, possa produrre simili effetti anco sui contadini arricchiti. Questi ultimi si credono superiori alla semplice legge di Cristo, e si assicurano della tolleranza e della condiscendenza del loro curato con qualche dono o qualche invito alla loro mensa.

Ma se il contadino arricchito è il naturale nemico del contadino rimasto povero, cotale inimicizia non è la sola che turbi ed avveleni l'animo del primo; anzi è questa notevolmente superata dal timore e dall'odio che l'affittaiuolo nutre verso il possidente del fondo da lui coltivato, o come esso lo chiama, verso il padrone. Il povero contadino è considerato dall'affittaiuolo come uno strumento, di cui si vale per arricchirsi, ed al quale concederà qualche frazione delle ricchezze acquistate per mantenerlo in istato di servirlo con eguale efficacia ed alacrità. Ma il così detto padrone è il possessore delle ricchezze da lui ambite, e di cui esso pretende spogliarlo. Al cospetto del padrone il contadino arricchito si maschera e simula principii e sentimenti di cui ride nel cuor suo. Col povero contadino il ricco non si cura di sembrare diverso dal vero; e questa libertà di cui gode col povero, posta a confronto della dissimulazione che gli è forza usare verso il ricco, fa sì che esso abborre l'ultimo assai più del primo. Questo è d'altronde compiutamente in sua balìa, mentre il padrone può interrompere ad ogni momento il corso de' suoi guadagni. Dunque il contadino arricchito teme il padrone, ed è temuto dal povero; per cui ella è cosa naturalissima che il padrone sia l'oggetto dell'odio più acerbo di cui è capace il cuore dell'affittaiuolo.

Non dovrebbe essere necessario di notare, che codesta pittura del carattere di alcuni fra i nostri ricchi agricoltori non va applicata ad ognuno di essi. Non solo v'hanno delle eccezioni, ma ve n'hanno molte; ed eccezioni sarebbero forse meglio dette quei primi. Gli agricoltori che prendono in affitto dei grossi tenimenti, non sono contadini arricchiti, e non pochi fra questi appartengono a famiglie benestanti e civili, poichè debbono necessariamente essere forniti di grossi capitali per procacciarsi le così dette scorte del fondo, ossia le mandre, e il bestiame da tiro e da soma, oltre il denaro occorrente per l'anticipazione di un anno d'affitto, e per far fronte alle eventualità di uno o di più falliti raccolti. Questi agricoltori ebbero naturalmente un'educazione non inferiore a quella dei cittadini che si dedicano alle professioni dell'ingegnere, dell'avvocato e del medico; e di tale educazione le leggi ed i principii morali di onestà e di onore formano parte integrante. Questi non ambiscono disonesti guadagni, e per ciò non considerano il padrone del fondo come il nemico loro. Tali eccezioni però non sono numerose abbastanza, perchè pochi sono gli uomini, che cresciuti fra la gente colta, e le agiatezze della vita civile, scelgano di rinunziare a queste e a quelle, per condurre una vita faticosa, scevra d'ogni dolcezza civile, fra gente rozza, ignorante, e più propensa al male che al bene. Alcuni, spinti da circostanze speciali o da inclinazioni possenti, abbracciano la professione dell'affittaiuolo. Avviene allora non di rado una trasformazione, che vale sempre più a provare come la classe sociale degli affittaiuoli non sia in armonia coi bisogni e coi progressi della nostra vita civile. Accade sovente che l'uomo colto, educato per esser membro di una società colta, trovandosi tutto ad un tratto fuori di essa, lasciato digiuno di ogni alimento intellettuale, costretto ad applicarsi esclusivamente alla realizzazione del maggior lucro che ottenere ei possa, non va guari che si vede rapidamente cadere negli andamenti dei rozzi suoi compagni, cercarsi delle distrazioni nei piaceri più volgari, e dimenticare a poco a poco l'abito più elevato e spirituale de' suoi primi anni.

Altre eccezioni e più numerose s'incontrano in una categoria di ricchi agricoltori, degni dell'universale rispetto. Evvi delle famiglie di affittaiuoli che rimasero tali per più e più generazioni, il padre morente affidando al primogenito l'incarico di proteggere e di reggere l'orbata famiglia, questi assumendo l'autorità paterna, e i minori fratelli sottomettendosi di buon animo alla sua autorità.

Codeste famiglie si sono serbate quasi intatte per più generazioni; ed ebbero l'origine al tempo stesso in cui la stretta osservanza della morale cristiana e cattolica, e il vivere al di fuori del turbine cittadino una vita operosa e tranquilla, bastava a preservarle da ogni corruzione di costumi e di principii.

Esse rimangono tuttora come monumenti di una età che lasciammo lungi dietro di noi; le rispettiamo perchè rispettabili; non temiamo da esse raggiri, nè perfidie, nè atti crudeli verso i poveri giornalieri; ma sappiamo che la esistenza loro è oramai vicina al suo termine. Tali esistenze patriarcali non ponno riprodursi nell'età nostra. Nessuna campagna, per remota che sia, può difendersi ormai dalla invasione della vita cittadina. Altre volte la società progrediva a lentissimi passi, e le generazioni si sviluppavano a seconda della educazione ricevuta nella infanzia, quando questa educazione fosse onesta e comprendesse gli acquisti già compiuti della civiltà. Il padre poteva servire di esempio e di modello al figlio. Oggi tutto è cangiato: l'educazione anche la più completa non basta alla vita naturale dell'uomo, se questi non la perpetua, ma commette l'errore di crederla sufficiente e di chiuderla.

I progressi delle scienze a cui si appoggia la civiltà sono ora così rapidi, incessanti ed infiniti, che la vita di un uomo basta appena a seguirli e a registrarli. L'età del riposo era aspettata dai nostri padri, e giungeva per essi colla vecchiaia; oggi chi vuol riposare deve isolarsi assolutamente dalla società, chiudere gli occhi, turarsi le orecchie, ed ignorare le sorti de' suoi simili, perchè in tutto il consorzio umano non v'ha più un angolo dedicato al riposo. Siamo entrati nella sfera del progresso continuo, del moto perpetuo e sempre più rapido. – Colui che dopo un decenne riposo rientrasse nella società umana, troverebbe ogni cosa così cangiata, che gli sembrerebbe di stare fra gente che non ha comune con lui neppure la origine.

L'era delle famiglie e dei costumi patriarcali è chiusa. Me ne duole perchè erano monumenti di moralità, di doveroso affetto, e di pietà sincera. Ma la società, che tende a' suoi fini, ha bisogno di altri strumenti. Non mi estenderò più lungamente a parlare di questa categoria di ricchi agricoltori italiani, sebbene sia oggidì non poco numerosa, perchè la credo destinata a scomparire in breve dal nostro suolo. Non vedo per essa nè posto, nè missione nella moderna società industriale.