Za darmo

Una notte bizzarra

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E così guardandolo, e vedendolo silenzioso, le scese inavvertita in cuore quella pietà traditora che è sorella dell'amore e che non ha altro ufficio se non questo, di aprir l'uscio di casa al fratello.

– Povero giovine! – le susurrava al cuore la pietà. – Tu gli hai detto di brutte cose, ed egli non ardisce nemmanco risponderti. Vedi com'è contrito ed umiliato! Ora, lo hanno detto le sacre carte: cor contritum et humiliatum Deus non despiciet. Egli ha una cera simpatica, per verità! E poi, com'è gentile di modi! Come si è adoperato volenterosamente a farti servizio! Quanti altri uomini, nel caso suo si sarebbero diportati com'egli? Quanti altri, posti con una donna sola, sconosciuta, in casa loro, non avrebbero piuttosto ceduto a diverso consiglio? Gli uomini, in genere, sono un'assai brutta razza, animi volgari, carne impastata di fango… Ma egli! povero giovine! Suvvia, bisogna ricompensarlo con una dolce parola! —

E la cercò, la dolce parola; ma lì, sulle prime, non le venne fatto trovarla. Trovò bensì un più soave accento e un più soave sorriso, per dirgli:

– Or dunque, signor Fenoglio, voi sarete il mio cavaliere, per accompagnarmi a casa. Non è egli vero?

– Come vorrete, o signora, come vorrete. Vado subito a levarmi di dosso queste ridicole insegne di mandarino cinese e sono ai vostri comandi. Ma innanzi di partire udite ancora una parola, e sarà l'ultima, ve lo giuro!

– Con che aria mi dite voi questo! – rispose la signora. – Siate più gaio, ve ne prego; amo meglio udirvi a scherzare, come poco fa, che parlar malinconico e guardarmi accigliato, come ora.

– Perdonatemi, – disse Roberto, – ma non posso far forza al mio naturale. Sotto la forma di uno scherzo vi ho detto poco fa tutto quello che il mio cuore sentiva. Vi ho profferto sinceramente e prontamente la mia mano, perchè aveste a scorgere sulle prime la purità de' miei intendimenti. Era quello il primo omaggio che io dovevo rendere ad una donna come voi, al primo momento che sentivo di amarla. Voi mi avete tolto in quella vece per un uomo leggero, per un di quei capi scarichi che s'innamorano al primo uscio; ed ecco, io porto la pena di aver fatto un giusto proposito e di non averne subito dichiarato le lodevoli ragioni…

– Ah signore! E credete voi che io non le abbia pensate, tutte queste cose gentili? Andate, andate a mutar abiti, senza fantasticare più altro, poichè davvero stillandovi in questa guisa il cervello, non siete più giusto, nè con voi, nè con me.

– Vado, signora, vado; ma ditemi ancora… io vi accompagnerò a casa! me ne tornerò senza un conforto nel mio solitario quartierino da scapolo… E quei due che mi sanno ammogliato… che lo andranno a ridire…

– È vero! – esclamò la sconosciuta, lasciando cadere la sua testolina leggiadra contro la spalliera della poltrona. – Non ci avevo pensato! Mi fate adesso riconoscere quanto io abbia operato sconsideratamente con voi. Oh quanto me ne duole! —

E l'espressione del volto di quella donna fu così melanconica, nel pronunciar ch'ella fece quel suo me ne duole, che Roberto Fenoglio cadde ginocchioni a' suoi piedi, e, prendendola per mano, si fece a dirle con accento concitato:

– Non vi addolorate, per carità! Ho detto una sciocchezza… Ma dove diamine l'ho pescata io! Piuttosto che vedervi piangere, mi ucciderei. La gente dirà quel che vuole… mi crederà ammogliato; non me ne importa; mi condannerò ad un eterno celibato, e non sarà un grave sacrifizio per me, dopo quello che vi avrò fatto, di non riuscirvi altrimenti molesto. Veduta voi, quale altra donna al mondo amerei? —

La pietà traditora inumidì leggermente le ciglia della sconosciuta.

– Avvocato, – disse ella con piglio di leggiadra dimestichezza, – voi mi accompagnerete; saprete dove sto, ed io vi annunzio fin d'ora che sarà sempre aperta per un gentiluomo pari vostro la casa di Laura Moneglia… —

La folgore, cascata ai piedi di Roberto, non gli avrebbe fatto più senso di quel nome e di quel casato che uscivano soavemente dalle labbra della sua ospite leggiadra.

– Che? – gridò egli, balzando in piedi. – La cugina di Felicino

Magnasco?

– Conoscete mio cugino? – dimandò la signora Laura.

– Se lo conosco, signora… se lo conosco… Figuratevi! egli era qui seduto su quella medesima poltrona, mezz'ora innanzi che giungeste voi, e mi stava pregando… mi stava dicendo… Insomma, oggi stesso e' doveva presentarmi a voi.

– A me? voi? Ah, mi ricordo… mi parlò di un signore, suo amico…

Sicuramente. Infatti il vostro nome non mi giungeva nuovo. Mio cugino

Magnasco parla molto bene, e meritamente, di voi. Orbene, che male c'è che io sia sua cugina?

– C'è, o signora, che voi… già lo sapete… Felicino vi ama…

– Orbene, che mi ami!

– Ah! sta bene? – dimandò sbigottito Roberto.

– Si, certo, ma io non amo lui. —

A Roberto Fenoglio fu per balzar fuori un sospiro di contentezza; ma si rattenne in tempo.

– Lo amerete più tardi; – si provò a dir egli. – Vi piegherete a' suoi voti, alle sue preghiere. Felicino è un bel giovane, ha un ottimo cuore…

– Tutto ciò che vorrete, – rispose la signora Laura, – ma egli non mi piace oggi, e non mi piacerà domani, nè poi.

– Egli sta fresco, allora, il mio povero amico; ma cotesto non potrà giovarmi, non farà crescere d'un punto le mie speranze, dopo la promessa che gli ho fatta…

– Che promessa?

– Faccio male a dirvelo? Mi pare di no, poichè intanto avevate a saperlo!.. Di aiutarlo presso la sua divina parente, di persuaderla a concedergli la sua mano.

– Ah! ah! un mirabile spediente! E come lo ha scelto bene tra tutti! – gridò Laura, ridendo a più non posso.

– Signora, e perchè?

– Ma si, lasciatemi ridere per carità! Si vede che il mio cuginetto è molto perspicace.

– Signora, io non so… non so se debba imbronciarmi o ridere con voi.

– Si, ridete, ridete! Tutta questa gaiezza non ha nulla che possa recare offesa al vostro carattere, ve lo giuro!

– Mi fido di voi, bella signora, e rido anche io. Povero Felicino!

– Orvia, si fa tardi; andate a vestirvi.

– Sì, avete ragione; questa volta vado subito. Due minuti, e torno. —

Uscito Roberto dal salotto, Laura rimase sola a pensare. Che cosa pensasse non vi dirò, poichè non sono mai penetrato nel cuore d'una donna.

Dieci minuti dopo, Roberto Fenoglio ricompariva nel salotto, vestito da cristiano, col suo abito nero di gala, il pastrano sul braccio e lo staio in mano. Come avesse potuto spicciarsi a quel modo non saprei dirvi. So che l'amore fa miracoli a palate, e non mi stupisco di questo.

V

Il mio protagonista, levandosi di dosso quegli abiti da cinese, tornava quel che era, un simpatico giovinotto, se pure può dirsi giovinotto chi ha passata di anni parecchi la fatale trentina. La signora Laura lo guardò e i suoi occhi manifestarono una lieta maraviglia. E invero la cosa non poteva essere diversa, poichè l'avvocato Fenoglio, oltre all'avere un gentile aspetto, era innamorato cotto; e l'amore, come tutti sanno (e se qualcheduno nol sapesse, glielo dico io), abbellisce la gente, sia che conferisca più vivacità allo sguardo, sia che impallidisca le guancie, secondo che è lieto, o sfortunato per coloro che l'hanno nel cuore.

Quello di Roberto Fenoglio non potea dirsi ancora nè una cosa, nè l'altra; era fresco di un'ora, ma era nato vigoroso come Ercole, di cui narra la favola che, stando in cuna, strozzasse colle sue poderose manine i serpenti. Il desiderio di piacere a quella bellissima donna, il rispetto che sentiva per lei, sebbene l'avesse conosciuta in così strana maniera, la stranezza medesima del caso che metteva, sto per dire, un pizzico di sale su quel negozio, già di per sè saporito abbastanza, tutto ciò trasfigurava Roberto Fenoglio. Se non temessi di farmi dare dell'eretico, direi che quello era il suo Tabor, e che intorno alle tempie egli ci aveva un'aureola.

– Dunque, signora, – diss'egli accompagnando le parole con un grandissimo inchino, – poichè così volete, andiamo; io sono ai vostri comandi.

– Voi siete un gentil cavaliere! – rispose la signora Laura. – Andiamo dunque; mi sa mill'anni d'essere a casa mia.

– Questa sarebbe casa vostra, se voi voleste, o signora…

– Pazzo! – interruppe ella, e temperò la frase con un divino sorriso. – Di ciò mi parlerete più tardi… —

Così dicendo ella seguì Roberto Fenoglio nell'anticamera fino alla porta.

E qui avvenne un caso mirabile, strano, bizzarro, non mai più udito, nè visto; un caso che io potrei darvi ad indovinare alle cento, alle mille, alle diecimila, ma tanto e tanto non vi apporreste al vero; un caso che parrà inverosimile, e che infatti è inverosimile davvero, come è spesso inverosimile la verità.

Non vi è egli mai avvenuto, o lettori, di vedere un tramonto di sole, di notarne gli strani colori, i più strani effetti di luce, e dire tra voi che, se un pittore lo copiasse fedelmente, gli darebbero dell'esagerato? Non vi è egli mai occorso di udire un fatto, o non avete nella vostra storia particolare un caso tanto bislacco da farvi dire, quando ve ne ricordate, che se un romanziere lo raccontasse, non parrebbe vero a nessuno?

Orbene, uno di questi casi occorse per l'appunto ai miei due personaggi; uno di questi tramonti toccò alla mia narrazione, la quale non è un sole pur troppo!

Roberto avea posto la mano sulla chiave e faceva girar la stanghetta per aprire. In quel punto, proprio in quel punto, si udiva una forte scampanellata. Egli, sebbene quel suono improvviso gli urtasse maledettamente i nervi, non fu più in tempo a fermarsi. L'uscio si apriva sotto le sue mani, e un uomo si presentava nel vano. Questo uomo fu sollecito ad entrare, e la prima persona che egli ebbe a vedere (poichè Roberto, nello aprir l'uscio, si cansava per darle il passo) fu la bellissima Laura Moneglia.

 

Chi era costui? Perchè al veder quella donna e' dava uno sbalzo indietro, spalancando tanto d'occhi a guisa di spiritato?

Era Felicino Magnasco, che vedeva innanzi a sè la sua crudele cugina.

Fu un colpo di scena che io non vi starò a descrivere, e di certo non potrei se pur lo volessi. Il fatto, l'atto istantaneo, non si dipinge; lo scrittore non può mutarsi in fotografo.

Felicino Magnasco entrò coll'aria più impacciata che vi possiate immaginare, e ne aveva ben donde. Roberto Fenoglio non lo era meno di lui.

– Oh, buon giorno, Felicino! – esclamò egli, senza sapere che cosa si dicesse. – Che buon vento ti porta quassù? Come va la salute?

– Bene, grazie; e la tua?

– Optime, Felicino, optime; e che cosa mi frutta una tua visita così mattiniera?

– Ah sì!.. – rispose l'altro. – È un'ora indebita… giungo in mal punto…

– Ma no, Felicino, ma no… figurati! un amico come sei tu giunge sempre gradito.

– Grazie da capo; ma lasciatemi raccapezzare… – soggiunse Magnasco.

– Sì, raccapezziamoci, vuoi sederti un tratto? Signora… —

La signora Laura intese com'egli le chiedesse licenza di fermarsi ancora qualche minuto, e fe' per tornare nel salotto.

– Oh, mi rincresce di recar fastidio… – ripigliò Felicino, – ma proprio non capisco… non ricordo più perchè io sia tornato quassù… —

E il povero Magnasco, cavato di tasca il fazzoletto, si andava asciugando il sudore che gli gocciolava in copia dalla fronte.

– Ecco… – diss'egli, come furono nel salotto, – mi ricordo… Appena ti ho lasciato, son corso verso casa… Ma ho trovato degli amici sotto i portici del teatro Carlo Felice, che uscivano da cena… Essi mi hanno trattenuto colle loro chiacchiere… Poi, sono andato a casa… ma giunto a mezza scala, mi avvedo che ho dimenticata la chiave. Dove posso averla lasciata, se iersera l'avevo? Allora ho pensato che il mio pastrano l'avevo riposto nella tua anticamera, e che per conseguenza… Ma permettimi, vo subito a vederci; di certo la è cascata in qualche cantuccio… —

E senza aspettar altro, Felicino Magnasco, che non aveva ancora alzati gli occhi verso la sua cugina, uscì a precipizio dal salotto.

– Or bene, che si fa? – chiese Roberto alla signora Laura.

– Che si fa? – rispose ella. – Raccontargli… È il partito migliore.

– Oh no, signora, nemmeno per sogno! – disse Roberto. – Egli crederà che lo si voglia ingannare. Non c'è di peggio che la verità. E poi avete voi un gran tornaconto a scolparvi con lui? Già voi lo amate?

– Ma che! vi pare?

– Dunque…

– Dunque, ditegli ciò che vorrete.

– Ampia facoltà?..

– Pieni poteri. —

Era tempo che s'intendessero; Felicino tornava nel salotto.

– Ecco la chiave! – gridò egli, entrando col prezioso arnese tra le dita. – Essa era a terra, di costa al tavolino.

– Anch'io ho trovato la mia! – borbottò Roberto Fenoglio, guardando di sott'occhi madonna Laura.

Quindi, fattasi scorrere la palma della mano sulla fronte, come un uomo che ha presa una deliberazione, entrò a parlare in tal guisa.

– Felicino, amico mio, ti presento mia moglie!

– Tua moglie! —

Questo grido uscì dalla bocca di Felicino Magnasco, come il «tu quoque, Brute, fili mi?» dalla bocca di Cesare. In quel grido si distingueva la meraviglia, l'ironia, il rimprovero, e Dio sa quante altre cose ancora!

Roberto Fenoglio non s'era vantato oltre i suoi meriti, dicendo com'ei fosse nato per far l'oratore. Il discorso che gli venne fuori in quella difficilissima occasione, comunque spezzato dalle necessità del dialogo, lo ha collocato (nella mia stima, s'intende) all'altezza di Cicerone e di Demostene.