Za darmo

Tra cielo e terra: Romanzo

Tekst
0
Recenzje
iOSAndroidWindows Phone
Gdzie wysłać link do aplikacji?
Nie zamykaj tego okna, dopóki nie wprowadzisz kodu na urządzeniu mobilnym
Ponów próbęLink został wysłany

Na prośbę właściciela praw autorskich ta książka nie jest dostępna do pobrania jako plik.

Można ją jednak przeczytać w naszych aplikacjach mobilnych (nawet bez połączenia z internetem) oraz online w witrynie LitRes.

Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

– Chi sa? la voce è da amico; l’avvertimento verrà certo in buon punto. Andiamo al Martinetto. —

Si alzarono, stringendosi amorosamente per la vita. I cardellini della macchia videro ancora, un bacio lungo ed intenso, ma non lo sentirono scoccare. Quando i due giovani uscirono dal folto dei rami, il cantore non era più là; ben si sentiva la sua voce dalla parte delle rovine, che certamente egli aveva già oltrepassate, per ritornarsene a casa.

– La via è dunque libera; – conchiuse Gisella. – Seguiamo il nostro pastore. —

Quando giunsero sull’aia dei Feraudi, il pastore era là, con l’aria di non pensare a loro. Si scambiarono poche parole tra Gisella e Biancolina, apparsa allora sull’uscio; poi il contadino, guardando lontano verso mezzogiorno, disse:

– Una carrozza laggiù, al principio del paese; si avvia verso la Balma.

– È lui, il generale; – soggiunse Gisella, volgendosi a Maurizio. – Grazie, Feraudi; non c’è tempo da perdere per andarlo a ricevere. Mi accompagnate un tratto, signor di Vaussana? —

Come fu di là dai due roveri, fuor dalla vista dei contadini del Martinetto, Gisella trasse il respiro più libero.

– Vedi, Maurizio? tutto va bene. Va’, ora; riceverai una lettera, va’. —

Capitolo X.
Il trattato di pace

Maurizio era tornato al Castèu in uno stato di agitazione impossibile a descriversi. Passò in quella sua solitudine una cattiva giornata ed una pessima notte; nè migliore fu per lui il giorno seguente, nella ignoranza di ciò che accadeva alla Balma. Una cosa sapeva egli; che non vedeva Gisella, e che la montagna senza di lei era triste, il cielo buio, e cieco il futuro. Nel silenzio della sua stanza, dove egli stava di continuo con l’anima in soprassalto, come gli tornavano più chiari i dubbî, più forti i terrori, più aspri e più pungenti i rimorsi! Egli, infine, egli era il grande colpevole. Quella innocente creatura l’aveva travolta egli sull’orlo di un abisso, dove mal si reggevano ambedue: un passo ancora, un moto imprudente, ed era perduta. E forse le imprudenze non erano state già troppe? Non era l’amor loro sospeso ad un filo? il loro segreto in balìa d’un discorso incauto, d’una parola maligna, che invitasse ai sospetti? Questo pensiero lo faceva fremere; e questo pensiero gli ritornava ad ogni tratto, percuotendo con ritmica uniformità nella notte dell’anima sua, come la goccia d’acqua gemente dalla volta d’una spelonca percuote monotona, insistente, inesorabile, sulla concava superficie d’un masso.

La mattina del terzo giorno, mentre egli già più non sapeva in che mondo si fosse, gli fu portata una lettera. Non occorreva chiedere chi fosse stato il messaggero: la mano di scritto parlava chiaramente da sè. Maurizio aperse la busta con le mani convulse, lesse con occhi tremanti la lettera. Gisella scriveva:

«Signor Maurizio,

«Quello che ebbi il piacere di dirvi tanti giorni fa nel vostro Castèu, vi ripeto oggi col migliore inchiostro della Balma. Perchè non vi lasciate vedere quassù? Il generale, nostro signore e padrone, si maraviglia molto di non veder più il suo amico Sospello. Saprete pure ch’egli è ritornato alla sua residenza ier l’altro. Amitiés».

Seguiva il nome: «Gisella Matignon de la Bourdigue». E alla firma teneva dietro un poscritto, ma d’altra mano, più ruvida, più grossa, più densa d’inchiostro, come d’uomo avvezzo a non mettere che firme.

«Ma sì, mio buono, ma sì» diceva il poscritto. «Che diavolo v’ha preso di non dar passata ad eccessi di nervi, a sfoghi di malumore? Se ne avete anche voi, venite a metterli in comune. Bourdigue».

Che cos’era avvenuto alla Balma, perchè si scrivessero di queste lettere a lui? Niente di male, a buon conto; e Maurizio incominciò a metter fuori un sospiro di sollievo. Poi, diffidente com’era e amante di sofisticare su tutto, almanaccò un pezzo sul fatto che la lettera fosse scritta dalla contessa. Ma il poscritto del generale era là, e mostrava chiaramente che la lettera era stata scritta da lei sotto gli occhi del suo signore e padrone. Avesse rotto lei il ghiaccio, o lo avesse rotto lui, la conseguenza era una sola: che gli si facevano garbatamente delle scuse, che ogni nube era dissipata, e che egli poteva andare alla Balma. Ora, il poterci andare significava doverci andar sùbito.

Il tono gaio della lettera significava ancora che tutto procedeva benissimo alla Balma. Come sono avvedute le donne! come sanno l’arte di farsi intendere, anche quando non vi dicono nulla! A proposito d’arte, non c’era egli un po’ di finzione, un pochettino d'ipocrisia tra le linee, specie in quell’accenno ad una visita al Castèu? No, perchè quella visita c’era stata difatti, e in quella visita la contessa aveva detto cerimoniosamente al signor di Vaussana quello che più volte, nei confidenti colloquii della montagna, Gisella aveva fatto intendere e dato per sicuro a Maurizio. Dunque, niente ipocrisìa nella lettera, solamente accortezza. Che, forse, per non apparire ipocriti, s’ha egli a dire ogni cosa? Maurizio, frattanto, per quel cenno della visita di Gisella al Castèu, sapeva già come regolarsi alla Balma, quando avesse da incontrar la signora in presenza del generale. Come sono avvedute le donne!

Andato quel medesimo giorno, e con aria di sollecitudine che rendeva più bello il suo atto, fu accolto a braccia aperte. Le aspre discussioni erano dimenticate, e non era neanche il caso di farci la più lontana allusione. D’altra parte, la montagna aveva custodito il suo dolce segreto: il viso che accoglieva era sereno, l’occhio limpido, il labbro sorridente.

Maurizio non ricevette senza un po’ di vergogna quelle dimostrazioni di amicizia. V’hanno principii che non si offendono impunemente: la coscienza può sonnecchiare, non addormentarsi del tutto; ed anche quando è lento a venire il rimorso, la colpa si definisce da sè nel segreto dell’anima, si accusa in un vago senso di malessere nel profondo del cuore. Ma tanta gioia brillava sul volto di Gisella; tante faville d’oro si sprigionavano da quegli occhi d’indaco, che egli, superato il primo momento d’angustia, non volle vedere, seppe non vedere più altro. Se era tranquilla lei, perchè doveva esser da meno il signor di Vaussana? Se appariva così confidente lei, donna, perchè sarebbe stato egli, uomo, meno disposto a sommergere ogni molesto pensiero nella sensazione profonda di un amore, che era dopo tutto la sua vita, la sua felicità, la sua gloria?

Intendiamo che cosa sia questa gloria. Essa non è certamente la soddisfazione di un grosso egoismo, di una piccola vanità, di una ambizione volgare. È anche gloria, è gloria sopra tutto la luce viva di cui si cinge il gran sole, l’aureola di raggi onde s’intorniano le fronti dei beati, la cerchia profonda di teste adoranti e d’ali tese in estasi divina, onde l’arte ideale ha circondata la santità trionfante. Gloria è l’amore nella pienezza sublime delle sue contentezze, quando ha confuso due esseri che si sono lungamente cercati e intensamente voluti; due vite che si librano in alto, posando immobili in certe lor calme serene, pari a quelle dell’ora meridiana, quando sopra una medesima linea di mare si vedono posare due bianche vele latine; le quali, assai più che di far viaggio, sembrano compiacersi di gettare agli occhi del riguardante un lungo riflesso, immobile al par di loro, su quelle onde chete dove la luce si addormenta e il calore si spegne nella tonalità vaporosa del quadro. Dolce abbandono sul mar senza vento, con molta luce diffusa dall’alto e con molta pace dintorno: una luce che par così diafana, ma in cui l’occhio non vede; una pace che par tanto profonda, ma in cui l’intelletto non pensa.

Maurizio, per intanto, non pensava più che alla sua grande felicità. «Dio mio» diceva egli in cuor suo «se questo è un sogno, fate che duri, fate che io non mi svegli». Ma ascolta Iddio tutti i voti?

Il generale era grandemente mutato da quello di prima. Il recente viaggio gli aveva dato una scossa benefica al sangue. Aveva sentiti i tamburi, le musiche militari; si era tuffato nella prosa robusta della caserma, nella dolce poesia del gran rapporto, e ne era uscito rifatto come da un’altra fontana di gioventù. Gli esperimenti della polvere senza fumo lo avevano mandato in visibilio; gli avantreni di nuovo modello, il nuovo zaino della fanteria, il nuovo cannone dell’artiglieria di montagna, le nuove combinazioni chimiche in ite con cui l’amorosa umanità si prepara alle gioie della pace universale, lo avevano intenerito, ritemprato, rinvigorito, esaltato. In ogni ragunata dei vecchi compagni d’armi il gran verbo della patria era suonato ben alto. Bravi soldati, che l’abuso della filosofia non è ancor venuto a guastare! Ai pranzi solenni, ai punchs, agli absinthes, ai vini d’onore, si era parlato spesso e volentieri di rivincita, e il ringiovanito Bourdigue aveva promesso in parecchi brindisi che tutti i vecchi si sarebbero trovati al loro posto di combattimento. «Coûte que coûte!» soggiungeva. «Sono ancora saldo in sella. Vorranno ben darmi una brigata di mobiles! E per riguadagnare il perduto non si sarà mai in troppi».

Di tutte queste cose ragionava liberamente col signor di Vaussana, spesso dimenticando che parlava ad uno straniero. Maurizio stava a sentire, mostrando d’interessarsi al discorso, e, quando la nota della revanche squillava più alta, facendosi più piccino che poteva, quasi cercando, in quella specie di rannicchiamento morale, di far sparire l’immagine della propria nazionalità. Incominciava anch’egli ad esser vile, vile di quella tacita compiacenza, di quella spontanea complicità ond’è largo qualche volta anche un uomo di valore, verso chi è in casa sua il padrone, e non solamente il padrone della casa. Ascoltava, sorrideva, approvava, dando a quell’uomo la grata illusione di aver sempre davanti a sè il suo consenziente uditorio. Frattanto vedeva Gisella con la coda dell’occhio; e questo lo faceva restare immobile al fuoco di quella eloquenza soldatesca, che era poi tutti i giorni la stessa.

 

Gisella, pur troppo, non era sempre là a consolarlo delle sue lunghe fatiche; non istava più tanto ferma in salotto, nella sala del biliardo, o sui sedili della spianata. Gisella andava e veniva, aliando come una farfalla. Immensa gioia, vederla ricomparire ad ogni tanto, radiante apparizione di vermiglio e d’oro; ma qualche volta accadeva che la bellissima creatura lo lasciasse solo per ore ed ore, a tu per tu col generale concionante. S’intende che di quelle assenze sue, di quei sacrifizi di lui, lo compensava ad usura nei brevi momenti che poteva concedergli.

– Caro! – gli bisbigliava. – Come ho sofferto, a lasciarti, andando senza di te a vedere i figli di Biancolina! Ma ho pensato a te, sempre. Bella strada, che ho fatta tante volte con te! Domani, non è vero? alle undici; se dovessi ritardare dieci minuti, mezz’ora, non sarebbe colpa mia, lo puoi credere. Il nostro caro nido nel verde, dove soltanto ci pare di poter dimenticare ogni cosa!..

– Per troppo brevi momenti! – mormorava Maurizio, sospirando.

– Non son meglio che nulla? Pensate, bel cavaliere, che se mi aveste sempre al vostro fianco, verrebbe il giorno che vi… No, no, – soggiungeva, lasciando in tronco la frase, – perdonami, ho detto per celia. Mi piace tanto di vederti fare quella cera lunga lunga! Sei bello, anche quando vai in collera. E ti amo tanto, Rizio, ti amo tanto! —

Rizio per lei, Maurizio per quell’altro, il signor di Vaussana era diventato l’amico necessario, il consigliere intimo, l’aiutante discreto di tutt’e due. Sì, certamente, di tutt’e due, senza che ci fosse modo o ragione di adombrarsene. Il generale, strano uomo e piuttosto disuguale d’umore, trattava sempre la moglie come una bambina. A certi momenti, Maurizio poteva figurarsi che quella divina creatura, posta tra lui e quell’uomo dal cieco destino, fosse per quell’uomo una nipote soltanto. E che discorsi curiosi gli toccava di sentire! discorsi che lo facevano fremere, tremare, impallidire, sudar freddo. Un giorno dovevano mettersi tutti e tre in viaggio, fare una corsa (una punta, diceva il generale) fino a Ventimiglia. Il tempo era bellissimo; si andava in vettura scoperta, come ad una passeggiata. La carrozza era già da un pezzo sulla spianata; da un quarto d’ora i cavalli facevano la ciambella sulla ghiaia, e la contessa, andata a mettersi il cappellino e a prendere la sua mantiglia, non si vedeva comparire. Gisella in quelle occasioni non era mai pronta; e il generale, che tante volte si spazientiva, tuonando contro la vanità delle donne allo specchio, era quel giorno di buon umore.

– Venite, Maurizio; – diss’egli ad un certo punto; – andiamo a vedere che cos’ha la nostra signora, che si fa tanto aspettare. —

La nostra signora! Per quella volta, davvero, Maurizio si sentì correre il sangue dal cuore alla testa, e sùbito dalla testa al cuore. Era diventato egli in viso come una brace, o come un cencio lavato? Non ne sapeva nulla; ma si spaventò ad ogni modo, pensando che il suo improvviso mutar di colore fosse notato da quel terribile uomo che era così spesso un fanciullo.

Un’altra volta era lei che nella sua cara ingenuità faceva anche peggio. Si mutava la disposizione dei mobili e la destinazione di una camera; si dovevano collocare certe tendine bianche con liste riportate di ricamo rosso, opera d’un inverno della contessa Gisella. Era un lavoro delicato, quello di mettere a posto le tendine nuove: ma era anche facile, non richiedeva un grande ingegno, nè una pratica speciale. Del resto, nell’arredamento del Castèu, e più particolarmente del quartierino di Maurizio, il padron di casa aveva voluto dirigere, far lui ogni cosa, cavandosene con molto onore, come diceva la contessa Gisella, con mediocre infamia, come diceva modestamente il signor di Vaussana. Così era avvenuto che per quel piccolo lavoro alla Balma, la perizia dell’amico necessario, del consigliere intimo, dell’aiutante discreto, fosse posta a contribuzione. Il generale aveva accolta con gioia quella occasione di far qualche cosa; e là, senza metter tempo in mezzo, si era incominciato una mattina a lavorare, non volendo manifattori nè servi ad aiutare. Due camere erano sottosopra, per arredarne una; si andava e si veniva, si spostavano sedie e canapè, si trascinavano tavole, si abbambinavano stipi, si appendevano quadri in isporto; finalmente si collocavano in opera quelle sacre tendine. Il generale ai piedi della scala doppia, tenendone con mano ferma gli staggi mastiettati; Maurizio lassù, appollaiato sugli ultimi piuoli, per far combaciare gli anelli del padiglione dorato coi becchi degli arpioni al muro; così, lavorando e sudando, dimenticavano l’ora della colazione.

– Ah, bravi! – aveva gridato la contessa, apparendo sulla soglia. – Bravi i miei uomini! così va bene. —

Altro che arrossire e impallidire a vicenda! Maurizio balenò sulla scala, e fu lì lì per cascar sulle braccia del suo compagno di fatica.

– Ma non vi pare che basti, per mezza giornata di lavoro? – ripigliava Gisella. – La zuppa è in tavola; i miei uomini l’hanno ben guadagnata.

– I vostri uomini, contessa, – rispose Maurizio, tratto da una forza arcana a ripigliare la frase che lo aveva fatto tremare, – meriterebbero piuttosto d’esser mandati a sfamarsi in cucina, tanto si trovano male in arnese. —

Il generale rideva. Quel discorso gli pareva certamente in carattere col lavoro che egli e il suo amico Maurizio facevano da tre ore. Ed era contento di passare per un manifattore. Gli uomini son sempre contenti, quando fanno qualche cosa che richieda sforzo di muscoli; hanno così l’illusione di maneggiar la leva di Archimede e di muovere il mondo.

Del resto, i giorni di buon umore non erano neppure tanto rari per il signor della Balma. Anche parecchi mesi dopo il viaggio di Francia, in cui si era, come diceva lui, rifatta la mano, il generale sapeva ridere e scherzare a certe ore del giorno; le ore piene, quando abbiamo chi ci ascolta, se vogliamo parlare, chi parla, se vogliamo tacere, chi si piega e si adatta a tutti i capricci dei nostri nervi invecchiati.

In quelle ore tutto andava bene; ed anche la bambina, con le sue moine, con le sue vanità di donna, pareva un’eccellente compagnia a quel vecchio brontolone.

– Che diavola! – diceva allora a Maurizio. – Fa quel che vuole. È il folletto della casa. Come starebbe bene alla testa della brigata… o della divisione! Mah! – soggiungeva egli, con un sospirone da Mongibello in procinto di dar fuori; – ho fatto una grossa bestialità a lasciare il servizio. Anche voi, mio buono, anche voi!

– Anch’io; – ripeteva Maurizio, sforzandosi di trarre un sospiro a sua volta.

– Ah! – ripigliò il generale. – Se fossimo rimasti al nostro posto, anche mandando giù qualche amaro boccone, non dovremmo pregar nessuno per esser riammessi nei quadri; e il primo suono di tromba ci troverebbe in prima linea. Ma che diamine! ora che ci penso… non saremmo mica insieme, amico Maurizio! Voi forse coi vostri amici Tedeschi…

– Non me ne parlate, generale! – diceva Maurizio, con aria di costernazione. – È orribile.

– Ah! lo riconoscete? lo sentite anche voi, che è orribile! Ma perchè, domando io, perchè venire a queste estremità? —

Maurizio lo sapeva benissimo, il perchè ed il percome; ma aveva preso il verso di dar ragione al suo interlocutore. Ora, tra i modi di dargli ragione c’era anche quello di non saper che rispondere; ed egli già si disponeva a tacere, sospirando da capo. Ma in quel punto gli passò un’idea per la mente; la colse al passo, come si afferra una tavola di salvezza.

– Credo, – diss’egli, timidamente, – che gli avvocati ci abbiano imbrogliate le carte.

– Gli avvocati? oh, sì, dite bene, gli avvocati. Gran brutta gente, gli avvocati, che con le loro ciarle vi fanno il buio di pien meriggio. Tra noi soldati ci saremmo intesi, amico Maurizio: questo a te, questo a me, donnant donnant, e tutti pari. Noi a Tunisi, senza Crumiri; voi a Tripoli, senza dir ai nè bai; noi in Egitto, e voi in Abissinia; noi a Metz e Strasburgo, voi a Trento e Trieste, che bel fatto! et pas plus malin que ça. —

Così l’uno tagliando dalla pezza e l’altro approvando del capo, l’uno dicendo Deo gratias e l’altro cum spiritu tuo, si faceva, di sopra ai trattati e in barba ai loro custodi, la gran pace dell’avvenire. E le cose andavano. Maurizio era diventato per quell’uomo un altro Dutolet, anzi meglio, perchè il Dutolet approvava tacendo, e Maurizio approvava parlando. I facili discorritori amano che qualche parola si metta in mezzo ai loro discorsi; almeno quando essi hanno la bontà di ricogliere il fiato. La politica del generale passava adunque senza contrasti. Per contro, e quasi per compenso, il generale cedeva sul capitolo della religione, non toccandone mai. Aveva torto; poteva sfogarsi oramai anche su quell’argomento, perchè Maurizio, com’era ridotto dalla sua condizione, lo avrebbe lasciato dire a sua posta.

Capitolo XI.
Rifugio spirituale

Peccato che in mezzo a queste calme fossero ancor troppo frequenti i giorni di nervi! Il generale non era paziente per natura: non solo ogni contrarietà lo stizziva, il che può accadere a tutti; ma ogni lentezza, ogni più piccolo indugio, ogni inerzia naturale delle cose che lo circondavano, e che perciò dovevano dipendere da lui, lo faceva andare fuori dei gangheri. Avvezzo alle sonorità del comando, parlava troppo spesso con voce di tuono; e nel tuono della propria voce si eccitava, si riscaldava, s’infiammava sempre più, anche per cose da nulla. Nessuno toccava i libri della sua biblioteca; libri d’arte militare, annuarii, regolamenti, statistiche, a chi sarebbe mai venuto in mente di leggerli? Se qualche volta non si trovavano a posto, la colpa non poteva esser che sua. Ma no, non era sua, era di tutti, quando cercava e non trovava il fatto suo; e guai, allora, guai a tutti! era un diavoleto, un finimondo.

Degli abiti non era molto curante; abiti borghesi, robaccia! non meritavano di occuparsene troppo. Nella biancheria era più sofistico: quella toccava la pelle e poteva dar noia. Così, le sue camicie dovevano aver la salda e non averla, abbracciare il collo e non stringerlo, non farsi sentire per nessuna costura. Quando, per troppa salda di quelle, o per subitaneo ingrossamento delle corde del collo, si sentiva nulla nulla a disagio, ficcava due dita nel colletto, e crac! strappava senz’altro, bestemmiando la cameriera, che fuggiva nella sua camera a farsi il segno della croce. Se non trovava lì per lì le sue cigne, era un guaio dei grossi: peggio poi se, dopo averle trovate, e cercando di abbottonarle, gli mancava o gli ballava il bottone nella cintura dei calzoni; la cameriera poteva credere venuto l’anticristo.

– Ettore! – si provava a dirgli la contessa, a cui dispiacevano quelle scene, ma ancor più di sentir sgridare a torto le persone di servizio. – Sai bene che non è lei. Son io che mi prendo cura dei tuoi abiti! son io che faccio sempre queste cose.

– E non capisco perchè tu lo faccia; – ribatteva egli, inasprito.

È proprio dell’uomo il non capire certe cose, specie in materia di delicatezze domestiche. Era così l’altro Ettore? Verrebbe voglia di crederlo. Infatti, lui morto, la bella vedova passò a seconde nozze con Neottolemo, e in terze con Eleno.

A taluna di quelle scenate era presente il signor di Vaussana, che non ci poteva far niente. Gisella chinava la fronte, dopo aver guardato Maurizio, con aria di volergli dire: «Vedete? non son mica tutti come voi, che apprezzate tanto questa povera donna».

Un giorno ella capitò all’Aiga col volto acceso e gli occhi rossi. Maurizio non l’aspettava ancora, ed era lassù al dolce nido per la sua prudente consuetudine di andar sempre al ritrovo due o tre ore prima del tempo. E dell’ora insolita e della strana animazione del volto di lei, Maurizio si maravigliò grandemente.

– Ti dispiaccio forse? – diss’ella.

– Ecco una parola ben crudele, – osservò tristamente Maurizio. – L’ho io meritata, notando una novità d’orario nella vostra cara venuta? Voi siete alterata, Gisella; avete anche pianto. Che cosa è stato? Una delle solite sfuriate, oppure…

– No, non cercate altro; – interruppe Gisella. – Una delle solite, ma un po’ più brutta delle altre, poichè dalle parole è passato per la prima volta agli atti. E per una cosa da nulla, avendo torto su tutti i punti. Gli avevano portato il caffè tiepido, gran delitto! Ed egli lo voleva bollente, per questa volta, senza averlo detto prima, mentre ordinariamente si lagna che glielo portino troppo caldo, facendogli perdere il tempo a sorseggiarlo. E perchè io mi ero provata a calmarlo con una buona parola, sapete come mi ha risposto? Scaraventandomi la chicchera addosso. Che ve ne pare? Un bambino viziato non farebbe peggio del mio vecchio padrone. Non ho detto una parola, non ho fatto un gesto, ricevendo l’offesa villana, alla presenza del servitore; sono andata a levarmi la veste macchiata, ne ho indossata un’altra, ho preso il cappellino, mentre egli era là a far le volte del leone in gabbia sul pavimento dell’atrio.

 

– Prima della colazione! – notò Maurizio. – Che imprudenza!

– Ah sì, raccomandatemi ancora di esser prudente. Se egli è pazzo, ho da esser savia io, che sono dei Matignon come lui? La prenda poi come vuole; io non intendo più di esser trattata come una bambina, nè come una schiava. Dopo quella villania, poi! È la prima, e deve bastare. Guai se incomincio a passargli le sue brutalità. Perchè oramai si va di male in peggio; ed io non ne posso più, non ne posso più. —

Così dicendo, la bella scorrucciata si era seduta sul sedile di pietra e con ritmo convulso batteva il suo ombrellino sulle ginocchia. Maurizio si fece daccanto a lei, e le bisbigliò dolcemente all’orecchio:

– Sei tu che l’hai voluto, bambina!

– Io? – diss’ella, rizzando la testa.

– Così dicono tutti; – rispose Maurizio.

– Io… – ripigliò Gisella, con accento di amarezza. – Io, per vostra norma, non ho voluto nessuno. Me ne ricordo benissimo: non è storia di cent’anni fa. Non sapevo nulla di uomini, io; non avevo conosciuto che il mio babbo, un cuor d’oro, che mi lasciava fare a modo mio in ogni cosa. Morto lui, caddi in una tristezza profonda. Voi non sapete, Maurizio… non potete immaginarvi, essendo un uomo, come sia triste per una fanciulla restar così senza padre e senza madre sulla terra. È la solitudine in mezzo alla folla, è la notte dell’anima nella luce del giorno. Mi avevano fatto un consiglio di famiglia, mi avevano dato un tutore. Era un gentiluomo, lo zio; mi pareva tale; dovevo essergli grata di un sacrifizio inaudito, che tutti dicevano aver egli fatto per me, chiedendo di esser messo in disponibilità, lasciando il servizio, interrompendo la carriera. Mi trattava come una bambina, sì, ma ancora con molto rispetto. E un giorno mi fecero dei discorsi molto strani, che non mi parvero orribili. Ma che cosa sapevo io del mondo? Mi pareva fin naturale che egli volesse dedicarsi a me, essermi compagno nella vita, tenermi luogo di padre. Così fui data a lui, a lui che tutti dicevano buono, che io credevo buono come lo dicevano tutti. Ma non lo è, non lo è, non lo è; ha lo spolvero della bontà; nel fondo non è che un soldataccio brutale. Una donna, per lui, non è che un servo, un dipendente: la tratta bene, alle sue ore, come tratterebbe il suo aiutante, il suo attendente, a certe ore del giorno: poi, quando ha le lune, grida, strepita, tempesta, che pare un ossesso. Ed anche quando non è di cattivo umore, che credete? che sia appena appena tollerabile? Ha il comando nel sangue, ama il comando in tutto, il comando che annoia e che irrita. Ha bisogno di una cosa che è lì sotto la mano? Gisella. E subito Gisella deve esser lì, trovar lei, qualche volta indovinare ciò ch’egli vuole. Si sveglia nella notte, e non può riprender sonno? Gisella. E bisogna svegliarsi. Io dormo volentieri, e sogno bene; – soggiunse ella, mettendo il primo sorriso nel suo triste discorso; – ma bisogna star su e correr da lui, per discorrere. Se almeno volesse, come i bambini, farsi raccontare qualche favola! Ma no, discorsi gravi, faccende di casa, delle quali si potrebbe ragionar meglio a giorno chiaro; più spesso si gira a parlare di vecchie malinconie; della vita militare, del servizio lasciato, della carriera interrotta. Oh, non tralascia allora di farmelo sentire, il gran sacrifizio che ha fatto! Perchè lo ha fatto? chi glielo ha domandato?

– Capisco, – disse Maurizio, – è nel fondo un grande egoista.

– Sì, dite bene, un grande egoista. Amico mio, son pure infelice. Che vita sarebbe la mia, se non avessi il tuo amore? È il mio rifugio tanto caro. E come sono corsa a te, l’hai veduto? come ti ho sùbito indovinato! come ti ho sùbito accolto! È stata una buona stella che ti ha ricondotto quassù, alla terra dei tuoi padri. Se tu avessi tardato, o Rizio, se tu avessi tardato ancora a giungere in questo deserto, in questo orribile deserto, credo che ci sarei diventata tisica, e mi avrebbero presto seppellita laggiù, come una santa, nel piccolo chiostro di San Giorgio. E le avrei fatte meravigliar bene della mia compagnia, le povere sante dei Matignon… se pure è vero che di là possiamo ancora maravigliarci di nulla.

– Già! la mia bella incredula; – notò Maurizio, con un placido sorriso. – Ma come fai a non credere?

– Dimmi tu come si fa a credere, – rispose Gisella.

– Pensando… pensando molto; – diss’egli.

– Se bastasse il pensare! – esclamò la bella creatura, sospirando. – Ho pensato già tanto, io! Vorrei pure averla, una fede. Perchè questa vita è assai dura, e da qualche tempo incomincia a diventarmi intollerabile.

– Da qualche tempo! – ripetè Maurizio, con accento di tristezza. – Dunque… per me?

– Ebbene, sì, per te. Pensi tu che non sia doloroso non potermi rifugiar sempre in te? Soffro, amico mio, paragonando questi brevi momenti alle lunghe ore del mio martirio quotidiano. Ah, sono ben lunghe, e il compenso di questo martirio bisognerebbe pure ottenerlo di là. Averne la speranza e la fede, che fortuna! Ma non posso; credo che mi manchi la… come si dice?

– Non lo dire, e non lo far dire da me; – rispose Maurizio, vedendo che Gisella si era recato l’indice alla fronte. – Coloro che vogliono collocare le facoltà dell’anima in altrettanti punti più o meno rilevati della testa, saranno poi tirati a conchiudere che la loro testa è imperfetta, se le manchi il ricettacolo dell’ideale. Pensa, senti e credi; vedrai allora che, credendo in qualche cosa, non si è, a peggio andare, niente più sciocchi di loro.

– Voi ne parlate molto facilmente, Maurizio; ma non può creder chi vuole, solamente pensando e sentendo. Voi ci avevate… non dirò già quella brutta cosa che vi dispiace tanto, ma almeno la strada fatta, l’indirizzo della vostra prima infanzia. Non è così? Hai dette le tue orazioni da bambino, ed io non le ho dette; te ne sei ricordato da giovane, ed io non ho avuto niente da ricordare; poi, più tardi, sul mare, in mezzo ai pericoli della tempesta…

– No, no, – interruppe Maurizio, – queste belle labbra non dicano di queste brutte cose, che non sono vere, che non sono state tali, almeno per me. Non fu il pericolo, quello che mi ha richiamato alla fede: non fu l’abitudine, quella che me l’ha instillata nell’anima.

– Allora, volete voi dirmi come andò?

– Sarebbe un troppo lungo discorso; – rispose Maurizio. – E voi, ora, mia dolce creatura, ritornerete a casa… per farmi piacere. Vedi? – soggiunse stringendola fra le sue braccia, – ti mando via. Ma tu sai bene che ti terrei tanto volentieri?

– Sì, amico mio; non dubito già io di voi, come voi dubitate qualche volta di me. So bene che ho fatto un colpo di testa. Ci voleva, sai? e non ne sono pentita. Ma è forse meglio ritornare un po’ prima. Vedi tu, Rizio, come credo… in te? Ma ancora voglio credere in ciò che tu credi. Convincimi, persuadimi, e sentirò che mi ami tanto, tanto, da non potersi immaginare, nè desiderare di più.

– Ahimè, quali patti! – esclamò Maurizio. – E se con tutta la miglior volontà del mondo, la mia eloquenza non fosse da tanto? Poi, avremo mai tempo per discorrere a lungo, per raccontarti… come andò? Sono cose dell’anima, e il dirle brevemente è difficile.