Za darmo

Tra cielo e terra: Romanzo

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Maurizio era lì lì per domandargli: – E voi, Pinaia, di che razza siete disceso? – Ma non volle aver due litigi in un giorno, cascando dal generale al fornaio. Si contentò in quella vece di dirgli:

– Sentite, Pinaia: quella gente mi preme. Può esser vero quel che voi dite; può anche non esser tale, e in questo caso io avrei rimorso di non essermi interessato per le loro disgrazie. È giusto nondimeno che abbiate il fatto vostro, aggiustiamola così: se non pagheranno loro, pagherò io.

– Quand’è così, non parlo più, e al Martinetto, non domanderò più un quattrino.

– No, non correte tanto; – disse Maurizio, che già temeva di parergli troppo generoso. – Volevo dire che vi sto garante, sicuro come sono che pagheranno… entro il mese.

– Non me ne parli; non posso aspettar tanto le buone grazie del Feraudi. Passerà il mese e non avrò nulla; ci metterei la mano sul fuoco, tanto ne sono sicuro. Se devo aspettare il mio denaro da Lei, passi tutto il tempo che Le piacerà, signor conte.

– Ah no, questo, no; io non ho l’uso di farmi far credenza; – disse Maurizio, alterato. – Sono dugento cinquanta lire, avete detto? Eccole qua; – soggiunse, mettendo mano al portafogli. – Voi me le restituirete, appena il Feraudi vi avrà pagato. —

Il denaro è sempre buono a prendersi. Mastro Pinaia allungò la mano.

– Le faccio la ricevuta, signor conte. Se ha la bontà di aspettarmi un minuto…

– No, a vostro comodo, Pinaia. Me la manderete domani. E grazie, non è vero?

– Lei è troppo buono, signor conte; – rispose mastro Pinaia, facendo le viste di non aver capita l’ironia.

– Sia pure; – rispose Maurizio, che voleva mostrare di aver capito il complimento del fornaio arpagone. – Ma vi pregherò di non ridirlo a nessuno. Non vorrei che mi metteste sulle braccia tutti i debitori morosi di San Giorgio. Il povero Castèu e quella poca rendita che mi fa vivere ci passerebbero in un mese.

– Lei ha ragione a tener poca terra, signor conte; – conchiuse il fornaio. – Anch’io, nel mio piccolo, voglio far come lei. Tutta rendita, tutta rendita dello Stato vuol essere. —

Nauseato del fornaio arpagone, ma contento altrettanto di sè, Maurizio prese la via del Castèu. I suoi libri, quella sera, lo trattennero lungamente a pensare. – Quanta roba! – diss’egli, passando i suoi scaffali in rassegna. – E buona e cattiva; ci sono armi per tutti. Ed anche la buona diventa cattiva, per chi se ne serve alla rovescia, senza paragonare, senza mettere a contrasto, senza far la parte delle conclusioni frettolose. —

Quella, notte portò in camera un volume del suo Cournot: Matérialisme, Vitalisme, Rationalisme, ed anche, per riscontrare alcune preziose citazioni, Les Origines del Pressensé. Buoni libri erano quelli. Anch’egli aveva avuti i suoi dubbi; anch’egli aveva tratte le frettolose conseguenze dallo studio di certi fenomeni naturali, di certe teoriche evolutive; quei libri, insieme coi suoi trattati di astronomia, e con gli studi fisiologici del Pasteur, lo avevano ricondotto in carreggiata. Ed anche aveva vedute certe conclusioni di Herbert Spencer a proposito dell’inconoscibile, certe confessioni dello Stuart Mill a proposito della creazione, donde gli era apparso il dubbio del dubbio, cioè a dire la modica fede di quei grandi maestri del pensiero moderno intorno alla saldezza dei loro proprii sistemi. Infine, aveva ragione lui. È giusto, è desiderabile che la scienza positiva, che dubiti di tutto, che tutto rimetta in discussione e sottoponga nuovamente ad esame, distruggendo, ma col proposito di riedificare. Così era avvenuto in materia d’antichità, per la storia delle origini Romane, che dopo aver negato ogni fede a Tito Livio e a Dionigi d’Alicarnasso, si ebbe ancora ricorso a quei due disgraziati, perchè aiutassero a rimettere in piedi il loro edificio crollato.

Il giorno seguente, all’ora solita, forse qualche minuto dopo, anzi che prima, il signor di Vaussana rifece il gran viale della Balma. Perchè il gran viale e non il sentiero del bosco? Mah… non indaghiamo certi arcani del cuore. Quel giorno egli andava un pochettino come la biscia all’incanto, lassù. Ma era necessario; aveva promesso alla signora. E fors’anco il generale si era mutato da quello del giorno innanzi. Ma no, sarebbe stato un miracolo; e Maurizio, con tutta la sua fede, non credeva ai miracoli.

Per dargli ragione, quel giorno il signor generale era aggrondato. Stava giocando a picchetto col capitano Dutolet; forse perdeva. All’arrivo di Maurizio si degnò di smettere il giuoco; facile sacrificio per coloro che pèrdono. La contessa Gisella stava ricamando, accanto alla finestra.

– Grazie; – gli disse ella, appena lo ebbe veduto comparire. – Il dottore è già stato tre volte al Martinetto; due ieri, e una stamane. La nostra ammalata va discretamente. C’è anche una donna del paese per aiuto. L’avete mandata voi?

– No, signora; ma ne avevo parlato al dottore, ed egli avrà provveduto.

– Siete dunque voi egualmente. Così i piccini son governati, e l’inferma è tranquilla; grazie ancora. —

Il generale stava in contemplazione davanti a sua moglie. Maurizio, per non aver aria di parlar sempre con lei, gli rivolse il discorso.

– Ebbene, generale, ci avete pensato? —

Il generale fece il gesto dell’uomo che non si ricorda alla prima; poi, dopo una spallata, rispose:

– No caro, non ho voluto perdere il mio tempo. —

La risposta era dura, ed anche ruvida parecchio. La contessa alzò gli occhi attoniti, per guardar suo marito. Ma egli in quel punto non guardava sua moglie, e non colse al volo quell’occhiata di rimprovero. Maurizio balenò un tratto, non sapendo che rispondere. E forse non era da risponder nulla; forse il generale non si sentiva bene quel giorno, ad onta del suo fiorente aspetto, della sua pelle vermiglia. Il tempo non era neanche buono; certamente gli dava ai nervi il vento di mare, così molesto, così uggioso in montagna, dove giunge sempre con un gran corteggio di nuvole.

Ci fu un altro silenzio tra i due, ma non così lungo come quello del giorno innanzi. Il generale non aveva veduto, ma certamente aveva sentito o indovinato lo sguardo di sua moglie; perciò credette necessario di ripigliare il discorso, e per salvare le apparenze, ed anche per tirare le somme.

– Noi siamo, signor di Vaussana, due edificatori di piramidi. Voi vorreste che io fabbricassi la mia coi vostri materiali. Vi ringrazio, ma non ne ho bisogno. Costrutta coi miei poveri mattoni, la mia si regge, come la vostra col suo vecchio granito. Segno, per uscir di metafora, che i nostri sistemi sono due rispettivi concepimenti del nostro spirito. Vi ricorderò a questo proposito ciò che ho sentito dire un giorno a Parigi da una gran dama russa, a cui si domandava in che consistesse la vantata ortodossia della religione sua, che era, dopo tutto, scismatica: «l’orthodoxie c’est ma doxie à moi; l’étérodoxie c’est votre doxie à vous». Voi con le… opinioni del passato siete ortodosso; io sono tale con quelle del presente, e trovo nella teorica del Laplace, come nelle esperienze di Carlo Darwin e nelle dimostrazioni dell’Huxley, una spiegazione sufficiente dell’universo. La materia eterna e la legge immanente nella materia mi dànno ragione di tutto. Sto coi matematici, poi, e non moltiplico gli enti, che mi farebbero doppio e mi porterebbero ingombro. Ho detto, e vi saluto. —

Poteva essere una chiusa faceta, o mostrava almeno l’intenzione di parer tale. Ma sicuramente ce ne potevano esser di serie, che non lasciassero tanto amaro nell’anima. Del resto, a mostrare che quell’intenzione non c’era, il generale fece una giravolta sui tacchi, e se ne andò via zufolando.

– Ettore!.. – mormorò la signora.

Ettore si voltò, all’accento di rimprovero d’Andromaca; si voltò, ma era già in fondo al salotto.

– Ma sì, – gridò egli, stizzito, – che ci vuoi fare? Bisogna bene finirla così, una discussione come la nostra, che è già stata fatta un milione di volte, senza riuscire a nulla di nulla. Sono curiosi, questi nostri amici italiani, con la loro fede incrollabile! È un vizio di razza, lasciatevelo dire, signor di Vaussana, è un vizio di razza. —

Si andava di male in peggio. Maurizio durò una fatica inaudita a contenersi. Ne venne a capo, guardando i capelli bianchi di quel diavolo d’uomo; poi, con voce un po’ stridula, quasi sibilante, ma col sorriso sulle labbra, si contentò di rispondere:

– Ed è per guarircene, che delle nazioni civili si studiano di restituire la nostra capitale alle condizioni di Benares, la città santa dell’India. —

Il generale non ascoltava già più; usciva dal salotto borbottando.

La contessa aveva chinata la faccia sul suo telaino, nascondendo la ciglia. Quando le alzò, Maurizio c’intravvide una lagrima, e si turbò fortemente. Dopo un istante di pausa, guardò l’orologio.

– Sono le quattro, – diss’egli; – debbo partire.

– Già? – mormorò la contessa.

– Signora, – rispose egli ad alta voce, tanto che potesse udirlo il capitano, che stava nel vano dell’altra finestra, leggendo un giornale, – ero venuto per voi, volendo darvi notizie della commissione che mi avete affidata. Ora ho qualche cosa da fare. Forse dovrò anche assentarmi per qualche giorno.

– Ah! – diss’ella, guardandolo negli occhi.

– Sì mia signora, una corsa fino a Genova. Non si lascia il servizio da un giorno all’altro, come ho fatto io, senza che resti qualche faccenda da terminare. Aspetto oggi stesso una lettera; se non la ricevo, dovrò partire domattina per tempo. —

La contessa Gisella lo guardò ancora, poi chinò gli occhi e la fronte, in atto rassegnato.

– Se non ci vediamo, buon viaggio, signor Maurizio, e possano tutta le cose andare secondo i vostri desiderii. —

Una stretta di mano, lunga e forte, disse a Maurizio ch’egli era stato compreso, e ch’egli aveva ragione.

Capitolo VI.
Sulla montagna

L’alzata d’ingegno dell’orologio e dell’appuntamento, già vecchia di ventiquattr’ore, ma non adoperata lì per lì, era tornata in buon punto alla mente di Maurizio. Se non l’avesse avuta a mano dal giorno innanzi, certo, scombussolato com’era dalla sgarbatezza del signor generale, non sarebbe riuscito a trovare una gretola. In quella vece, fortunato lui! una bugia preparata tirandone un’altra, quella del viaggio necessario, il signor di Vaussana si ritrovò più presto che non pensasse fuori dell’uscio. Troppo forte, per verità, la sua disperata invenzione, seguita da quella rapidissima fuga. Egli oramai poteva credere fermamente di essere stato per l’ultima volta alla Balma. Infatti, se ne partiva sdegnato, palesemente sdegnato, senza aver preso congedo dal padrone di casa. Ma sì, proprio ci sarebbe voluta l’altra umiliazione di andare ad ossequiare quell’orso bianco! La canizie va rispettata, non si nega; ma ella non pretenda che uno si avvilisca ancora davanti a lei, perdendo il rispetto di sè medesimo.

 

Maurizio era feroce, uscendo dalla vista del castello. Nondimeno, facendo a gran passi il viale, cercò di padroneggiarsi. A lui marinaio, ed avvezzo agli amari bocconi della disciplina di bordo, la cosa non doveva esser difficile. Ne venne a capo, specie al Castèu, quando gli fu necessario rimanere un paio d’ore, a pranzo, con la sorella Albertina, e davanti alle persone di servizio. Ma la sua tranquillità apparente lo abbandonò, quando egli fu solo nelle sue stanze. Quel generale, che uomo! un vero pazzo da catena. Ed era lui che aveva sentenziato non doversi mai discutere di politica nè di religione, tra uomini? Ma perchè mai c’era cascato in quel modo egli stesso?

Un sospetto s’affacciò alla mente di Maurizio; il sospetto che tutta quella arrabbiatura a freddo fosse stata un pretesto. Se così era, l’orso bianco della Balma poteva anche passare per un uomo di spirito. Ma ugualmente per un uomo avveduto? Maurizio fece il suo esame di coscienza con tutta sincerità. Egli ricordava benissimo di non aver mai detto niente alla contessa Gisella che potesse destar gelosia nel marito. Le sue galanterie erano sempre state di quelle che sono permesse, anzi comandate in società, sotto pena di passare per ignoranti o per ipocriti. Neanche c’era stato il caso di coglierlo in flagrante di lunghe occhiate, di mute adorazioni; quel covare una donna con gli occhi, che alle volte è peggio del farle una dichiarazione, non si poteva certamente rimproverare a lui, che non ne aveva mai avuto il costume, e dal suo riserbo non aveva avuto neanche ragione di dipartirsi alla Balma. La contessa della Bourdigue gli era apparsa bella, anzi bellissima: più bella del vero l’aveva definita dentro di sè, ridendo della sua propria scioccheria. Ma le bellissime donne comandano più ammirazione che non ispirino amore; e l’ammirazione è stato d’animo che non suole durar molto. Si è sgomentati, oppressi, annichiliti da un tale eccesso di bellezza, che non par naturale; e si cerca di sfuggire più presto che si può a quel senso di pena. In lui, del resto, al senso della ammirazione artistica, era sottentrato il rispetto, e al rispetto l’amicizia, quanta può esserne tra un uomo e una donna, ma certamente un’amicizia leale. Provava accanto a lei un sentimento di pace ineffabile; e questo non si poteva scambiare per un sintomo d’amore, no certo. Aggiungete questo: un giorno, involontariamente, come vengono spesso i cattivi pensieri, gli era passato per la testa che ci fosse qualche cosa tra la signora generala e quel buon ragno del capitano Dutolet; e, notate un importantissimo segno, non ci aveva sofferto; solamente si era accontentato di osservare, molto filosoficamente, che tutti i gusti son gusti. Dopo tutto, quella bellissima donna non aveva sposato il generale? non lo aveva voluto lei, il suo zio e tutore, che la precedeva di oltre quarant’anni nella marcia forzata dell’esistenza?

Quanto a sè, conchiudendo, Maurizio non vedeva niente di cui potesse chiamarsi in colpa. Ma proprio niente? E perchè, ad esempio, quella gioia profonda, intensa, che lo aveva tutto penetrato, ad una certa stretta di mano, lunga e forte? Dio mio, era la gioia dell’opera buona in cui erano associati. E perchè quella compassione tanto viva per la miseria dei Feraudi? Gli dovevano premer tanto, i contadini del Martinetto? Gli uomini, di solito (e si parla dei buoni, dei caritatevoli) se la cavano con una abbondante elemosina. E in questa categoria di larghezze spensierate poteva entrare, mettendoci un po’ di buona volontà, il regalo di dugento cinquanta lire al fornaio di San Giorgio. Ma l’ardore, la furia con cui si era adoperato per quella povera gente, come s’avevano da intendere? Qui il signor Maurizio rimase un pochino dubbioso. E quel dubbio gli fece male. Lui innamorato? lui, che aveva giurato di non lasciarsi cogliere mai e poi mai?.. Superficiale per deliberato proposito nelle sue relazioni, leggero e volubile per la stessa qualità della scelta, il brillante ufficiale di marina aveva fin allora saputo conciliare la incostanza del cuore con la probità del carattere, non turbando la pace di nessuno, nè la sua. Se di punto in bianco egli si era tanto mutato, il generale aveva avuto ragione ad insospettirsi; si era dimostrato un uomo avveduto, e insieme di spirito, cogliendo quel pretesto della discussione filosofica per levarsi un importuno dai piedi. Ma perchè andarlo a cercare, l’importuno, che non era e non voleva esser tale? Perchè, avuta la prima visita, si era ostinato a voler la seconda, la terza, e via via fino alla ventesima, o giù di lì? Eterna istoria! così fanno tutti, quando si fidano. Si annoiano di esser soli, e cercano compagnia; poi non si fidano più, e d’essere accompagnati si seccano.

Tutto questo ragionamento, se ragionamento può dirsi un simile annaspìo, riusciva a confonderlo sempre più. Frattanto, non sarebbe più ritornato alla Balma; nè, per un certo numero di giorni, avrebbe dovuto pensare al poi. Aveva annunziato un viaggio: quel viaggio bisognava farlo, non foss’altro per muoversi, per isnebbiarsi il cervello. E non già, come aveva detto, la mattina per tempo; ma più tardi, nella giornata, alla vista di tutto San Giorgio, partì per Ventimiglia: giunto là, non volse per Genova, dove non aveva niente da fare, sibbene per Nizza, dove almeno era sicuro di non incontrare amici e conoscenti che gli entrassero della sua dimissione; argomento molesto, e tanto più allora, che di quel colpo di testa incominciava a pentirsi.

Nizza era bella, e Maurizio non voleva negarlo, dopo averlo riconosciuto tante volte. Ma era vuota, Dio santo, fredda e senza luce; il mare d’inchiostro; la via della Stazione un deserto; il Castello un catafalco; la passeggiata degli Inglesi un mortorio. Così tingiamo noi le cose del colore dell’anima nostra. Maurizio si crucciò a Nizza due giorni; il terzo non ci potè più resistere, e allora se ne ritornò a Ventimiglia, ripartendo per San Giorgio in modo da arrivarci nella notte, due ore prima dell’alba, quando tutti dormivano. Dunque innamorato a buono? E dopo essersi messo da sè fuori del paradiso? Sì, gli bisbigliava un demone all’orecchio, sì, come un vero collegiale. No, rispondeva una voce dal fondo dell’anima, come un onest’uomo.

E si chiuse nelle sue stanze, risoluto di lavorare. Avrebbe desiderato di vedere il medico, per sapere qualche cosa della povera Biancolina; ma volle resistere a quel desiderio morboso, non amando lasciarsi vedere in paese. Sapessero poi, o non sapessero, ch’egli era tornato; l’essenziale era di non mettersi in mostra, e di poter dire più tardi dei fatti suoi quel che gli fosse piaciuto. Del resto, se lassù credevano ch’egli fosse in paese, tanto peggio per chi gli aveva usato villanìa: si sarebbe capito, dopo tutto, ch’egli aveva dovuto provvedere in qualche modo, fosse pure con una bugia alla tutela della sua dignità.

Questo medesimo pensiero, cresciuto e fortificato nell’anima sua, gli consigliò dopo qualche giorno di rompere la volontaria clausura. Gli pesava il vivere da schiavo. Schiavo di che, finalmente? Uscì, dunque, ma non per andare in paese: si trafugava di buon mattino dall’uscio dei campi, muovendo spedito verso la montagna. Non si arrisicava dalla parte dell’Aiga; andava dal lato opposto, verso la Sisa, una balza indiavolata, più fatta per camosci che per uomini. Di lassù, dopo due ore di marcia, si scopriva molto orizzonte; inoltre, si vedeva ancora il Martinetto, e più in là, sull’ultimo sporto della costiera boscosa, il castello della Balma.

Nella sua prima ascensione Maurizio aveva portato con sè, da previdente alpinista, il suo binocolo a tre lenti, per campagna, teatro e marina. Ma la vista di lassù era così stupenda per lontananze preziose, che quel piccolo strumento ottico non gli parve bastante. Immaginate voi se non avesse ragione, essendogli occorso di vedere là in fondo, dalla eminenza della Balma, apparire una figura di donna. Poca cosa, per verità; come una chiazza di bianco sul verde, ma su quel bianco una macchia di rosso vivo, che gli rammentava un certo ombrellino. La piccola apparizione muoveva snella verso tramontana; non si vedeva più; si ritornava a vederla; pareva venisse alla volta del Martinetto, poichè non scendeva, nè andava più alta d’una certa zona del bosco.

Maurizio aveva riconosciuto Gisella, e il cuore gli aveva dato un sobbalzo. Si era affrettato a fissare il momento, guardando l’orologio: erano le dieci in punto. La vide così apparire e sparire tre o quattro volte, secondo le sporgenze e le insenature della costiera; poi più nulla, e passò un’ora senza luce; ma dopo quell’ora, sì, no, sì, lei ancora, avviata verso mezzogiorno, per ritornare al castello. Ma era quotidiana, la gita? Il cuore diceva di sì; l’osservazione confermava la divinazione del cuore.

Il giorno dopo, infatti, la graziosa apparizione si ripeteva, alla medesima ora; e questa volta non era più un punto bianco e rosso: era una figura intiera e distinta, veduta come se fosse a cinquanta passi da lui. Maurizio aveva lasciato a casa il binocolo e portato con sè un canocchiale di bordo, specie di telescopio, a tubi scorrenti l’uno nell’altro, per modo che non facesse ingombro tra le mani, nè fosse difficile portarlo ad armacollo. Ah, come la vedeva bene, oramai, la bellissima tra le belle! Graziosa nelle movenze, leggera nel passo, vestita di bianco, ma con certe screziature di rosso; i due colori che le piaceva di accoppiare nel suo vestiario, e che andavano a maraviglia con quella sua figura giovanile; rosso il nastro del suo cappellino di paglia, rosso l’ombrellino che si spandeva come il calice di un bel rosolaccio sulla sua testa dorata; così vedeva egli Gisella, così aveva l’illusione d’esserle ancora vicino.

Tutto ciò dava ogni giorno due ore di occupazione a Maurizio; pensare a quelle due ore, aspettarne il ritorno, erano giocondi uffizi per lui. E senza fallire al suo debito di onest’uomo, perchè amare è permesso, anche quello che non ci appartiene, quando si ami da lontano, come si ama una stella, seguendone il corso nello spazio.

Sempre alle dieci del mattino la vedeva comparire, per tre giorni alla fila. Il quarto giorno gli prese una matta voglia di sapere che cosa accadesse lassù al Martinetto. Andandoci di buon mattino e ritornando prima delle dieci, non c’era pericolo che incontrasse Gisella. Così tranquillo su quel punto capitale, uscì di casa muovendo verso l’Aiga; di là, senza procedere più oltre verso la Balma, salì la montagna per raggiungere la cascata superiore, quella che veramente prendeva nome dal Martinetto.

La gran massa d’acqua scendeva giù per una piega naturale del monte, che essa aveva aiutato a rendere più profonda, nella notte dei secoli: veniva di molto lontano, e Maurizio, che pure da fanciullo aveva corsi e ricorsi quei greppi, non ne conosceva la scaturigine. Questo egli rammentava, che l’acqua attraversava un gran prato, uno di quei prati alpini così verdi, vestiti qua e là da ciuffi di rododendri, e che all’estremità di quel prato si rovesciava giù da una rupe. L’accoglieva una prima conca, poi una seconda, da dove ribollendo e spumando s’inabissava a forse quaranta metri più sotto, venendo a far girare la ruota di un mulino poco sopra il paese di San Giorgio. Per quel mulino, naturalmente, era troppa; ne bastava una derivazione, ottenuta dall’arte: e il canale che serviva al mulino, e il resto della cascata, si ricongiungevano a poca distanza dal Castèu, per venire a traversare il paese, e far pensare di tanto in tanto ai suoi abitanti che una simile ricchezza d’acqua si sarebbe potuta sfruttare benissimo, impiantando a San Giorgio uno stabilimento idroterapico, che sarebbe stato il decoro della valle e la fortuna di cinquecento famiglie, a dir poco.

Lo stabilimento idroterapico è la solita storia con cui si va guastando, magari in sogno, la cara poesia della montagna, tirando lassù, insieme coi nostri acciacchi, le nostre malinconie, le nostre miserie fisiche e le nostre miserie intellettuali. Per fortuna, non ci son sempre i capitalisti lì pronti per tradurre i sogni in realtà.

 

L’Aiga, nondimeno, aveva trovato in altri tempi il suo capitalista, uomo pratico, che era salito su quella balza a impiantarvi un martinetto. Si chiamava, e tutt’ora si chiama con questo nome, nelle regioni montuose dell’Italia superiore, il maglio delle ferriere; donde avevano spesso il nome di martinetto le ferriere medesime. Mosso ordinariamente dalla forza dell’acqua, il martinetto battendo sull’incudine la ferraccia arroventata, la modellava via via, la spianava, la stendeva, la foggiava in ispranghe, per uso dei fabbri. Innanzi la scoperta del vapore e il minor costo delle sue applicazioni, erano i martinetti assai più numerosi; e per foggiare il ferro, come per lavorare nelle cartiere e nelle gualchiere, ne sorgevano dovunque scorresse un bel volume d’acqua perenne. Ma generalmente oramai, e più per il ferro, i martinetti ad acqua han persa la lite: dove la scarsezza progressiva, del combustibile necessario all’arroventatura, dove il rinvilìo del minerale del ferro e la concorrenza delle migliori qualità hanno dato la prevalenza alle ferriere dell’Europa settentrionale. Per una di queste cagioni, se non forse per parecchie, era andato in rovina il martinetto di San Giorgio.

Qualcheduno dei proprietarii che si erano succeduti lassù aveva azzeccato il suo quarto d’ora di poesia, facendo sorgere alquanto più su ed alle spalle dell’officina un belvedere, specie di torrione piantato sull’orlo dell’abisso, con la sua piattaforma circondata di merli e con un lungo sedile corrente all’ingiro. Si giungeva lassù passando attraverso una macchia di nocciuoli, dove era stato certamente da principio un sentiero; ma la traccia di questo era sparita oramai, cancellata da quella gran nemica d’ogni arte che è la santa madre natura. Noi ordiniamo, ed essa confonde; i nostri muriccioli si veston d’edera e di lucertole; i nostri andarini sabbiosi, le nostre redole fatte a musaico di sassolini a due tinte, si sfasciano sotto le piogge equinoziali; i bei prati di fieno inglese son dati in governo alla gramigna, e la sterpaglia riprende ben presto i suoi diritti dove noi avevamo ripulito col sarchiello, raddrizzato col traguardo e livellato con la tavoletta pretoria. Santa madre natura, che Iddio continui a benedirvi! Perchè non si lascia intieramente a voi la cura di foggiare i nostri parchi, di svariare i nostri giardini? Qualche volta, non c’è che dire, voi fate meno bello dei nostri architetti; per contro, fate sempre più grande.

Il belvedere del Martinetto si poteva scorgere dall’altra sponda della cascata; era invisibile dalla macchia, ed anche a chi ne conosceva l’esistenza non riusciva troppo facile di ritrovarlo. Maurizio, che si era inerpicato in altri tempi lassù, con la matta e spesso pericolosa curiosità dei ragazzi, stentò ad orientarsi in quel folto di rami. L’orrida bellezza del luogo lo ricompensò largamente della fatica durata. Trovò il belvedere, i sedili, la merlata, un po’ in rovina per verità, ma fresche e vive le sue ricordanze, all’ombra di quel fogliame diffuso sulla piattaforma e sull’abisso rumoreggiante lì presso.

Pagato il tributo ai ricordi, Maurizio lasciò la piattaforma del torrione, e per la macchia dei nocciuoli discese verso il Martinetto. Una parte del fabbricato era andata in rovina; solo dall’altro lato ne rimaneva in piedi un’ala, convertita in abitazione colonica. Laggiù vivevano i poveri fittaiuoli del Pinaia, avendo davanti a sè quel magro podere e quei pascoli per cui dovevano pagare cinquecento lire ogni anno al fornaio arpagone di San Giorgio. Compiuto il giro della vasta rovina, Maurizio riuscì sull’aia che si stendeva davanti alla casa.

Due piccole vite si agitavano, ognuna a modo suo su quell’aia. Un ragazzetto si trastullava facendo correre l’una dietro l’altra alcune pallottoline di porcellana e di vetro colorato, lungo certi solchi che aveva scavati nel battuto: immagine di più faticose cure che gli sarebbero toccate da grande. Una bella tombolina, seduta con molta gravità su d’un gradino dell’uscio, abbracciava due bambole, niente di meno; una fatta di cenci, affagottata, sudicia, che non aveva più figura umana, e forse non l’aveva avuta mai; l’altra di legno, sfarzosamente vestita, con le guance paffute e rosse, gli occhi di smalto e una bella zazzeretta di ricciolini biondi: tutt’e due le teneva ben strette al seno, ammirando l’una, non sapendo spiccarsi dall’altra; simbolo e promessa di una maternità che non avrebbe fatto differenza tra le sue creature, se anco si fossero spartite in mostri e bellezze.

Maurizio accarezzò i bimbi ed entrò nel tugurio, dove trovò seduta di contro all’uscio, a soleggiarsi un poco, una donna ancor giovane, dal viso pallido, ma dall’occhio vivace, in aspetto di convalescente. Ci voleva poco a capire che quella era Biancolina, la povera donna per cui tanta inquietudine aveva regnato alla Balma.

– Ah! – esclamò la donna, alzandosi a mezzo. – Lo avevo ben detto io, che sareste venuto a vedermi una volta.

– Mi conoscete?

– Certamente: siete il signor Maurizio. Vi ho veduto una volta passare di là sotto. Mio marito mi ha detto: quello è il signore del Castèu, che s’incammina alla Balma. —

Diavoli di contadini! vedono tutto, loro; niente sfugge ai loro occhi di ramarro. Anche in luoghi così deserti, i passi del signor Maurizio erano dunque osservati? Ma sì: e se gli scriccioli, i merli, i passeri solitarii avessero avuto il dono della parola, si sarebbe sentito dire da molti cespugli: ecco il signore del Castèu, che s’incammina alla Balma.

Il signor Maurizio lasciò cadere l’allusione, e domandò notizie della salute. Non era quasi da domandarne; si vedeva la guarigione avviata. Biancolina era tuttavia un po’ debole; della qual cosa si tormentava, pensando che il suo uomo era costretto a far lui tante cose che prima erano fatte da lei, come ad esempio mungere il latte e portarlo in paese. Quanto alle piccole faccende di casa, veniva tutti i giorni una brava donna dal mulino di sotto; e di questo la convalescente rendeva grazie al signor Maurizio, che le aveva procurato l’aiuto.

– Ma io non ne so nulla; io non c’entro; – rispose Maurizio, schermendosi.

– Sì, sì, così dice la mano destra della gente di cuore, quando la sinistra ha fatto l’elemosina; – ribattè Biancolina. – Ma io so tutto, e della donna e del medico che siete corso a cercare per me; so tutto io; ci ho l’angelo custode che mi avverte di tutto. Non lo credete, signor Maurizio? Ed è un bell’angelo, sapete, con certi capelli d’oro filato, con certi occhi che paion diamanti. Ma lasciamo star l’angelo; io non saprò mai come ringraziar voi, che siete tanto buono coi poveri. Ma se Dio ascolta le mie preghiere, egli vi farà contento di tutto quello che potete desiderare. Rosina! Vittorio! – gridò la donna, interrompendo il suo discorsetto. – Non vi spingete troppo addosso a questo bel signore tanto buono. Non vedete che gli levate l’aria dattorno?

– Lasciateli fare, lasciateli fare, Biancolina. Io amo i bambini. A te piccina; quale delle tue bambole mi vuoi dare in moglie? —

La bambina rise, come una mamma che avesse due figliuole da collocare. Ma era una mamma di sei anni, e non aveva nessuna idea delle convenienze; e ridendo offerse tutt’e due le figliuole. Maurizio baciò quella mamma, e costituì una dote alle figliuole, in due belle monete d’argento; poi, per non far nascer gelosie, ne diede altre due al ragazzetto, ma senza bacio; un amichevole buffetto ne tenne le veci. E la ragione del diverso trattamento c’era; luccicava tra il labbro superiore ed il naso di quel piccolo sbadato.