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Tra cielo e terra: Romanzo

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Capitolo XVII.
L’apparizione

La mattinata era stupenda; l’aria calda, attraversata da piacevoli ondate di frescura; il cielo uno splendore di azzurro perlato; la montagna una festa di colori svariati, dal verde cupo e dal metallico lucente allo smeraldino, al giallo tenero, con chiazze ferrigne, rossastre, turchine, disposte qua e là nelle curve del terreno, nelle insenature delle balze, nel mutarsi dei piani in lontananza; involto il tutto, fuso, attenuato, in una tonalità violacea, che s’inteneriva negli sfondi fino alla espressione del grigio. Un buon tepore si svolgeva dal terreno, e in quel tepore si stemperavano, vaporando, tutte le fragranze della selva e dei prati. Maurizio respirava a larghi polmoni aria, tepori e fragranze, dando anch’egli, a quell’angolo di paradiso terrestre, il suo profumo di felicità. Come era bella la montagna, e come pareva contenta di sè! Ginepri e pini, frassini, corbezzoli ed eriche, sterpaglie, rovi e fiammole, tutto verdeggiava, luccicava, rideva dai ciglioni, dalle zolle, dai sassi; ogni arbusto, ogni frutice, ogni più umile pianticella del bosco, persino la cèspita dalle foglie glutinose, perfino i muschi del prato e i licheni dei grigi lastroni scabrosi, sfaldati a migliaia d’inverni, avevano qualche cosa da dire al sole, all’aria, agli insetti alianti e ronzanti, contenti anch’essi di vivere, di respirare, di splendere.

– Voi felici! – disse Maurizio, vedendo due uccellini che si rincorrevano a brevi volate tra gli alberi. – Ma sono felice ancor io, sapete? Ella verrà fra poco, per pochi momenti forse, troppo pochi al mio desiderio, ma verrà, verrà. —

E andava ripetendo sottovoce le due sillabe del verbo gaudioso, per sentirne meglio, per assaporarne tutta la dolcezza ineffabile. Gisella aveva promesso; sarebbe apparsa senza fallo. Che festa, la cara donna che si aspetta! e come è bello il momento che fugge, avvicinando sempre più l’ora della dolce apparizione! e come il luogo dove la cara donna è aspettata, si anima, sorride, si compone a bellezza, preparandosi a riceverla!

Assai prima di vedere la gran ruota del mulino, Maurizio lasciò il sentiero battuto che tutti i giorni lo conduceva alla Balma. Non andava alla Balma, per allora; s’inerpicava verso l’Aiga, e non gli bisognava risalir la costiera più in là; era anzi prudente risalirla più in qua dal mulino, evitando ogni incontro molesto, ogni sguardo importuno. E risalendo, inerpicandosi di ciglione in ciglione, sentiva la cascata rumoreggiare lontana sulla sua testa. Di tanto in tanto vedeva il ruscello nei serpeggiamenti del suo alveo, affondato tra rupi e cespugli in una piega del monte; i suoi passi frattanto si spegnevano sul morbido tappeto delle zolle erbose e dei muschi, mentre lo coprivano d’ombre discrete i rami degli ontàni e dei salici, onde erano vestite le balze. Così muovendo frettoloso per l’erta, trovando da esperto montanaro i passi più facili, le scorciatoie più pronte, afferrò l’orlo di un borro, sotto l’alta rupe donde precipitava in basso il gran volume delle acque. Lassù il burrone faceva conca per un giro abbastanza largo; in quella conca le acque si stendevano in forma di fossato, innanzi di cercarsi, tra nuovi scoscendimenti, la via; e là, dove incominciavano a trovarla, era gittato un pancone, che faceva ufficio di ponte. Il luogo alpestre era improntato di un’orrida bellezza. Davanti a Maurizio, e da tant’alto che pareva dovesse rovesciarglisi sulla testa, si dirupava la candida massa liquida, scintillante, spumeggiante, sempre in moto e sempre uguale nell’ampiezza del suo volume, venendo a frangersi in una larga incavatura del masso, donde rimbalzava divisa, sparpagliata, come una immensa capigliatura fluente di spume, in cento rivoli capricciosi e canori. Quanti scintillamenti cristallini! quante voci argentine di là! Ben vieni, parevano dire quelle voci a Maurizio, ben vieni. Frattanto, sul margine della cascata, l’arcobaleno stendeva a mezzo cerchio la fascia diafana dei suoi sette colori. Mai l’arcobaleno dell’Aiga era apparso più glorioso a Maurizio, più intenso, più luminoso, più vivo.

– Com’è bella, – pensava egli, – come è poetica la leggenda dei popoli primitivi! Hanno veduto nell’iride il pegno dell’alleanza tra Dio e le sue creature. Infatti, che cos’è l’arcobaleno? Un sorriso della luce dopo la tempesta. Qui le gocce del nembo, sciolte in vapori e sospese nell’aria, rifrangono i raggi del sole; ed è il sole, immagine di Dio, che si specchia in questo basso strato d’aria, largito per condizione di vita ai mortali. —

In un impeto di amore, Maurizio scoccò un bacio col sommo delle dita all’arcobaleno, che parve intenderlo, e gradire l’omaggio, muovendosi leggero leggero, quasi per far brillare i suoi colori d’una luce più viva.

Un’altra cura trattenne Maurizio colà, per alcuni minuti. Lungo le muscose pareti della stretta per cui scendeva la massa, delle acque, crescevano molti ciuffi di capelvenere, facendo ad ogni zampillo, ad ogni soffio di vento, tremolare sui lunghi picciuoli neri lucenti le verdi foglioline disposte a ventaglio. Quei graziosi e ben nomati ricami della natura piacevano tanto a Gisella; ed egli ne raccolse un bel pugno, per comporne un mazzetto, insieme con certi fiorellini azzurri che si vedevano spuntare qua e là. Fatto il suo bottino, ripigliò la sua strada per l’erta: pochi minuti dopo giungeva alla macchia dei nocciuoli. Era là dietro, il torrione; era là, nascosto ancora ai suoi occhi, nascosto agli occhi di tutti, il suo nido. Ah, come gli batteva il cuore, afferrando quel colmo! E come fu lieto, mettendo il piede nel suo quieto rifugio! L’aspetto del luogo non era punto mutato; più folta la frappa, se mai, avendo i nocciuoli messo altri polloni in primavera. Tronchi grossi e sottili, asticciuole e virgulti, mettevano fuori gran ciocche di larghe foglie cuoriformi, arrotondate alla base. Già sulle vette dei rami si vedevano formati, a due, a tre, a quattro in un grappolo, i lunghi involucri verdolini campanulati e polposi, nel cui seno veniva crescendo il frutto, dal guscio ancora bianchiccio. Maurizio ricordò che da bambino li addentava volentieri, quei verdi invogli coriacei, per assaporarne il sugo aspretto, non dispiacevole al palato. E non era egli un bambino anche allora? Lasciava stare gli invogli delle nocciuole; ma componeva mazzetti di capelvenere e di talco celeste; intanto gli batteva il cuore nel petto. La cara donna sarebbe venuta lassù. Non più terrori, oramai; sarebbe venuta.

Terrori! e di che? Ma infine, Dio santo, perchè avete voi acceso questo fuoco nel cuore della vostra creatura? Non è un sacrifizio a voi, l’amore? non è un inno di lode per voi? Perchè dovremmo insospettircene? perchè dovremmo impaurirne? La legge, si dice. Ma l’uomo, l’uomo soltanto, ha fatta la legge, tela caduca, mutevole e vana; Dio ha fatto l’amore, la fiamma viva, durevole, eterna. Andate contro la legge; è niente, o poco meno di niente: andate contro l’amore; è lo schianto del cuore, il tormento dell’anima, la morte.

Ella e lui erano stati per morirne. Ma ora non più. Ed ella non doveva morire. Il medico aveva voluto veder troppe cose, in un momentaneo malore; si era troppo turbato di alcuni indizi fugaci, non sintomi, simulazioni di sintomi. Se si dovesse badare a tutte le passeggere irregolarità dell’organismo, ci sarebbe in verità da temere di averle tutte, le malattie dei trattati. Anch’egli, quante volte non si era sentito male nel corso della sua vita! quante volte, senza saper come nè perchè, non si era sentito andar via il cervello e la terra mancar sotto i piedi! Il medico di bordo gli aveva detto ridendo: inezie, scioccherie, scherzi del sangue; assottigliate questa volta, corroborate quest’altra; due giorni di dieta; nutritevi di più, ed altre cose simili. Quello era un dottore che la sapeva lunga. Ma quell’altro, il medico di San Giorgio! Un brav’uomo, e non c’era niente a ridire. Ma quel brav’uomo si era ingannato. Come non esserne persuasi, oramai? Gisella non era stata mai così bella, così fiorente di salute, come dopo quel piccolo male, che aveva messo tutti in ansietà, e non era poi che l’effetto di un malaugurato cambiamento negli usi quotidiani della vita.

E bellissima, e fiorentissima, la cara donna aveva bisbigliato la sera innanzi a Maurizio:

– Domani andrò da Biancolina. È un pezzo che non vedo quella povera gente… e quella bella montagna.

– Ci sarò io? – aveva chiesto egli tremando.

– Con che aria me lo domandate! Rizio farà bene ad essere da per tutto, come è nel mio cuore; – aveva ella risposto. – Tanto più, se vuol rinunciare a quella cera di funerale, che sembra accusarmi continuamente di crudeltà. —

Rizio si era sentito un gran rimescolo al cuore; il sangue gli era corso veloce alle tempie; gli occhi volevano schizzargli fuori dalle orbite. Se in quel punto lo avesse veduto il medico di San Giorgio, sicuramente ordinava un’altra applicazione di ghiaccio. Strano dottore, che non vedeva altro se non meningiti e vizi cardiaci!

Finalmente, ella doveva giunger lassù. Non più tormenti per lui, salvo quello di attenderla due o tre ore sulla montagna. Tanto tempo? Ma sì: con la solita prudenza egli aveva anticipata di tre ore la salita: facendo il giro largo e fermandosi al bosco, aveva consumato un’ora; lassù, poi, nel rifugio dell’Aiga era fuori d’ogni pericolo d’essere frastornato, perfino di esser veduto. Da quella banda i Feraudi non si mostravano mai; egli piuttosto avrebbe dovuto mostrarsi al Martinetto, poichè laggiù, con aria di non aspettarla, doveva incontrare Gisella. Ma a quell’incontro fortuito non voleva andare troppo prima dell’ora. Che cosa avrebbe fatto laggiù? con qual pretesto avrebbe fatto una lunga fermata, egli che non soleva restarci più di quindici minuti, il tempo di salutare, di chieder notizie e di carezzare i bambini? Non si sarebbe sospettato che egli sapesse già della venuta, di Gisella, e che appunto per lei fosse andato a far sosta sull’aia dei Feraudi? Così, facendo l’ora del ritrovo, meditando la sua prossima felicità, sognando ad occhi aperti, guardava ad ogni tanto l’orologio. I minuti gli parevano secoli, e sempre al medesimo posto quelle lancette del malanno! Che cosa avevano, le due sottili asticciuole d’acciaio? Fatte per camminare, non volevano dunque più muoversi?

 

Le lancette ebbero pietà di lui, ma un po’ tardi, non un minuto prima del convenuto. Sono così metodici, gli orologi! Per uno che corre, quanti che ritardano! Erano le undici meno pochi minuti, quando egli uscì dal rifugio, e lento lento si avviò verso le rovine del Martinetto. Aveva lasciato sul sedile di pietra del torrione il suo mazzolino di capelveneri e di fiorellini azzurri, destinato a lei, e che perciò non doveva esser veduto anticipatamente da altri. Sceso sotto le rovine, si avviò per il solito sentiero che correva lungo la costa del monte, ed apparve alla vista del casolare dei Feraudi, avendo l’aria di venirsene a passo a passo dal Castèu. Lo videro da lontano i bambini, e Vittorio fu il primo a gridare:

– Il signor Maurizio! il signor Maurizio che viene da noi. —

Rosina accorse a sua volta, battendo le palme in segno di allegrezza; dietro a lui si affacciò Biancolina.

– Questi ragazzi vi fanno ritardare; – diss’ella, vedendo il signor di Vaussana, che lasciava la strada per prendere il sentieruolo del casolare. – Andate alla Balma?

– Sì, per portare alla contessa un’ambasciata di mia sorella Albertina; – rispose Maurizio, che sentiva il bisogno di preparare un buon pretesto. – Ma ci ho tempo; – soggiunse. – Tanto, a quest’ora non avranno finito di far colazione. E come va la salute?

– Bene, signor Maurizio; grazie a voi, non abbiamo più tempo di star male.

– Non dite questo, Biancolina. C’è qualchedun altro che vi assiste, e un po’ meglio di me.

– Volete dire quell’angelo della signora? La metteremo, se mai, a pari con voi. Son cinque giorni che non abbiamo la fortuna di vederla.

– Glielo dirò; glielo dirò, che non vi trascuri; – disse di rimando Maurizio, che non aveva l’aria di volersi rimettere in cammino per far la commissione. – E i vostri balocchi, bambini? Li avete già rotti? è il caso di rifarvi la provvista? —

Ne avevano infatti dei rotti; un cavallino, tra gli altri, a cui mancavano due gambe, e un cane che non abbaiava più, per essersi scollata la pelle del manticino. Ma ne avevano ancora dei nuovi, o quasi: un’arca di Noè, fabbricata a Norimberga, con otto o dieci animali ancora presentabili, e un alfabeto di legno, a cui, per miracolo, non mancavano che due o tre lettere. Quell’alfabeto era per allora il gran divertimento dei piccini. Vittorio conosceva già tutte le lettere; Rosina, più precoce di lui, compitava già qualche sillaba.

Seduto accanto alla tavola di cucina, Maurizio si divertì ad ordinare in varie forme parecchi tasselli di quell’alfabeto infantile. Cominciò col nome di Biancolina, e finì con quello di Gisella, tenendo desta l’attenzione dei ragazzi, e ammirando la prontezza con cui sillabava la piccola Rosina. Così nessuno si avvide della contessa Gisella, quando ella apparve sull’aia; e la bella signora, capitando improvvisamente là dentro, fu accolta da un grido di lieta maraviglia. S’intende che il più maravigliato di tutti parve il signor di Vaussana.

Vestita del suo prediletto color bianco, rallegrato dalle solite screziature di rosso, fresca, giovanile più che mai nell’aspetto, animosa nel sorriso delle labbra e nello sfavillìo delle pupille d’indaco, la contessa Gisella giustificava pienamente l’opinione di Maurizio: non era mai stata così bella come allora. Cessata la festa di tutti per la sua improvvisa apparizione, rimase lungamente a discorrere con Biancolina, a baloccarsi coi ragazzi, tenendo sulle spine Maurizio, che vedeva oramai correr tanto veloce il tempo, quanto era stato lento da prima. Egli chiedeva a sè stesso come mai avrebbe fatto la signora a spiccarsi di là, e incominciava a temere ch’ella non volesse più muoversi, se non per ritornare alla Balma.

– Sapete? – le disse, dopo aver almanaccato un bel pezzo. – Venivo a farvi un’ambasciata da parte di mia sorella Albertina.

– Non ce ne sarà più bisogno, – rispose Gisella, – perchè vado io da lei. Come vedete, ero in istrada. Ma voi, piuttosto, signor Maurizio, non avevate gran fretta di giungere alla Balma.

– Mi hanno veduto i bambini, mentre passavo di là sotto; – replicò egli, felice di avere avviate le cose. – Perciò mi son fermato un momento; come voi, signora, come voi.

– Quanto a me, – disse Gisella, – è un altro affare. Io non passo mai di qua senza fermarmi al Martinetto, per salutar Biancolina. Del resto, – soggiunse cerimoniosa, – ci ho guadagnato d’incontrarvi e di avere un buon compagno per la discesa. Venite dunque, Vaussana, e faremo anche il giro più largo. Così mentirà una volta ancora la vostra impresa: tout droict Sospel.

– Così la spiegate? – diss’egli, facendo bocca da ridere.

– E come no? Siete l’uomo dei gran giri, voi; ed anche delle lunghe fermate. Ci avete sempre qualche albero da ammirare, qualche sasso da adorare, qualche filo d’erba da restarci incantato. —

In questo modo era trovata la gretola. Salutata Biancolina, fatta una piccola distribuzione di confetti a Rosina e a Vittorio, la bella signora si avviò con Maurizio per la discesa; ma senza continuarla a lungo. Giunta appena fuor dalla vista del casolare, prese con Maurizio il sentiero verso le rovine del Martinetto. Finalmente! Ma ella tremava un pochino, prendendo il braccio che le offriva Maurizio.

– Ah! – esclamò egli, turbato. – Che avete?

– Nulla, nulla, son forte, più forte che tu non immagini; – s’affrettò ella a rispondere. – Povero mio Rizio! Hai tanto sofferto, non è vero?

– Mio Dio! – mormorò egli. – Temevo di non vederti più… così, come quest’oggi. E sarebbe stato un orrore.

– A chi lo dici! Ero ben cattiva; – rispose ella, reclinando la bionda testa sul petto del compagno. – Ma voglio che tu mi perdoni; voglio che tu viva, che non ti ammali più, mio povero Rizio. Che viso hai tu, quando soffri! e come mi levi allora il coraggio! Ho combattuto, ho resistito a lungo; ma sono stata vinta, vinta, per non ripigliarmi mai più. L’ho detto ieri, l’ho giurato a me stessa: non sarà mai che il povero Rizio soffra tanto per cagion mia. Soffrivo anch’io, sai? Ma per me avrei sofferto ancora; non ci avrei badato; avrei saputo morire. Per te, no; per te mi son mancate le forze. Pensando come sei stato male, come hai vaneggiato, come hai delirato, mi sento un’altra, capisci? un’altra; quella di prima, dei giorni belli, che erano i tuoi, come questa povera creatura, che ritorna nelle tue braccia. —

Rabbrividì, entrando nella macchia; ma si riebbe, sotto un bacio di Maurizio, nel punto che egli metteva il braccio davanti a lei, per isviare i rami dei nocciuoli e darle passo nel folto. Voleva esser forte, valorosa, allegra; e sorrise al suo nido così bene ascoso nel verde, nell’atto di porre il piede sulla soglia del terrazzo. Ma il sorriso le morì sulle labbra, ed ella tremò tutta, vedendo un gesto di turbamento del suo dolce compagno.

– Che hai, Rizio? – gli domandò sbigottita.

– Nulla, nulla; – rispose egli, padroneggiandosi a stento. – Dei fiori, per voi… Credevo di averli lasciati qui… Li avrò forse portati con me, senza avvedermene, e mi saranno caduti. —

Parlava così, cercando d’ingannare sè stesso. Ma era ben sicuro del contrario, e tremava.

– Caduti? Certamente, ma non laggiù; – diss’ella, che in un volger d’occhio aveva frugato da per tutto. – Sarebbero questi, per caso? —

Così dicendo, muoveva verso il parapetto, e si chinava a raccattare in un angolo un mazzolino di capelveneri.

– Son questi, sì, son questi; – rispose Maurizio, respirando. – Ma come così lontano dal sedile, dove io li avevo collocati? Perchè mi ricordo, ora, mi ricordo bene di averli posati qui, al vostro posto.

– Ebbene? – ripigliò Gisella. – Erano qui? Rimettili dove li avevi lasciati. Vedi? ruzzolano ancora; segno che il sedile non è ben piano. Che caro spericolone, il mio Rizio! e come corre subito a pensare il peggio! Eravamo già lì col mal augurio, non è vero? —

Maurizio sorrise, e si calmò. Ma aveva avuta una bella paura.

– No, no; – rispose egli. – Cioè, diciamo pure di sì. Temevo di aver perduto quei fiori: e sarebbe stato veramente un cattivo augurio per me. —

Non voleva dire: temevo che qualcheduno fosse stato qui, mentre eravamo laggiù. Del resto, il dirlo sarebbe stato inutile, poichè i fiori erano stati ritrovati, e l’esperimento di Gisella aveva dimostrato in che modo fosse caduto il mazzolino. Egli era persuaso oramai, e voleva discacciare tutti i negri pensieri. Per discacciarli bene, bastava guardare quella stupenda creatura nel viso. Com’era bella. Dio santo! Maurizio la trasse a sè, con una gran sete di baci che gli ardeva il sangue, che lo stringeva alla gola.

Momento supremo! Stanchi di rincorrersi tra i rami, gli uccellini posavano sotto la frappa, sotto la bella frappa tinta di un verde carico, vaporante all’aria tiepida del mezzodì gli acri profumi dei succhi vigorosi. Dormiva la brezza sotto la vampa del sole; e ad ogni palpito lieve del suo buon sonno, si muovevano lenti i chiari smeraldi onde i raggi solari frastagliavano capricciosamente i vani strati diseguali del cupo fogliame. In quell’alta pace delle cose, sola continuava ad agitarsi la cascata d’Aiga, rapida, fremebonda, impetuosa nella sua curva rutilante, cantando con assiduo metro all’abisso la sua canzone d’amore. E mentre essa volava piombando con desiderio infinito nel seno dell’amato, Rizio stringeva fra le sue braccia la bella creatura adorata, guardandola negli occhi, divorandola coi baci, e poi guardandola ancora, insaziato, insaziabile. Strana bellezza di quegli occhi! Per entro all’umor cristallino dal colore dell’indaco stemperato, nuotavano pagliole d’oro, simili alle vene ed ai punti del prezioso metallo ond’è sparsa la massa turchina del lapislazzoli. Ma in questa gemma è l’oro imprigionato ed immobile: in quegli occhi divini, come in gemme viventi, indaco ed oro palpitavano balenando; ed ogni palpito era una voce del cuore, ogni baleno un pensiero dell’anima, che si sprigionava di là, involgendo, accarezzando, inebriando. Momento divino! Le anime si son ritrovate; le anime si ricongiungono in quel punto; le anime si confondono l’una nell’altra, invocando l’eternità dell’istante. Sempre, van ripetendo le labbra, sempre, sempre! E nella dolce parola, proferita con tutta la energia di cui l’accento umano è capace, non una lettera si perde, ognuna ha suono, colore e calore. La prima sillaba è una aspirazione intensa, come di preghiera in cui tutti i sentimenti si stemprino; la seconda riproduce la stretta violenta d’un bacio che scocchi premendo; le collega ambedue una profonda caduta, un abbandono confidente dell’essere. Sempre! O buon Dio, clemente e misericordioso Signore, che di tanta tenerezza, di tanta soavità, di tanta beatitudine avete fatto l’amore, perchè non fare di eternità il suo momento supremo? È ben vero che l’eternità parrebbe anch’essa un istante, e mai come allora si sentirebbe che le due cose son una.

Tutto ad un tratto la bella creatura sussultò nelle braccia di Rizio. Gli occhi si dilatarono in espressione di terrore; si scolorarono le labbra, e ne proruppe un grido d’angoscia. Tremante all’atto repentino, stringendo più forte la sua Gisella, quasi temesse in quell’istante di perderla, Maurizio girò tutto intorno gli occhi sospettosi: non vide nulla di nuovo; ed ancora si volse a lei, chiedendole collo sguardo il perchè del suo turbamento improvviso.

– Lui! – mormorò ella con accento soffocato.

– Lui! – ripetè Maurizio. – Chi? dove? —

E guardò ancora, guardò meglio, dove pareva accennare lo sguardo atterrito di Gisella. Frattanto, alzandosi a mezzo, si atteggiava istintivamente a difesa.

– Lui! lui! non vedi? – gridò ella, aggrappandosi spaventata alle braccia di Maurizio. – No, no, pietà, non mi guardate così! – soggiungeva con accento supplichevole.

Allora anche Maurizio vide. I capelli gli si rizzarono sulla fronte, e un freddo acuto gli corse per tutte le vene. Là, nella frappa, dalla parte dond’essi erano venuti al rifugio, ritto sul fianco, alta la testa, in atto severo, vestito d’una gran tonaca di color marrone, si vedeva un monaco; lui, lui, il padre Anselmo da Carsoli. Immobile della persona, irrigidito nel suo atteggiamento spettrale, non accennava di voler fare un passo più avanti; ma, a guardarlo bene, si vedeva tentennare lentamente il capo, con aria di muto rimprovero. Ad un tratto levò il braccio e tese la mano, minacciando col gesto, come già minacciava collo sguardo.

 

Maurizio era rimasto un istante perplesso, fissando con occhi sbarrati la strana apparizione. Ma tosto, irritato da quel gesto minaccioso, non potendo più sopportare la tetra luce di quello sguardo severo, fece l’atto di avventarsegli contro. Gisella lo trattenne, Gisella che si avvinghiava disperata al collo di lui.

– No, no, – ripeteva ella, come pazza di terrore. – Abbiate compassione! Dannata no… dannata no. Voi me lo avevate detto; è vero, sì, è vero; sareste venuto a rinfacciarmi il mio delitto, venuto ad ogni modo, in ogni tempo, dovunque vi foste trovato, a punirmene. Lo so, padre, lo so. Ma egli moriva, moriva per cagion mia. Perdono! Iddio non poteva volerlo; perdono! —

Il colpo era stato troppo grave, l’esaltazione troppo grande; la povera creatura, disfatta dallo sforzo violento, ricadde inerte nelle braccia di Maurizio. Fremente di sdegno, egli l’adagiò sul sedile, e libero appena del caro peso si scagliò contro il monaco. Più nulla; il monaco era scomparso. Ma come? neanche una foglia si muoveva laggiù, dov’egli lo aveva pur dianzi veduto; nè alcuno strepito di rami smossi si udiva nella macchia, nè alcun rumore di passi tra gli sterpi. Un fantasma, dunque? E la povera Gisella nel suo terrore, ed egli sotto la pressione delle braccia di lei, erano stati in balìa d’una medesima allucinazione?

Gisella era svenuta. Sbigottito, egli corse all’acqua, risicando ad ogni passo di scivolar nell’abisso. Là, nel fascio spumeggiante, intrise il fazzoletto a guisa di spugna, per venire sollecitamente a spruzzarne il volto e il collo della creatura adorata. Con mano mal destra, ma pronta, strappando convulsamente dove non poteva slacciare, le aperse la veste al sommo del petto, per farla respirare più libera. Non ebbe pace, non ebbe posa, fino a tanto non la vide riaprire i begli occhi languidi alla luce del giorno.

Allora, prendendo animo dalla necessità del momento, se la recò tra le braccia e si avviò verso la macchia dei nocciuoli; proteggendole il volto come poteva, andando a ritroso, cacciandosi avanti colle spalle e coi gomiti, si faceva strada a forza tra i rami. Che orrore! che orrore, se non avesse potuto trarre in salvo la dolce creatura! Ma finalmente… finalmente, uscivano da quell’intrico di piante. Ancora un centinaio di passi, e le rovine del Martinetto erano in vista.