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Tra cielo e terra: Romanzo

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«In quella chiesa buia, combinata per caso sulla mia strada, in quell’ora di raccoglimento solenne, ho ritrovato Dio, l’ho rifatto in me, luce ed amore. Così ho creduto; così sono rimasto un credente. Dal dubbio alla fede, vi ho detto tutti i miei studi, le mie indagini, i miei errori e le mie sensazioni. La notte è alta, ma gli occhi vedono, come di pieno giorno; nessuna stanchezza nelle mie fibre, e una gioia profonda è diffusa in tutto il mio essere. Mi pare, scrivendo a voi, che un miracolo si compia; il miracolo di trasfonder me, la mia fede in chi amo».

Capitolo XIII.
L’impresa ecclesiastica

Tre giorni erano passati, dopo che il signor di Vaussana aveva scritto e consegnato il suo passio alla contessa Gisella. Ed era anche, bisogna dirlo, una domenica d’autunno, bella, serena, ma fredda, per un certo vento di tramontana che incominciava ad annunziare la stagione più rigida, e spogliava frattanto del loro fogliame i poveri alberi della montagna; quelli, s’intende, che sogliono perderlo all’appressarsi dell’inverno, come i roveri e gli olmi, i frassini, i tigli e i nocciuoli. Ah, i nocciuoli, soprattutto, come son tristi, quando hanno perduta la bella gloria frondosa degli scudi smeraldini, non mostrando più che una scarna selva di negre aste intirizzite! Maurizio aveva già veduto chiazzarsi di rosso quel verde, poi volgere al giallo ed accartocciarsi qua e là, intorno al dolce nido dei giorni sereni, delle ore di cielo, dei fidati colloquii, al sordo fragore della vicina cascata; pensava già con terrore che di settimana in settimana sarebbero stati più infrequenti per Gisella i pretesti di muoversi da casa, e che presto egli avrebbe dovuto per un altro inverno rassegnarsi a non veder l’amata donna che nelle troppo raccolte e troppo vigilate conversazioni della Balma. L’amor suo, per verità, schietto e profondo com’era, non pativa d’insofferenze nè di egoismo; ma quante non erano le cose che bisognava tacere, alla Balma, o che, a mala pena accennate, non si potevano spiegare con la dovuta abbondanza di parole! Amore è chiacchierino, e soffre a non potersi espandere in frasi, a non potersi esprimere nella varietà infinita delle piccole dimostrazioni.

Comunque fosse di ciò, e per tempo cattivo che volesse fare, il signor di Vaussana non andava mai alla Balma se non per la strada del bosco. E la mattina di quella domenica, un po’ prima dell’usato, egli rifaceva la strada consueta, per portare al generale un fascicolo della Rivista marittima, di cui gli aveva parlato la sera innanzi, accennando a certi esperimenti di artiglieria navale.

Il conte Della Bourdigue era solo e accigliato; ma gli si spianarono ad un tratto le rughe alla vista di Maurizio, di quel Cireneo che voleva aiutarlo a portar la croce della sua noia. Gradì il libro, e si mise subito a sfogliarlo, dando una guardata allo scritto che Maurizio gli aveva accennato. Gisella, frattanto, non si vedeva, e niente lasciava sperare ch’ella dovesse da un momento all’altro apparire. Di certo, la contessa era fuori. L’assenza di una donna da casa non si conosce, per chiare e formali notizie; s’indovina, sto per dire che si sente nell’aria.

Pensava a ciò, per l’appunto, quando il generale gli scappò fuori con una di quelle domande che fanno balzare un uomo sulla seggiola, tanto arrivano improvvise, non lasciando il tempo di vedere se siano sciocche o profonde, se le abbia dettate la ingenuità, o la malizia.

– Sapete dirmi, Maurizio, che diavolo abbia preso mia moglie, di andare in chiesa, alla messa? —

Maurizio tremò, si confuse; per un istante non seppe più in che mondo si fosse.

– Io? – balbettava frattanto. – Veramente…

– Ma sì, – ripigliò il generale, – Gisella parla con voi di tante cose… di poesia, d’arte, di storia, e che so io; può benissimo avervi detto qualche cosa, da cui si possa ricavare un costrutto, avere un’idea di questa novità.

– Voi la sentite come me, generale; – disse Maurizio.

– Non sempre, – replicò il vecchio, con un’altra scappata che fece fremere il suo interlocutore, – non sempre. So io, per esempio, i discorsi che può fare al Castèu, quando va a trovare la contessina vostra sorella? Infatti, vedete, oggi è andata laggiù. Se voi non aveste l’uso inveterato di capitare dalla montagna, vi sareste incontrato con lei al cancello, o per la gran via di San Giorgio. —

Soltanto allora Maurizio incominciò a respirare, e le sue labbra osarono atteggiarsi ad un mezzo sorriso.

– Vado da Albertina, mi ha detto; – proseguiva frattanto il generale. – Rinunzio alla colazione, per vedere la funzione della chiesa parrocchiale. Capirete, Maurizio… Non sono un tiranno, e lascio che Gisella faccia in ogni cosa a modo suo. La gran rivoluzione non deve esser venuta per nulla tra le genti. Ma capirete, ripeto, che questa novità dell’andare in chiesa m’abbia molto maravigliato.

– Ho capito, ho capito; – disse Maurizio, facendo un sorriso intiero. – C’è il vescovo in visita pastorale, come dicono. Mia sorella avrà data la notizia alla contessa, e un po’ di curiosità… Le signore, dopo tutto, son donne.

– E capisco ancor io; – riprese il generale, ridendo a sua volta di quel riso largo che faceva sollevare più minacciosi che mai sulle guance i suoi gran baffi bianchi dorati. – Davanti alla curiosità non ci son signore. Ma che sciocchezze! che cosa c’è da vedere di strano, in un vescovo? Purchè poi queste visite in chiesa non mi passino in uso!

– Lo credete, generale?

– Perchè no? Ci si va una volta, ci si va due, ci si prende il gusto dell’incenso, e non si sa dove si vada a finire, tra tante scimmiottate. Non amo i preti, lo sapete; e senza nessuna intenzione di farvi dispiacere…

– A me, generale?

– Eh sì, ne so pure qualche cosa. Ma bisogna che ogni uccello faccia il suo verso; e ci sono poi delle verità che un filosofo non può tenersi nel gozzo, senza rischio di sfiancarsi questa parte interessante di sè medesimo. La chiesa ha portato un gran guasto nei costumi, con la sua facilità di perdono, che sembra fatta a bella posta per invitare al peccato. Piaccia ad altri una certa scenetta dell’Evangelio, con la storiella della prima pietra; essa non piace a me niente affatto. A buon conto, io ho preso moglie sapendo in anticipazione che la donna, scelta da me, o dal caso, che è poi tutt’uno, non aveva il difetto di credere a tante scioccherie, e di prendere in certe dottrine pietose un’assicurazione contro la legge dei doveri umani. —

In ogni altra circostanza Maurizio avrebbe tenuto il campo e rimbeccate le argomentazioni del conte Ettore. Ma non era quello il momento di far guerra, ed egli si contentò di balbettare qualche frase, che nel fondo non diceva nulla di nulla; felice abbastanza che quella gran burrasca, a lui minacciata, si sciogliesse in un nembo di paroloni.

La contessa Gisella ritornò molto tardi dalla sua impresa ecclesiastica. Era contenta dei fatti suoi, e non mostrò di badar più che tanto al muso del generale, che all’arrivo di lei aveva creduto necessario di ridiventare più arcigno. Portava notizie della funzione, e le snocciolava allegramente al signor di Vaussana. Aveva veduto tutto, osservato tutto, con l’attenta curiosità di una bambina. Il vescovo l’aveva molto interessata, come era naturale che facesse, essendo un gran dignitario della chiesa, una specie di generale anche lui. Ma che brutto uomo! diceva lei; come poco somigliava all’idea che ella se ne era formata, di un gran signore, bellissimo d’aspetto, soave di modi, grave nel portamento, modesto nella sua dignità, che paresse sempre domandarvi perdono del vestir paonazzo e del portare la sua gran croce d’oro sul petto; di uomo, infine, il cui occhio non guardasse, ma involgesse, la cui bella mano mandasse benedizioni e carezze nell’aria! No, non le andava, quell’uomo, tanto diverso dall’ideale che ella si era fatto dei vescovi. Ed anche quel don Martino, arciprete di San Giorgio, che figura ridicola, affogato in quei suoi paramenti! Vestito della tonaca nera, restava ancor umile, all’altezza della sua povertà di spirito e della sua rusticità di maniere: con quel camice addosso, con quel lusso di piegoline e di ricami, con quella pianeta a fiorami colorati e a liste d’oro, la sua faccia nera e le sue mani vellose mostravano più forte il contrasto fra l’uomo e l’abito; pareva di vedere un orso vestito da festa, in uno spettacolo di fiera.

Il quadro, che la contessa Gisella andava così allegramente dipingendo, piacque moltissimo al signor generale. Giove, dopo tanto corrugamento di ciglia, si degnò di sorridere. E sorrideva anche Maurizio, vinto a suo mal grado dalla amenità di quella piccola caricatura. Ma il giorno dopo, quando ebbe modo di ritrovarsi un istante a quattr’occhi con la contessa Gisella, pensò di non doverle nascondere ciò che il generale aveva detto della sua impresa domenicale.

– Badate, egli ha riso; ma in fondo non vuole che andiate in chiesa.

– Il generale non comanda all’anima mia; – rispose Gisella, – ed io andrò in chiesa quante volte mi piacerà, per vedere in che modo si possa imitare il mio Rizio. Ma veramente, soggiunse ella sospirando, – incomincio a persuadermi che per sentire la presenza di Dio nelle chiese ci voglia un’anima predisposta. Tutte quelle puerilità di rappresentazione mi hanno offesa, ve lo confesso sinceramente. Ed anche voi, ditemi, come potete sentire la religione, con tutti quei preti?

– I preti sono uomini; – rispose placidamente Maurizio. – Non è la stessa cosa nella vita comune, a proposito della umanità, a cui dobbiamo amore e rispetto? Tra i nostri simili abbondano i rozzi, gl’ineducati, i bricconi: ma possono costoro farci pensar male di tutta la specie, dove sono tante anime buone, dove ho conosciuto dei gentiluomini che mi hanno amato senza secondi fini, non avendo bisogno della mia borsa, nè della mia protezione? Ed anche voi, adorata, pensateci; non vi è mai occorso di andare in una riunione, in una accademia, dove un uomo di povero aspetto, un brutto professore, vi dicesse delle cose belle e profonde? Avete voi pensato in quel momento che il professore fosse brutto, antipatico?

 

– Non lo avrei potuto, neanche volendolo; – rispose Gisella. – Se il professore brutto dice delle belle cose e profonde, i suoi occhi si accendono, la sua faccia si trasforma, la bellezza interiore vien tutta alla superficie.

– Avete ragione; – disse Maurizio. – Ho scelto male il mio esempio.

– No, niente male, amico mio; ma è per l’appunto il buon esempio che vi mette dalla parte del torto. I vostri preti potrebbero essere come quel tal professore, e non ci riescono. Parlano di Dio, ma a fior di labbro, con una cert’aria di essere in confidenza con lui, che non è fatta per dare un’idea conveniente della grandezza sua e della loro umiltà.

– Questi preti non sanno quel che fanno, ecco tutto; – replicò Maurizio. – Essi sono i preti falsi, che bisognerebbe detestare, se non fosse piuttosto il caso di compatirli. Costoro, del resto, mi lasciano freddo.

– Ti basta? – domandò la bella donna, figgendo i suoi grandi occhi fosforescenti negli occhi di lui. – Non sono essi i nemici della tua patria?

– E qui mi ribello, contro essi e contro chi li muove; – replicò Maurizio, animandosi. – Mi ribello, sentendo bene che Iddio non parla neanche per il labbro dei buoni. È veramente doloroso che una ragione umana, puramente umana, effetto di una cristallizzazione storica, metta i ministri della divinità in contrasto coll’idea della patria, da noi, mentre la rispettano e la coltivano altrove. Ma che farci? son uomini, vi ho detto, son uomini anch’essi. In basso ignoranti la più parte; nè credo che una tonsura basti a dare intelligenza e dottrina a chi non ebbe l’una e non è capace dell’altra, parendomi già molto se sono nella ignoranza virtuosi. Di questi io ne ho trovati parecchi, come il nostro don Martino, che è certamente un brav’uomo. In alto, poi, dove i preti leggono e studiano, dove le anime loro vedono più largo orizzonte, ne ho trovati di veramente insigni per dottrina e carattere. Anime buone, ragionando con me, non mi hanno potuto dire tutto ciò che sentivano dentro; ma io li ho capiti, e mi è bastato. Più alto ho visto ancora le ragioni umane, i pregiudizii storici, pesar troppo sul loro intelletto; ma ho pur veduto timori e diffidenze contro una società che nel suo laicizzarsi naturale trascorre un po’ troppo allegramente a negare, volendo mettere in ogni ordinamento civile i non ben digeriti e ancora discordi concetti di una minoranza scettica al posto di quella fede da cui la maggioranza del mondo civile tragge ancora un conforto all’anime e una norma sicura del vivere. Sentono che si vuol toglier di mezzo il loro Dio, e combattono; e non sarò io, soldato, che vorrò condannarli, pur riconoscendo che essi ricusano per eccesso di difesa ciò che farebbero egregiamente a concedere. È per esempio un gran male che essi credano necessario al papa il poter temporale; mentre questo potere non è del suo ministero, nè lo è stato mai, e la coscienza italiana, fin dagli albori della storia moderna, per bocca di grandi credenti ha protestato contr’esso. Ma se lo credono tanto necessario, perchè non lo dichiarano un dogma? Questo coraggio dovrebbero avere; ma voi vedrete che non lo avranno mai. Il giorno che facessero ciò, forse avverrebbe un miracolo, un miracolo che non immaginano neppur essi, credendone incapace la fibra italiana. —

Gisella era stata immobile, silenziosa, a sentire il suo ragionatore ostinato.

– Quanto discorrere per una semplice domanda di donna ignorante; – diss’ella, come le parve che egli avesse finito. – Rizio, non lo farò più; crederò ciecamente, in attesa di questo miracolo.

– Esso non avverrà, – rispose Maurizio, – e noi ci atterremo tranquillamente alla fede dei nostri padri. Iddio comunica con noi; egli troverà la via di salvezza, mentre illusi ministri suoi ci vorrebbero condurre alla perdizione, turbando le nostre coscienze, confondendo ciò che va dato a Dio con ciò che va dato a Cesare. —

La contessa Gisella andò altre volte in chiesa, quantunque don Martino, arciprete di San Giorgio, non le paresse il più bello tra i ministri di Dio. Il generale si seccava di quel capriccio, ritornante ogni domenica; ma non protestava più tanto forte. Maurizio frattanto raccomandava prudenza.

– Vedi? – le diceva. – Egli accuserà poi mia sorella Albertina di averti stregata, e se la prenderà con lei.

– Non andrà fino a quel punto; – rispondeva Gisella. – Ho ancor io una volontà, e non intendo di lasciarmi sopraffare dai suoi capricci. Lo conosci, del resto, come lo conosco io; egli è spesso di cattivo umore, perchè si annoia. Pure, le ragioni di non annoiarsi le avrebbe. Se ciò che egli possiede non è molto, perchè in gioventù ha molto sciupato, è molto ciò che possiedo io, e la cura dei nostri interessi potrebbe bastare ad occuparlo. Ma tutto è noioso per lui, quello che non è servizio militare. Perchè lo ha lasciato, il servizio? Gli uomini della caserma non dovrebbero uscirne mai, dalla loro caserma. Ah, ecco! – esclamò la contessa, ravvedendosi tosto, ad un gesto involontario di Maurizio. – Ora dicevo una sciocchezza. Devo al suo uscir di caserma il non esser uscita io da San Giorgio, dove un altro uscito di caserma mi doveva raggiungere, povero Rizio, tanto caro! Ma come è brutto, discorrere di cose volgari! la volgarità ci guasta le parole e le idee. Restiamo nelle nuvole, dove ci siamo conosciuti ed amati. È già triste abbastanza il pensare a questa grama stagione, che è venuta pur troppo. Abbiamo così poche occasioni di trovarci insieme! Scendendo in paese, legandomi un po’ più con quella cara Albertina, ho almeno la sorte di vederti più spesso, mio povero Rizio. —

Rizio lasciava fare, e l’unico suo lavoro alla Balma era di giustificare timidamente le visite della contessa al Castèu con la innocente curiosità delle funzioni di chiesa. Infine, non si trattava che di uno spasso. Quanti non sono i fedeli cristiani, che fanno così?

– Ed è quello che più mi dispiace; – notava il generale, felicissimo di trovare un’opinione per via. – Cristiani per cristiani, meglio esser tali sul serio. —

Da un’altra parte Gisella diceva a Maurizio:

– Sono felice, tanto felice di credere come te, insieme con te. Sai, Rizio, che ho già avuto una visione?

– Una visione! – esclamò egli, sorridendo. – Così presto? Non sarà poi stato un sogno?

– Non so che cosa significhi la vostra distinzione; – rispose Gisella. – Sareste incredulo voi, ora? Il mio sogno è stato bello, se mai. Figuratevi che mi son ritrovata in un paese nuovo, un paese orientale, che riconoscevo benissimo, senza averlo veduto mai. Ero uscita dalla città per andare verso un bosco d’olivi, a pregare, sentendo nel mio cuore una gran tenerezza; allorquando, già presso al colmo di una collina, nella calda luce del tramonto, mi apparve un uomo, vestito d’una tunica rossa, con un mantello azzurro sulle spalle. Un uomo, vi ho detto; ma io bene sentivo che non era tale. Intorno alla sua bella testa, incoronata di capelli lunghi e fini, morbidamente ricadenti in ciocche dorate, splendeva mite un’aureola vaporosa: la barba di un bel biondo carico gli scendeva sul petto bianco di latte; gli occhi azzurri, sereni, guardavano pietosamente verso di me, dando un senso di bontà paterna alla bellezza di un angelico sorriso. Non mi parlò; ma la sua mano si alzava benedicendo, ed io mi sentii morire di gioia. Come era dolce quell’atto! come era buono lo sguardo! e quanto, nell’aspetto, aveva egli di voi!

– Ah, ecco, – disse Maurizio, – voi ora guastate la dolce visione. Non è così che bisogna immaginare il buon padre, la cui figura è oltre l’umano. Ma è sempre bello che l’abbiate veduta, – conchiuse, – e che ne abbiate sentita la poesia consolatrice. —

Capitolo XIV.
Da Ceppo a Carnevale

Anche il signor di Vaussana andava in chiesa: credente nell’anima, voleva mostrarsi tale in certi atti esteriori. Amava all’italiana antica; perciò volentieri glorificava la bellezza nel recinto d’un tempio, come avevano fatto l’Alighieri e il Petrarca, e al pari di quei due immortali sarebbe stato capace di un amore puramente ideale. Il destino aveva voluto altrimenti; ma egli nell’amor suo metteva sempre un senso di adorazione, in cui si smarriva quel non so che di pungente e di aspro che l’idea della colpa induce confusamente nell’amore più intenso.

Ah, quella colpa, non la espiava egli amaramente nel difetto della possessione piena ed intiera della donna adorata? Ma in tanta amarezza era più dolce qualche volta il pensare che egli, egli solo, aveva condotta quella divina creatura alla fede; che l’amor suo, svegliando in lei un senso più intimo della ragion delle cose, ne aveva per così dire compiuta la perfezione. Maurizio sinceramente pensava, non esser senza la fede creatura perfetta, come non è perfetta la pianta che non possa vestire i suoi rami di fiori. La bella pianta della Balma, fiorita in quella guisa di fede, guadagnava non pure agli occhi di lui, ma a quelli di tutto il paese, che vedeva un tal miracolo di bellezza sovrana mescolarsi nella modesta chiesa di San Giorgio alla umile turba dei fedeli preganti. Si era creduto da prima che la contessa Gisella fosse tenuta lontana dalle pratiche religiose per volontà del marito, a cui dava noia il fumo delle candele. Vedendola ogni domenica in chiesa, s’incominciò a pensar meno male dell’orso della Balma, che accennava a volersi ammansare; ma più si ammirò la contessa Albertina, la buona fata del Castèu, alla quale si attribuiva da tutti il prodigio.

Così andavano pianamente le cose, come l’acqua d’un fiume alla foce; e il signor generale, vedendo di mal occhio quella manìa religiosa della sua giovane metà, si adattava al fatto con più filosofia che non avesse mai mostrato di avere. Così giunsero le feste del Natale, che furono per Gisella una lieta novità, senza essere una troppo grave noia per il suo signore e padrone. Il Natale, dopo tutto, è una solennità dell’anno che non dispiace a nessuno, checchè si pensi in materia di fede. C’è l’uso antico della baldoria domestica, a cui non saprebbe sottrarsi lo spirito più scettico; e tiepidi credenti e caldi filosofi, facendosi imprestare dagli eruditi qualche notizia intorno alle storiche celebrazioni dell’anno nuovo presso tutti i popoli antichi e moderni del globo, trovano che in certe occasioni, specie quando fa molto freddo di fuori, si sta bene riuniti alla fiammata del ceppo tradizionale. In questo modo si mettono tutti d’accordo, nella più varia dissonanza di umori e d’idee che abbia mai turbata la pace di una famiglia. Le povere donne credenti sorridono meglio ai loro uomini, vedendoli così lieti, quasi contenti di sè medesimi, in quell’ora di domestico abbandono, e pensano e sperano che il giorno verrà anche per essi di accostarsi meglio a Dio. Non è forse vero che tutte le strade conducono a Roma?

Il gran camino padronale della Balma non aveva avuto da molti anni un ceppo così allegro. Cedendo alle istanze dei Matignon, i signori del Castèu erano andati a far Natale lassù, e così pure la notte del Capo d’anno. Per quella doppia solennità era anche venuto di Francia il capitano Dutolet. Il buon ragno non aveva parenti, e si era mostrato molto amabile venendo a spendere quei pochi giorni di libertà presso il suo antico capo squadrone. Non aveva per quella volta che una breve licenza; ma prometteva di averne una lunga per l’anno prossimo, se niente fosse venuto a guastare. Veramente, guastare non era il verbo adatto: ciò che poteva guastare il disegno di una pacifica gita a San Giorgio sarebbe stato accolto come un invito a nozze da lui, soldato francese anzi tutto. Ma di questo non ne diceva nulla, il buon ragno; aveva caldo l’amor patrio, ma silenzioso, e con quell’aria di Guglielmo il Taciturno lasciava credere di annoiarsi mortalmente per tutt’altra cagione.

– Prendete moglie, Dutolet; – gli aveva detto ad un certo punto il generale.

– Se fossi ricco, perchè no? – aveva risposto il capitano.

– Come? – esclamò la contessa Gisella. – C’è forse bisogno di esser ricchi?

– Sì, e molto ricchi; – rispose il buon ragno. – Come si potrebbe altrimenti coprir di diamanti la donna che si fosse scelta a compagna? —

Era un gentile pensiero; e la contessa Gisella, da buona figlia d’Eva, trovò che il capitano Dutolet ragionava benissimo. Così il buon ragno cansò quella sequela di argomentazioni che sogliono scaraventarsi in ogni società di ammogliati addosso agli scapoli impenitenti. Ma la contessa Gisella, che era stata assai lieta il giorno di Natale, non fu egualmente lieta nella notte del Capo d’anno, quando al brindisi solenne delle dodici il generale alzò il calice spumante del generoso liquore della vedova Cliquot, per bere alla felicità di Maurizio e della sua moglie futura. Era in uno strano periodo psicologico, il generale; voleva ad ogni costo combinar matrimonii. E Maurizio, come aveva risposto al brindisi? Male, assai male, balbettando rotte parole, quasi accettando l’augurio.

 

– Come fare altrimenti? – disse quel poveretto, appena ebbe modo di ritrovarsi a quattr’occhi con lei. – Dovevo io rispondergli che non gradivo il discorso? Dovevo, con la mia prontezza a respingere un augurio senza nessuna importanza, correre il rischio di mettergli un sospetto nell’anima? Ci pensate voi, anima mia, a quello che potrebbe succedere, se egli immaginasse…

– Non mi dir altro, Maurizio, non mi dir altro! – gridò ella, fremendo. – Tu hai ragione, hai ragione, hai sempre ragione. Ma ho sofferto tanto! Una pugnalata al cuore, in quel momento, mi sarebbe piaciuta di più. Ah, sento che l’anno incomincia male, assai male.

– Superstizioni, non vi pare? – mormorò egli, sforzandosi di sorridere.

– Chi sa? – diss’ella, traendo un sospiro. – Non sono poi le compagne della fede? A me incominciano a venire con essa. Pensate infine che io sono una povera donna, con poca istruzione, con pochissime idee. Quando ne ho una in testa, il mio piccolo cervello è costretto a lavorar sempre su quella. Felice voi, Rizio, che sapete tante cose, voi che guardate più lontano e comprendete più largamente di me, trovando il punto giusto dove io mi smarrisco, dove io non vedo che contraddizioni e paure. —

Maurizio non meritava la lode di Gisella, e il punto giusto non lo trovava da un pezzo neppur lui. La contraddizione, brutta chimera, lo afferrava alla gola, ed egli si divincolava inutilmente nella stretta. Se credi al decalogo, perchè rubi? Se hai tanto squisito il senso della legge morale da volerne insegnare altrui la eterna sanzione, perchè inganni il tuo simile? perchè siedi col tradimento nel cuore alla mensa di chi fida così ciecamente nella tua probità? Ma a questi dilemmi, non bene formati ancora, egli chiudeva gli occhi della mente, quasi cercando nella sua cecità volontaria una ragione per non averli a combattere. Amava, e non voleva affrontare una pugna con la logica inflessibile, una pugna che sarebbe riuscita a danno dell’amor suo. Quella logica gli avrebbe comandato di rinunziare a Gisella; e questo era per lui l’impossibile. Un miracolo, ci sarebbe voluto, un miracolo, per levarlo di pena. Ma quale? Egli non osava neanche dirlo a sè stesso; e vili pensieri lampeggiavano sinistramente nell’ombra densa dell’anima sua.

Felice il generale, che negli ozi del suo castello aveva da combattere solamente la noia. Ognuno, si sa, crede la propria malattia più grave di quella degli altri, ed egli sinceramente si esagerava i mali di una noia, in onta alla quale passavano i giorni abbastanza rapidi, tra partite a biliardo o a picchetto, accessi di malumore e grasse risate. La volgarità del discorso faceva anche capolino fra la domestichezza dello consuetudini. Il signor di Vaussana, di tanto in tanto, per una ragione o per l’altra, interrompeva le visite. Quello dei viaggi brevi e frequenti era un artifizio, ben noto alla contessa, che non aveva neanche da soffrirne troppo; perchè Maurizio, il più delle volte, dopo avere annunziato una gita a Nizza, a Torino, a Genova o altrove, non si muoveva dal Castèu, dove ella trovava poi modo di scovarlo. Quei piccoli furti erano un segreto di più e certamente il meno grave tra tutti quelli che avessero da custodire. Frattanto, colle frequenti sparizioni dalla Balma, il signor Maurizio si confidava di addormentar meglio il castellano, sviarne l’attenzione, dissiparne i sospetti, se mai ne fossero nati. Su quei viaggi frequenti tornava spesso il generale, e con molta libertà di discorso, anche in presenza della moglie.

– Gran fioritura di camelie dev’essere a Montecarlo; non è vero, Vaussana? E c’è poi sempre quell’abbondanza di belles-de-nuit?

– Non sono stato a Montecarlo; – rispondeva Maurizio, schermendosi come poteva. – Vi ho pur detto, generale, che ho fatto una punta fino a Genova.

– Ritorno offensivo, dunque? E come sono ora le genovesi? sempre belle? Ai tempi della Crimea, quando ci sono passato io, erano tutte d’una bellezza incontrastabile, ma un pochettino massiccia. Mi dicono che ora ci sia un altro tipo, alto, flessuoso, con una tendenza spiccata al biondo, e dei languori orientali nell’occhio. Come le preferite voi, Vaussana? Fortunato briccone! godete il mondo, finchè vi dura la gioventù. Ma non abusate, mi raccomando; è insalubre. E credete a me, la miglior cosa che possiate fare, per calmare questa febbre, tanto pericolosa all’ultimo stadio, è ancora di prender moglie. Prendete moglie, Maurizio, prendete moglie. —

E lo canticchiava anche in musica, il suo ritornello, prendendo lo spunto da una canzonetta del Béranger.

La contessa, di solito, chinava gli occhi sul suo telaino da ricamo, aspettando che il generale la finisse con quelle sue libertà di discorso. Ma il generale prendeva un gusto matto a ribattere quel chiodo in presenza di lei, e chiudendo sempre il discorso col suo solito ritornello. Tanto che un giorno, seccata, la contessa alzò gli occhi e soggiunse, rivolgendosi a Maurizio:

– Ma sì, prendete moglie, signor di Vaussana. —

Maurizio rimase un po’ male, non intendendo il perchè di quell’altra esortazione. C’era egli bisogno che Gisella tenesse bordone al generale? Che cosa ne poteva lui, se quell’altro, abusando del suo diritto di padrone di casa, gli tornava sempre sul medesimo tasto?

– Me la trovino loro; – rispose egli a denti stretti.

– Oh bravo! e se la troveremo, la prenderete?

– Scelta da amici come voi, perchè no? avrà certamente tutte le virtù immaginabili.

– Ebbene, cercheremo; – disse Gisella.

– A Nizza, non è vero? – soggiunse il generale. – Mia moglie ha il desiderio di passare a Nizza gli ultimi giorni di carnevale; sarà una eccellente occasione per noi di cercare, e per voi di giudicare della scelta, senza perdita di tempo.

– Si va all’arma bianca! – conchiuse Maurizio, facendo bocca da ridere.

Ma in verità aveva voglia di tutt’altro; era lì lì per uscire de’ gangheri. Anche quel viaggio a Nizza ci voleva! Gisella ne aveva già accennato a Maurizio, come di uno svago da procurare a quell’eterno annoiato del signor generale; quanto a sè, non ci aveva nessun gusto, prevedendo la seccatura delle visite molte e della poca o nessuna libertà che avrebbe avuto di stare a discorrere col suo povero Rizio. Ma ci voleva pazienza, e bisognava fare di necessità virtù. Sì, tutto bene, salvo quell’idea pazza di cercar moglie a lui, che non voleva saperne.

Per fortuna, nel soggiorno di tre settimane a Nizza, non furono che falsi allarmi. Gli avevano domandato se la preferisse inglese, o americana, o russa, ed egli aveva risposto di non aver predilezioni in materia. Intanto, con quell’arte che le donne sanno tutte, ma che le donne innamorate conoscono a perfezione, la contessa Gisella causava ogni occasione di far conoscenze del suo sesso, oltre le poche necessariamente portate dalle relazioni mascoline del marito. Si vedevano mogli di generali, di colonnelli e di capisquadrone, tra le quali non c’era pericolo che avesse da scegliere il suo Maurizio, o per lui il signor generale. E questi, d’altra parte, sempre attorniato da vecchi troupiers, tutto ingolfato nelle sue conversazioni d’arte militare, di caserma o di piazza d’armi, non pensava più affatto ad ammogliare il signor di Vaussana. Nè poteva sperare che se ne incaricasse sua moglie, sempre circondata dal gaio sciame dei giovani capitani, degli aiutanti di campo e degli uffiziali d’ordinanza. La galanteria militare si esercitava intorno alla bellissima generala in visita, con quella amabile festività, con quella misura cavalleresca, che è propria dei francesi, e che è maravigliosamente aiutata da una lingua facile e snella, di forme ben definite, di frasi bell’e fatte, tra cui la stessa consuetudine ha tolta ogni importanza e lasciata tutta la sua grazia all’iperbole. Maurizio, nondimeno, si seccava un pochino che tutti fossero bien heureux come santi in paradiso, o enchantés come cavalieri nel castello di una fata, quando erano ammessi alla presenza di quella grande charmeuse, di quella femme divine, della contessa Gisella.