Za darmo

Santa Cecilia

Tekst
0
Recenzje
iOSAndroidWindows Phone
Gdzie wysłać link do aplikacji?
Nie zamykaj tego okna, dopóki nie wprowadzisz kodu na urządzeniu mobilnym
Ponów próbęLink został wysłany

Na prośbę właściciela praw autorskich ta książka nie jest dostępna do pobrania jako plik.

Można ją jednak przeczytać w naszych aplikacjach mobilnych (nawet bez połączenia z internetem) oraz online w witrynie LitRes.

Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

XII

I Caselli erano sul cominciar del secolo una delle più ricche famiglie delle Langhe. Il signor Pietro, padre di Calisto, oltre i larghi poderi ed i boschi sterminati, aveva avuto in eredità dai suoi vecchi una grossa somma di danaro in contanti, con la quale potè comperare il castello dei conti di Villa Cervia, caduti in basso stato ai tempi della rivoluzione e travolti poi come tanti altri nella rovina dei reali di Savoia, ai quali serbarono fede nei giorni della sventura.

In questo castello, che poco era discosto dal paese di Dego, il signor Pietro Caselli dimorava sei mesi dell'anno; o, per meglio dire, vi dimorava sua moglie, donna così ornata di angeliche virtù come era graziosa della persona.

Il signor Pietro la scialava da gran signore, e continuava a vivere a Milano, o a Parigi, dove io non istarò a dirvi che sollazzi lo trattenessero. Nei due mesi poi che consacrava alla campagna accanto alla moglie, per rompere la noia grandissima, teneva corte bandita, e gli amici piovevano a frotte; anzi può dirsi che arrivassero e partissero insieme con lui.

La signora, come vi ho detto, era una donna angelica. Dapprima essa aveva amato grandemente il marito; ma poi, vedutasi trascurata, non parve dolersi e si diede tutta all'educazione del suo unico figlio, come per trovarvi un sollievo alla sua mestizia, in quella che adempiva al suo ufficio di madre. Perciò ella viveva assai volontieri in campagna, facendo del bene, e cercando di coprire con la modestia e la bontà dei suoi modi la burbanza e il fasto del marito. Laonde non è a dire se fosse amata e rispettata da tutti.

Il giovinetto Calisto, fatto il suo anno scolastico in un reputato collegio non lontano di qui, andava a passar con la madre il tempo delle vacanze. Egli riteneva molto di lei, e più femminea che virile poteva ben dirsi l'indole sua, tanta era la sensibilità, tanta la prontezza ad infiammarsi per ogni cosa che gli paresse bella, e tanta la innata mollezza del carattere, che a volte si sarebbe potuta scambiare per apatia. L'ingegno era, per altro, vivace e piuttosto traente al fantastico; mirabilmente acconcio ad ogni genere di studi, alieno dal riposarsi in uno solo e condurlo a fine.

Questo era il giudizio che di lui facevano i suoi maestri. Ma essi non l'ebbero molta pezza nelle scuole; imperocchè, morta in quel torno la signora, il giovinetto fu posto dal padre in un altro collegio, e il castello di Villa Cervia non vide più alcuno dei suoi padroni. Ne dolse ai poverelli dei dintorni e a tutte le anime bennate, che veneravano quella pietosa signora; ne dolse a cacciatori, i quali perdevano i frutti della fastosa liberalità del Caselli, nei due mesi che egli soleva stare in campagna, e poi, come avviene di tutte le cose di questo mondo, non se ne parlò più affatto.

Di tanto in tanto, nondimeno, si sapeva qualche novella del padre e del figlio. Il primo seguitava a vivere nel mondo di prima, scialando sempre e viaggiando a sua posta. L'altro, com'ebbe finiti i suoi studi, ebbe dal padre gli esempi e la libertà di seguirli.

Per farvela breve, questa cuccagna durò anni parecchi, in capo ai quali il signor Pietro, che aveva sepolta la memoria della moglie nella varietà dei sollazzi, nei viaggi e nel giuoco, si accorse di aver mandato a male tutte le sue sostanze e la salute per giunta. I suoi poderi, che da lunga pezza andavano ogni anno coprendosi di nuove ipoteche, un bel giorno non parvero più abbastanza vasti alla folla dei creditori, e furono venduti a prezzi rotti.

L'improvvido spenditore non ne cavò, pagati i debiti, che poche migliaia di lire, con le quali ebbe agio di andarsene a morire, dicono, in un ospedale di Parigi. Trista fine di molti, i quali credono di possedere una borsa inesauribile come il pozzo di san Patrizio.

Questa rovina la prevedevano da lungo tempo gli uomini assennati, i quali conoscevano lo stato della famiglia Caselli, e le pericolose consuetudini del suo capo. Ma la gente minuta non avrebbe mai più immaginato che quella famiglia, argomento di tanta invidia, e citata come esempio di sfondata ricchezza, potesse un giorno cadere in quel modo. Però figuratevi la maraviglia di tutti, quando si seppe che i grossi poderi, i boschi sterminati, non appartenevano più ai Caselli, e che il castello, il magnifico castello feudale, era tornato in mano dei conti di Villa Cervia, i quali lo avevano anzi riavuto per poca moneta.

Se fosse vissuta l'angelica donna, per cui il castello aveva conservata una parte così gradevole nei ricordi della povera gente, la nuova di quel mutamento avrebbe stretto il cuore a più d'uno. Ma la signora era morta da sette anni; il marito non si era mai cattivato l'affetto nè la reverenza di alcuno; il figlio non si era più visto e nessuno se ne ricordava. Vi ebbe adunque una gran maraviglia, argomento a molte chiacchiere per due settimane, e nulla più.

D'altra parte, i vecchi del paese non si erano ancora dimenticati dei conti di Villa Cervia, i quali erano brava gente e senza alterigia, sebbene stessero a Torino con alti uffizi e dignità di corte. Laonde, tra queste memorie dei vecchi e l'amore della novità nei giovani, il ritorno degli antichi castellani fu desiderato per tutta la primavera e salutato con giubilo nella state.

Io mi rammento ancora di quel tempo, come se si trattasse del mese passato. Eravamo nel giugno del 1831, quasi trent'anni fa, quando il conte di Villa Cervia fece ritorno alla dimora de' suoi antenati; e ricevè le visite di quasi tutte le famiglie del nostro paesello, tra le quali non fu ultima la mia.

Il conte Emanuele di Villa Cervia era allora un uomo sui cinquantacinque, alto della persona, con due mustacchi bianchi come la neve, e i capegli del pari. A primo aspetto egli pareva uomo burbero, ma in cambio era buono come il pane. Si vantava di idee progressiste, e citava di sovente la parte che egli aveva presa, insieme col Santa Rosa, nei rivolgimenti del 1821; ma in fondo era come tutti gli altri suoi pari, e non avrebbe sacrificato un solo dei suoi titoli, una sola delle sue prerogative, per quelle famose idee che gli venivano ad ogni tratto sulle labbra. Nè di questo gli do biasimo; ma fo per dire che le sue tirate liberalesche non erano che un avanzo di quelle scapestrate invenzioni di Francia, infiltratesi a quei tempi perfin nell'esercito, al quale egli era appartenuto, ma in fin dei conti non mutavano l'essenza del suo carattere, e gli si potevano anche passare, come un difettuzzo di poco rilievo.

Dite e pensate quel che volete, voi altri rivoluzionari del 1860; io sto fermo alle vecchie massime. E sopratutto non mi state a ridere sulla faccia, perchè io potrei impuntarmi e non proseguirvi più questo racconto. Volete il dolce? Abbiatevi anco un tantino di amaro.

Non erano forse due anni da che il conte di Villa Cervia dimorava nel castello, quando giunse a Dego un giovanotto, con una valigia ed una cassetta di libri, e prese alloggiamento all'insegna dell'Aquila d'oro, che era l'unica osteria del paese. Egli vi stette alcuni giorni, uscendo alla mattina e rientrando all'ora del desinare, per uscir da capo e non tornare che a notte alta. Non istava a passeggiare per le vie, ma andava subito all'aperto, e si vedeva guizzare, or di qua, or di là, pei sentieri più soli ed alpestri.

In paese c'era una gran curiosità di sapere chi fosse quel giovine forestiero, il quale aveva tanta tenerezza per le colline e le boscaglie dei dintorni. Sulle prime lo credettero un pittore; ma egli non portava con sè nè albo, nè matita; e se stava le ore intiere a contemplare alcuni punti del paese, non era certamente in atto di copiarli sulla carta.

L'ostiere, interrogato, diceva di non saperne nulla, ma si vedeva troppo chiaro com'egli avesse paglia in becco. Il brigadiere dei carabinieri non era niente più loquace dell'ostiere; aveva veduto le carte del forestiero, le aveva trovate in regola; nè voleva sbottonarsi più oltre. Chi diamine poteva essere costui? Le donne di Dego, che non sono meno curiose di quelle d'ogni altro paese del mondo, avrebbero dato tutte il loro dito mignolo per discoprire l'arcano.

Finalmente il giovanotto se ne andò dall'osteria dell'Aquila d'oro; ma non dal paese. Egli aveva messo dimora nella casa padronale di un podere discosto mezz'ora dal castello dei Villa Cervia, e conosciuto da quei terrazzani sotto il nome di Castagneto, per i castagni ond'era piantato in gran parte.

Il suo modo di vivere era sempre lo stesso di prima; ma la curiosità della gente era soddisfatta; la scelta della dimora aveva tradito l'incognito del giovine. Il Castagneto era l'unico pezzo di terra che restasse ai Caselli, o, per meglio dire, all'ultimo loro rampollo, per il testamento d'una vecchia zia che aveva lasciato quel podere a Calisto.

Era dunque Calisto Caselli. L'ostiere non disse di no; il brigadiere nemmeno; ambedue si scusarono coi curiosi, narrando come il giovine Caselli li avesse pregati a non dir subito il suo nome, per aver tempo a ridursi nella casa, dov'egli stava facendo accomodare all'infretta due camere per uso di abitazione. Ma, contentata la curiosità del nome, non si ebbe altro; chè il Caselli non pose quasi mai piede nel paese, standosene tutto solo per la campagna.

Era un giovine malinconico, anzi, più che malinconico, saturnino. Vestiva con eletta semplicità, e non scambiava mai una parola con alcuno, tranne con cinque o sei coloni del suo podere, il quale, non so se ve l'abbia ancor detto, poteva fruttargli un duemila lire all'anno. Per i nostri paesi, e sapendosi contentare, era una bella moneta. Ma le dieci o dodici ragazze da marito che avevano fatto quella considerazione, si persuasero ben presto che il nuovo venuto non intendeva di spendere un centesimo di quella somma in denunzie matrimoniali.

Eppure un giorno, cosa strana, egli fu veduto accostarsi all'arciprete e ragionare con lui molto familiarmente, e don Bernardo andargli a braccetto per un bel tratto di strada. Che cos'era questa novità? Ve la dirò io. Calisto chiedeva a don Bernardo se nella chiesa parrocchiale ci fosse un organo.

 

Egli soggiungeva di essere appassionato per la musica, e dilettante di cembalo, ma lo stato delle cose sue non consentirgli la spesa d'un istrumento; però, se c'era un organo in chiesa, lo avrebbe suonato volentieri, tanto da non perder la mano.

Ma l'organo in chiesa non c'era, e don Bernardo con suo grande rammarico glielo confessò.

– Che peccato! – disse l'altro. – Avrei avuto tanto piacere a suonare! La musica è un passatempo così gradito! Io cionondimeno la ringrazio, signor parroco; ritornerò alle mie passeggiate e ai miei libri.

– Aspetti! aspetti! – ripigliò don Bernardo, percuotendosi la fronte con le palme. – Ci ho il fatto suo. Un organo c'è, in una cappella privata; ma da anni e anni non fu suonato più mai, e bisognerà forse farlo aggiustare. Veda che smemorato! Non ricordavo più l'organo di Villa Cervia…

– No! no! – esclamò, interrompendolo, il giovane. – Quell'organo… Mai!

– Perchè mo? – gli chiese don Bernardo, mettendogli con sollecitudine paterna una mano sulla spalla. – Ella, giovine colto e di un animo nobile com'è, non renderebbe giustizia ai nuovi padroni, i quali alla fin fine sono pure i vecchi, del castello di Villa Cervia? Nei dolorosi ricordi che può a lei giustamente inspirare la vista di quel luogo, c'entra forse un po' di risentimento?

– No, don Bernardo! – si affrettò a rispondergli il giovane. – Non è per cotesto che io ricuso la sua offerta. So benissimo che i miei non furono che ospiti passeggeri nel castello, e che il conte di Villa Cervia ha fatto benissimo a riscattare la vecchia dimora dei suoi padri, quando fu messa all'asta pubblica. Ma la natura mia non mi consente di sollecitar grazie da alcuno, nè per contro di ficcarmi in luoghi dove io non sia stato cercato.

– Oh, quando non si tratta d'altro… – soggiunse quell'anima buona di don Bernardo. – Volevo ben dire che gli intendimenti suoi non potevano non essere i più nobili del mondo! —

E, dopo questa conversazione, si lasciarono. Il giovane tuttavia non si partì senza aver prima scongiurato don Bernardo a non far parola con alcuno del suo desiderio, e aggiunse perfino che tutto era per lo migliore, imperocchè il passatempo dell'organo avrebbe potuto distrarlo da studi più gravi.

Quali erano questi studi? Leggicchiare un poco, pensar molto e correre sempre attorno per la campagna. Talvolta i contadini vedevano Calisto nei luoghi più strani, sulla cresta delle montagne, lontano parecchie miglia dal Castagneto, e godersela meglio dove i monti erano più brulli e dove il vento soffiava impetuoso. Quando egli era in uno di quei punti prediletti, si fermava sui due piedi, e stava là con le braccia conserte al petto a guardare, per ore intiere, Dio sa che cosa.

Quanto a scrivere, non fu mai veduto. Giunto appena al Castagneto, egli aveva dato alle fiamme un fascio di lettere, che era come il suo passato; nè prese più, se non rare volte, la penna, per segnare (diceva Vincenzo, uno dei suoi fittaiuoli che stava accanto alla casa padronale e con la sua famiglia gli faceva quei po' servigi di casa) dei punti neri con certe gambe smilze, sovra alcuni fogli di carta rigata. Voi già avrete indovinato che erano note di musica.

Don Bernardo non ebbe dunque il torto a cercar di contentarlo, anche senza sua saputa, presso il padrone del castello. E dico, non ebbe il torto, rammentando che a quel santo uomo si volle ascriver la colpa di tanti malanni che avvennero di poi, come se l'averlo egli tirato al castello, fosse stata l'origine e la causa vera di tutto. Il povero arciprete non fece altro che metterci la buona intenzione; egli d'altra parte non poteva presagire, e nemmeno poi impedire, quello che a Dio piacque accadesse più tardi.

Egli, adunque, essendo spesso dal conte Emanuele, entrò un giorno a parlargli del giovine Caselli e dello stato in cui era.

– Mi dicono, – soggiunse il conte, – che egli sia un giovine assai cupo.

– Sì, cupo, signor conte, ma di buon'indole, e cortese nei modi. Si figuri che va matto per la musica, ed anzi, l'altro dì venne a chiedermi se nella nostra chiesa parrocchiale ci fosse un organo, ch'egli volentieri avrebbe suonato. Ma le nostre rendite non ci hanno ancora consentito di fare quella grossa spesa, ed io ho dovuto dirgli che non c'era.

– Bravo! – esclamò il conte. – Non c'è qui l'organo della cappella? Poteva ben dirglielo!

– E gliel'ho detto, non dubiti; ma Ella intende benissimo, signor conte, che io non potevo profferirgli cosa non mia. Poi, se la memoria non mi tradisce, l'organo ha bisogno di cerusico.

– Ella, don Bernardo carissimo, è padrone di casa mia e può disporne come le aggrada. In quanto al cerusico, come lo chiama, penserò io, e manderò anzi domani per un organista a Mondovì. Dica dunque al suo amico che venga pure al castello, dove la sua presenza sarà molto gradita. Egli, se non ho male inteso, deve aver lasciato il castello in assai tenera età, e non gli sarà forse discaro vedere i luoghi della sua infanzia. Anch'io l'ho passata qui, la mia infanzia, e so per prova che certe memorie non si cancellano.

– Oh! per cotesto, signor conte, non credo che sia invito da fargli. È un giovine malinconico, com'Ella sa, e non ama far conoscenze.

– Orbene, io non cerco nessuno, – disse il conte Emanuele. – Se vorrà suonar l'organo, tutte le domeniche, alle dieci del mattino, abbiamo la messa. Egli può entrare nella cappella, senza neppur vedere le scale di casa mia. Va bene così? —

Il conte Emanuele voleva, con queste parole buttate là a caso, mostrare il suo animo liberale, e non gli sapeva male che si avesse, a notare dalla gente, com'egli, il conte di Villa Cervia, usasse cortesia al figlio di quel tale che era stato tanti anni padrone nel suo castello.

Don Bernardo accolse con giubilo l'offerta del conte, e, soddisfatto in cuor suo di averla fatta venire come la cosa più naturale del mondo, non pensò che a vedere il giovine, per dargli la buona novella.

Ma questi, dopo il discorso avuto con lui, non fu più visto, e passarono tre settimane senza che l'arciprete lo incontrasse nelle vie del paesello. L'organo intanto era aggiustato e accordato a dovere; e don Bernardo, non isperando di vedere il suo futuro suonatore se egli stesso non andava a cercarlo, pigliò una deliberazione, e, con l'aria e l'andatura di chi se ne va a diporto, s'incamminò alla volta del Castagneto.

Poco lontano dalla casa padronale, e appunto dove la strada, correndo per un tratto in pianura, formava come un viale, ombreggiato da grossi e frondosi castagni, egli s'imbattè in Calisto, che passeggiava con un libro in mano, ma con la mano e col libro dietro le spalle, in atto di chi medita sulle cose lette.

Come ebbe appena veduto il parroco, Calisto gli corse incontro, e chiestogli della sua salute, lo pregò che volesse salire da lui a riposarsi un tratto e far colazione in compagnia.

– No, la ringrazio, – disse don Bernardo. – Ho ancora una mezz'oretta di strada a fare, per un certo negozio, e non posso fermarmi. Sarà per un'altra volta. Intanto, poichè sono da queste parti e la vedo, le dirò che il signor conte di Villa Cervia, udito da me come ella sia dilettante di musica, la prega di accettare l'offerta che egli le fa, di disporre dell'organo della cappella, come di cosa sua. —

A queste parole che don Bernardo aveva infilzate in fretta, per dar loro una certa aria di naturalezza, il giovine stette un po' in forse; ma, rassicurato da lui intorno al modo con cui era stata fatta l'offerta, e dettogli per giunta che non avrebbe dovuto entrare in casa del conte, accettò l'invito; ed anzi, manifestando quasi una gioia fanciullesca, afferrò le mani del parroco e lo ringraziò caldamente.

– Veda, don Bernardo, – gli disse con una scioltezza affettuosa di parole che non aveva mostrata fino a quel punto, – io amo la musica sopra ogni altra cosa al mondo. Ho studiato di molte cose: storia, letteratura, lingue straniere, parecchie delle quali per la dimora fatta e per l'uso assiduo in molti paesi. Non ho che ventidue anni, ma ho già vissuto come se ne avessi trenta. Tutto ora m'è venuto a fastidio, tranne la musica. Il sapere un pochino di contrappunto mi aiuta a mettere in carta tutte le fantasie musicali che mi vengono in capo, ed è questa l'unica consolazione che mi sia rimasta. Io sarò dunque lieto di avere uno strumento da suonarne qualcheduna, e godo di andar debitore a lei di questa buona ventura. —

Ho tutti questi particolari dalla bocca stessa di don Bernardo, come potete argomentar di leggieri. Egli stesso mi narrò che la domenica seguente andarono insieme alla cappella dei Villa Cervia. Calisto, nel pigliar l'erta del castello, era fortemente commosso, e allo svoltar della strada, dove quell'edifizio si lascia scorgere in tutta la maestà delle sue forme, dal mezzo di due quercie secolari, piantate all'ingresso di una piazzetta bastionata, egli si fermò; e don Bernardo, che gli era a braccetto, lo sentì tremar tutto.

Il giovine guardò il castello, guardò le due quercie in mezzo alle quali doveva passare, per giungere sulla piazzetta, e facendosi scorrere il dosso della mano sulle ciglia, come per asciugare una lagrima, mormorò a bassa voce:

– Madre mia! madre mia! —

Sotto una di quelle piante annose, l'angelica donna, la madre di Calisto, usava sedersi a meriggiare nelle calde ore di estate. Quante memorie dovette destare nell'animo del giovine la vista improvvisa di quel luogo, dopo tanti anni di assenza, lo lascio pensare a voi.

– Madre mia! madre mia! – ripetè egli ancora una volta, col medesimo accento; poi, affrettando il passo sulla piazzetta, trascinò il compagno a sinistra, dov'era la cappella, senza voltar neppure la testa alla porta principale del castello; salì difilato la gradinata, e di là, poichè ebbe lasciato don Bernardo, corse sull'orchestra e si pose a sedere davanti all'organo.

La messa stava per cominciare. Il conte Emanuele era andato in quel punto a sedersi nella sua tribuna presso l'altare, e le panche della chiesuola erano occupate dai famigli, da alcuni del vicinato e da una turba di contadini.

Allora le canne dell'organo incominciarono a mandar fuori i suoni che il giovane andava risvegliando sulla tastiera con mano maestra. Egli, per tutto il tempo che durò la cerimonia, non suonò neppure un'aria di opere da teatro, ma gravi armonie, improntate di uno schietto sentimento religioso, che mirabilmente accompagnavano la preghiera, se forse non è più acconcio il dire che la inspiravano.

Finita la messa, il conte Emanuele aveva voluto vedere Calisto per ringraziarlo della stupenda musica che questi aveva fatta; ma Calisto era scomparso. Giovanni, il vecchio domestico del conte, non rifiniva dal dirne il maggior bene, mostrandosi innamorato di lui. Egli era andato sull'orchestra, e diceva al padrone di non aver mai veduto un viso più nobile e un suonator più valente.

Lascio pensare a voi come, dopo quella mattina, la cappella di Villa Cervia fosse affollata ogni domenica. Assai più scarso s'era fatto il numero dei devoti alla chiesa parrocchiale; tutti correvano al castello per udire il dilettante, e quando la cappella era stipata di gente, i devoti ascoltatori s'inginocchiavano sulla gradinata, stavano in piedi sulla piazzetta, dolenti di essere giunti per gli ultimi.

Calisto non si lasciava mai vedere dal conte. Finita la messa, egli infilava la scaletta dell'orchestra e scantonava issofatto; poi, per tutto quel giorno, se ne andava soletto nei luoghi più remoti, non tornando che tardissimo al Castagneto, per desinare. Del resto, la solita vita, le solite occupazioni.

In quel frattempo il castello aveva accolto nuovi abitatori: la contessina Cecilia di Villa Cervia, uscita da un monastero di Lione, era venuta a dimorare col padre.