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Santa Cecilia

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VI

Almaco mi squadrò dal capo alle piante con occhio scrutatore, in quella che io cercavo di farmi più animo che potessi, e mi rivolse la parola:

– Sei tu greco?

– Sì, sono, – risposi.

– Sei tu che ieri, sulla via Tiburtina, volevi scagliarti sulla lettiga del patrizio Valeriano? Rispondi! —

È fatta, pensai tra me; il prefetto mi vuol morto, e sia; avrò tanto di meno a patire. Questo pensiero mi fece tornare il sangue nelle vene; avevo dinanzi agli occhi un pericolo certo, e non ero uomo da dare indietro. Però risposi con voce ferma e con piglio tranquillo:

– Sono quel desso.

– E perchè? Quali erano i tuoi disegni? – mi chiese Almaco, guardandomi sempre fisso negli occhi.

– Almaco, – risposi io senza indugio, – tu sei potentissimo in Roma e per tutto il suo vasto impero. La mia vita è tua; fammi crocifiggere, ma non mi chiedere, te ne prego, il mio segreto. Io odio quell'uomo… —

Con queste parole io mettevo a repentaglio la vita, e perchè l'animo mi bastasse a dirle, io non avevo alzato gli occhi a guardare il prefetto. Egli non mi rispose nulla, e quel breve momento di silenzio fu per me un secolo di angosciosa aspettazione. Gli orecchi mi fischiavano, il pavimento mi traballava sotto i piedi. Allora, sollevando con disperata audacia lo sguardo fino al mio giudice, che mi pareva lontano lontano, mi avvidi che egli mi stava curiosamente guatando e sorrideva.

Sorrideva? Sì, appunto sorrideva, e voi potete argomentare qual fosse il mio stupore a quella vista. Com'egli ebbe ricomposto il volto al suo primo atteggiamento, ripigliò a parlarmi in tal guisa:

– Sei tu uomo?

– La schiettezza della mia lingua te lo ha dimostrato, clementissimo signore.

– Sta bene; – disse Almaco. – Tu dunque odii Valeriano?

– L'odio, sì, l'odio! —

A queste mie parole il fiero prefetto non rispose, e dopo un'altra pausa, durante la quale si stropicciò parecchie volte la foltissima barba, mulinando tra sè molte cose, mi volse questa impensata domanda:

– Vuoi tu essere centurione?

– Centurione? – soggiunsi io trasognato. – O come, se non ho tuttavia alcun grado nella milizia?

– Greco! – mi rispose egli. – Io posso quel che voglio; lo sai; non dimenticarlo. Vuoi tu essere centurione? —

Io mi strinsi nelle spalle, chinando il capo in segno di assentimento, ed aggiunsi:

– Ma, a qual patto? Tu per fermo, clementissimo signore, hai posto un disegno su me. Fa che lo intenda, e ti obbedirò. —

Almaco si degnò di sorridere da capo, e in cambio di seguitare il discorso in quel modo che io lo avevo condotto con la mia risposta, mi fece un'altra interrogazione.

– Conosci tu la setta de' Galilei?

– No; – risposi, senza intender punto dov'egli andasse a parare. – Ho udito a parlarne da parecchi, i quali mi hanno detto esser questa una setta di uomini che si radunano in luoghi sotterra, mangiando carne di bambini, nelle loro agapi mostruose, e vivendo in comunanza di donne…

– Ti hanno ingannato; – soggiunse il prefetto. – Costoro si raccolgono nelle catacombe, ma non divorano bambini, nè hanno comunanza di donne. Sono in quella vece uomini che scalzano l'autorità di Cesare e della santa religione dei padri nostri. Sono cittadini, sono liberi, schiavi, gladiatori, femminette della plebe, sono gente d'ogni levatura e di ogni ceto, uniti in un solo concetto, nella fede di un simbolo. Anelano alla uguaglianza di tutti gli uomini, per farne sgabello alla loro potenza e promulgar l'impero dell'infima plebe, governata a sua volta da ambiziosi delusi, da astuti impossenti. – Ecco, – seguitò a dire il prefetto, – ecco chi sono costoro, e perchè Roma si è indotta a combatterli. Se eglino si accontentassero a fare quel che tu hai detto, credi tu veramente che francherebbe la spesa di turbare i loro segreti negozi? Non abbiamo noi in Roma altari e sacerdoti per ogni divinità più strana? e non li tolleriamo noi tutti? che più? non diamo ai loro Numi il diritto della cittadinanza? non si sacrifica forse ad Iside come a Giove, ad Anubi come a Marte? La nostra Roma, sappilo, o Greco, è d'animo generoso e clemente. Essa non ama che la sua autorità vada a percuotere i riti innocenti donde tragge il popolo minuto la pace dello spirito; ma essa è terribile contro i propagatori di una fede che scuote dalle fondamenta il grande edifizio romano, contro coloro che congiurano nelle tenebre, che adorano il patibolo, innalzando il disprezzo della legge, la rivolta e il delitto, a segnacolo di un nuovo ordine di cose.

– Per gli Dei! che dici tu mai, clementissimo Almaco? – risposi io, come egli ebbe finito. – Io nulla sapevo di cotesto, e le tue savie parole mi colmano di maraviglia. —

Qui il prefetto mi sorrise ancora e proseguì:

– Costoro, già più volte colpiti dalla vindice mano dell'imperatore, si fanno sempre da capo a congiurare. Io so che una nuova congrega di cristiani, come si chiamano dal nome del loro maestro, si raduna in un ipogèo, poco discosto dalle carceri Mamertine. Tu devi condurre una coorte per farli prigioni. Un mio fidato ti condurrà alla casa di una vedova, che ti aprirà l'adito al sotterraneo. Quella femmina è venduta a me; io stesso ho teso l'agguato da lunga pezza, aspettando che avessero a cadervi; mi hai dunque inteso… —

Io ero trasognato, nè sapevo rinvenire dallo stupore in cui quel discorso di Almaco mi aveva immerso, e stavo chiedendo a me stesso per qual ragione io, povero gregario, fossi improvvisamente chiamato ad opera di tanto rilievo, in quella che io mi pensavo di essere dannato al flagello o ad altra pena più grave. E intanto che la mia mente girava per quel laberinto, senza trovar modo di uscirne, il prefetto spazientito mi gridò:

– Orbene?

– Almaco, – mi affrettai a dire, con quelle parole che prime mi vennero alle labbra, – non credere che io non ti sia grato. Mi pensavo di venire a ricevere un castigo ed ho in quella vece un segno grandissimo della tua benevolenza. Laonde io mi sto tutto dubitoso a cercare qual grazia mi abbia avuto agli occhi tuoi, nè so credere a me stesso, nè intendere. Tu bene avresti potuto commettere la impresa ad altro capitano, senza che ti bisognasse far centurione un gregario, e per giunta un ignoto…

– Prosegui, – diss'egli, – tu sei greco e sottile.

– Sì, ma la mia sottigliezza non giunge più oltre; io non ho il bandolo di questa matassa. —

Almaco, già ve l'ho detto, non era uomo da rispondere pel suo verso alla gente, e usava cominciar sempre lui e condurre a suo modo il discorso.

– Tu dunque andrai con una coorte, – soggiunse egli, – e t'impadronirai di tutta quella marmaglia. Ma forse, anzi senza il forse, ci sarà trambusto; qualcheduno vorrà resistere, ed anco non ribellandosi alcuno, si potrà sparger sangue…

– Oh, non temere! Io adoprerò in ogni cosa conforme ai tuoi comandi.

– No, Greco; tu hai in quella vece a far ciò che la tua ira ti consiglierà.

– La mia ira?

– Per l'appunto. Se tu vedessi colà un tuo giurato nemico…

– Ah! – esclamai allora, credendo di avere indovinato.

– Mi hai dunque inteso? – disse Almaco col suo consueto sorriso.

– Sì, clementissimo signore, ti ho inteso. Valeriano è della setta dei cristiani… assisterà all'agape misteriosa…

– Certamente, – soggiunse Almaco, – egli vi sarà. Tu m'intendi; fatto prigione, egli è pur sempre potente per natali, per autorità di consanguinei, per numero di clienti, e potrà fuggirti di mano, esser graziato dall'imperatore. Ora cotesto non può, non deve accadere.

– A me la cura di ciò! – gridai, ebbro di vendetta. – Dammi gli uomini, ed io mi metto all'impresa. Lo sdegno condurrà il mio braccio, e saprà egli trovare il buon luogo dove infiggere la spada. —

E mi mossi, ciò detto, in atto di partire.

– Non così presto! – mi disse il prefetto, che mi apparve allora in tutta la sua terribile maestà. – Trebazio, il mio fidato, ti starà al fianco, tutt'oggi. Tu sarai centurione; ma bada! innanzi di notte potresti anche esser dato in pasto ai cani, dopo che io t'avessi fatto svellere la lingua. —

Furono queste le sue ultime parole; dopo di che egli si alzò e si ritrasse nelle sue stanze. Trebazio, un orrido ceffo, venne da me e non mi lasciò per tutto il giorno; inutile precauzione, dacchè l'ufficio troppo bene rispondeva alla mia sete di vendetta, e, dopo tutto, non era agevole uscire dal palazzo di Almaco, nel quale ero rinchiuso.

A tarda notte uscimmo, accompagnati da pochi soldati. Il grosso della coorte era già disseminato a crocchi nei pressi delle carceri Mamertine, aspettando il nostro arrivo.

La notte cupa aiutava ad agevolar l'intrapresa. Come fummo alla casa detta da Almaco, Trebazio percosse tre leggeri colpi sull'uscio con le nocche delle dita. La vedova venne ad aprirci, e ci mise dentro coi nostri.

La casa era di meschina apparenza e quasi priva di arredi; ma più dolente era l'aspetto della donna, su cui mi parve leggere come un rimorso dell'ufficio a cui s'era prestata.

– Ci sono? – le chiese Trebazio.

Ella rispose affermativamente col capo, e additò nel fondo della casa una botola, coperta da una cateratta, che Trebazio fu sollecito ad alzare, discoprendo una rozza scala di pietra.

Il lezzo del sotterraneo mi salì alle nari; ma l'ansia di trovar Valeriano mi fece correre il primo in quella buia ed umida chiostra. Gli altri mi tennero dietro con passo leggero, e fatti trenta scalini ci trovammo in un andito, lungo il quale ci fu mestieri andare a tentoni, seguendo la parete.

Così c'inoltrammo un bel tratto, fino a tanto che scorgemmo in lontananza un filo di luce pallida, mercè il quale si potè andare più speditamente. Poco più oltre il punto da dove avevamo cominciato a scorgere il lume, la muratura finiva e l'andito si allargava a forma di sala. Altre sale, informi, e scavate nel masso, con rozzi pilastri qua e là per sostenere le vôlte, si succedevano lungo il nostro cammino.

 

Man mano la luce si fece più viva, e cominciammo a udire un canto sommesso di molte voci. Allora feci fermare i miei uomini, per dividerli in tre drappelli, due dei quali dovevano farsi innanzi dai due lati dell'ampio sotterraneo, rasentando le pareti che restavano nell'ombra, per ricongiungersi quando fossero proprio addosso alla conventicola. Io, con gli altri, mi feci innanzi dal mezzo, giovandomi di tutte le ombre dei pilastri, e rattenendo il respiro.

Allo svoltar di una di quelle informi colonne, era un uomo appostato. Fece per aprir la bocca e gridare; ma Trebazio fu più sollecito di lui, e gli ficcò il suo ferro nella strozza, che gorgogliò, ma senza forza, quelle parole con cui voleva dare il segnale agli amici.

VII

– Ottimamente! – dissi a Trebazio. – Hai fatto un bel colpo, e senza la tua prontezza i galilei sarebbero stati posti in sull'avviso.

L'uomo colpito dalla spada di Trebazio era stramazzato a terra, e non dava più segno di vita. Però non ce ne curammo più oltre, e, sgomberataci per tal modo la via, c'inoltrammo ancora sotto le arcate, e allo svoltar di un angolo ci trovammo sopra alla conventicola dei cristiani.

Da quanto posso oggi ricordarmene, era una vasta sala, rozza come tutte le altre già percorse, e non doveva servire che da poco ad uso di tempio, imperocchè era ignuda affatto di fregi, non aveva sarcofaghi, nè epigrafi, nè alcuno di quelli emblemi che più tardi ebbi a notare nelle sotterranee dimore della setta. Rischiaravano il luogo alcune faci di resina, e al rossastro chiarore di queste potemmo scorgere forse un centinaio di uomini e donne, quelli col capo scoverto e queste col velo tirato sul volto, che stavano ginocchioni dinanzi ad un vecchio, coperto di una lunga tonaca bianca, il quale sembrava in atto di parlare.

Ma noi non udimmo parola del suo discorso, perchè al nostro sbucar nella sala un lungo grido di terrore interruppe la cerimonia, e cominciò tosto uno scompiglio da non potersi descrivere.

I miei occhi, guidati dallo spirito della vendetta, trovarono subito Valeriano. Egli si era rizzato in piedi a stava in mezzo a otto o dieci che, più animosi degli altri, avevano posto mano ai ferri.

Mi feci innanzi, mentre i miei si precipitavano sulla moltitudine spaventata, e gridai:

– A me, Valeriano! a me! —

Egli snudò la spada, ma io gli fui sopra, innanzi che potesse mettersi in guardia, tempestandolo di colpi. Valeriano disputò tuttavia, ed aspramente, la sua vita; ma parecchi dei miei, che avevano ottenuto facile vittoria sui pochi compagni del mio nemico, gli furono a' fianchi e lo rovesciarono. Egli allora gittò lungi da sè la spada e morì sotto il mio ferro, più nobilmente che io non avessi voluto, dicendomi: «ferisci, carnefice, e che Iddio ti perdoni!»

Questa bisogna fu spedita in breve ora. I miei soldati non erano stati neppur essi con le mani alla cintola; molti dei cristiani erano caduti nel loro sangue sul pavimento, altri legati e spinti, a furia di mani e di piedi, contro i pilastri della sala. Parecchi si erano dati alla fuga; ma, perdutisi nel buio, non erano venuti a capo di trovare un altro andito per cui avrebbero potuto mettersi in salvo; e le loro grida, il rumore delle frequenti cadute, gli urli feroci dei miei, mostravano qual fine si avessero i loro tentativi. E intanto le donne, atterrite, trepidanti, si erano andate a raccogliere, come un timido gregge, intorno al vecchio dalla tonaca bianca, il quale, solo imperterrito, stava con le mani alzate verso il cielo e pregava.

Tutte queste cose io vidi a mala pena, in quella che, col ginocchio sul petto a Valeriano, raddoppiavo furente i miei colpi. E appunto allora, una donna, che non era fuggita insieme con le altre, mi pose ambe le mani sul braccio, tentando di rattenermi, e gridò:

– Codardo! tu infellonisci contro un cadavere! —

A quella voce, che mi parve di riconoscere, tremai tutto quanto; alzai gli occhi a guardarla, ed essa allora diede in un forte grido e cadde come corpo morto nelle mie braccia. Il velo le era caduto dal volto: era Cecilia.

Qual fui allora? Quale mi apparve la vita? Cecilia! Cecilia in quel luogo, in mezzo a quella strage! Voi già immaginate quanti pensieri mi assalsero improvvisi in quel punto. La mia vendetta era sazia; il furore sbollito; ed io vedevo tutto ad un tratto l'orrore di quella scena di sangue, e l'angoscioso stato di quella donna divina.

Andando colà, io non avevo badato che ad uccidere Valeriano; il pensiero che Cecilia si fosse potuta trovare con lui non mi era neppur balenato alla mente. Ma era troppo tardi… E come salvarla? Anelante, agitato da mille confusi timori, e quasi fuori di me, in quella che avrei pure avuto mestieri di tutto il mio senno, io restai là, chino sul petto dell'amata donna, non curando le strida delle femmine trepidanti, nè il rantolo dei moribondi, nè il gavazzar dei compagni.

Il primo consiglio che mi sovvenne fu quello di chiamar soccorso. Alzai la testa; ma lo spettacolo che si parò dinanzi ai miei occhi mi gelò le parole sulle labbra. Una povera donna tentava invano di svincolarsi dalle strette di un soldato, che, mezzo ginocchioni, col volto acceso, col mento appoggiato sul petto della meschina, mentre con le mani la teneva avvinghiata, lei riluttante buttava al suolo. Scene simiglianti io avevo vedute di spesso, con occhi non curanti, nella mia vita di soldato, in ogni borgata di Germania da noi messa a ferro e a fuoco, pel feroce diritto di vincitori. Ma là, nel sotterraneo, io vedevo le cose sotto il più orrido aspetto. Cecilia, non la moglie di Valeriano, ma la divina fanciulla che io avevo tanto amata, che anche allora mi faceva riardere in seno la fiamma antica con tutta la casta virtù delle ricordanze, era in quel covo di belve umane, fuori dei sensi, colla bionda testa arrovesciata sulle mie braccia, senz'altro scudo, senz'altra difesa che l'uccisore di suo marito, il condottiero di quella coorte sfrenata, libera esecutrice di sanguinari comandi.

Intanto che cosiffatti pensieri mi tenzonavano nella mente, Trebazio mi si accostò.

– E così? – mi disse egli, con ghigno feroce. – La è finita a dovere. Tu hai menato un bel colpo a quel Valeriano.

– Trebazio, – gli risposi con accento disperato, – aiutami a soccorrere questa donna!

– Soccorrerla? oh non badare a lei più che tanto. Queste galilee sono tutte di una risma: piangono, si disperano, graffiano; ma lagrime ed unghie di donna non fanno prova su tempre come le nostre. Certo, egli è molto meglio se escono dei sensi, come fa questa tua. Vedi là in fondo quel gramo di un Marsico; egli non può domare quella belva, che strepita e si dimena come una furia. Contentati dunque tu, che l'hai tra le braccia svenuta.

– Trebazio! – esclamai, sentendo drizzarmisi i capegli per raccapriccio sulla fronte; – tu ardiresti?..

– E che?.. – proseguì egli, con quel suo piglio scherzevole. – Sei dunque una femminuccia? Questa donna, per Ercole, è bella come una Venere. Se non ardisci tu stesso, tanto meglio; sarà per me, che non ho ancora fatto voto di entrare nelle Vestali.

– Tu non l'avrai, per l'abisso! – esclamai, saltando in piedi e mettendo mano alla spada, mentre con ardita mossa mi ponevo tra lui e il corpo di Cecilia.

– Che sì, che sì, ch'io la prenderò, ora che me ne ha còlto il desiderio! Ah, tu fai il cattivello, o greco? —

E, così dicendo, Trebazio aveva dato indietro due passi, snudando il ferro a sua volta.

– Soldati, a me! – gridai con voce tuonante, volgendomi intorno. —

Una brigata di costoro accorse al mio grido.

– Che vuoi? mi domandarono essi.

– Che difendiate questa donna. Nessuno ha da metterle un dito sulla persona. —

I soldati rimasero lì, tra incerti e curiosi. Le mie parole frattanto avevano chiamato altri dei loro, e in breve si formò un largo cerchio di spettatori, avidi, ansiosi di sapere che fosse. Nel mezzo ero io con Cecilia svenuta; poco lungi Trebazio, col ferro stretto nel pugno e gli occhi torvi affisati su me.

Egli stesso ruppe il silenzio, rivolgendo la parola ai soldati.

– Sentite, voi altri. Questo greco, che il prefetto Almaco ha colmato delle sue grazie, vuole che noi rispettiamo questa donna, una delle femmine di questi immondi galilei. Ora, se egli la vuol rispettata come una nobil matrona, si accomodi; non io, il quale mi affretto a prendere ciò che egli ricusa. E neppur questo egli vuole acconsentirmi, e non lo consentirà a voi, se vorrete richiamarvene alle consuetudini della guerra. Vi par giustizia, cotesta? —

Un bisbiglio minaccioso si fe' udir nella turba, che a me non prometteva atti di obbedienza per fermo. Uno dei più audaci, tenendo bordone a Trebazio, gittò in mezzo questa sentenza:

– È una cristiana, è una buona preda!..

– Sì, sì, buona preda! – gridarono tutti in coro. – Il greco non può levarcela di mano. —

Io qui cominciai davvero a tremare. Intanto Cecilia, ricuperati in quel tumulto i sensi, e trovatasi in mezzo a quella cerchia di manigoldi che la guardavano con occhi di bragia, fece per gettarsi nelle mie braccia; ma si risovvenne, e, strappatasi da me con un gesto di terrore, ricadde sulle ginocchia, nascondendosi il viso nelle palme.

– Soldati! – gridai, tentando una seconda volta di comandare a quel tumulto di voglie sfrenate. – Io sono il vostro centurione. Mi obbedirete voi?

– Soldati! – gridò a sua volta Trebazio, guardando me con un piglio di truce ironia. – Io sono Trebazio, il fido servitore di Almaco, il possente prefetto di Roma. Mi obbedirete voi?

– Sì, sì; – urlarono tutti. – Tu hai ragione! Tu rispetti le consuetudini. La donna è nostra; è buona preda, è una cristiana. La donna a noi! —

E con la minaccia negli occhi, si mossero incontro a me, stringendo il cerchio per modo che il loro alito infocato mi soffiò sulle guance.

VIII

Fu per me un momento terribile. Ma, come avviene nei casi più gravi, che la virtù dell'animo umano si solleva e combatte con lena disperata, io ebbi dalla medesima gravità del pericolo centuplicate le mie forze per una lotta suprema.

Afferrai Cecilia a mezza vita; la trassi violentemente a me, in quella che Trebazio stava per metterle sopra le mani impudiche, e menando attorno la spada, gridai:

– Nessuno si accosti! Nessuno di voi torcerà un capello a questa donna, fino a tanto che io viva. —

Nel dir queste parole sentii battere il cuore di Cecilia contro il mio, ed un senso di voluttà amara e profonda mi corse per tutte le fibre. Che cos'era la mia povera vita al raffronto di tanta felicità?

Imperocchè, sappiatelo, in fatto di amore ho sempre pensato che il primo bacio della donna amata e desiderata valga assai più che il sacrificio di tutto il sangue delle nostre vene. E che cos'era se non un primo bacio, lo stringersi del petto di quella creatura sul mio e il battere dei due cuori l'uno sull'altro? Il mio sangue ribollì a quel tocco infuocato, e mi parve allora che io fossi tanto forte, da contendere anche agli Dei tutti del cielo e dell'averno quella divina fra tutte le donne.

Ma erano sogni! Trebazio sorrise sinistramente e disse, ripigliando le mie stesse parole:

– Fino a tanto che tu viva!.. Oh la maravigliosa promessa! Ti si ucciderà, stanne certo, e l'otterresti anche non volendo. Mira, conta per bene i tuoi avversari. Noi siamo qui, intorno a te, sitibondi del tuo sangue, più di cento; tu sei uno, ed hai sospesa al tuo seno una donna sbigottita, la quale t'impaccia le mani. Che te ne pare?.. —

Trebazio aveva ragione pur troppo e con tristo accorgimento faceva sentire ai soldati il soverchio delle loro forze, contro la pochezza angustiata delle mie.

– Soldati! – proseguì allora. – Facciamola finita. Ad aggiustarla poi col prefetto, che voleva far centurione costui, non sapendo che egli era un traditore, penserò io, domani. Intanto pigliamoci la donna!

– Sì! sì! la roba nostra! – urlò da capo quel branco di lupi; e misto alle grida udii lo strepito dei ferri che uscivano dalle guaine.

E qui, sebbene io frema tutto quanto al rammentarlo, Cecilia mi si mostrò bella nel volto, negli atti e nelle parole, di un santo entusiasmo. Mi si strinse al petto quanto più forte potè, e mi susurrò all'orecchio con voce anelante:

– Calisto, per te, per la mia fama, per l'amor tuo, te ne supplico: uccidimi! —

Uccidimi! Quella parola mi andò diritta al cuore; gli occhi mi si ottenebrarono e mi parve di essere passato fuor fuori da un ferro rovente. Credevo di avere già molto sofferto; ma il passato, ma le angosce di quella notte medesima erano un nulla al raffronto di quell'ultimo tormento. Nè parola, nè immagine ch'io cercassi tra le più dolorose, varrebbe a significarvi quella agonia dello spirito, in mezzo alla quale, come nel bagliore di un lampo, io vidi una orribile cosa: vidi che quella donna era perduta; che io non l'avrei salvata dalla infamia fuorchè uccidendola; e che con la sua morte il mondo era finito per me.

 

– Ah! ah! – gridarono sghignazzando beffardamente quegli altri. – La cristianella se la intende col greco. Essa gli mormora le dolci promesse, la bella colomba innamorata! Anche a noi un sorriso ed una tenera parola! Abbiamo forse da starcene a becco asciutto, noi altri?.. —

Intenderete di leggeri come questi ed altri motteggi mi trafiggessero. E quelle caste orecchie udivano tutto; quella delicata persona ardeva e tremava; il suo labbro continuava a susurrarmi: – uccidimi! uccidimi!

– Indietro! – tuonai, più che non gridassi, una seconda volta; ma fu inutile. La cerchia si strinse, ed io con opere gagliarde incominciai a difendere la donna amata; onde la punta della mia spada andò più volte nella mischia e tornò indietro bagnata di sangue.

Grida, urli e strepito di ferri mi rispondevano; ma tutto soverchiava la voce di Trebazio, che era rimasto più indietro.

– Non ferite! – gridava egli. – Non ferite! potreste guastare la bella preda. Stringetevi intorno a lui; soffocatelo, impacciategli le mosse; lo uccideremo poi… —

I modi dei miei assalitori mi dimostrarono che il consiglio di Trebazio era stato seguito. Che mi sarebbe giovato ferire tre, quattro o sei di costoro, se gli altri mi potevano disarmare? Combattevo in mezzo della sala, senza un angolo in cui ritirarmi, senza una parete che mi custodisse alle spalle; però mi giravo e rigiravo senza posa, respingendo e ferendo, ma conscio della imminente sconfitta. Ancora un istante, e non c'era più scampo per la povera donna.

– Uccidimi! uccidimi! – mi susurrava ella sempre con voce rotta e concitata, mentre, con istintiva cura, seguitava le volte rapide del mio corpo, or da un lato, or dall'altro. Io chinai il viso a mirarla, ed ella mi diede uno sguardo supremo di angoscia e di desiderio. Intesi la muta preghiera; alzai il ferro, e chiusi gli occhi… Dio onnipossente! le vibrai la punta nel seno.

– Ah! – mormorò ella. – Finalmente!.. Grazie, Calisto! io ti amo. —

Riapersi gli occhi, ed accostai anelante il mio viso al suo, come per bere dalle sue labbra quella inaspettata parola. Cecilia sorrideva; mi avvinghiò le braccia al collo, e, vinta da quello sforzo supremo, mi ricadde inerte sul braccio.

All'atto improvviso, un fremito di orrore era corso nella folla. Smemorato e quasi presso a cadere con l'amato corpo sul pavimento, volsi lo sguardo ai soldati, in quella che davano addietro, colti da immane stupore. E vidi allora Trebazio; Trebazio con gli occhi sbarrati e il volto livido dallo spavento.

Io, come dissi, stavo per mancare; le gambe non mi reggevano più. Ma la vista del manigoldo mi rese le forze. Lasciar cadere, accompagnandolo un tratto, il corpo di Cecilia, e scagliarmi contro di lui, fu un punto solo.

– Fatti innanzi, Trebazio! Tu sai maneggiar bene la spada contro gli inermi. Vieni ora a provarti con me! —

Tutti i vicini si cansarono. Il mio fiero atteggiamento, lo stupore del grave fatto recente, i lampi d'ira che la disperazione mi sprizzava dagli occhi, li fecero stare dubitosi ed incerti. Però si fece largo accanto a noi, e tutti erano là muti, ansiosi e trepidanti spettatori di quella nuova scena di sangue.

Trebazio era un codardo, e allora sì, me ne avvidi. Egli, dopo essere balzato indietro d'un salto, girò gli occhi tutt'intorno a guardare i compagni, e impallidì al vedersi abbandonato. Forse allora lo assalsero quei pensieri disperati che a me avevano fatto tremare il cuore (non già per me tuttavia) pochi momenti dapprima. E come si vide solo, di contro a me, intese che la era finita per lui, se non metteva tutti i suoi accorgimenti e le astuzie a difendere aspramente la sua vita minacciata.

Tutto questo io lessi nel pallore di morte che gli imbiancava le guance e la fronte, e il sorriso di trionfo che mi siedeva sulle labbra gli disse molto chiaramente com'io l'avessi inteso. Digrignò i denti e si pose in atto di difesa, coi nervi tesi e lo sguardo pronto ad ogni mio gesto, ad ogni moto del mio ferro.

Io lo investii con veemenza, raddoppiando i colpi per modo da non gli conceder tempo a rispondere. Però egli fu costretto a parare come poteva meglio, sfuggendomi or da un lato or dall'altro, dando indietro e avventandosi poi, per cansarsi da capo, con la scioltezza e la rapidità di un serpente.

Ma tutte queste arti non gli furono di gran giovamento, perchè il furore m'aveva fatto dieci volte più forte di lui. Gli fui sopra, a malgrado dei suoi colpi disperati, e con la manca andai diritto ad agguantargli la strozza.

– Greco! – disse egli rabbiosamente, in quella che tentava sfuggirmi. – Tu sei più forte di me! —

Furono le sue ultime parole, imperocchè, afferratolo per bene, io mi diedi a stringere sempre più forte. Il volto, di livido che era, gli si fe' pavonazzo; gli occhi schizzarono fuor dalle orbite, e il rantolo affannoso del petto, più che segno di dolore, era bestemmia, la quale non trovava più il varco. Io sentii in quel tratto la sua spada cercarmi il fianco; e fu ventura che avesse da prima trovato il mio cingolo di cuoio; perchè io ebbi il tempo di attraversare una gamba nelle sue, e poi, premendo fortemente il braccio, rovesciarlo sul pavimento.

Allora egli non ebbe più modo di difendersi, mise un ruggito, e la mia lama gli entrò tutta quanta nel ventre, per uscirne e tornarvi da capo. E intanto, con la mano alla strozza, gli sollevavo la testa, facendolo percuotere della nuca al suolo, e così ripetutamente e con tanta furia, che in breve ora ebbe la cervice spezzata. Altri due colpi di taglio sul volto gli tolsero la immagine umana, e non rimase che una massa informe, scompaginata e sanguinolenta.

Sollevai allora un tratto il cadavere e con feroce scherno mi feci ad interrogarlo.

– Ohè, Trebazio! Ve' come sei concio! E come farai ora per pigliarti la donna? Nè anco la più vecchia e la più aggrinzata delle tre Parche patirebbe ora i tuoi baci. —

La testa del morto spenzolava sul petto, grondando sangue d'ogni lato. Più sconcia figura non fu veduta mai; la testa di Medusa non avrebbe potuto reggere al paragone.

– A voi, soldati! guardatelo, contemplatelo a vostro bell'agio. È Trebazio, costui, il vostro amato Trebazio. Io ve ne faccio un presente. —

E così dicendo, sollevai quel corpo deforme, acciuffandolo pei capegli, e con un colpo del ginocchio nelle reni lo buttai loro tra' piedi. Tutti balzarono indietro, inorriditi, senza far motto, senza ardire di levar gli occhi verso di me. Stetti a contemplare un tratto quello stupido gregge, poco dianzi così minaccioso, e parlai:

– Soldati! Mi obbedirete voi? La donna che mi contendevate è morta; sarete contenti. Ma io ve lo giuro per l'Averno, chiunque ardirà accostarsi, finirà per le mie mani come questo vigliacco. Io sono il vostro padrone, e voi mi obbedirete, perchè io sono più forte di voi. —

La terribilità dell'esempio li aveva riempiti di spavento. Trebazio, vivo e minaccioso pochi minuti prima, era lì, cadavere informe sul pavimento, inondato del suo sangue; e tutto quel volgo aveva paura.