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Lutezia

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XVI

Dintorni di Parigi. —Super flumina Babylonis. – Una città di villeggiatura. – Il capolavoro del Mansart. – Sinfonie del Rossini. – Arte e natura. – Si dice male di Luigi XIV. – Le vecchie cronache – Adulazione bizzarra.

Si può andare a Versaglia, anche passando dalla riva sinistra della

Senna. Parigi ha due scali di partenza per Versaglia, e, perchè le due

linee ferrate non si congiungano strada facendo, ne viene che

Versaglia abbia due scali d'arrivo; tout comme à Paris, dicono i

Versagliesi, non senza un miccino d'orgoglio.

La strada, sia che andiate per la riva destra, sia che andiate per la riva sinistra, è incantevole; tutta in mezzo a villini bianchi e rossi, coi tetti a capanna, castelli in miniatura, ascosi come nidi di scriccioli tra le siepi, colmi di case che si direbbero aggruppate a forma di città da un fabbricante di balocchi di Norimberga; e sempre in vista della Senna, che si divalla lì presso, in un ristretto orizzonte, con le sue rive incoronate di salici. Super flumina Babylonis; è proprio il caso. Colori dominanti del paese, il bianco latteo delle casine, il rosso mattone dei tetti, il verde tenero della frappa; aggiungerete l'azzurro pallido del cielo, quando è sereno, e avrete una campagna, che può benissimo non apparir bella nei quadri, una campagna a cui mancano le tinte vigorose e i riflessi dorati dell'italiana, ma che riposa l'occhio e contenta lo spirito. Per viverci, per dimenticarcisi ed essere dimenticati, che cosa si domanda di più?

Le stazioni sono graziosine; casette da due piani, attorniate, accarezzate, prese d'assalto da famiglie di piante rampicanti, aperte nel mezzo da una gran sala d'aspetto, che durante l'inverno si chiude tutta con una grande invetriata. Gente, in queste oasi ferroviarie, pochina; se non fosse lo chocolat Mènier, o un Pas de concurrence possible, che vi perseguita anche là, coi suoi cartelloni luccicanti, vi credereste d'essere in capo al mondo, non alle porte di Parigi. Ecco Saint Cloud; nessuna magnificenza vi annunzia la vicina residenza imperiale; il castello vi è nascosto all'occhio da un poggio, o da una piccola macchia. Sèvres, là in fondo alla valle, non vi lascia intendere dove siano le sue fabbriche di porcellane, celebrate nel mondo. Passando per Asnières, vorreste riconoscere il villino di Margherita Gauthier; ma non c'è caso, i villini si seguono e si rassomigliano tutti, nella piccolezza, nella grazia, direi quasi nella discrezione con cui vi mostrano, o vi nascondono, la felicità dei loro penetrali. Perfino Versaglia, la fastosa Versaglia, dove arrivate finalmente, scendendo da una stazione che vorrebbe parere grandiosa, non vi lascia indovinar nulla de' suoi regali tesori. È una città di provincia, o, per dir meglio, malgrado la contraddizione apparente, una città di campagna, di villeggiatura. È nata sotto Luigi XIV, non lo dimentichiamo; e quando il re Sole abitava il palazzo edificato a lui dal Mansart, non si poteva mica alloggiare tutta la corte entro i cancelli della reggia. La città è debitrice della sua esistenza ad un rigurgito, ad uno stravaso, di quella reggia pletorica. Strade larghe e vuote, viali alberati in cui non si vedono quattro persone a diporto, palazzi grigi che paiono caserme e che hanno l'aria di non conoscersi l'un l'altro, agglomerazione di solitarii, ecco la città, come si presenta oggi all'occhio del forastiero. Ci sono parecchie trattorie, il che a tutta prima vi farebbe credere che almeno la popolazione avventizia dei senatori, dei deputati o dei curiosi, può in certe ore del giorno simulare lo spettacolo d'una città viva. Ma non è vero niente; senatori, deputati e curiosi vengono qua dopo aver fatto colazione, aguzzano il loro appetito e lo riportano a Parigi. Solamente a Parigi si trovano il pied à la Saint-Menéhould e la sôle au gratin, che levano tant'alto la cucina francese al cospetto delle nazioni. E i trattori di Versaglia aspettano invano la folla; i ragni della città cenobitica ci rimettono la spesa e la fatica della tela.

Con me ha fatto meglio le cose sue un fiaccheraio, che, allungandomi di non so quanti chilometri la via dalla stazione al castello, mi persuase a salire nel suo trespolo, e poi, in quattro minuti di corsa, mi depose sulla piazza grande, davanti al famoso cancello. Diedi un mesto pensiero a due lire sprecate e mi guardai d'intorno. La piazza è fatta a pendìo; due caserme da un lato, e in mezzo ad esse il gran viale che mette a Parigi, chi voglia andarci in carrozza; dall'altro il cancello lunghissimo, che custodisce la Corte di marmo. Questa Corte, fiancheggiata da palazzi di vario stile, che si vanno restringendo a mano a mano, toglie maestà all'edifizio principale, che si scorge nel fondo. E questa, domandate tra voi, è questa la gran reggia di Luigi XIV? No, – vi potrebbe rispondere un cicerone di piazza, se udisse la vostra domanda interiore; – quello è il palazzo edificato da Luigi XIII e conservato, incastonato dall'architetto Mansart nel palazzo dieci volte più vasto, che sorse per volontà del figliuolo.

Del resto, bisogna entrare in quel palazzo più antico, per vedere che la residenza campestre del marito d'Anna d'Austria è bella anch'essa di molto e meritava di sopravvivere. Bisogna poi uscir fuori, dall'altra banda del palazzo vecchio e del nuovo, vedere così in di grosso i piazzali, le terrazze, i giardini sterminati, voltarsi indietro a contemplare quella lunga e nobilissima facciata, tutta portici e colonne, per rimanere stupefatti, o, a dirla volgarmente, rintontiti. Questa gran fabbrica, questo capolavoro del Mansart, non ha rivali nel mondo. Lo spazio aiuta a dargli rilievo, e forse una cosa simile si poteva fare soltanto qui, dove c'era la libertà dello spazio. Doveva esser così la Domus aurea, fabbricata da un Luigi XIV dell'antichità (Nerone, se permettete), quella Domus aurea che dal Palatino giungeva all'Esquilino, attraversando la Velia. Ma la casa di Nerone bisogna raffigurarsela con la fantasia; qui abbiamo la realtà. Quelle linee eleganti e maestose ad un tempo, quella prospettiva di viali e di statue, di vasche e di laghi, vi comprendono di meraviglia e di piacere, come è naturale che avvenga, quando il concetto della grandiosità non si scompagna da quello dell'armonia. Ho pensato qui, senza il menomo desiderio di trovare un paragone, ho pensato alle sinfonie del Rossini, a quelle musiche così fitte e così chiare, così severamente architettate, eppure così piene di fioriture, così strette alla misura, così ricche di varietà.

In questa fusione (non confusione) di generi, consiste per l'appunto il sommo dell'arte. A Versaglia l'eleganza e la magnificenza si sposano; cioè, si sono sposate e vivono da dugent'anni in fortunata armonia. Oltrepassate quel terrazzo e quella spianata; quindi, voltatevi indietro. Il palazzo non è più un palazzo; ha l'aspetto d'un tempio greco, ingrandito una ventina di volte, che biancheggia tra due timide masse di verde e sotto un padiglione d'azzurro. Per una volta tanto, l'architettura francese ha abbandonato que' suoi tetti rilevati a cono; abbiamo dei tetti all'italiana, mascherati per giunta da un attico che corre per tutta la lunghezza della cornice. Voltatevi ancora e guardate quel viale, anzi meglio, quei viali interminabili, accompagnati da quelle statue e da que' vasi monumentali di marmo, interrotti da quei laghi, da quelle fontane, orlati da quelle siepi gigantesche; che cosa immaginare di più grandioso e tuttavia di meno fastoso, di meno opprimente! L'arte ha soggiogato la natura, ma con garbo e quasi per fargli piacere; la verdura, stagliata in larghe messe simmetriche, ma senz'ombra di tirannia, si armonizza coi monumenti disseminati a profusione da per tutto; lo stesso orizzonte, imprigionato tra quelle digradazioni sapienti, o sia perchè non offre linee spezzate alla vista, o sia perchè la grandezza dell'opera artistica è stata condotta a non parer da meno di quella della natura, si acconcia volentieri alla servitù, obbedisce senza sforzo, par libero.

Era questo che voleva Luigi XIV? Non so, credo anzi che egli in tutti questi accorgimenti non ci abbia nulla a vedere. Se un architetto gli avesse detto che l'orizzonte, in materia di prospettiva, ha i suoi diritti, avrebbe forse risposto a quell'architetto: «l'horizon c'est moi.» Diciamo dunque: fu un uomo potente, che seppe volere una bella cosa per appagare il suo fasto, la sua boria di nuovo Sesostri, e ottenne, grazie all'ingegno del Mansart, un'ottava meraviglia, su cui era giusto che stampasse il suo nome, perchè era lui che snocciolava i quattrini. Mi domanderete da che casse li pigliava, se non forse da quelle dello Stato. Ma il gran Luigi vi risponde per me, come ha risposto al Parlamento: «l'Etat c'est moi.» Vedetelo dipinto almeno un centinaio di volte, in tutti i quadri che illustrano i grandi fatti del suo regno. In quelle fredde e vuote composizioni, non è in luce, non è in vista che lui. Volete l'assedio d'una città nemica? Eccolo; il re Sole a cavallo, che visita una trincea. Il famoso passaggio del Reno, per cui s'innalzarono archi di trionfo a Parigi? C'è anche quello, rappresentato da una campagna grigia, nel cui fondo non si vede più nulla, ma sul cui primo piano spicca un cavaliere, circondato da due o tre generali che paion valletti. È il re Sole, che vi guarda colla coda dell'occhio grifagno e sembra che voglia dirvi: «le passage du Rhin… c'est moi.» È lui, sempre, è lui ogni cosa; fulmine di guerra, redivivo Pelide, tutti i guerrieri dell'antichità possono andarsi a riporre;

Non illi quisquam bello se conferet heros.

Ma di Luigi XIV e della sua boria mi occorrerà di parlare più oltre. Sbrighiamoci da quattro cenni di storia. C'è anzi tutto il nome di Versaglia, che domanda uno schiarimento. Or dunque, dovete sapere che nelle vecchie cronache si parla di un Ugo de Versaliis, contemporaneo dei primi re Capetingi, il quale possedeva in questo luogo la sua bicocca feudale, non avendo altro vicinato che la prioria di San Giuliano, la cui campanella era la sola che rompesse di tanto in tanto i silenzi della vallata e probabilmente anche i timpani del sullodato cavaliere. Nel secolo XVI, l'ultimo feudatario di Versaglia, un Marziale di Léomenie, per cansare la strage di San Bartolomeo, si raccomandò al signor di Gondy, maresciallo di Retz, facendogli dono di tutti i suoi beni; il che non tolse che il bravo maresciallo lo facesse scannare, e un 28 d'agosto, ricorrendo la festa di San Giuliano, si facesse riconoscere seigneur de Versailles, prendendo sotto il baldacchino della prioria il posto dello sventurato Marziale.

 

Ignoro come fruttasse al Gondy quella roba di mal acquisto. So invece che Luigi XIII, il quale andava spesso a caccia da quelle parti, e trovava riparo in un mulino, diventato il suo quartier generale, commise all'architetto Lemercier di fabbricargli colà un palazzo di campagna. Fu quel medesimo palazzo che il Mansart incastonò più tardi nella sua costruzione, quando a Luigi XIV piacque di avere un alloggio suo, proprio suo, sbalorditoio, come la fama, la grandezza, la magnificenza, che egli si figurava di avere.

Ingannato, dopo tutto, guastato dalle lodi d'un secolo cortigiano, come dalla fortuna che un italiano, il Mazzarino, aveva preparata al suo regno! Non era forse per lui che un uomo come il Boileau scriveva il verso curioso:

Grand roi, cesse de vaincre, ou je cesse d'écrire?

XVII

Scorribanda capricciosa. – La chiesetta. – Una celia di soldato. —Les dames de beauté.– Dinastie a olio. – Marescialli di Francia. – Filosofi e belle donne. – Ricordi storici. – Grandi uomini a migliaia.

Ci vorrebbe un volume, non che una o due lettere, a prender nota di tutte le cose memorabili di Versaglia, e dei ricordi che destano. Se avessi il tempo e la voglia di fare il volume, mi riuscirebbe un catalogo, che nessuno di voi si sentirebbe la voglia, o avrebbe il tempo di leggere. Un'occhiata al complesso, dunque! Ma come si fa? Son centinaia e centinaia di sale, migliaia e migliaia di quadri; memorie di tutti i regni, di tutte le dinastie, di tutte le grandezze e di tutte le miserie. Altro che occhiate al complesso! L'unica cosa che si possa fare è una scorribanda capricciosa, con tre quattro fermate, per ricogliere il fiato.

Incomincio da una fermata. La merita davvero, quantunque il fumo delle candele mi dia al naso, la merita davvero quella graziosa chiesetta del Mansart, costrutta sotto il regno della Maintenon, sulle rovine di una elegantissima grotta di Teti, che era stata decorata dal Girardon e cantata dal Lafontaine. Non vi parlo dei matrimonii principeschi e regali che vi furono celebrati; penso alla burletta del Brissac e non resisto alla tentazione di raccontarvela.

Luigi XIV, diventando vecchio, s'era fatto eremita; ogni giovedì ed ogni domenica andava in cappella, anche di sera, e voleva che tutti ci andassero. Le dame della Corte non se lo fecero dire due volte; dov'era il re si trovavano loro, e, per farsi meglio scorgere dal re, tenevano tanti torchietti accesi sui davanzali delle tribune, col pretesto di vederci chiaro nella stampa dei loro uffiziuoli. Il re, indisposto, faceva sapere che non andava in cappella? La divozione delle dame sbolliva issoffatto; non c'era caso di vederne più una al suo posto. Ora sentite che cosa facesse il Brissac, maggiore delle guardie del corpo, uno schietto soldato, a cui tutte quelle beghinerie urtavano i nervi. Una sera, sull'ora della benedizione, tutti i torchietti erano accesi nelle tribune; le dame, inginocchiate, aspettavano il re. Brissac si affaccia alla tribuna reale, alza il suo bastone di comando e grida: «Guardie del re, ritiratevi; il re questa sera non viene.» Indovinate il resto; le guardie se ne vanno, i torchietti si spengono, le dame spulezzano.

Partite loro, il Brissac fa ritornare le guardie al posto. Sopraggiunge il re, si guarda intorno, e non tace la sua meraviglia, non vedendo nessuna delle dame di corte. Ma, finita la benedizione, il maggiore Brissac racconta arditamente al re la prova diabolica a cui aveva sottoposta la devozione delle signore. Luigi XIV, che ama il Brissac, finisce col ridere; ridono i signori del seguito, e ride, a farla breve, tutta la corte. Non le dame, intendiamoci. Il Brissac, con tutta la sua prodezza, non ardì più, dopo quella burletta, passar troppo vicino alle dame di corte. Sfidava le palle, il bravo maggiore; ma non si fidava delle unghie.

Andiamo avanti per una galleria di scoltura. Ci sono cento e più, tra statue, busti e monumenti funebri, con figure marmoree, in mezzo alle quali si vedono quasi tutte le più celebri dames de beauté della Francia. Nelle sale delle crociate, che vengono dopo, si hanno i Goffredi Buglioni, i Filippi Augusti e i San Luigi a tutte le salse. Notevoli in queste camere alcune reliquie storiche dei cavalieri di Rodi, mandate in regalo a Luigi Filippo dal sultano Mahmud; tra esse il mortaio di bronzo, che serviva di campana ai valorosi ospedalieri. Avanti ancora, e troveremo la sala dei sovrani di Francia, tutti effigiati sulla tela, dal solito Clodoveo fino a Napoleone III. C'è poco da ammirare, come arte; non c'è che l'interesse storico, e non per tutti, trattandosi di figure dipinte la più parte secoli e secoli dopo la sparizione degli originali dalla faccia della terra. Io ho cercato tra gli altri Filippo il Bello, e l'ho trovato… brutto.

Vi ho già detto delle sale degli ammiragli, dei contestabili e dei marescialli di Francia, tutte piene zeppe di ritratti. Di marescialli antichi mi ha colpito il conte Rantzau, bel giovinotto, a cavallo, con un occhio di meno e una gamba di legno. È quel Rantzau, sulla cui tomba fu scolpito questo grazioso epitaffio:

 
Du corps du grand Rantzau tu n'as qu'une des parts,
L'autre moitié resta dans les plaines de Mars;
Il dispersa partout ses membres et sa gloire,
Tout abattu qu'il fut, il demeura vainqueur;
Son sang fut en tous lieux le prix de sa victoire,
Et Mars ne lui laissa rien d'entier que le coeur.
 

L'ultimo dei marescialli effigiati è il Niel, una nostra simpatica conoscenza di Solferino. Cito lui che chiude la serie, per ora; ma non mi fermo a nominarvi i più notevoli, perchè sarebbero troppi. In quattordici sale, che hanno tutte una storia, poichè servirono d'abitazione a principi e principesse della maison de France, ci sono tutti i generali che giunsero ad afferrare quel tal bastone, portato nel proprio zaino (secondo la notissima frase) da ogni semplice soldato. In altre sale attigue ci sono i guerrieri celebri, che morirono senza avere il bastone: Jean Bart, Duguay Trouin, il balì di Suffren, Hoche, Kléber, Desaix, Lafayette. Quanti nomi, quante glorie purissime! Che cosa ne avrebbe pensato, di questi ospiti nuovi, la signora di Pompadour, che proprio in questo sale ebbe il suo appartamento?

Salite al primo piano; si passa in mezzo a due file di busti, tra i quali noto un Rabelais e un Descartes, due grandi filosofi, ma di scuola diversa. Avanti ancora, e c'è un visibilio di ritratti, dei quali uno mi ruba un quarto d'ora. Confesso la mia debolezza, ma ho dedicato un quarto d'ora a Madama Récamier, l'Egeria della Restaurazione, la più bella donna di Francia e Navarra, l'amica di Chateaubriand e del filosofo Ballanche. Questa perdita di tempo mi ha fatto stringere il passo nella grande, immensa galleria delle battaglie, dove di battaglie ne avete a bizzeffe, da quella di Tolbiac, vinta da Clodoveo, a quella di Wagram, vinta da Napoleone. Più lunge, ho veduto la camera da letto della signora di Maintenon, ma non ho più trovata la nicchia di damasco rosso e la poltrona di Luigi XIV, il quale assisteva ogni sera alla cena della marchesa, e alla sua andata a letto, per andarsene poi a cena e a letto anche lui, cinque o sei camere più in là.

Uscite dall'anticamera della Maintenon, ed eccovi la sala du Sacre, così detta pel celeberrimo quadro di David, vastissima composizione che rappresenta l'incoronazione di Napoleone I e di Giuseppina. C'è anche la battaglia d'Abukir e il Giuramento dell'esercito nel Campo di Marte, quel giuramento, con distribuzione d'aquile imperiali, che seguì di tre giorni l'incoronazione suddetta. Nel mezzo della sala è il Napoleone morente del Vela; un marmo che parla, e non occorre dir altro. Ancora due sale e i ricordi cangiano… di dinastia. Siamo nella sala del biliardo di Luigi XVI; ma non c'è più il biliardo su cui Luigi metteva la sua posta di cinque lire, rispondendo ad un certo duca che si meravigliava della parsimonia del re:

– Signor duca, scusatemi; voi giuocate il vostro denaro, io quello di tutti. —

Andiamo avanti, e si torna indietro… due regni. Ecco gli appartamenti della signora di Montespan. Nessun ricordo piacevole; la signora di Montespan fu una bella antipatica. Amerei meglio trovare l'appartamento della povera madamigella De la Vallière; ma il cicerone non sa dirmi dove sia. Forse non c'è mai stato; forse la gelosa Montespan ne ha cancellate le tracce. Passo di corsa nella camera da letto dove morì Luigi XV, il Tiberio della Francia, che compendiò il suo regno nella cinica frase: «après moi le déluge» e giungo nel gabinetto del Consiglio, celebre per uno dei pochi tratti di nobiltà vera del re Sole. Qui infatti egli invitò il Molière, suo valet de chambre, a sedersi a tavola con lui, e gli servì di sua mano un'ala di pollo, per dare una lezione a tanti gentiluomini, che erano valletti di camera come il Molière, e tuttavia sdegnavano di sedere a mensa con lui, presso il contrôleur de la bouche.

– Voi mi vedete occupato – disse Luigi XIV ai gentiluomini che erano venuti ad assistere alla sua colazione, – voi mi vedete occupato a far mangiare il nostro Molière, che ai miei valletti di camera non sembra una compagnia abbastanza buona per loro. —

Segue la camera da letto del re, conservata tal quale, come era nel tempo suo, col letto parato di velluto cremisi trapunto d'oro, e tutto il rimanente degli arredi, costati dodici anni di fatica al tappezziere Simone Delobel, anche lui, come l'autore del Tartuffo, decorato del nome di valletto di camera. Accanto alla camera da letto è la sala dall'Oeil de boeuf, così detta da una finestra ovale nella parete, aperta per ottenerle più luce da una camera attigua. Ivi aspettavano i principi e i gran signori, ammessi alla felicità della levata e dell'andata a letto del re Sole. Si parlava a bassa voce, non si bussava agli usci, ma si grattavano gentilmente col sommo del dito; solamente agli uscieri era permesso di aprirli.

Non lungi dall'Oeil de boeuf, da questa scuola di maldicenza raffinata della corte di Francia, sono gli appartamenti della regina. L'ultima che ci abitò fu Maria Antonietta. Il cicerone vi mostra la sala delle guardie, ove, nella giornata del 6 ottobre 1789, morirono tre soldati, tre eroi, Varicour, Durepaire, Miomandre de Sainte Marie, ottenendo, col sacrifizio delle loro vite, il tempo necessario alla fuga della regina negli appartamenti del marito e alle valide difese della guardia nazionale, che cacciò poi la moltitudine furibonda fuori del palazzo. Valore inutile, del resto, poichè i due scampati cadevano di Scilla in Cariddi!

Andiamo via, non ci lasciamo impietosire. Dicono che bisogna punire le colpe degli uni fino alla quarta generazione, e trovar commendevoli i furori, sublime la libidine di sangue degli altri. Io dico invece con madama Roland: «Liberté, que de crimes en ton nom!» E passo oltre; anzi, salgo a respirare un'aria più pura nell'attico. L'attico, se nol sapete, è il piano sotto i tetti. È grande quanto gli appartamenti inferiori, contiene un centinaio di quadri rappresentanti battaglie navali, i ritratti di quasi tutti i regnanti europei del secolo XIX e di quasi tutti gli uomini politici più notevoli di Francia e d'Inghilterra; inoltre, più di duemila ritratti di personaggi meritamente illustri, e immeritamente noti, dal 1400 fino al tempo presente.

Quanta storia, Dio buono! E dire che non c'impariamo mai nulla!