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Il Louvre ha molti quadri del Sanzio; parecchi ritratti, un Arcangelo Michele, una Sacra famiglia, che è la più reputata di tutte, e quella Bella Giardiniera, che sarebbe, senza la Trasfigurazione, il superlativo dell'arte. In che consiste la grandezza di Raffaello, che traluce da tutti questi dipinti? Coloritori efficaci come lui, a Venezia; disegnatori, corretti come lui, a Roma; compositori arditi come lui, a Bologna. Ma egli adunò in sè tutti i pregi, che si ammirano sparsi negli altri; ingegno veramente complesso, cavaliero armato di tutto punto, artista così compiuto nei concepimenti e nelle grazie del pennello, come fu uomo compiuto, negli splendori della vita, nella nobiltà del pensiero, nella soavità dell'affetto, nella gloriosa precocità della morte.

Ripigliamo terra, che c'è da correre. Non guardo più nulla; nè l'Allegri, che sostiene con due quadri, l'Antiope e una Madonna, il suo gran nome delle gallerie di Dresda e di Parma; nè Luca Giordano, che rammenta qui in piccolo spazio di tela i pregi singolari del suo affresco del palazzo Riccardi a Firenze; nè il Panini, men noto, ma elegantissimo pittore delle moltitudini in festa, le cui ricche composizioni mi avevano già colpito nel Museo nazionale di Napoli. Debbo andar oltre, per contemplare tra gli spagnuoli l'Assunta di Esteban Murillo, una volata nell'ideale, una volata, di cui l'artista non ha mai più raggiunta l'altezza. Ci sono altri quadri del Murillo, bellissimi, stupendi; ma, dopo aver vista l'Assunta, si capisce che sono opere d'un grande ingegno, il quale si contenta di volare a mezz'aria.

E dove lascio il Rubens, che, in venti e più quadri di gran mole, racconta col pennello la vita e i miracoli di Maria de' Medici? La vedova di Enrico IV può esser grata al capo della scuola fiamminga. In quelle composizioni ardite e felici, tirate giù alla brava, l'ingegno è buttato a piene mani. È un'epopea, quella Vita di Maria de' Medici, epopea diplomatica, ufficiale quanto si vuole, ma sempre epopea.

Del Rubens mi ha trattenuto lungamente un quadretto, la Kermesse. Non è che una festa di villaggio; ma non ricorda punto la maniera di Teniers. Anche qui è il magnifico Rubens, e in questa ridda di bevitori si vede il capriccio immortale d'un grande. Si penserebbe ad Omero, che ha fatto lo scherzo della Batracomiomachia, dopo la solenne fatica dell'Iliade, se non si ricordasse, pur troppo, che il paragone non regge più. Infatti, la critica moderna non ammette che l'autore d'uno di quei poemi possa essere l'autore dell'altro, ed è giunta a tale di erudita sfrontatezza, da negare perfino l'esistenza di Omero.

Critica scellerata!

X

Greci e Romani. – Norme dell'arte eterna. – Policleto e Leonardo. – Variazioni e correzioni. —Chassez le naturel…– Scoltura antica. – Restauri intelligenti. – La contessa di Tripoli e la Venere di Milo. – Ci siamo.

«Qui nous délivrera des Grecs et des Romains?» Un bel verso, non c'è che dire, ed una bella scappata di malumore. Ma chi ci libererà adesso da tutti i mediocri della critica, che da un pezzo in qua non sanno dir altro? No, riveritissimi e colendissimi (i superlativi contano qui come nella sopraccarta delle lettere); no, osservandissimi e prestantissimi signori; nè greci nè romani saranno banditi da casa nostra, per compiacere a voi altri, che non li vedete di buon occhio, et pour cause. Sappiate che questi greci e questi romani sono cerusici coi fiocchi, e che in Italia, ad ogni tanto, fanno qualche cura maravigliosa, pigliando i poverelli sull'orlo della fossa e rimettendoli in gambe. Se non le raddrizzano ai cani, mettete pure che ciò non sia tra i possibili, avendo la natura voluto così, e pei cani e pei critici.

Latini e Greci, babbi e nonni per noi, hanno dato al mondo l'esempio di un'arte viva e gagliarda, tutta umana nella sua purezza, tutta elegante e serena nella sua gravità. Niente di oscuro, di perplesso, o di vago, nei contorni di quella schietta ma non servile imitazione del vero; tutto ha un corpo e una bellezza ideale, in quel naturalismo felice che chiamava gli dei in terra e innalzava gli uomini in cielo.

Queste cose ch'io dico, e le molte che taccio, si fanno meglio palesi in due forme dell'arte antica, nella scoltura e nella architettura. Il marmo non ha mollezze nè abbandoni; può concedersi alle curve, graziose nella loro medesima sicurezza, ma si nega recisamente alle cascaggini, alle titubanze, ai galleggiamenti nel vuoto. La colonna, imitazione dell'albero, ha da star ritta, per esser salda; vuole la sua misura secondo un rapporto geometrico, la sua base, il suo capitello, il suo abaco. La statua deriva le sue proporzioni dal vero, ma dal vero che ammirate, non da quello che vi ripugna e vi offende. Policleto e Leonardo da Vinci, questi due grandi canonisti della forma umana, s'accordano senza conoscersi, alla distanza di ventitrè secoli. Proporzione, ordine, chiarezza, armonia, natura, bellezza, ecco di che elementi è nata, si è nutrita, e vivaddio si sostiene, l'arte greca e latina. Cercate nuove forme? Non troverete altro che le varianti, e le corruzioni di quella. I vostri Arabi, così gentili ricamatori della parete, così scaltri mascheratori dell'arco, derivano dai Bizantini; i vostri Gotici, amici del sesto acuto, che fa risparmiare la fatica delle cèntine sapientemente girate in aria, ingegnosi dissimulatori dei contrafforti e dei puntelli che tengono ritte le loro cattedrali, hanno l'arte di seconda mano dai Lombardi, scaduti e poveri, ma dopo tutto familiari copisti dello stile latino.

Riveriti signori, con tutto quel che segue, sapete a memoria un bel verso; per fare il paio, imparate quest'altro: «Chassez le naturel, il revient au galop.» Il che significa in lingua nostra, che avrete un bel liberarvi dai Greci e dai Romani; li caccerete dalla porta, rientreranno dalla finestra, o dal tetto. Non c'è natura, nè bellezza, ove non sia traccia di loro; l'espressione del bello eterno, venendo a noi, è passata per essi; ne fa fede la storia della civiltà; chi sostiene il contrario ha dato il cervello a pigione.

Io li ho veduti anche al Louvre, e li ho salutati con tutta l'effusione dell'anima, i miei Greci e i miei Romani. Parigi, anzichè liberarsene, aveva tentato di accrescerne il numero; tanto che, dopo le vittorie napoleoniche in Italia, la lista delle statue e dei bassorilievi segnava cento e diciassette capi di più. Nel 1815 tutta questa roba fu restituita ai legittimi proprietarii. Ma guardate quel che rimane; sono ancora migliaia di statue, centinaia di capolavori, quasi tutti levati da Roma, in trecent'anni di scorrerie, di tributi e d'acquisti. Curioso a vedere come il Mazzarino e il suo re si contentassero di rottami, scavati in Roma e offerti ai loro incaricati laggiù; ma più curioso e veramente lodevole il modo in cui furono restaurati quegli avanzi, spesso informi come l'Ajace, che si fa chiamare Pasquino su d'una piazza dell'eterna città.

Leggete infatti, a' piedi d'una Giunone, restaurée en Providenze: «moderni, il naso e la bocca, il collo e le ciocche dei capegli, le due braccia e i due piedi.» E sotto una donna velata, restaurata in Giunone: «la testa antica, appiccicata, non dovette appartenere alla statua, essendo di un marmo diverso.» Sotto una Cerere: «sono moderni, la testa col velo, il braccio destro, la mano sinistra, ecc.» Sotto un Apollo citaredo: «testa antica, ma non appartenente alla statua, ed evidentemente di donna. Il naso, il mento, il collo, le braccia, le gambe, i piedi, la lira e il termine, sono moderni.» E via di questo passo coi restauri, per molte e molte altre statue, tra le quali l'Oratore romano, rappresentato nell'atteggiamento di Mercurio, opera di Cleomene, figlio di Cleomene, Ateniese, come dice la leggenda scolpita in caratteri greci dell'ultimo secolo avanti Cristo; la famosa Diana di Gabio; l'altra non meno famosa di Versaglia (ritrovata a Roma, intendiamoci); la Pallade di Velletri, colossale, e lo stupendo Giasone, che si allaccia i sandali, somigliantissimo al Gladiatore Borghese, e trovato a Roma, nel teatro di Marcello. Quest'ultimo, per esempio, è di marmo pentelico; la testa è di grechetto, ma antica.

Bisogna esser grati ai francesi di questa diligenza, mercè la quale ogni statua fa la sua buona figura. Nè tutto è restauro, badate; ci sono in buon dato le statue intiere e i monumenti pressochè intatti. Per questo rispetto, Parigi non gareggia con Roma, nè con Napoli; ma può venir terza facilmente; ed è già un bel posto il suo, quando si pensi che quasi tutti i monumenti, statue, bassorilievi, sarcofaghi, candelabri ed altri cimelii preziosissimi del museo del Louvre, provengono d'oltr'Alpi. Quasi tutte le città gallo-romane della Francia hanno voluto avere i loro musei particolari, in cui esporre i frutti degli scavi fatti sul luogo. È questo forse l'unico caso in cui Parigi non si mostri usurpatrice del diritto delle provincie, o, per dir meglio, sostenitrice accanita di quella legge d'accentramento, da cui ha derivata la maggior parte della sua stessa importanza.

Tra le rarità del museo, vuol esser notato il quadrante solare di Gabio, su cui sono scolpite in cerchio le teste dei dodici Dei maggiori, colla giunta di un tredicesimo, piccolino, paffutello e sorridente, che apparisce tra Venere e Marte, e sembra collegarli in un abbraccio filiale. Avete indovinato che quel birichino è Cupido, che fa rima con infido, come sanno i vecchi e gli esperti. Degno di molta attenzione il planisferio greco egiziano, detto del Bianchini, dal nome del suo primo illustratore. Curiose le tavole di marmo, su cui si leggono scolpiti i nomi di tutti i cittadini ateniesi morti presso il nemico, nella 84.^a olimpiade; e quell'altra che reca incisa con eleganza mirabile una legge civile di Atene, e che i discendenti di Costantino avevano ridotta ad abaco di capitello, come si rileva dalle croci greche, scolpite rozzamente sui lati. Non si può passare indifferenti a' piedi di una Pudicizia, statua di donna tutta chiusa nella sua rica, che somiglia grandemente alla sua omonima dello scalone del museo Capitolino. Bisogna fermarsi davanti ad un Marte, che va eziandio sotto il nome di Achille, e non si può negare un tributo d'ammirazione a due o tre busti d'Antinoo, forse i migliori che si conoscano di questo bellissimo favorito dell'imperatore Adriano. Spero che avrete notato, passando, quel Giove colossale, lavorato con molta finitezza, ma ridotto poco degnamente ad Erme, perchè mancante lui delle parti inferiori, e mancanti gli artisti moderni del coraggio bisognevole per restaurarlo sul serio. Non badate, ve ne prego, a tutte quelle Veneri, che arieggiano il tipo conosciutissimo della Venere di Gnido, ma sono lontane dal poter rivaleggiare colla Medicea di Firenze e colla Capitolina di Roma. In materia di Veneri, io non conosco ora, non vo' veder altro che quella di Milo. M'è parso d'intravvederla, in fondo ad un androne. Sicuro è lei, proprio lei; la riconosco all'atteggiamento imperioso e alla mancanza delle braccia. Compatite la mia debolezza, sono innamorato cotto di quella bella monchina. L'amavo prima di conoscerla, come Goffredo Rudel amava la contessa di Tripoli; l'amavo sulla fede di ciò che ne aveva scritto il visconte di Marcellus, che andò a farle visita nella sua isola, entro la stalla del villano Jorgos; l'amavo per le forme di gesso, che ne portavano attorno i lucchesi. Nel 1871, quando corse la voce che i petrolieri della Comune avessero appiccato il fuoco al Louvre, il mio primo pensiero fu per quella bella prigioniera: non ebbi pace se non quando si riseppe che il Louvre era illeso dalle fiamme, e che del resto la divina immagine stava in sicuro da un pezzo, avendola i conservatori del museo calata in un sotterraneo, al riparo dalle granate e dalle bombe prussiane. Debbo confessarvi proprio ogni cosa? Un po' per far come gli altri ero venuto a Parigi, ma molto (l'avevo lasciato nella penna, per non parervi matto alle prime) molto per veder da vicino questa contessa di Tripoli… cioè, no, volevo dire questa duchessa, principessa, regina, meraviglia di Milo e del mondo.

 

Studiamo il passo, se non vi rincresce, ed entriamo nel sacrario. La dea è là, nel mezzo della sala, su d'un piedistallo di granito; intorno al piedistallo è un cancellino di ferro, e intorno a questo si affollano, si stringono, si pigiano centinaia di Mozambicchi. Mozambicchi! che vuol dir ciò? Non vi scandolezzate; è il nome che Parigi ha superbamente appioppato ai suoi provinciali, venuti coi treni di piacere a vedere l'Esposizione, ed anche un pochettino ai forastieri che invadono i suoi caffè, i suoi marciapiedi, i suoi teatri, le sue trattorie, non lasciando aver pace ai Sibariti della Senna. Cari, quei Mozambicchi! Ci stiano pure, facciano siepe intorno al cancello; amano quello che io amo, e non mi posso dolere. Se madonna fosse viva, sarei geloso, non ho vergogna a confessarlo; ma è di marmo, e di marmo corallitico, che va annoverato tra i più duri della creazione, e, come son certo che non me la possono rubare, così mi sostiene il pensiero che essa non farà l'occhiolino a nessuno. Del resto, ad un per uno se ne andranno di lì, e, appena mi riuscirà di ficcarmi là dentro, di aggrapparmi alla ringhiera, vedremo.

Lavoro di gomiti e giungo alle spalle di una giovine coppia. Sono di sicuro due sposi novelli; lo dice quel tenersi a braccetto con tanta mollezza confidente; lo dice la loro gioventù; la loro snellezza, e quel pallore di giglio che tinge la guancia della signora, da me veduta in isbieco. Stanno un tratto silenziosi a guardare; poi la signora arriccia il naso, dà una stretta al braccio dello sposo, e con accento strascicato dalla noia gli dice:

– Non è che questo? (n'est-ce que ça?)

Sposina delle mie viscere, come capisco ora i parigini! Sì, è vero, ci sono dei Mozambicchi a Parigi, ce ne son troppi, e voi siete la regina della tribù.

Che cosa abbia risposto il cacico alla sua giovine metà, non rammento; forse non ci ho badato. So che la giovine coppia se ne andò e che io mi ficcai dentro, guadagnando venti centimetri di ringhiera. Intorno a me si era fatto un gran vuoto ed un grande silenzio; non c'erano più Mozambicchi, nè Mozambicche. Non potevo muovermi, è vero; ma di questo non occorreva dar cagione alla folla. Anch'io ero di sasso, o, se vi piace meglio, di stucco.

XI

Inno a Venere. – Un po' di storia. – L'editto di Teodosio. – Senza braccia – Il nome dell'autore. – Induzioni ragionevoli. – Ho detto la mia. – Una massima di Lisippo. – Imperatori romani. – Messalina… col bambino.

Come una statua monca, e rotta per di più in cinque o sei pezzi, abbia potuto infiammare la fantasia, non solamente a me, che son l'ultimo degli ultimi, ma a parecchie generazioni di poeti e di dotti, di orecchianti e di orecchiuti, è cosa veramente degna di nota, ed anche un pochino di studio.

È giovata a questa Venere la storia del suo ritrovamento; poi la controversia lunghissima, e non ancora finita, intorno al vero suo essere; da ultimo, e più di tutto, il carattere singolare della sua bellezza. Come vedete, c'è qui l'embrione d'un panegirico, diviso in tre punti, secondo le buone regole della sacra eloquenza. Adottiamo quest'ordine prestabilito, che si conviene alla divinità del soggetto, e aiuterà in pari tempo a chetare i bollori della nostra ammirazione. Ecco la storia.

L'isoletta di Melos, oggi di Milo, è una delle Cicladi, ossia dell'Arcipelago greco. Aveva, in illo tempore, su d'una collina davanti all'ingresso della rada, un colmo di case, che parve un villaggio a Tucidide, ma che divenne una città bella e buona, con tanto di teatro, come attesta Diodoro Siculo e come le sue rovine dimostrano. Oggi la città è tornata un villaggio, e dicesi Castro.

Lassù, nel febbraio del 1820, presso alcune grotte sepolcrali sotto la cinta delle vecchie mura di Melos, un povero contadino, a nome Jorgos, stava lavorando di zappa intorno ad un vecchio ceppo d'albero, che voleva sradicare da un ciglione di terra. Ai colpi del contadino, il ceppo, scambio di balzar fuori, si affonda in una buca. Jorgos, senza volerlo, ha scoperto un ipogèo, una specie di grotta quadrata, larga da quattro a cinque metri e profonda altrettanto, rivestita d'intonaco, non senza indizii di quadrature policrome. Da buon greco moderno, che conosce il pregio di simili incontri, Jorgos discende nel sotterraneo, e trova, mezzo affondate nel terriccio, parecchie erme di Dei, come un Mercurio, un Bacco indiano, e finalmente il torso d'una Venere, mancante delle braccia e di tutta la parte inferiore, dall'anca in giù. Lavora indefessamente e trova il resto della statua, fino al plinto, insieme con rottami di braccia e di mani, di zoccoli, d'iscrizioni e via discorrendo. Da quegli avanzi non c'è modo di ricomporre le braccia della Dea. Ci sono, per esempio, tre mani; ma quali sono veramente le due che le convengono? Jorgos non sta a beccarsi il cervello; ha il grosso della statua, e questo gli basta per capire che egli tiene in poter suo un capolavoro dell'arte antica e che potrà cavarne un bel gruzzolo di piastre.

Quella Venere, evidentemente, era stata calata entro la buca da qualche divoto, ai tempi in cui prevaleva la religione ufficiale di Costantino, e forse qualche anno dopo il famoso editto di Teodosio, quando i vescovi andavano attorno, armati del braccio secolare, ad abbattere i simulacri, a diroccare i templi della vecchia religione pagana. È noto che la più parte delle antiche statue furono conservate alla posterità con questi inganni pietosi; tra l'altre la Venere Capitolina e l'Ercole Mastai.

Fatta la scoperta di Milo, il signor Brest, agente consolare della Francia in quell'isola, ne avvisò prontamente il suo ambasciatore a Costantinopoli, che spedì a Milo un suo segretario, il visconte di Marcellus. Nel frattempo, aveva toccato a Milo la Chevrette, su cui era imbarcato un giovine uffiziale, il Dumont d'Urville, che vide la Venere, e l'avrebbe comperata per milledugento lire, se il comandante della corvetta non gli avesse dimostrata l'impossibilità di prendere quel sopraccarico a bordo. Giunto il Marcellus colla nave dello Stato l'Estafette, trovò che appunto allora la Venere era stata venduta per quattromila lire ad un frate. Come, ad un frate? Sicuro, al P. Economos, che, accusato di malversazioni a' suoi superiori, e chiamato a Costantinopoli per render conti, voleva con quel donativo ottenere la protezione di un Nicolaki Morusi, dragomanno dell'Arsenale. Si oppose a quel contratto il Marcellus presso i primati dell'isola, e, quantunque la statua fosse già stata imbarcata su d'un brigantino greco sotto carica per Costantinopoli, ottenne di farla trasbordare sull'Estafette, pagandola seimila lire al contadino, in nome del suo ambasciatore, il marchese di Rivière. Dispiacque la cosa al Morusi, cui il frate era andato a lagnarsi; i primati di Milo furono presi, bastonati senza misericordia e condannati a pagare una multa di settemila piastre. Li rimborsò il generoso signor di Rivière; ottenne che il governo turco facesse delle scuse; ma le bastonate nessuno potè più levarle ai poveri anziani dell'isola.

La Venere di Milo giunse a Costantinopoli il 24 di ottobre. Vederla e desiderare di trovare le braccia mancanti, fu un punto solo pel marchese di Rivière. Ma le ricerche riuscirono infruttuose, quantunque andasse egli in persona. Certe estremità, rinvenute nell'ipogèo, o poco lunge di là, non offrivano la medesima bontà di lavoro; altre, come ho già detto, ridotte a pochi frammenti, non si prestavano ad un restauro neanche approssimativo. C'era quel pezzo di mano col pomo, che poteva far credere ad una Venere vincitrice del giudizio di Paride; ma, senza contare la nessuna certezza che fra tre mani rinvenute nell'ipogèo, quella del pomo fosse proprio da attribuirsi alla statua, parve che con questa faccenda del pomo non si accordasse troppo il ritrovamento contemporaneo d'un pezzo di zoccolo, o plinto che si voglia dire, la cui frattura combaciava col plinto della Venere, e la prolungava in modo da far supporre la presenza di una seconda statua, più piccola, e non certamente di proporzioni corrispondenti alla prima. Sul piano di quel frammento vedevasi appunto una incavatura, adatta a ricevere il piede della statua minore; sull'orlo, poi, si leggeva una iscrizione, che, supplita di tre lettere in ognuno de' due capiversi, diceva così: —Agesandro, figlio di Menide, – d'Antiochia sul Meandro, – fece.

Il ritrovamento di questo zoccolo, a cui non si pose troppa attenzione da principio, guasta le uova nel paniere a coloro che pretendono la Venere di Milo essere stata accompagnata ad un Marte, come si vede in parecchi gruppi dell'antichità. Quello zoccolo non presenta la larghezza necessaria a sostenere un Marte. Inoltre, esso è alquanto più alto del plinto su cui poggia la Venere; il qual plinto, precisamente sotto il piè sinistro della Dea, s'innalza un pochettino anch'esso, come per accompagnarsi a quell'altro. C'era proprio bisogno di alzare la base, per collocarvi il dio della guerra, già naturalmente più alto della sua pretesa compagna?

Ma allora? che cosa ci poteva stare su quello zoccolo di giunta? O un cippo, un'erme, come si ha in un esemplare d'Afrodite, conservato nel Museo britannico; oppure… oppure quell'unico tra gli Dei che, oltre l'avere una stretta relazione con Venere, ha la statura più piccola e fa intendere e rende naturalissimo quel rialzamento di base. È un'idea mia, nata da un pezzo, fortificata da una visita al Museo nazionale di Napoli, diventata certezza davanti a quel frammento di base, o, per dire più esattamente, al disegno che ne ha fatto nel 1821 il signor Debay.

Andate nel Museo Nazionale di Napoli e vedrete laggiù la Venere Vincitrice, così detta di Capua. È nel medesimo atteggiamento della Venere di Milo; gli occhi a mezz'aria, il piede sinistro su d'un elmetto posato a terra; il braccio sinistro levato, per sostenere una lancia; il destro abbassato, coll'indice teso in atto di comando. Davanti a lei, e molto accosto è Cupido, coll'ali dimesse; nella mano sinistra tien l'arco, e nella destra una freccia, che offre riverente alla madre. Guardate al Louvre la Venere di Milo. L'elmo sotto i piedi non c'è; ma di queste varianti d'esecuzione son molti gli esempi. Abbiamo per contro l'assoluta somiglianza nei rispettivi atteggiamenti degli omeri, indizio certo di una identica azione delle braccia. Se a questo aggiungete il resto di base, la cui frattura perfettamente combacia col plinto, mentre il piccolo spazio del suo piano e l'incavatura nel mezzo paiono fatti a posta per dar luogo ad una figura d'adolescente, in grande dimestichezza colla Dea, non avrete più modo di dubitare. La Venere di Capua ha una sorella; sorella maggiore, mi affretto a confessarlo. Quanto alla storiella della Vittoria, sul fare di quella in bronzo del Museo di Brescia, non è più il caso di parlarne. La Venere di Milo non può essere una Vittoria, più di quello che lo sia la Vittoria di Brescia, che è una Venere anche lei, alla quale un bel giorno, probabilmente sotto Vespasiano, fondatore del tempio in cui essa è stata rinvenuta, furono aggiunte le ali e lo scudo. La posteriorità della raffazzonatura è evidente. Del resto, sia Vittoria, o Venere, quella di Brescia ha il peplo, e quella di Milo è sempre più Venere di lei, perchè ha il torso nudo. E che torso, e che nudo!

 

La statua, per dirvi tutto, è di marmo corallitico; un marmo d'Asia, assai lodato da Plinio, che lo dice nella bianchezza e nell'apparenza molto vicino all'avorio. L'ipogèo, nel quale fu rinvenuta, è a cinquecento passi dal recinto del teatro di Milo, che forse era dedicato a Venere, come quello di Pompeo in Roma, e come in generi tutti i teatri antichi. La famosa Venere d'Arles fu appunto scoperta nelle rovine del teatro romano di quella città provenzale. Salviano, nel suo libro De gubernatione Dei, lasciò scritto: «colitur Venus in theatris.»

Quanta erudizione, buon Dio! Ma essa non è che la millesima parte di ciò che si è stampato intorno alla meraviglia di Milo. E anch'io, dopo tutto, ci avevo da dire la mia.

Resterebbe da aggiungere qualche cosa intorno alla bellezza scultoria dell'opera, che è veramente singolare, e corrisponde per l'appunto a quel ritorno allo studio del vero, che tenne dietro alla scuola di Policleto. Una certa sprezzatura artistica nel trattare i capegli denota l'epoca avanzata dell'arte. Quell'impercettibile mancanza di simmetria tra i due lati del viso, quella lieve irregolarità nelle proporzioni del collo, ed altre piccole licenze, che non isfuggono all'occhio esercitato dell'artista, accennano alla copia d'un modello vivente, anzi che alla stretta osservanza dei cànoni. Il pensiero corre involontariamente a Lisippo, che teneva in molta stima i trattati di Policleto, da cui confessava di aver cavato tutto il suo sapere, ma che, additando i viandanti a' suoi giovani allievi, diceva loro: «siano questi i vostri esemplari.» Massima eccellente in bocca a Lisippo, il quale non perdeva di vista i principii, e ricordava con reverenza i maestri.

Qualunque sia, Agesandro o Lisippo, l'autore, questa Venere è un felice impasto di grazia soave e di grandezza eroica. È monca e piena di rappezzi; ma la divinità di quel torso e di quella faccia, l'eleganza snella e giovanilmente materna delle sue proporzioni, sono tutto quello che si può immaginare di più bello in arte e in natura. Veduta lei, manca la voglia di veder altro, e ci si scalda poco per quella raccolta d'imperatori romani, che è veramente tra le più ricche d'Europa. Figuratevi che d'ogni imperatore, busto o statua, ci sono due, tre, quattro, fino a sei esemplari. Tra i più rari ho notato un Pertinace, nudo e colossale, e un Nerone, alquanto più grande del vero; per contro, essendo in marmo, dee ritenersi meno briccone del vero.

Finirò con una statua di Messalina Augusta, che mi ha grandemente colpito; grassotta, genialotta, cogli occhi un po' grossi, alla guisa di certi miopi, i ricciolini sulla fronte, ravvolta in una sontuosa rica, e con un bambino nelle braccia: il suo generoso Britannico, di cui parla Giovenale, in un verso orridamente famoso.

È strano l'effetto di quella statua. Se in cambio di trovarla a Roma dugent'anni addietro, vale a dire in terra di pagani e in un tempo assai più pagano del nostro, l'avessero scoperta dieci anni fa, sul territorio di Lourdes, si sarebbe gridato al miracolo, e la portentosa immagine di Nostra Signora, innalzata sugli altari, farebbe prodigi a bizeffe, coi ciechi, con gli storpi, e magari anche con le donne sterili.

Debbo confessare tuttavia che un miracolo essa lo ha fatto per me, quantunque non trasformata da nessuna apoteòsi. Dopo averla considerata un bel pezzo, mi sono appressato a lei e le ho bisbigliato un nome; non già quello di Claudio, non già quello di Silio; il nome di Pietro Gossa. E quella briccona mi ha fatto il bocchino.

Lo credo, io!