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La notte del Commendatore

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CAPITOLO VIII

Come l'Ariberti stando nella neve ricevesse il suo battesimo di fuoco.

Era nevicato tutta notte e il mattino era freddo, il cielo coperto, l'alba grigia e stentata.

Una carrozza chiusa, che portava Ariberti, il Priore, Bonisconti e un quarto personaggio, che doveva essere il chirurgo, sboccava dal corso di Santa Barbara sul ponte delle Benne, che mette fuori città, cavalcando la Dora. I nostri viaggiatori mattutini erano tappati là dentro e per giunta inferraiolati fino agli occhi, non tanto pel freddo, che, durando il mal tempo, era abbastanza sopportabile; quanto perchè i signorini avevano passata la notte in piedi.

Il lettore ricorda che Tristano aveva invitato tutti i cavalieri di Malta ad una festa da ballo in casa sua, con quante dame avessero potuto raggranellare. E la festa s'era fatta; e le dame erano state parecchie; non certamente delle più nobili (che anzi!…), ma belle la più parte, giovani tutte, e punto schizzinose. Figuratevi; i cavalieri le invitavano a far due salti, senza bisogno di presentarsi; le impegnavano lì per lì, senza note sul taccuino; si andava, si veniva, si restava di qua o di là, senza tante cerimonie; e quando uno, per la scarsità delle sedie, non sapeva dove posarsi, adagiava il fianco sul pavimento, ai piedi della dama, nella graziosa postura di Amleto allo spettacolo di corte, o del fiume Po, nelle antiche carte bollate del Regno.

L'allegria era stata molta, anzi fin troppa; nè tutti avevano ancora finito coll'addormentarsi qua e là, negli angoli del quartierino, quando il padrone di casa usciva coi due compagni, lasciando i suoi convitati padroni del campo.

Prima di andar fuori, il giovane Ariberti si era risciacquato per bene il capo; a ciò consigliandolo il Priore, che vedeva in quella abluzione uno spediente infallibile per dissipare i vapori dell'orgia. Quindi, per rimettersi un po' di fiato in corpo, aveva bevuto un bicchiere di vin caldo, con molta cannella e molti chiodetti di garofano. Anche questo era un rimedio del Priore, che non si era certamente formato alla scuola di Salerno. Contuttociò, egli non aveva cansato i danni della veglia prolungata, si sentiva pesare la testa, aveva il cervello intronato e la bocca amara.

Ma che farci? Secondo il tempo, naviga; dice il proverbio. Un buon letto sarebbe stato a quell'ora la man di Dio; ma il letto e la pace son fatti per gli uomini di buona volontà; e questo, se non pel letto in particolare, certo per la pace, che comprende in sè tutte le forme della quiete, è stato detto e cantato in musica da un coro d'angioli, una notte che neppur essi avevano potuto dormire.

Erano passate di poco le sette, quando la carrozza, abbandonando la via battuta dal Parco, s'inoltrò per una stradicciuola che andava verso il fiume, alle spalle del Camposanto.

–Bel luogo!—disse Tristano, guardando attraverso i cristalli il muro di cinta della necropoli.—Chi muore da queste parti ha fortuna; non c'è caso di scomodare gli amici per l'accompagnamento funebre.—

A quella amara facezia un brivido corse per l'ossa al nostro giovane eroe. Si vide in una bara, portato da due becchini lunghesso un'aiuola del triste recinto, e pensò a Dogliani, a suo padre, a sua madre, che, poveretti, non sospettavano di nulla, e lo facevano forse già alzato da letto, ma per dare una scorsa ai suoi libri e prepararsi ad una lezione sul Jus quiritanum.

Il Priore, che non lo perdeva d'occhio, si avvide di quel moto, quantunque lievissimo, del suo primo.

–Sente freddo?—gli chiese

–Sì, un pochino;—rispose Ariberti, tornando prontamente in sè stesso;—è del resto la prima notte che perdo.

–E sarà anche il primo giorno che guadagna;—ripigliò Tristano, correggendo l'effetto della sua celia;—oggi infatti Ella prende il suo battesimo di gentiluomo. Animo; per combattere il freddo, basta una sorsata di questo.—

Così dicendo, cavava di sotto alla beduina una fiaschetta da viaggio, e la porgeva ad Ariberti.

Il giovine accostò la fiaschetta alle labbra e bevve un sorso di rumme, che gli bruciò il palato.

–Ne beva un altro poco;—soggiunse il Priore, notando la smorfia del bevitore novellino.—Similia similibus curantur; è medicina omiopatica. Vedrà che si scalda lo stomaco per benino.—

Ariberti obbedì, e strabuzzando gli occhi e torcendo le labbra, mandò giù una seconda sorsata.

–Eccoci, del resto, al luogo di ritrovo;—disse Tristano;—entreremo al coperto e ci sgranchiremo le membra aspettando.—

La carrozza giungeva in quel punto davanti ad una casetta di modesta apparenza, che poteva essere la dimora di un ortolano, d'un curandaio, o d'un oste. Il portone di costa all'edilizio si era spalancato pur dianzi, e il cocchiere piegati verso quell'apertura i cavalli, aveva infilato l'ingresso. I quattro personaggi smontarono poco dopo sotto una tettoia ed entrarono in una camera a pian terreno, in fondo a cui si vedeva un camino e si vedeva e si sentiva un buon fuoco. La prima cura dei nuovi venuti fu quella di andarsi a prendere una buona fiammata, senza pure sedersi sulle scranne che il padrone di casa si era affrettato a mettere in mezzo.

Quel bravo abitante del suburbio doveva, del resto, essere avvezzo a quelle visite, perchè, compiuto quell'atto di ospitalità, non si curò più altrimenti di loro.

–Non vorrei—disse Bonisconti, mentre si stropicciava le mani,—che quei signori si facessero aspettare troppo.

–Sono le sette e dieci minuti;—rispose il Priore, dopo aver dato un'occhiata al cronometro;—anche un quarto d'ora di tempo si può concedere al nemico.

–Non ce ne sarà bisogno;—entrò a dire il chirurgo; mi par di sentire —il rumore di una carrozza nella viottola.

Il Priore andò sulla soglia e tese l'orecchio in ascolto.

–Sicuro;—diss'egli poscia;—ci seguivano a poca distanza. Giovanni, avete fatto riaprire il portone?

–Sissignore; c'è mio figlio ad aspettare quegli altri.

«Quegli altri» voleva dire che il luogo dello scontro era stato scelto da Tristano e che il padrone di casa aspettava la mancia da lui.

All right! a noi, dunque!—esclamò il Priore.—Noi metteremo mano alle armi, e Lei, signor dottore, alla busta.

–Spero che non ce ne sarà bisogno;—rispose il dottore.

–Chi glielo dice? Gli avversari vengono senza chirurgo;—notò braveggiando il Priore.

–Quand'è così,—replicò il discepolo di Esculapio sorridendo,—metto mano alla busta.—

Poco stante, l'altra carrozza giungeva sotto la tettoia, e i nostri personaggi si mossero verso l'uscio; due di essi per fare i convenevoli alla parte contraria, gli altri due per dare una sbirciata a quelle faccie proibite.

Ariberti, se i lettori rammentano, ci aveva ancora da conoscere il suo avversario.

Lo vide allora, scender ultimo dal predellino, e batter de' piedi in terra, per iscuoter la neve, che appunto lì, a mezza, discesa, gli aveva fatto crosta alle suole. Era un coso alto e nero, con un volto tutto a spigoli, che apparivano più vivi per aver egli le guance rase, cogli occhi neri, affondati nelle orbite, appiattati sotto due ispide sopracciglia come il ragno nella sua buca; insomma, un tipo volgare che, fatta astrazione dall'abito mezzo signorile, si sarebbe potuto così a occhio e croce collocare in uno di quegl'infimi e necessari uffizi sociali, i cui nomi si ommettono per brevità.

Costui diede a sua volta un'occhiata in giro. Agli atti e alle parole ricambiate co' suoi amici, conobbe i due padrini dell'Ariberti. E allora, andando collo sguardo più oltre, vide un uomo già fatto che doveva essere il chirurgo, e quello sbarbatello, ch'era senz'altro il suo avversario, l'amante (ahimè) di Giuseppina Giumella.

Salutò abbastanza con garbo; ma era irrequieto, e, come disse Dante di Cerbero, «non aveva membro che tenesse fermo». Entrò in casa, seguendo i padrini, andò verso il camino per darsi una fiammata anche lui, ma subito si allontanò e si messe a far le volte del leone su e giù per la camera.

Tristano si avvide alle prime che l'amico pativa di convulsioni. Egli notava tutto per cavarne profitto, come del resto ha da fare in tempo di guerra ogni buon capitano.

Per altro, si tenne le sue osservazioni in petto.

C'era appunto allora da vedere e da misurare il terreno. Uscito insieme con uno dei padrini avversarii, rasentò il muro sotto la tettoia e svoltò alle spalle della casa, in un largo campo che si vedeva rinchiuso sui margini da tre file di salci spennacchiati. La neve ricopriva tutto il maggese, ma poco prima, obbedendo agli ordini di Tristano, i due contadini, padre e figlio, avevano lavorato col badile ad assottigliare quel bianco strato per una lista di forse quaranta passi, nel mezzo del campo, e in linea parallela al muro posteriore della casa. Quello spazio serbava ancora una parte della sua prima bianchezza; ma ci si poteva camminar su senza troppa fatica.

–-Le pare che vada bene così?—chiese Tristano, poi ch'ebbe fatto notare a quell'altro l'utilità del lavoro.

–Benissimo;—rispose il compagno che era quel della tuba sulle ventitrè ore;—del campo ne avranno quanto basta.

–Ne hanno sgomberato veramente un po' più del bisogno;—ripigliò Tristano;—a noi bastano i dodici passi convenuti.

–Ma, non le pare,—si provò a dire quell'altro,—che a dodici passi… che, infine, la distanza sia troppo breve?

Il Priore lo guardò come sapeva guardar lui, tra curioso e beffardo; indi si strinse nelle spalle.

–Signor mio,—diss'egli, dopo un istante di silenzio,—la scelta delle armi stava a noi, ma le condizioni le han chieste loro; volevano anzi un duello a dieci passi ed io, quantunque la breve distanza potesse piacere al nostro primo, ho dovuto ricusare, perchè…

–Sì, me ne ricordo;—interruppe quel della tuba.

–Perchè,—continuò implacabilmente il Priore,—quella di dodici passi è la misura più stretta che sia consentita dai codici cavallereschi di tutto il mondo civile, affinchè il duello alla pistola sia un combattimento e non un assassinio da far torto ai padrini che lo avessero lasciato commettere. Se ne rammenta?

 

–Gliel'ho detto poc'anzi.

–Orbene, siamo rimasti d'accordo sui dodici passi; sparare fino a tanto che piacerà loro, nel limite di sei colpi, dopo i quali rimanesse in nostro arbitrio di concedere e di rifiutarne la continuazione; e noi non abbiamo a vederci più altro. Se vogliono una distanza più grande la domandino e vedremo di contentarli.–

Quell'altro si accorse un po' tardi che col Priore non c'era da far nulla, e rimase lì grullo a guardarlo.

–Dicevo…—balbettò quindi, impacciato come un pulcino nella stoppa—dicevo così… per un senso di umanità… ma noi…

–Scusi se la fermo qui;—interruppe Tristano, mettendosi sul grave.—Nel caso nostro non c'è umanità che tenga. Son venuti a cercare? Sì. Hanno voluto la minima distanza? Sì. La colpa, se c'è colpa, non è nostra di certo. E adesso, mi faccia la grazia di rimettersi l'umanità in tasca, o scambio d'una giostra, se ne fanno due.—

Tristano, come si vede, era poco arrendevole, e nelle quistioni, per dirla con una frase volgare, ma calzante, anzi fin troppo calzante, c'entrava cogli stivali.

L'avversario vide la mala parata e prudentemente ritirò la sua umanità, «come face le corna la lumaccia».

–Va bene, va bene;—disse allora Tristano, rabbonendosi;—ora misuriamo il terreno. Ecco qua Bonisconti che l'aiuterà in questa faccenda; io e il suo amico andremo sotto la tettoia a caricare le armi.—

Con queste parole, il Priore si allontanò dal campo, ma non tanto rapidamente che non avesse tempo a bisbigliare una raccomandazione al collega.

–Hanno paura;—gli disse.—Vorrebbero guadagnare qualche passo nella misura del terreno. Se ci si provano, chiudi un occhio.

–Non dubitare, Tristano; magari tutt'e due.

–No, sarebbe troppo.

–Quand'è così, uno soltanto; sta tranquillo.—

Poco dopo quel dialoghetto, siccome nessuna delle due parti aveva portato la cordicella a nodi, utile arnese, ma poco usato, per simiglianti misure, Bonisconti e quel della tuba si pigliarono a braccetto come due sposi, e stabilito un punto di partenza andarono speditamente camminando lunghesso la lista di neve rassodata, e contando l'un dopo l'altro i dodici passi. Eran passi, non ci cascava dubbio; ma quel della tuba, che aveva cominciato col farne uno giusto di settantacinque centimetri, al secondo allungò le seste, facendo addirittura gli ottanta. E Bonisconti non ci abbadò. Quell'altro, inanimato dal buon esito, tentò cose maggiori, facendo il terzo passo di ottantacinque. E Bonisconti zitto. Infine, come furono ai dodici, il padrino del Forniglia disse ridendo: o senta, vogliam far tredici?

–Facciamo tredici per la buona misura;—rispose Bonisconti, mandando il piede di costa alle parole;—ma l'avverto che è un brutto numero.

–Allora, quattordici!

–Quattordici, e crepi l'avarizia!—

Così avvenne che, tra il guadagno apertamente fatto e i centimetri rubacchiati, i dodici passi diventarono diciotto o venti. A quel della tuba parevano ancora pochi, segnatamente per quel maledetto strato di neve che dava più spicco al bersaglio umano; ma le gretole eran tutte sfruttate, e il messere non ardì chiedere di più.

Ambedue piantarono i segnali, e, fornita quella loro bisogna, andarono incontro ai compagni.

Le pistole erano state caricate, ed erano appunto quelle che aveva portato Tristano. Le altre, portate dagli avversari erano state rifiutate, perchè mostravano di aver già servito molto, e uno stoppacciolo, mandato giù ad esperimento nelle canne, era tornato fuori assai nero. Il Priore era un uomo sofistico e la guardava nel sottile in ogni cosa; credeva tutti onesti, ma, viceversa poi, birbe matricolate.

–Signori,—aveva detto,—queste armi hanno patente lorda. Non domando a chi abbiano servito; mi restringo a scartarle. Ecco qua le nostre; escono dall'armaiuolo; un po' dure di scatto, se vogliamo, ma nuove e non c'è pericolo che usino parzialità a chi si sia.

Il Forniglia, che stava presso al camino, rimase brutto a quelle parole del Priore. Egli perdeva in tal guisa, l'unico punto di vantaggio che sperava di avere, perchè quelle pistole scartate da Tristano le aveva provate lui il giorno addietro una cinquantina di volte. Ma non c'era rimedio: per poterle sorteggiare, bisogna portarle ripulite a dovere. Ed erano invece ancor brutte di polvere; lo stoppacciolo parlava chiaro, quantunque annerito, e il padrino del Forniglia aveva dovuto arrendersi alla evidenza del fatto.

Tutto era in ordine e non c'era più altro che da recarsi sul luogo del combattimento. Il Priore tolse a braccetto Ariberti e andò innanzi, scostandosi ad un tratto dalla comitiva.

–A Lei, dunque, si faccia onore;—gli disse.—Il furfante era venuto per ricattarla e si trova acchiappato nella sua trappola. Miri giusto e dia un esempio. Da questo momento dipende tutta la sua fortuna. Si sente un pochino di rimescolìo in corpo? Non ci abbadi; è accaduto a tutti una volta. Faccia franca, sguardo ilare, ecco quanto ha da vedere la gente. Ieri, se lo lasci dire da uno che è vecchio, Lei era ancora un ragazzo; oggi diventa un uomo. Cominci bene; sia un uomo prode. In quanto all'esito, è certo; gli avversarii non si sentono in gambe.—

Ariberti era giovine e nuovo a quei cimenti, ma sentiva altamente di sè.

–Sono tranquillo;—rispose,—e sappia, signor Falzoni, che non tremerò davanti alla canna di una pistola. Nel mio piccolo, ogni qual volta mi s'è voluto far l'uomo addosso, ho fatto le mie scartate senza badarci più che tanto. Di questi avversari, poi, ne voglio cento.

Tristano sorrise, notando quei bollori ch'egli stesso aveva accortamente suscitati.

–Ben detto!—rispose, con accento affettuoso.—Ma siccome la pistola è un'arme pazza, e quella di un briccone o d'un vile può fare buon colpo come quella di un galantuomo o d'un prode, io le darò il modo di far riuscire a vuoto il colpo dell'avversario.—

Così dicendo, gli metteva in dito un anello. Ariberti chinò gli occhi a guardarlo. Era un cerchietto di argento grossamente lavorato, che portava nel castone una pietra nera e lucida, sulla quale erano incisi alcuni segni d'una lingua ignota per lui. Che cos'era? arabo? ebraico? copto o caldeo? Per Ariberti, nuovo alle scritture orientali, poteva anche esser sanscrito, o cinese.

–Non rida;—soggiunse gravemente il Priore;—il talismano perderebbe tosto ogni efficacia. L'ho avuto in dono da un savio imàno di Bagdad. Questi segni che vede incisi sulla pietra sono il suggello di Salomone, che fu un gran re ed anche un gran mago, poichè assoggettava ai suoi scongiuri e incatenava con una semplice parola gli spiriti buoni e malvagi. Mi ha detto l'imàno che qui dentro è imprigionato uno spirito buono, in espiazione di un antico suo fallo. Compiuto il castigo, la pietra si spezzerà da per sè e lo spirito potrà ritornare all'aria libera; intanto egli è utile a chi porta l'anello in dito, guardandolo contro il mal occhio e stornando ogni infortunio da lui. Le parrà strano, incredibile; nè io sto pagatore di tutto ciò che ha letto in queste cifre il vecchio di Bagdad; ma questo le posso dire, che io stesso ho sperimentato più volte la bontà del talismano e sono uscito incolume da molti pericoli.—

Credeva il Priore a quello che veniva snocciolando? Io penso di sì, ricordando esempi moltissimi di uomini così fatti; veri impasti di temerità e di debolezza, di spirito forte e di superstizione, assai più frequenti che non si creda in mezzo ad una gente usa a trattarsi lì per lì, senza guardare un tantino di là della buccia. Gli amuleti, poi, il mal occhio, ed altre consimili diavolerie, sono antichi come la paura, cioè a dire come le relazioni dell'uomo col mondo, e chi ha viaggiato molto, segnatamente presso i popoli meno inciviliti, o più vicini all'infanzia, che torna lo stesso, più facilmente se ne appiccica.

Del resto, credesse Tristano o no, a quel che diceva, si può ammettere che sapesse benissimo quel che faceva. Ariberti, infatti, fece tanto d'occhi al discorso del suo padrino e prese quei lustrini per oro di coppella.

Giunti all'aperto sulla neve, i due avversarî furono collocati l'uno di rimpetto all'altro, alla distanza di quei dodici passi che sapete. Il Priore, che mostrava di essere nella sua beva, fu nominato mastro di combattimento.

–Qui non è il caso di fare parzialità per alcuno;–aveva detto egli con aria di bontà infinita.—Venute le cose a questo punto, cessiamo di essere i padrini di questo o di quello, per essere i giudici e gli amici di ambedue i combattenti. Signori,—proseguì, rivolgendo il discorso ai due avversarii,—si ricordino che combattono da gentiluomini, e che sarebbe notato di slealtà, chiunque di loro sparasse prima di avere udito il comando. Ed ora stiamo attenti; quando io dirò uno, alzeranno l'arme e metteranno il cane a tutto punto; al due, la spianeranno, per prender la mira; al tre, solamente al tre, toccheranno il grilletto. Hanno inteso?—

I due avversarî accennarono ad un tempo di sì, e Tristano si fece innanzi, presentando loro le pistole cariche. Forniglia, che fu servito pel primo, afferrò l'arme con un moto convulso; più tranquillo, anzi ilare all'aspetto, il nostro Ariberti, che aveva in mente le raccomandazioni del Priore.

–Miri al fianco destro del suo avversario,—gli susurrò Tristano, nell'atto di dargli la pistola,—e un po' fuori del corpo. Non si affretti a sgrillettare; prema lentamente col dito. Tenga il collo sodo, che non le avvenga di salutare la palla nemica. Acqua passata non macina.

–Farò come lei dice;—mormorò l'Ariberti.

E stette in attesa, fieramente piantato davanti al suo avversario, presentandogli la figura in tre quarti.

–Ariberto, ci siamo!—disse intanto tra sè, quasi volesse tastarsi.

Gli parve allora che un gran peso gli fosse tolto improvvisamente dallo stomaco e si sentì più leggiero. Tutti i negoziati del giorno addietro e gli apparecchi di quella mattina lo avevano sconcertato un pochino. Ma oramai il tempo, con quelle sue lentezze angosciose e que' suoi molesti esami di coscienza, era passato. Restava l'uomo contro il pericolo; e il pericolo, veduto di fronte, senza le alterazioni della lontananza, non gli pareva così grande come prima. Cinquanta probabilità su cento erano per lui, cinquanta contrarie, ecco tutto. E notate; egli non pensava nemmeno alla fortuna di colpire il suo avversano. Gli avevano pur detto come dovesse aggiustar la mira; ma egli era troppo novellino a quel giuoco, e non poteva ripromettersi di usare tutta quella diligenza che gli avevano raccomandata gli amici. Figurarsi! Con tante minuzie a cui doveva por mente, il collo da tener saldo, il fianco del nemico a cui mirare, ma tenendosi un po' fuori, l'arte di sgrillettare senza furia, l'attenzione di fare ogni cosa al comando, come poteva egli mettersi in capo di fare un buon colpo?

I padrini si allontanarono cinque o sei passi dalla linea del fuoco. Tristano solo, che dovea dare i comandi, rimase alquanto più innanzi degli altri.

–Attenti, signori;—diss'egli finalmente, dando il segnale all'orchestra.—Uno!—

I due avversari sollevarono le pistole dal fianco, chinarono gli occhi e posero il cane sulla tacca di scatto.

–Due!—gridò Tristano, poichè gli ebbe veduti rialzare la testa; segno che l'operazione era finita.

Gli avversarii allungarono il braccio e spianarono le armi. Per quattro o cinque secondi si videro balenare le canne, in atto di cercare la mira.

–E adesso, signori,—disse lentamente, soavemente il Priore, per non pigliarli alla sprovveduta e non cagionare sobbalzi,—possono far fuoco. E tre!—

Due lingue di fuoco, pari a due nappine di seta scarlatta, guizzarono dalle canne, e incontanente si udì lo stianto di due colpi.

Tristano guardò Ariberti. Era in piedi, duro stecchito ma col suo risolino sulle labbra.

Si volse allora con una rapida occhiata al Forniglia, e lo vide dare una mezza volta sulla persona, annaspando colle braccia in aria, mentre l'arme gli cadeva di pugno. Spiccò un salto e giunse in tempo a mettergli le mani sotto le ascelle, in quella che il disgraziato stava per dar del gomito nella neve.

Anche gli altri padrini ed il chirurgo, veduto il brutto giuoco, furono pronti ad accorrere intorno al ferito.

–Povero Nanni!—fatti animo!–gli disse quel della tuba, aiutandolo a star sulle gambe.

–Che animo d'Egitto!—mugghiò il Forniglia, colla schiuma alla bocca.—Non è nulla! Un pugno tra capo e collo… e sono cascato per terra.—

Così tentava il ferito di definire la sensazione provata al colpo del suo avversario.

 

–Ma infine, vediamo dov'è la ferita;—entrò a dire il chirurgo;—sbottoniamo il soprabito.

–No, no, non occorre. Dev'esser qui, più alto, più alto ancora;—indicava il Forniglia, sforzandosi di voltare la faccia verso l'omero destro, poichè aveva le braccia trattenute dai padrini.—Mi lascino almeno strappar la camicia. Mi sega la gola, mi soffoca…—

Il discepolo d'Esculapio, che aveva finalmente veduto uno squarcio nel soprabito, all'altezza della clavicola, e indovinato la cagione di quel soffocamento, che accennava il Forniglia, gli tolse subito la cravatta e strappò il solino, che, pel subito inturgidire del collo, non gli venìa fatto di sbottonare.

Una rifiatata di quel poveraccio disse al chirurgo ed agli astanti che quel sollievo era capitato in buon punto.

–Bene! Non è nulla; sapete?—ripeteva il ferito ai suoi padrini, che erano sottentrati nel pietoso ufficio al Priore.—Non ho studiato medicina per niente. È una sciocchezza… una…

–Non si affatichi!—interruppe il dottore.—Sarà una cosa di poca importanza, se starà cheto. Ma prima di tutto, signori, trasportiamolo al coperto. Così; uno da piedi; non lo muovano troppo.—

E lì, con tutti i riguardi possibili, quella gente, poc'anzi intesa con ogni cura a far morire il suo simile, si adoperava a salvarlo. Già, non avviene egli il medesimo in guerra? E il duello non è forse una guerra ridotta ai minimi termini? Avanti dunque così, colla benedizione del cielo, e consoliamoci pensando che le norme della cavalleria e la convenzione di Ginevra abbiano trovato il modo di regolare un tratto la malvagità naturale dell'uomo.

Dietro al convoglio, come la morale dopo la favola, veniva Ariberti, tenendo ancora la sua pistola nel pugno.

Il nostro eroe andava innanzi macchinalmente, stordito da quella catastrofe e senza intendere come fosse avvenuta. Era sogno, o realtà? Ed era lui, tiratore mal destro, che non si ricordava d'avere mai colto neppure uno scricciolo nella siepe, era lui che, impugnando la prima volta una pistola, doveva colpire nel segno? Dieci tiratori, più esperti, più tranquilli e più assestati di lui, avrebbero dovuto fare a quel giuoco il secondo colpo ed il terzo. E lui, impacciato, confuso com'era, imbroccava alla prima. Stranezze del caso, amori ciechi della fortuna; con cui, del resto, non c'è da fare a fidanza, perchè se è vero ch'ella ami i giovani, può sempre darsi che trovi uno più giovane di noi.

–Orbene, che cosa fa Lei?—gli chiese ridendo il Priore, come furono sull'uscio della casa in cui si trasportava il ferito.—Deponga la sua pistola.

–Che? è finita?—balbettò l'Ariberti, che ancora non era rinvenuto dal suo stupore.

–Finita, sicuramente. Ma ora che ci penso, Lei ha ragione; non abbiamo mica detto la parola solenne. Signori,—proseguì allora Tristano, rivolgendosi ai padrini dell'avversario, che avevano deposto allora su di una scranna il loro primo,—favoriscano un po'. Occorre più altro?

–Per che cosa?—domandarono essi, in atto di cascar dalle nuvole:

–Ma, per la faccenda che ci ha condotti fin qua. Siccome sta a loro di dichiararsi soddisfatti…

–Mi pare,—disse quel della tuba, stringendosi nelle spalle,—che non ci sia proprio altro da chiedere. Povero Nanni! Ha avuto il fatto suo a misura di carbone.

–La sorte non lo ha favorito;—soggiunse l'altro padrino;—ci vuol pazienza.

–Dunque, signori,—disse il Priore, tirando la somma,—l'onore è soddisfatto e possiamo mettere in libertà il signor Ariberti.

–Certamente, e se il signore ci permette…—

Ariberti concedette la mano con molto decoro a quei due mascalzoni, che si affrettarono a ritornare dal loro povero Nanni.

–Potrà lavarsela, quando saremo tornati in città!—gli disse all'orecchio il Priore.

Frattanto il chirurgo aveva esplorato la ferita, non senza dolore pel suo legittimo proprietario. La palla aveva sfiorato l'omero, lacerando le carni, ed era andata a piantarsi nella muscolatura del collo; donde la enfiagione repentina che si era notata poc'anzi. L'estrazione non era da tentarsi lì per lì; occorreva prima di tutto trasportare il ferito a casa sua, debitamente fasciato, e là aspettare il momento opportuno. Lesione di organi essenziali non pareva che ce ne fosse; era dunque una quistione di tempo, e il discepolo di Esculapio prometteva di conservare alla società quella preziosa esistenza.

–Poveretto!—esclamò Ariberti, quando fu in carrozza co' suoi padrini per ritornare in città.—

–Dopo tutto mi rincresce…

–Di che?—interruppe Tristano.

–Di averlo ferito.

–Oh bravo, sentiamo quest'altra.

–Ma infine, è un uomo…

–Come Lei, non è vero? Stiamo a vedere che per carità cristiana si mette in paragone con lui.

–Signori,—disse timidamente il giovane Ariberti, mi abbiano per —iscusato. È la prima volta che mi trovo a questi cimenti, ed è anche —la prima volta che vedo scorrere sangue. Ora, anche lasciando da —parte le considerazioni morali, mi pare che il sangue del signor —Forniglia. non sia diverso dal mio.

–Qui la volevo;—replicò trionfante il Priore.—E scambio del sangue d'un Forniglia che abbiamo veduto scorrere, non poteva essere il suo? Pensi a ciò, mio bel signore, e si rallegri. Il rammarico, eccetto che non sia quello del coccodrillo, che a volte è permesso, come una volta all'anno son permesse le maschere, lo deve lasciare da banda. Ritenga che, se l'avesse buscata Lei, quella palla, i signori della parte contraria non avrebbero pianto. Già, gli uomini sono così contenti e pranzano di così buono appetito quando l'accoccano a, noi, che dobbiamo esser lieti di render loro la pariglia. Il mondo è una foresta. Homo homini lupus; l'han detto i latini. Perciò bisogna imparare a urlare. Badi a me, signor Ariberti; oggi gli è andata bene, e, non fo per dire, anche un pochino per questo; che ci aveva due padrini accorti.

–Lo so, signori, lo so: e la mia gratitudine…

–La sua gratitudine ce la dimostri seguendo un mio consiglio, che quasi potrei chiamare paterno. Da domani cangi vita e costumi. Studi un po' meno il cattivo latino delle Pandette e vada a far pratica in una sala d'arme. Io starei anzi per due lezioni al giorno. S'impadronisca della cavata e del filo diritto, della parata di picca, del copertino e della botta sul tempo. Vada anche al Valentino, a fare ogni giorno i suoi dieci o dodici colpi di pistola, tanto per tenere il pugno in linea. Nulla dies sine linea, lo raccomandava anche Apelle.—

Ariberti non potè trattenere un sorriso, vedendo Apelle chiamato a far testo in materia di pistola. Egli riconobbe per altro che il suo Mentore poteva averci ragione. Quando uno fa bene una cosa, non si dice egli che dipinge?

–I libri! bella cosa!—proseguiva intanto il Priore che era bene avviato.—Ma, domando io, a che servono tranne ad insegnare il passato? È il presente, quello che ci abbisogna; e l'avvenire, quello che deve esser nostro quantunque in grembo a Giove. Sia forte, e non si curi più d'altro. Il mondo, è vero, non si governa sempre colla prepotenza; ma il più delle volte, sì. Tutto il resto del tempo, lo si mena pel naso coll'ipocrisia, coll'astuzia. A me duole di guastarle il candore della sua gioventù; ma un maestro, oggi o domani, lo dobbiamo aver tutti; dunque, meglio oggi che domani. Veda; se a me queste cose me le avessero dette subito, come io le dico a Lei, mi avrebbero premunito in tempo, e non avrei fatto tante sciocchezze. Si fidi a me; e poichè oggi sono di buon umore per Lei e parlo latino, aggiungerò: experto crede Ruperto. Non c'è di efficace al mondo che la prepotenza e l'astuzia; ma ambedue hanno bisogno di una leva, l'associazione. Viribus unitis! Venga con noi; troverà nei cavalieri di Malta il fatto suo. Non siamo ipocriti, l'avverto…

–Prepotenti, dunque;—conchiuse Ariberti, temperando con un sorriso e con una soavissima inflessione di voce l'asprezza del vocabolo; il quale, del resto, veniva da sè.