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La notte del Commendatore

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Ben gli diè l'animo di voltarsi a guardarla, dopo pochi istanti che era passata; che anzi e' l'avrebbe volentieri pedinata un tratto, ad una rispettosa distanza, per non dar nell'occhio alla gente, e vedere intanto se gli riusciva di sapere ove ella abitasse. Ho già detto che Ariberti, riguardoso in ciò come tutti gli innamorati di primo pelo, non aveva ardito mai di domandarne ad alcuno. Nè poteva scoprirlo da sè, all'uscir di teatro, perchè la marchesa saliva in carrozza, e via; di guisa che a lui non restava altra speranza che quella di incontrar la signora in istrada e di seguirla da lunge.

Quello era dunque il buon punto. La marchesa era uscita di certo per fare qualcuna di quelle compere eleganti, che non si commettono a un servitore, o ad una cameriera. Poteva darsi che ci fosse la vettura ad aspettarla ad una svolta di strada, e poteva anche darsi che non ci fosse. In questo caso, egli avrebbe potuto sapere finalmente il fatto suo, tenendole dietro con molta circospezione ed altrettanta pazienza.

Ma in quella che il giovinetto era li per colorire il suo disegno, gli venne alla mente il ritrovo coi due padrini. Egli non era più libero; era in balìa di quei signori, che avevano stabilito la sua sorte e che forse allora si muovevano per andarlo a cercare sotto i portici di piazza Castello.

Vedete un po' che disdetta! Proprio in quel momento; proprio la prima volta che gli era dato di vedere la marchesa a piedi per le vie di Torino! E per chi, poi, quella noia? Per chi, quel duello imbastito? Per una femminuccia, pigliata in mal punto a proteggere. Ariberti si vergognò della sua debolezza; là, alla luce del giorno, in quel luogo per dove era passata pur dianzi la regina de' suoi pensieri, e dove gli sembrava di respirarne ancora le soavi fragranze, il ricordo di Giuseppina Giumella gli destava un senso di ribrezzo per tutte le fibre: sto per dire che gli muoveva lo stomaco.

Infastidito, pigliò l'abbrivo verso piazza Castello. Se in quel punto gli fosse venuto dinanzi quel figuro di Forniglia, gli si sarebbe avventato alla gola come un mastino rabbioso, tanta era la stizza che lo divorava. Figuratevi dunque con che grido di giubilo egli, poc'anzi così abbattuto, accogliesse le parole del Priore, venuto ad annunziargli che era deliberato lo scontro.

CAPITOLO VII

Qui si contano alcune belle particolarità del Priore Tristano e de' suoi Cavalieri di Malta.

–Li abbiamo messi colle spalle al muro;–disse Tristano.—Erano venuti per sonare e furono sonati. Lo scontro è stabilito per domattina alle otto; abbiamo scelto la pistola; dodici passi di distanza, che è il minimo della misura legale; tirare fino a tanto che uno rimanga ferito.

–Grazie!—rispose Ariberti convulso.—È quello che volevo.—

E strinse la mano ai due valentuomini, che gli avevano fatto quel grande servizio.

–Dove pranza oggi?—gli chiese poscia il Priore.

–Con loro, se accettano il mio povero invito.

–Grazie; sarà per un'altra volta. Quest'oggi è lei che dovrà accettare un pranzetto da noi. Non dimentichi che fino a domattina, e a guerra finita, Ella ci deve obbedienza cieca.

–Padroni, padroni!—sentenziò Bonisconti, con breviloquenza spartana.

Ariberti non seppe che cosa rispondere ad una argomentazione così perentoria e fece quel cenno del capo che comunemente vuol dire: son vinto.

Passeggiarono un'oretta, discorrendo di cento cose, sotto i portici di Po; ma senza che al povero Ariberti venisse fatto di rivedere la marchesa. Vide in quella vece il Ferrero, quella brutta copia di Pilato, e fece vendetta allegra del suo abbandono di quella mattina, gittandogli un saluto per carità, come si getta un soldo nella scodella d'un cieco.

–Guarda con che gente son io,—voleva dire quel saluto a fior di labbro,—e crepa dalla bile.—

Difatti, il Priore, a cui Ferrero diede una sbirciatina curiosa, era un uomo da tirare a sè gli occhi della gente. Chiunque egli fosse, il suo aspetto non era d'uomo volgare.

La sua conversazione, poi, era piacevolissima. Figuratevi un misto di letterario e di cavalieresco, di allegro e di drammatico, di marinaresco e d'erotico, di traffico e d'avventure, di reticenze e di amplificazioni; insomma, un vero caleidoscopio, che co' suoi rapidi e frequenti trapassi vi facea rimanere abbagliati. Parlava spesso d'Oriente, ma senza caricatura, citando a caso, e secondo portava il discorso, le sue memorie di viaggio. A vicenda soldato, cacciatore e mercante, aveva girato l'India, da Ceylan alle falde dell'Imalaia e gli era famigliare la caccia del tigre; anzi, a questo proposito avrebbe potuto mostrare una larga cicatrice sul fianco, dove gli avevano fatto uno strappo maledetto gli unghioni della belva, aggrappatasi d'un balzo all'arcione, mentr'egli si campava da una morte sicura, scaricandole la pistola a bruciapelo nella testa. Per altro, svolgendosi un tratto dal collo il lembo della sua beduina, potea far vedere uno di quegli unghioni, lucente trofeo incastonato in una spilla d'oro, che gli ornava il nodo della cravatta…..

Quasi sarebbe inutile il dire che conosceva le vie di Costantinopoli e del Cairo, come quelle di Torino, e che aveva pellegrinato, quantunque senza fede, alla Mecca. Noterò, pei dilettanti di cose strane, che aveva fumato nei loro luoghi naturali l'oppio e l'hatschisch, masticata la radice del betel nella patria di Antar, e profumata la barba colle soavi fragranze della schnuda di Tunisi. De' suoi viaggi in America ha già toccato brevemente l'amico suo Bonisconti. Aggiungerò che poteva parlare con piena cognizione di causa della vita randagia, che si fa nelle pampas di Cordova, e delle preziose pagliuole che si cercano avidamente tra le sabbie dell'Eldorado.

Tirato sul proposito di questi suoi viaggi arrangolati in tutte le parti del mondo, il Priore soleva dire scherzando:

–Di grazia, signori miei, che cosa fate voi altri quando vi recate ad abitare una casa nuova? E vi è mai accaduto di andarvene senza averne veduta ogni camera, ogni angolo ed ogni bugigattolo? Orbene, anche io ho deliberato di non intonare il Nunc dimittis senza aver dato prima una scorsa a tutto questo nostro domicilio sublunare.

Come poi questo bizzarro personaggio fosse venuto a dar fondo in Torino e ci vivesse da un anno, senza desiderio di mutar aria, quantunque non ci avesse occupazione di sorte, io veramente non saprei dire ai lettori. Forse è da rammentare, a questo proposito, che la vita ha i suoi punti di riposo, come l'Oceano ha i suoi mari di sargasso, dove le correnti non entrano e dove si resta così facilmente impigliati, a far vita coll'alghe e coi granchi.

Si diceva bensì da taluno che il Priore avesse tentato e non disperasse ancora di entrar nelle file dell'esercito, ma che nuocesse a questo disegno suo nei consigli del governo l'esser egli nativo di Malta e suddito inglese per conseguenza. Altri pensava che la difficoltà derivasse dal non aver egli brevetto di un governo conosciuto, poichè difatti il suo grado di capitano egli lo ripeteva da un principe indiano, poco o punto tributario della graziosa regina Vittoria.

Comunque fosse, il nostro Maltese, cittadino del mondo, tirava innanzi facendo una vita che poteva dirsi un quid medium tra quella del signore e quella del pezzente, spendendo largo quando ne aveva e vivacchiando il resto alla ventura. E qui bisogna soggiungere, che egli ne aveva quando gliene mandava la famiglia; perchè a Malta vivevano trafficando i fratelli ed un vecchio zio, creduto da molti la provvidenza di questo cavalier vagabondo.

Bonisconti, che era un pochino il suo profeta, commentando un certo discorso misterioso che veniva fuori di tanto in tanto, e a brandelli, diceva sottovoce ai più fidi che una principessa indiana (egli non sapeva poi se la principessa madre, o principessa consorte) si era invaghita anni addietro del vistoso capitano di cavalleria, e che era per l'appunto costei che a dati intervalli mandava i rinforzi al Priore, togliendogli dal suo bravo spillatico.

L'esser pagato Tristano presso un banchiere inglese, sopra rimesse di Malta, lasciava adito alla seconda supposizione come alla prima. Tutto sommato, oggi ricco e domani povero, spensierato sempre, era un misto di gran signore e di sciamannato, di cavaliere e di avventuriero, come quel famoso Trelawnay, amico di lord Byron, a cui simili tipi davano tanto nel genio.

Le cinque erano presso a suonare, quando i tre peripatetici si avviarono al refettorio. Il refettorio (rammenteranno i lettori che questo nome è già venuto in ballo una volta) non era in un luogo determinato, ma oggi qua, domani là, secondo i casi e gli umori. Per quei giorni esso era in una sala a pianterreno dell'osteria del Mago, nei pressi di Vanchiglia. Il Mago era il soprannome dell'oste, passato per estensione alla taverna, quantunque nell'insegna la si chiamasse della Fenice. Ma già, la Fenice!…. «Che vi sia, ciascun lo dice; dove sia nessun lo sa». E all'osteria del Mago non si trovava, di certo; neanche dipinta, poichè da un pezzo le intemperie avevano cancellato lo sgorbio.

Si radunavano in quel luogo altri tipi della medesima specie; uomini in cerca d'uno stato sociale, come il Gerolamo Paturot di Luigi Reybaud, giornalisti a spasso, capitani senza soldati, autori senza editore, studenti senza iscrizione, marchesi senza marchesato e conti senza contea, indebitati fino agli occhi, nemici della società in generale e della stirpe di Giacobbe in particolare; per altro, tutti persone a modo, intinti, inverniciati, infarinati di scienze, d'arte, di cavalleria e di tutto quel che volete. Amavano dirsi gentiluomini; avevano il punto d'onore sulle dita; nel loro seno si reclutavano i padrini di quasi tutti i duelli; anzi, non occorreva uno scontro sul terreno che essi non ci avessero mano, vuoi come primi, o come secondi, o come invitati a dare il loro riverito parere. Per questo rispetto s'erano buscati il nome di compagnia della buona morte; ma s'intende che nessuno si pigliava il fastidio di andarglielo a dire sulla faccia. Eglino, invece, dopo l'acquisto di Tristano, che era divenuto per tacito consenso il loro capo, si chiamavano per celia i cavalieri di Malta. Non si vedevano più insieme sugli spaldi a combattere il Turco infedele; si vedevano per altro in refettorio a distrugger bistecche, e il loro Gran Maestro si era perciò rassegnato al più modesto ufficio di priore.

 

Contuttociò, Tristano Falzoni regnava senza contrasto su tutti. Nessuna autorità al mondo fu più facilmente accettata, nè più divotamente obbedita della sua. Alla guisa di tutti gl'imperatori venuti su dal suffragio delle plebi, armate od inermi che fossero, egli ripeteva la sua potestà da quell'impasto fortunato di virtù, di vizi, d'audacia e di condiscendenza, che fa dire ai beatissimi sudditi: non è un uomo diverso da noi che ci comanda; siamo noi, compendiati, rappresentati in quell'uomo, fatto ad immagine nostra.

La sala era già piena quando il Priore comparve sulla soglia. Alla sua vista, i quindici o venti, che già sedevano a mensa, urlarono un triplice evviva, a cui egli rispose col più amabile de' suoi sorrisi e con un placido gesto che consigliava gli amici a star cheti. Il gesto e il sorriso, non accompagnati da alcuna di quelle frasi in cui si esprime così felicemente la chiassosa dimestichezza, quando ella si mette, sto per dire, in maniche di camicia, persuasero ai compagni che quello era giorno di alta diplomazia e che il Priore voleva stare in contegno.

Nè stettero molto ad intendere la ragione; che era, come i lettori avranno già indovinato, la presenza di Ariberti. Dietro al Priore e innanzi di Bonisconti videro diffatti inoltrarsi quel giovinetto, dal viso bianco e di gentili fattezze, snello, di capel nero, insomma un bel ragazzo, sebbene un po' stonato là dentro, colla sua aria da collegiale.

La gazzarra si chetò ad un tratto, e ripigliarono in quella vece i discorsi sommessi.

–Ecco un neofita!

–Chi sarà mai?

–To', un uccello che esce dal nido e vuole provarsi a volare.

–Purchè abbia penne!

–Che importa? Di questo si occuperà mastro Levi, figlio di Ruben, della tribù di Manasse. Io non gli domando che una cosa, d'essere un buon figliuolo e di bere volentieri.

–Son due, di cose.

–Tira via; non ne fanno che una.—

Intanto che si facevano queste chiacchiere, il Priore andava difilato ad una tavola meno occupata delle altre, che era in fondo alla sala. Il refettorio non era già messo in quell'ordine che usano i frati; non ci si vedeva la mensa a ferro di cavallo, nè la tavola bislunga della Cena Domini; bensì cinque o sei tavole di svariate dimensioni che si andavano occupando man mano, secondo la consuetudine o il capriccio degli avventori. I fortunati a cui Tristano si faceva commensale, gli strinsero la mano, si tirarono in dietro quanto bastava per lasciar libero il posto di tre, e n'ebbero in cambio la presentazione del signor Ariberto Ariberti, studente di legge, giovine di grande ingegno, del quale si sarebbe potuto «far molto».

–Corbezzole!—esclamò uno dei più lontani (anzi, a dir vero, non si espresse proprio in tal guisa; ma una esclamazione ci fu).—Se non è Dante, è Virgilio di certo.

–Sta zitto!—rispose un altro.—Quando Tristano parla così, ci ha sempre le sue buone ragioni.—

Dati i suoi ordini all'oste, ma non senza aver prima cercato di accordarli coi desiderii del suo convitato, Tristano presentò più intimamente il giovinetto al suo vicino di tavola.

–A voi, Luciano Valerga; vi presento nel signor Ariberti un collega, anzi un fratello in Apolline.

–Ariberti!….—ripetè quell'altro, alzando la fronte e socchiudendo gli occhi, in atto di cercar alcun chè nei ripostigli della memoria.—Aspettate, Tristano; rammento benissimo il nome del signore e mi sembra di aver letto già qualche cosa di suo… Ma sì, ma sì, sul giornale La Dora. Graziosissimi versi, e glie ne faccio i miei complimenti, quantunque io li abbia letti stampati su d'un giornale molto scipito. Scusi, sa; qui si dice pane al pane, e non la si perdona nemmeno tra fratelli.

–-Oh, dica pure liberamente;—rispose il giovinetto arrossendo.—Io già ho intenzione di ritirarmi da quel giornale… scritto in due lingue! È un giornale di due facce, come certi signori che ci hanno mano, e la cosa non mi va.

–Bravo! Me ne rallegro con Lei. Venga nella nostra compagnia; la scuola è più sana; accetta il pensiero da qualunque parte le venga, ma nella forma non ammette ibridismo.

–Scrivono un giornale?—chiese candidamente Ariberti.

–No, ce ne guardi il cielo.—Scrivere! che, le pare?

–C'è troppa fatica;—notò sorridendo Tristano.

–Sicuro; e perchè farla? Del resto, gl'insegnamenti più efficaci non sono mica gli scritti. Vedete Socrate; non ha mai messo in carta una riga di suo.

–Ma parlava,—soggiunse un altro;—ed io abolirei anche l'insegnamento parlato, che qualche volta fa ber troppo amaro.

–Non mi dispiace il concetto,—ripigliò Luciano Valerga.—Ammettiamo la chiacchiera, che è stata fin da principio, come dice l'evangelista, ma aboliamo il discorso. Che c'è di più bello in arte di ciò che si pensa a caso, e che si vede pigliar forma davanti agli occhi della fantasia? Le nostre membra in ogni esercizio si addestrano; anche la fantasia, se la farete lavorare, vi diverrà due tanti più agile. Qual dramma sarà mai più commovente, più profondo, più splendido, di quello che si agiterà nel vostro cervello? Qual poema riuscirà più grandioso e più vario di quello che si svolgerà dai globi di fumo mandati fuori dalla vostra pipa di spuma di mare? Il Bosforo a lume di luna, le odalische mollemente adagiate sui divani del Serraglio, il Canal grande e le sue gondole che guizzano chetamente nell'ombra, come belle peccatoci ravvolte nella nera mantiglia, le cattedrali coi loro marmi lavorati di traforo come tanti merletti, le pagode lucenti di porcellana, le piramidi immani, le sfingi, le chimere, il Lago d'asfalto, i sotterranei d'Ellora, il baratro d'una coscienza, eccovi un mondo di errori sublimi, che ognuno può evocare e godersi da sè.

–Ma tu che ammiri lord Byron,—replicò l'antagonista di Luciano Valerga,—come accordi la tua teorica col fatto suo? Il tuo poeta ha scritto i suoi poemi e i suoi drammi.

–L'obiezione non regge,—disse Luciano, in quella che stava cercando una gretola.—Lord Byron non ha mai scritto nulla, nel modo che intendi tu.

–Oh diamine! E le ghinee di Murray?

–Vedrete,—soggiunse un altro,—che Luciano vi nega anche l'esistenza delle ghinee.

–Difatti, trovatemene una, se vi riesce;—gridò con aria di trionfo il Valerga.

Ma esistono i poemi, esistono i drammi di Byron, e tu ne fai il tuo pasto quotidiano, s'intende, dopo le bistecche del Mago.

–Lasciatemi finire. Ho premesso che egli non ha mai scritto nulla nel modo che intendete voi altri lo scrivere. Ecco qua; io so il fatto da buona sorgente, dalla figlia della governante che ebbe il mio poeta a Venezia. Il padrone, come sapete, passava le intiere giornate nuotando, cavalcando, fantasticando, eccetera; anzi, mettete qui molti eccetera, quanti bastano per farlo giungere all'ora del sonno. Si svegliava la mattina assai tardi, com'è debito di ogni uomo che pensa; e quando si svegliava sapete voi cosa trovava sullo scrittoio? I suoi quaderni di carta scombiccherati da capo a fondo, con quelle centinaia di versi divini che Murray pagava una ghinea l'uno, o venticinque lire e qualche centesimo che non conosco esattamente il ragguaglio della moneta.

–Benissimo; e perchè allora non fai il sonnambulo anche tu e non scombiccheri i tuoi quaderni nell'ora del sonno?

–Sì, eh? Trovami un Pomba o un Fontana, che mi paghi il verso in ragione di venti lire (vedi che sono discreto) e dammi pure del furfante, se ogni mattina non trovi sullo scrittoio un centinaio di versi… ed anche degni di Dante.

Luciano Valerga poteva promettere, a quei patti, di superare anche Omero.

–Mi faresti venire la voglia di essere un Rothschild, per tentare la prova;—entrò a dire Tristano, sorridendo di quell'olimpico sorriso che ben si addiceva alla sua sovranità.

–Ma non lo sei, e la voglia non ti verrà mai;—riprese il Valerga—e nemmeno io scriverò i miei poemi per questo popolo guitto di editori e di lettori. Del resto—proseguì con accento più grave,—ho detto Dante per modo di dire. Oramai, ci vorrebbe del nuovo. Dante lo fu pel suo tempo, e in guisa mirabile, stupenda; ma, per sostenersi a quel paragone, oggi bisogna far altro. Allora il poeta poteva rimanere nel vero, andando nell'inferno, nel purgatorio e nel paradiso, perchè la leggenda aveva corso in piazza; ai dì nostri il poeta ha da cercare il meraviglioso nella natura, ha da scoprire nella vita umana tutto il grande che i vecchi erano andati a limosinare di fuori. Byron, che fu un genio, ha intraveduto la fonte della nuova poesia nell'uomo interiore e negli aspetti varii del mondo, visitato, esplorato da lui con ansia febbrile. Ma l'ansia lo ha tradito; egli non ha veduto che poca parte, e solo la superficie del mondo; dell'uomo, poi, non ha indovinato che certe forme eccezionali, grandiose, perchè colorite dal suo ingegno possente, ma monche, senza i contorni del vero, perchè egli, le traeva dalla sua mente e l'uomo non era stato in azione davanti al pittore.—

Ariberti era tutt'orecchi a quella infilzata di giudizi arbitrarii, che gli parevano lì per lì le cose più vere e più profondamente pensate del mondo. Intanto il Valerga, che aveva preso l'aire, continuava, tra un boccone e l'altro, le sue dotte divagazioni.

–La natura è stata meglio veduta dal Goethe, che pure ha viaggiato meno del suo grand'emulo inglese. I suoi uomini, per altro, estrinsecamente più veri, sono più fiacchi, hanno meno passioni, meno contrasti. Ora la vita è nel contrasto, come il genio è nell'antitesi. Bisognerà fondere questi due poeti in un solo e avremo il poeta dell'avvenire, colui che potrà cantare la guerra e la vittoria dell'uomo colla natura, e la sua guerra e la sua sconfitta col nulla immenso. Son qui le antitesi; son qui le fonti della nuova poesia. Forse, chi sa? c'è ancora del sovrannaturale nel mondo; ma d'una forma diversa dall'antica. Ricordo a questo proposito che i giapponesi credono all'immortalità dell'anima; sissignori, ma in un modo diverso dai nostri vecchi barbogi.

–O come, in un modo diverso?—dimandò uno dei soliti contradditori.—O credono, o non credono, e non c'è divario che tenga.

–Adagio, Biagio! Ci credono, ma solamente per le anime perfezionate. E dopo tutto, non c'è niente di strano. Si nasce ignoranti e si muor dotti, non è egli vero? Dunque non c'è niente che cozzi colla nostra intelligenza nella ipotesi scientifica di un'anima perfettibile. Ora, i miei giapponesi, che hanno trovato già la perfezione nelle loro porcellane e nel modo di inverniciarle, credono che l'anima, quando abbia raggiunto quel grado di perfezione che ho detto, non sia più destinata a perire. Così stando le cose, l'immortalità non sarebbe più un premio dato a casaccio agli uomini grandi e ai poveri di spirito, ma la conseguenza logica di un raffinamento, recato alla sua ultima potenza. Il che, giusta le norme della giustizia distributiva, mi pare assai ragionevole, o per lo meno ben trovato e tale da onorare in faccia al mondo la filosofia del Giappone.

–Che pensi tu dell'anima di un creditore?

A questa domanda, uscita dal fondo della sala, scoppiò una risata universale.

Luciano Valerga aggrottò le ciglia, e con quell'aria di mistero che assumono i confidenti di tragedia quando vanno a dare un'occhiata dietro alle quinte, domandò:

–-C'è un creditore tra noi?

–Perchè?—gridarono molte voci in coro.

–Per pregarlo ad uscire;–rispose gravemente Luciano.—È legge di cortesia rispettare i presenti.

–Tira, via, non c'è pericolo. Sei qui in mezzo a debitori morosi e della più bell'acqua del mondo.

–Or bene,—ripigliò allora il Valerga,—sappiatelo; i creditori…. non hanno anima.

–Bella scoperta! È vecchia più di Matusalem.

–Sì; ma c'è di peggio.

–Che cosa?

–Che questa…. Ma badate, rimanga un segreto tra noi!… che questa è l'unica differenza di rilievo tra i creditori e i bottoni.—

Le risate ripigliarono più mattamente di prima. Si era alle frutte, e l'allegria, insieme ai fumi del vino, vaporava dai cervelli al trono dell'Onnipotente, ma trovando per via i casigliani del pian di sopra ai quali non doveva tornar troppo piacevole quella posizione intermedia.

Era diffatti un chiasso indemoniato, se ne dicevano di tutti i colori; si confondevano le più astruse teoriche colle più libere celie, i più alti nomi coi più volgari pettegolezzi, e chi non ci era avvezzo, aveva a restarne intronato. Figuratevi Ariberti, il giovane studente, uccello a mala pena uscito dal nido, e cascato di botto in quella baraonda! Egli cadeva, come suol dirsi, dalle nuvole, non si raccapezzava più in quel mondo nuovo per lui, dove tutti i commensali, gente non mai veduta fino a quel giorno, gli parevano uomini più grandi del vero.

 

Girato il discorso sui debiti, si citarono i più colossali di cui si onorasse la brigata. Un Tizio, bel giovane, titolato, notevole per la gravità con cui diceva le cose più sgangherate, aveva già divorate due eredità a ventitrè anni, e sopportava ancora cento sessanta mila lire di debiti nuovi.

–Chi pagherà?—chiese Ariberti sbalordito al suo vicino di tavola.

Allah kerim!—rispose il Valerga.—Dio è grande. Dopo tutto, il marchesino ci ha in vista l'eredità di una vecchia zia, che non lo ha ancora maledetto.

–Sì, ma quando avrà pagato i suoi debiti, rimarrà di nuovo sul lastrico.

–Bravo! Ma avrà vissuto. Giovanotto, si vive una volta sola, quaggiù. La vita ha da essere come la voleva quell'ottima principessa francese, di cui non rammento più il nome, courte et bonne.

–Ma la noia dei creditori alle calcagna!… Perchè io mi penso che questi signori non staranno mica a contare i giorni dalla finestra….

–Miserie della vita! Ogni diritto ha il suo rovescio. Ci si fa il callo, non dubiti. Del resto, siamo in guerra, e bisogna destreggiarsi. Il mondo è pieno di creditori. Ma l'uomo animoso non teme le fiere. E poi, quando un clima non è più vitale, si parte. Cesare andò nelle Gallie; Tristano è andato in India, in California, da pertutto. Ha già fatto fortuna una mezza dozzina di volte: poteva essere un buon diavolo, far casa, aver figli, scrivere ogni giorno una pagina sul suo libro mastro, come usano tanti imbecilli; ma no, questa sorte di vita non era la sua. Tristano era un uomo; ha vissuto.

E via di questo passo, Luciano Valerga filosofava su tutto, innalzava ogni cosa a dignità di teorica. Ariberti non si arrischiava a rispondere; temeva di parere un collegiale; e, quel che è peggio, o forse la mala piega dell'esempio, o il calore del vino, la sua ragione affogava in quel mare magno di paradossi. A furia di sentirne, non gli sembravano più tali; certe marachelle, che in ogni altra occasione gli avrebbero urtato i nervi gli assumevano un tal colore di buona guerra, da parergli le cose più ragionevoli, se non per avventura le più liscie del mondo. Tutto ciò che fino a quel giorno gli era sembrato più saldo, gli tremava sotto ai piedi ad un tratto; affondava nella sabbia traditora, e tanta era la curiosità dell'ignoto e tanta la dimenticanza di sè medesimo, che egli non annaspava nemmeno, come fa il naufrago, tentando di aggrapparsi colle mani a qualcosa.

Compatitelo. La sua vita, dopo tutto, non pendeva essa da un filo? Anche lui, pel suo verso, si trovava fuori di squadra. A che lottare con un pericolo immaginario, quando ne incalzava un altro, e pur troppo reale? Che cosa sarebbe stato di lui il giorno seguente?

Quel molesto pensiero gli tornava di tanto in tanto allo spirito e gli dava una trafittura. Per altro, a mano a mano che le ore scorrevano e le ciarle si seguitavano, quel sopraccapo scemava, e Ariberti sentiva crescere dentro di sè quella felice spensieratezza, che entra per due terzi nella falsificazione del coraggio.

Tristano gli diede il tracollo, sollecitando il suo amor proprio, che è l'altro ingrediente della falsificazione di cui sopra.

–Abbiamo chiaccherato abbastanza;—diss'egli, alzandosi da tavola.

–Come? Te ne vai?

–Gli affari passano avanti a tutto. Abbiamo una faccenda a sbrigare con Bonisconti. Ma badate, stassera vogliamo stare allegri. Anzi, se volete, si balla in casa mia. Chi ha dame, le porti. Io metto mano al Buona Speranza, di cui mi rimangono ancora parecchie bottiglie, e alle cassette di Manilla; ultime tavole—aggiunse con un sospiro il Priore—del mio grande nauragio.

–Benissimo! Accettato! Tristano è un gran principe!

–E di grazia, che cosa si festeggia?—domandò uno della brigata.

–L'acquisto di un nuovo amico, o signori. Non vi ho presentato due ore fa il signor Ariberti? Anzi,—soggiunse il Priore, volgendosi con atto amorevole allo studente,—da questo momento aboliremo ogni titolo di cerimonia. Ariberti viene a noi passando per la porta di mezzo. Domattina, sull'alba, c'è un piccolo scherzo, in cui egli rappresenta una delle prime parti.—

L'annuncio del Priore fu accolto con un mormorio di approvazione. Ariberti cresceva incontanente di due o tre cubiti nella stima de' suoi nuovi compagni, e quantunque «umile in tanta gloria», non potè fare a meno di mettersi in contegno.

–Ah, ah! bene!—esclamò Luciano Valerga, quasi parlando per tutti.—E con chi, lo scontro?

–Ignoti! Gente nemica!

–Allora, non si dà quartiere?

–Lo spero bene!—rispose il Priore, arricciandosi i baffi.

Frattanto, tutti gli astanti si erano avvicinati al nuovo amico, chi per stringergli la mano, chi per dargli un consiglio, tutti per toccare il bicchiere con lui.

–Arma bianca o nera?—domandò uno di costoro.

–Nera;—rispose Ariberti, che si faceva rapidamente a quel gergo.

–Benissimo; è un'arma comoda. Già, con quel maledetto lavoro di lama, c'è da sudar troppo, mentre colla pistola non c'è altra fatica che di premere il grilletto.

–Ha già avuto altri duelli?—domandò un altro.

–No, sono al primo.

–Ottimamente; Lei piglia gli sproni di cavaliere. Vedrà, gli è come a bere un uovo fresco. A proposito, beviamo; il suo bicchiere è vuoto. Alla sua salute e alla sua vittoria! Miri basso se vuol cogliere. La pistola alza sempre un pochino.

–Può mirare senz'altro al ginocchio—soggiungeva un altro consigliere,—ma alquanto sulla sinistra fuori del suo bersaglio. Nel premere il grilletto si svia sempre la canna al di fuori, e bisogna correggere il difetto coll'arte.

–Del resto, è inutile rammentarle queste cose. Gliele dirà meglio Tristano, che è un tiratore di prima forza.

–Ci ha un padrino coi fiocchi! Pel suo primo scontro, Lei ci ha fortuna davvero.—

Cosi dicevano i nuovi amici di Ariberti. Il nostro eroe ringraziava, ora colla voce, ora col gesto, e toccava il bicchiere, e beveva.