Za darmo

La notte del Commendatore

Tekst
Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

CAPITOLO VI

Dove s'illustra il motto: "amici da starnuti" e si fanno anche due preziose conoscenze.

Una mattina di gennaio il contino Candioli se ne stava ritto e impettito davanti allo specchio, vestendosi comodamente alla vampa di un buon fuoco che scoppiettava allegro nel suo quartierino, posto ad un piano più su di quello che abitava S. E. il conte padre. Si vestiva di mezza parata, per andare all'università, ma la testa era già stata a lungo nelle mani del cameriere, il quale l'avea ridotta quel portento di bellezza che sapete.

Levatosi l'accappatoio, che lo rendeva abbastanza ridicolo, ma che gli era stato necessario poc'anzi per l'acconciatura del capo, il signorino indossava una sottoveste di stoffa inglese tutta bioccoli come il mantello d'un can barbone, e vi gittava leggiadramente su la catenella dell'orologio, allorquando rientrò il cameriere.

C'est toi, Lafleur?—diss'egli, vedendo riflettersi nella spera la faccia tonda e spelacchiata del servo che si lasciava chiamare con quel nome da commedia.—Che cosa vuoi?

–C'è in anticamera un signore che domanda di parlare al signor conte.

–Ha detto il suo nome?

–Sì, signor conte. È il signor Ariberti.

–-Que diable? a quest'ora!—esclamò il conte, facendo un gesto d'impazienza.—Ma tu gli avrai detto…

–Che il signor conte si sta vestendo per uscire. Ma egli mi ha risposto che è amicissimo del signor conte, che ha da parlargli di cosa urgente per lui, e che certamente, udito il suo nome, il signor conte lo farebbe entrare.

Mon Dieu, quel ennui! Ed io che prima di andare all'università volevo passare da piazza San Carlo, per chieder notizie della baronessa!…

–Se il signor conte lo comanda, gli dirò che è aspettato da sua Eccellenza, prima di uscire, e che non ha un minuto da perdere.

–-No, no;—disse il giovane patrizio con aria di rassegnazione;—exécutons-nous puisqu'il est ici. Fallo entrare.—

Il cameriere uscì, dopo avere aiutato il suo padrone a infilare un soprabito turchino, mostreggiato di velluto.

Eh bien, arrivez donc, mon cher!…—gridò il contino, udendo il passo di Ariberti sulla soglia.

Quel bonheur de vous voir!… Ma che avete?—soggiunse tosto, mutando idioma ed accento.—Siete pallido come un moribondo.

–Signor conte,—disse Ariberti, con aria abbattuta,—c'è di peggio; sono un uomo morto.

Diable! E che cosa vi è intervenuto?

–Che sono stato insultato, provocato a duello ieri sera.—

Il conte Candioli si rizzò nobilmente sulla persona, inarcò le ciglia e stette nell'atteggiamento dell'Apollo di Belvedere, guardando il suo interlocutore.

Il faut se battre;—sentenziò egli poscia, con gran sicumèra.—È la mia opinione.

–Capisco;—rispose Ariberti;—e non è difatti per questo che io… Insomma, sono dispostissimo ad andare sul terreno, quantunque io non abbia mai tenuto arma in pugno….

–Male!—interruppe quell'altro.—Pigliate esempio da me, che mi esercito nel maneggio delle armi ogni giorno.

–Ella ha ragione;—disse Ariberti.—Comincio a capire che bisogna tenersi preparati sempre a respingere un insulto, o un atto di prepotenza del nostro simile. Ma, lo ripeto, non è per questo che io ero venuto da Lei; bensì per un'altra faccenda che mi mette in pensiero. Non ho ancora potuto trovare due padrini da poter mandare al mio avversario. Vigna e Balestra non se ne intendono affatto. Ferrero si schermisce, mettendo innanzi le sue grandi occupazioni. Sono andato a cercar d'altri, ma non li ho trovati in casa. Ed ecco perchè son venuto ad importunar Lei, signor conte, che mi ha sempre dimostrato tanta benevolenza. So bene che non dovrei incomodare un suo pari, ma pensi a mia scusa che non ricorro al più autorevole, se non quando i meno mi abbandonano.

–Ah sì…. grazie—balbettò il contino, impacciato.

–Ma vediamo prima…. consideriamo… Infine, di che cosa si tratta?

–Ecco qua. Devo premettere che ho conosciuto, or non è molto, una povera ragazza….

–Ci siamo; une amourette!

–No, non c'è nulla di questo;—disse Ariberti, facendosi rosso.—Quella poverina mi aveva toccato il cuore colle sue disgrazie, e mi accade di farle servizio una prima volta. L'avevo conosciuta per caso, e fu ella che domandò di rivedermi, per chiedermi dell'altro, che non mi diè l'animo di ricusare.

–Fin qui non vedo niente che meriti una riparazione d'onore;—notò il Candioli, con un burlesco sussiego.—Allez toujours!

–Così ero entrato in relazione con quella giovane, che fa la fiorista in via Doragrossa, e, tra un servizio chiesto e un servizio reso, Ella mi intenderà, ho dovuto rispondere a qualche sua lettera.

–Le avete scritto?

–Sì, cinque o sei volte.

–Malissimo! Non scrivete mai lettere! Imitate Carlomagno, che non ne scrisse mai, et pour cause!

Ariberti, tutto pieno de' sopraccapi com'era, non ebbe agio di gustare l'arguzia.

–Ora,—ripigliò il nostro eroe,—egli sembra che la ragazza ci avesse un cugino, diventato tenero tutto ad un tratto della parentela, il quale ha trovato le lettere mie e gli hanno preso le furie.

–Un cugino!—esclamò il Candioli.—Fosse almeno un fratello! E come si chiama questo cugino? Donde viene? Che cosa fa?

–Che so io? È un certo Forniglia, o giù di lì; studente di medicina, a quanto dicono, ma che all'università non si è mai visto. Ferrero dice che è un giovinastro di bassa mano, frequentatore di bische; insomma un mascalzone. Contuttociò, egli ha trovato due persone pulite, almeno in apparenza, che son venute a propormi un certo dilemma….

–Sentiamo il dilemma.

–Eccolo qua. Pretendono che io abbia fatto perdere il suo buon nome alla ragazza. Una fiorista, noti, una fiorista che sta da sola in una camera d'affitto, in via degli Argentieri! E per questo mi mettono davanti l'aut aut; o sposare la cugina del signor Forniglia, o battermi con lui all'ultimo sangue. Di qui non si esce. E adesso Lei capirà, signor conte, che io non potevo esitare nella scelta. Lasciamo stare che son figliuol di famiglia e sottoposto alla patria potestà. Ma non si può ammettere nemmeno per celia che io sposi la signora Giuseppina Giumella, una ragazza che vive da sola in Torino, che tira stoccate alla mia borsa, e che tutto ad un tratto mi diventa una santa innocentina, con tanto di protettore da fianco.

–Sposarla! Mais pas le moins du monde, parbleu!

–Or dunque, venendo alla conclusione, i padrini di questo signor Forniglia mi hanno aspettato iersera sull'uscio di casa mia, dopo il teatro. Ed io ho dovuto prendere appuntamento per quest'oggi, sul mezzodì, al caffè dell'Aquila, dove si sarebbero abboccati coi miei padrini.

–Se riuscirete a trovarne!—disse gravemente il Candioli.

Ariberti lo guardò istupidito.

–Eh, difatti,—soggiunse egli dopo un momento di pausa,—finora non ne ho trovati; ma sperava che Lei…

–-Mon cher, che cosa domandate voi mai? Io non commetterò mai la sciocchezza di consigliarvi un duello, in queste condizioni.

–Ma poc'anzi….—entrò a dire peritoso l'Ariberti.

–Poc'anzi, era un altro paio di maniche. Qui c'è un cugino…. che non dev'essere un cugino. Ça sent le chantage, il ricatto. E volete che un gentiluomo… Mais pas le moins du monde, parbleu! Io non mi lorderò mai con tal sorte di gente.

–Lei, lo capisco, che è nobile, e può sostenere la sua dignità. Ma io, che non lo sono?…

–-C'est vrai;—disse il contino, facendo quella concessione all'amico.—Mais enfin, il ne faudrait pas que des fripons pussent…. Del resto; quanto a me,—soggiunse egli temperando il diniego con un mezzo sospiro,—voi mi capite, Ariberti; come non potrei incrociar mai la mia spada con gente troppo da meno di me, così non posso mettermi al caso di vedermi certi figuri tra' piedi e di doverci ricambiare una carta da visita.—

Ariberti rimase sconcertato, in atto di chi non trova più risposta alle argomentazioni del suo interlocutore.

–Sicchè,—diss'egli poscia, a mo' di conclusione, e alzandosi da sedere,—Ella non mi consiglia nulla.

Mon Dieu!—rispose quell'altro, stringendosi nelle spalle.—Non saprei….. Lasciate correre….

–O come? E se a mezzogiorno verranno i padrini?…

–Capisco… capisco… Ma qui su due piedi… Domandate parere al Ferrero;—conchiuse, come per liberarsi. È un giovinetto di ripieghi e saprà trovarvi il bandolo.

–Ma, come Le ho detto, signor conte, sono già stato da lui questa mane e mi ha ricusato il servizio.

–Come padrino, lo intendo; ma per darvi un consiglio…… Un consiglio non si nega mai ad un amico.—

Ariberti chinò la testa, e stretta la mano che il contino fu pronto a stendergli per accommiatarlo più presto, se ne andò via, maledicendo la sua stella, e quello sciocco vanaglorioso, che non voleva fargli servizio, nè mettersi un po' ne' suoi panni, per dargli un consiglio da amico.

Amico! Era un amico il contino? Sicuramente; uno di quegli amici da starnuti, che il più che se ne cava è un: Dio v'aiuti! E qui il nostro Ariberti incominciava dentro di sè un certo monologo sull'amicizia, che al petto suo quello famoso d'Amleto sull'essere e il non essere poteva andarsi a riporre.

Senonchè, tutti i monologhi del mondo avrebbero giovato poco nel caso di Ariberti. L'appuntamento era per le dodici; ed erano già scoccate le dieci.

Dal Ferrerò non voleva più andare. Anzi, a questo proposito, gli era venuto in mente di ritirarsi dalla collaborazione della Dora. Il sacrificio non era grande, per verità, perchè il giornale intisichiva a occhi veggenti e si potea prevedere che una settimana o l'altra avrebbe tirato il calcetto. Ma il colpo mulinato dall'Ariberti indicava il proposito di levarsi da quella compagnia di sciocchi invidiosi e pettegoli, che in un momento di bisogno lo lasciavano nelle peste.

 

Andare da Bertone? Ma a che farci? Quale utile consiglio avrebbe potuto dargli quel topo tettaiuolo? Ara diritto, non ti mettere negl'impicci, non andare a cercare il male come i medici, se vuoi viver tranquillo! Ma questo era il senno di poi, del quale son piene le fosse, come diceva il becchino, che era uomo da saperlo. Quanto a dargli una mano in quella sua necessità, Filippo non gli avrebbe servito a nulla.

Pensa e ripensa, cammin facendo, gli sovvenne d'un certo Tizio, capo scarico e accattabrighe per la pelle, col quale avea fatto conoscenza un mese addietro alla birreria di Valdocco. Il compare aveva preso una sbornia da non reggersi ritto; cionondimeno s'era attaccato con cinque o sei, che stavano seduti ad un tavolino lì presso, e che, lasciata la pazienza a Giobbe, s'erano messi a picchiarlo di santa ragione. Ariberti, che non lo conosceva punto, ma mosso da un sentimento di compassione, si era interposto, e usando le buone parole, aveva accomodato la cosa, portando via il furibondo, che voleva farli tutti a pezzi e bocconi. S'intende che i fumi della cervogia gli avevano dato al cervello. Difatti, come gli fu alquanto sbollita, conobbe il suo torto, ma più ancora il pericolo a cui s'era esposto, da solo contro un'intiera brigata, e giurò un'amicizia eterna al signor Ariberti, del cui nome, per altro, non poteva ancora pronunciare i due erre.

–Quello là (disse Ariberti tra sè, rammentando i saluti e gl'inchini che gli faceva il suo amico notturno ogni qual volta lo vedeva per via) quello là deve essere il mio uomo. Ma dove pescarlo, a quest'ora? Non so mica dove abita. Quella notte l'ho dovuto portare a casa mia, perchè della sua ci aveva smarrito il ricapito da un pezzo. Ma dopo tutto, non posso andare a chieder di lui nella birreria di Valdocco? Se è un avventore del negozio, come m'è parso, dovranno pure sapere dove ha il domicilio.

Gli parve quella una ispirazione del cielo, e se ne andò difilato alla birreria di Valdocco. Ma il padrone, che conosceva benissimo il signor Bonisconti (come si chiamava per l'appunto il compare), non ne conosceva del pari il ricapito. Per fortuna, all'udir la richiesta di Ariberti, saltò su una di quelle Erigoni, che nella birreria di Valdocco ministravano l'ambrosia di luppolo ai divoti. Costei sapeva tutto quanto mettesse conto al nostro eroe di sapere.

–Via di San Massimo;—diss'ella;—al numero 29, in fondo alla corte. Fatto il primo giro di scale, si prende per la scaletta a sinistra; secondo piano; non può sbagliare. C'è il campanello colla nappina rossa.—

Costei, come si vede, la sapeva lunga. E avrebbe potuto aggiunger dell'altro, se all'Ariberti fosse tornato utile di saperlo.

Ma l'Ariberti non avea più bisogno di nulla. Epperò, fatto un grazioso inchino al padrone e un altro alla ragazza, che glielo restituì con una occhiata assassina per la buona misura, se ne uscì dalla birreria, dopo aver bevuto pro forma una tazza di quel tristo succedaneo del vino.

Mezz'ora dopo, aveva trovato il Bonisconti, e, miracolo più strano a gran pezza, lo aveva fatto saltar giù dal letto, dove il suo conoscente pensava di schiacciare ancora un sonnellino di tre ore.

Il Bonisconti, per solito, si alzava all'alba dei mosconi; segno che andava a letto all'alba di tutti gli altri animali. Uscito di casa, e strofinatosi gli occhi un'ultima volta, si recava a bere il vermutte dal Cora; indi a meditar sotto i portici di piazza Castello e di Po, quando, s'intende, non ci fossero urgenti cagioni di alibì. Del resto, aveva buoni occhi, e i creditori li vedeva da lunge; anzi, pareva che li fiutasse, tanto era pronto a spulezzare alla prima cantonata. Pranzava, o, per dire più veramente, desinava alle cinque, lasciando che l'oste mettesse a libro, o tenesse in memoria. Fatto il suo chilo andava a teatro, dove, o per amicizia coll'impresario, o col primo attore, ci aveva sempre il passo libero, e pigliava le sue lezioni di storia, d'usi e costumi, dai maestri della ribalta, che egli pagava in fischi o in applausi, secondo l'umore. Dopo di che, sdrucciolava al caffè o alla birreria, dov'erano i suoi compagni d'oziosaggine. Si trincava, si cinguettava d'arte ed anche di filosofia trascendentale. Qualche volta, pensando ai debiti, si studiava sul sodo un disegno finanziario; e allora, veniva magari in campo l'idea d'una colonia italiana sul territorio dell'antica Cartagine. Ma i ricordi fenicii tiravano i cananei, e si finiva sempre a cercare qualche nuovo espediente per piantare un chiodo al popolo primogenito del Signore, dal cui seno uscivano i banchieri ordinarî della combriccola.

–Ella ha fatto bene, rivolgendosi a me;—disse il Bonisconti, poi ch'ebbe udito da capo a fondo la narrazione dello studente.—Non dubiti; ora andremo dal Priore e acconceremo quei signori pel dì delle feste. Ella non conosce il Priore? È un uomo che non vuol ciarle. Ha viaggiato sempre, conosce il globo terracqueo come la palma della sua mano e niente gli fa paura. Ha fatto il padrino in settantacinque duelli, due dei quali in America, da far rizzare i capegli, e i suoi propri non li conta nemmeno. È a Torino da un anno, con nostra soddisfazione grandissima, e lo sanno tutti una lama pericolosa; perciò nessuno ardisce toccarlo. Stia dunque di buon animo; il Priore ed io saremo i suoi padrini in questa faccenda, e i signori del matrimonio l'avranno a dire con noi.—

Ariberti respirò. Finalmente poteva farlo. Prima di allora, non aveva che ansimato.

Quando giunsero alla casa del Priore, questi era già uscito. Ma il Bonisconti era un buon cane da seguito e andava meravigliosamente sull'orma. Pochi minuti dopo, il Priore fu scovato, sull'uscio di una botteguccia da caffè; del quale uscio occupava tutto il vano coll'ampia travatura delle spalle.

–Eccolo là; vedete che pezzo d'uomo!—disse Bonisconti allo studente, con aria di compiacenza sublime.

Ariberti guardò, e vide un uomo sui quaranta, alto della persona e fieramente atteggiato. Portava la barba intiera, nerissima come i capegli, ma piuttosto rada sulle guance. Aveva occhi cilestri, che sarebbero stati belli, se non li avessero guastati certe palpebre vizze, rugose e livide, indizio certo di scioperate vigilie. Bello era il naso, diritto e sottile; ombreggiate da un paio di baffi morbidamente ricadenti sugli angoli, ma lì subito rialzati in due punte minacciose. Più notevole contrasto offriva la sua guardatura. Corrugava spesso le sopracciglia e rimaneva un tratto cogli occhi socchiusi; poi li riapriva d'un subito e il globo bianco perlato, sgusciandosi quasi dall'orbita, parea metter lampi.

La fronte del personaggio non si vedeva, coperta com'era dalla tesa di un cappellaccio alla brigantesca, orlato da un nastro di velluto nero. Il gran torace sporgeva in fuori, ma nascosto nelle vaste pieghe di una beduina, posta alla scapestrata sulle spalle, per modo che il cappuccio gli pendeva sull'omero destro e il lembo del mantello, rigirandosi intorno al collo, andava ad occuparne il posto sul tergo. Qual vestimento coprisse quella strana foggia di toga non era dato indovinare; bensì era lecito di argomentare un pomo rispettabile di bastone piombato, dalla punta di un nerbo di bove che appariva fuor dalle pieghe.

Il Priore era insomma un bel tipo, che a tutta prima attirava la curiosità, ma subito dopo comandava il rispetto alla maggior parte dei viandanti, gente che non voleva attaccar briga, e che doveva provare un certo rimescolo, vedendo lampeggiargli di sotto alle ciglia quei due occhi da spiritato.

Che cos'era il Priore? Un uomo di polso, o una caricatura? Un Don Giovanni scaduto? Un Lara di bassa mano? Andiamo avanti e vedremo.

Costui all'appressarsi dei due giovani, trasse indietro la testa con un moto che doveva essergli famigliare e che lo faceva due cotanti più altero alla vista. Socchiuse gli occhi indi li spalancò, guardando l'Ariberti come se volesse passarlo fuor fuori; e frattanto, senza muoversi dalla sua superba postura, diede la mano al Bonisconti, borbottandogli un asciutto buon dì, coll'accento cupo di un primo attore, che si prepara a recitare l'Amleto, od altra parte di forza.

–Abbiamo del nuovo;—disse il Bonisconti, entrando subito in materia;—e si domanda il tuo valido appoggio. Prima di tutto, Tristano, lascia che io ti presenti Ariberto Ariberti, studente, poeta, spirito bollente ed avido di forti commozioni, che sarà quind'innanzi del refettorio. Non è vero?—

Ariberti non capiva molto; ma vedendo che la domanda era rivolta a lui, rispose subito con un cenno del capo. Con quella gente, e sotto il lampo di quelle olimpiche ciglia, come fare altrimenti?

–Di che si tratta?—domandò il Priore con voce studiatamente armonica e non senza un pochino di strascico, mentre stendeva la mano (dal disopra, s'intende, com'è usanza delle dame e degli alti personaggi) al giovine Ariberti, che fu sollecito a stringerla, con atto di riverenza divota.–Ma intanto, beviamo qualche cosa. Posso offrirle un assenzio? O ama meglio una tazza di caffè?

–Grazie; prenderò l'assenzio;—rispose l'Ariberti, desideroso di mettersi subito all'altezza del personaggio.

–Ehi, bottega! Tre bicchieri all'assenzio!—ripigliò il Priore, volgendosi al tavoleggiante.—E adesso, la prego, si accomodi. Quanto a te, Bonisconti, non ti ho chiesto che cosa vuoi; ho indovinato i tuoi gusti.

–Non si può averli diversi da' tuoi, senza averli cattivi,—notò il Bonisconti, da cortigiano finito.

Il Priore brontolò un paio di sillabe, che potevano essere un grazie, e andò a sedersi in un angolo, indicando cortesemente all'Ariberti di mettersi alla sua destra.

–E così? Veniamo al quia.

–Ecco;—entrò a dire il Bonisconti, mettendosi a cavalcioni su di una sedia rivoltata davanti a loro.–Parlo io, per farla più breve.—

E raccontò in modo sbrigativo l'occorso, esponendo da ultimo il bisogno di ricordare che questi gli aveva fatto servizio una sera, alla birreria di Valdocco, difendendolo da una brigata di malintenzionati, mentre era in cimberli, e lì lì per soccombere.

–Veramente,—disse il Priore, mentre colla massima gravità facea sgocciolare dalla boccia di cristallo un fil d'acqua nella sua verde bevanda,—veramente, è sempre stato mio costume di non servir da padrino che agli amici intrinseci, o a coloro che fanno vita con me. Nelle quistioni io c'entro un pochino, come suol dirsi, cogli stivali, e non vo' uscirne senza una buona misura di sangue. Tanto peggio per chi ci si mette, senza esserci preparato. Donde la necessità che i miei clienti siano uomini provati ed amici. Ma Ella,—soggiunse con grazia,—se non è amico mio, può diventarlo. E quanto all'essere uomo provato, mi basta che abbia fatto servizio a Bonisconti… che è un buon saracino.—

Bonisconti s'inchinò, com'era debito suo. Sentirsi dare di buon saracino dal Priore era il massimo degli onori a cui potesse aspirare uno del refettorio.

–Or dunque,—ripigliò Tristano,—per che ora è l'appuntamento?

–Per le dodici.

–E che ore sono adesso?—

Bonisconti fece l'atto di guardare l'orologio; ma non lo aveva.

–Vedi che testa!—esclamò facendo bocca da ridere.—Nella furia del vestirmi l'ho dimenticato…

–Dove? al monte di Pietà?—chiese il Priore, ridendo per davvero.—Non ti vergognare, Bonisconti. È la fine di tutti gli orologi. Del resto, non son buoni ad altro. Si comprano per vezzo e si tengono come una valuta portatile, da cambiarsi alla prima necessità.—

L'amico scorbacchiato, quantunque di mala voglia, pure atteggiò le labbra ad un sorriso.

–-Sono le undici e un quarto;—diceva frattanto l'Ariberti, tutto confuso per aver dovuto cavar fuori il suo orologio.

La confusione veniva da questo, che lo studente avea un bell'orologio da tasca, raccomandato ad una lunga catena, un po' troppo vistosa, se vogliamo, e alquanto provincialesca, ma pur sempre d'oro massiccio; la qual cosa non dovrebbe guastar mai, ma che a lui, lì per lì, sembrava uno sfoggio asiatico e quasi insolente, al cospetto di quei due valentuomini che dovevano salvarlo da una brutta figura.

Per altro, s'ingannava a partito. Il Priore era un uomo che non faceva nulla a caso, e meditava sempre gli effetti che doveva ottenere.

–Vediamo se il suo va bene;—diss'egli.

E sollevato con un gesto regale il lembo del mantello, cavò dal taschino uno stupendo cronometro d'oro, di cui fece saltare il coperchio, per confrontare la sua mostra con quella d'Ariberti. Il quale, nell'atto di accostare il suo all'orologio del Priore, potè scorgere che il coperchio del cronometro era attorniato da un cerchietto di piccoli diamanti.

–Bello!—gridò egli, non potendo trattenere la sua ammirazione.

–Ah sì!—disse il Priore, accompagnando la frase con un sospiro.—È un ultimo ricordo di tempi felici. Ero infatti un uomo felice, quando militavo, sempre capitano di cavalleria, nell'esercito del raià di Lahore.

 

–E come hai potuto lasciare il servizio?—dimandò Bonisconti, che gli dava amichevolmente la battuta.

–Non ne parliamo! Anco i re sono uomini ed hanno diritto di esser gelosi;—sentenziò Tristano, rannuvolandosi.—Per altro, bisognerebbe che fossero uomini del tutto, e si potesse qualche volta giuocarsela anche con loro. Ma via, lasciamo questi discorsi, e andiamo piuttosto al ritrovo. Ella è pronta a scendere sul terreno?

–-Sicuramente! Posto tra le due corna del dilemma…

–-Preferisce il secondo corno. Ha ragione. E l'arma?

–Non so maneggiarne di nessuna specie.

–Bene!—esclamò il Priore colla medesima facilità con cui il contino Candidi aveva detto: «male!»—Ella si batterà dunque alla pistola.

–Vada per la pistola!—rispose Ariberti, che ormai si vedeva in ballo.—Io sono nelle loro mani.

–Non dubiti; con noi farà sempre buona figura;—entrò a dire Bonisconti.—Andiamo dunque al caffè dell'Aquila, a sentire questi due messaggieri del signor Forniglia. Ella c'indicherà i loro rispettabili grugnì.

–Ci presenterà come suoi padrini,—soggiunse il Priore, per metter le cose nei giusti termini,—e ci lascierà subito. Verremo poi a cercarla sotto i portici di piazza Castello, per informarla dell'esito del nostro colloquio.—

Erano le dodici in punto, quando i tre compagni giunsero davanti al caffè dell'Aquila, dove era fissato il ritrovo. L'Ariberti entrò, diede un'occhiata nella sala, ma non vide i due che cercava.

–Sta a vedere che non si presenta nessuno!—disse il Bonisconti, veduto che i due compari non c'erano.

A quella supposizione del padrino, l'Ariberti si sentì allargare il cuore. Noto il fatto, anche a risico di abbassare un tantino il mio giovine eroe. Dopo tutto, un piccolo atto di debolezza non è così grave peccato da non meritare l'assoluzione. A quanti giovani soldati, il primo giorno di combattimento, non avvenne di salutare le palle con un moto involontario del capo? Sono piccolezze che non provano nulla. Quanto al mio Ariberti, debbo soggiungere che egli si pentì subito di quel suo moto d'allegrezza, e che ne fece buona testimonianza ai compagni.

–In verità, mi rincrescerebbe,—diss'egli, quantunque un po' tardi;—tanto più ora che ho incomodato due persone come loro.

–Che! Non vorrebbe dir nulla;—rispose il Priore

–Del resto, sono anch'io della sua opinione; queste faccende, una volta cominciate, mi piace finirle e scriverci sopra il motto di Mosca Lamberti.—

Mentre si facevano queste chiacchiere e il mezzogiorno era passato da un bel poco, Ariberti, che stava sempre alle vedette, si spiccò dai compagni e andò oltre due o tre passi sotto il porticato. Egli aveva veduto spuntare da lunge i due padrini del Forniglia.

Erano due così smilzi e male in arnese, che non mette conto descrivere. Il meno sciatto portava un cappello a tuba, inclinato sulle ventitrè ore. L'altro, più modesto, copriva la fronte con uno di quei cappellacci col cocuzzolo basso e tondo, che il volgo toscano chiama pioppini, per la somiglianzà che hanno coi funghi del medesimo nome.

–Eccoci qua;—disse quel della tuba, piantandosi davanti al nostro Ariberti e facendo cipiglio;—che risposta intende Ella di darci?—

Lo studente sorrise con tutto quel garbo che seppe, e voltandosi sul fianco indicò i due compagni, che quell'altro non aveva a prima giunta veduti.

–Ecco gli amici miei;—soggiunse egli, arrossendo come una fanciulla, ma non senza un principio di dignità virile nell'accento;—vogliano intendersela con loro. Sono i miei padrini ed hanno pieni poteri.—

Quella risposta giunse inaspettata ai due nuovi venuti, che si volsero stupefatti a guardare i loro avversarii. Si argomentavano di poter sopraffare quel povero ragazzo, di metterlo, come suol dirsi, tra l'uscio e il muro; e in quella vece, si vedevano a fronte due uomini, uno dei quali, alla presenza poderosa e alla guardatura superba, pareva dovesse bastare per tutti.

–I signori…—balbettò confuso il primo che aveva parlato, recando macchinalmente la mano alla tuba.

–Tristano Falzoni;—entrò a dire gravemente il Priore, continuando la frase;—e questi è il mio collega, signor Giorgio Bonisconti; ambidue ai loro riveriti comandi.—

Quei due non ebbero nemmeno la presenza d'animo di mettere fuori i loro nomi. Stettero muti come due pesci, facendo istintivamente un inchino.

–Vogliano entrare!—disse Tristano, col piglio di un comandante in piazza d'armi.—Parleremo con più agio là dentro. Signor Ariberti, la ringraziamo da capo dell'onore che ci fa, mettendo l'onor suo nelle nostre mani. Ella sarà servita come desidera; si fidi di noi e si degni di aspettarci qualche minuto.—

Ariberti, tutto confuso da quella cerimoniosa solennità del Priore, strinse la mano a lui e al Bonisconti. Indi, salutati con un grazioso inchino i due padrini avversarii, si allontanò con passo leggiero dal caffè dell'Aquila.

Con passo leggiero, sì; ma dentro del cuore il nostro eroe sentiva qualche cosa che non era allegrezza. A dirvela chiaramente, ci aveva dentro di sè una sensazione di vuoto, che i medici avrebbero spiegato come la conseguenza di una soverchia tensione di nervi, i filosofi, come un torpore delle facoltà mentali, e i gastronomi come il bisogno di una costoletta e d'un bicchiere di vecchio Borgogna: ma che io, profano alle scienze, non mi attenterò di indagare, contentandomi di raccontarvi che questo indefinibile stato dell'animo suo non gli consentiva di pensare a nulla, di fermarsi su nulla. Era quello un momento d'incertezza per lui, come una lunga battuta d'aspetto nella sua vita. E invero, a che cosa avrebbe egli utilmente pensato, se quella impresa che si stava deliberando per lui tra i quattro padrini, poteva mandare a vuoto ogni proposito, ogni disegno suo, ed anco interrompere il filo della sua giovine vita?

Andava innanzi, muovendo le gambe e gli occhi a guisa d'automa, cansando i viandanti per virtù d'abitudine, vedendo intorno a sè, e non considerando ciò che vedeva. Gli passavano da fianco le contegnose dame e le frettolose pedine; ma egli non dava più loro quella rapida occhiata che conforta il senso estetico e ci fa dire tra noi: ecco una bella capigliatura, un bel piede, una graziosa curva di spalle. Fu un istante tra gli altri che il pensiero gli corse a Dogliani, a suo padre, a sua madre, alle sue tranquille gioie domestiche, e lo assalse un brivido e gli passò l'anima la punta acuta di un rimorso. Cercò allora di scuotersi, di scacciare da sè quel tenero e molesto pensiero, e si fermò davanti alla mostra di un libraio, per vedere alcune stampe che attiravano la curiosità dei viandanti. Ma aveva un bel guardare; non intendeva nulla di nulla.

Si mosse di nuovo, per andare verso piazza Castello. E appunto allora i suoi occhi caddero su d'una figura di donna, che scendeva verso la sua parte, con quel passo nè frettoloso nè tardo che distingue la gran dama, più ancora che non facciano lo sfarzo e l'eleganza degli abiti.

I contorni della persona, l'andatura, il portamento del capo, destarono l'attenzione del giovane e gli fecero battere il cuore. Forse lei? Sì, certo, ancora due passi e non v'era più dubbio per Ariberti; era lei, la marchesa di San Ginesio che veniva alla sua volta. Un velo di pizzo nero le scendeva sul viso, ma senza nasconderne la maravigliosa bellezza.

Tremò a quella vista, arrossì, e volle tornare indietro. Ma la dama si avvicinava sempre più e non gli venne fatto di uscirsene a quel modo; era affascinato, attratto verso di lei. Poco stante si sentì come travolto in quell'onda di arcani effluvi che emana da una donna amata, a cui ci troviamo per la prima volta vicini. La marchesa passava, leggiera e composta negli atti, daccanto al giovine innamorato, che in quel momento si sentì ribollire nel profondo tutti gli assopiti ardori, tutti i desideri di prima. E proprio in quel momento gli parve che gli occhi della marchesa fossero volti su lui. La cosa non aveva niente di strano. Neanche alla dama più contegnosa del mondo è dato di passare per via, senza che il suo sguardo s'incontri mai nello sguardo di qualcheduno tra i viandanti che l'ammirano. Ma dopo tutto, lo aveva essa guardato davvero? Pensandoci bene, Ariberti non avrebbe potuto giurarlo, perchè egli in quel punto medesimo aveva abbassato timidamente le ciglia.