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La notte del Commendatore

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–Vieni; ti fo vedere i miei libri;—entrò a dire quell'altro, cercando di tirarlo via dalla finestra.

–Sì, vengo; lasciami dare un'occhiata a questi fiori. Chi si occupa del tuo orto botanico? La padrona o la serva?

–Io stesso,—rispose Filippo,—che era sulle spine.

–Come sai, studio medicina, e la botanica…

–Ah sì, è vero; ma perchè diamine non studiar legge?

–Caro mio, se tutti gli uomini dovessero averci i medesimi gusti, povero mondo! Del resto, quello dell'avvocato è un mestiere da signori. Io sono un Giovanni Senzaterra, e poco o molto che sia, debbo cercare di guadagnar subito il pane quotidiano.

–Ah, povero Filippo, non ci pensavo; perdonami.

–Non c'è bisogno;—soggiunse egli, sorridendo malinconicamente.—Io non arrossisco mica d'esser povero. Penso spesso alla mia condizione, è vero; ma credimi, se non fosse che in questi anni di studi io costerò troppo gravi sacrifizi a mio padre, il pensiero della mia povertà non sarebbe senza una certa allegrezza.

–Oh, questo, poi….

–Orbene, e perchè no? Povertà il più delle volte è libertà. Non intendo già che si abbia a morire di fame; che allora si è schiavi del capriccio di tutti. Parlo della povertà di uno che vive lavorando, che non può vivere altrimenti, che ha da passare ogni giorno coll'arte sua per le mani. Qual'è libertà migliore di questa, che ti rende padrone dell'anima tua contro le passioni e contro i vizi, perchè non ti dà tempo per le une e non ti offre materia per gli altri? E poi, dove metti tu la felicità di non aver sopraccapi per le tue rendite, poste in forse da una cattiva annata, o da un diluvio di fallimenti, e insidiate da una o più categorie di persone, che farebbero volentieri a spartire? Vedi; sei tu il tuo cassiere, e non c'è pericolo che tu pigli il volo per Francia o Svizzera; sei anche il proprio intendente, e non ti rubi a man salva; il tuo portiere, e dormi magari coll'uscio aperto, senza paura dei ladri. Metti pure che la tua nave dia nelle secche; se scampi dal naufragio, sei ricco come prima, avevi tutto con te.

–Scusami;—disse l'Ariberti, che aveva fatto, durante quell'apologia dell'amico, i più brutti versacci del mondo;—ma la tua retorica non mi persuade. La vita è una bella cosa; ma per viverla ci vogliono quattrini. Che cos'è vivere? Essere. Ora, per essere, a questo mondo, bisogna parere.

–L'accidente prima della sostanza!—esclamò facetamente Filippo Bertone, seguitando l'amico nel campo della filosofia.—Io direi anzi il contrario.

–Sì, cambia pure a tuo modo,—rispose l'Ariberti, purchè in fondo io —abbia ragione. L'uomo, ti dirò io, non vive solamente di pane. Lo —dice anche un passo delle Scritture. Vedi che ho le autorità dalla —mia. E come si potrebbe vivere di solo pane, con tante belle cose, —create a posta e messe al mondo per noi? E non è un disprezzare —l'opera di Dio, questo non desiderarsi che il pane? Intendo per pane —la vita materiale, la vita vegetativa, mi capisci?

–Certo;—replicò Filippo Bertone—ma assicurata questa, non hai libera anche la vita contemplativa? Non ti è forse consentito di startene coi tuoi libri, od anche co' tuoi pensieri, a goderti un'ora di pace?

–E crepi l'avarizia; non è egli vero?—soggiunse ironicamente l'Ariberti.—Come si vede, Filippo mio, che non sei innamorato!

–Io!… No, certo;—rispose Filippo, reprimendo un sospiro;—non ho ancora avuto tempo.

–Eh via! Di' piuttosto che non hai avuto l'occasione. Ma incontra una donna come l'ho incontrata io…

–Quale? La bionda di Dogliani, o la signora Ber…

–Che! Ti parlo dell'ultima.

–Ah, c'è dunque un'ultima? A Dogliani o qui?

–Qui, per l'appunto; non ti ricordi? Ah, è vero, nello scorso inverno ci vedevamo di rado. Ma è colpa tua, sai. Tu vivi sempre nel tuo guscio, come la chiocciola, e allora non c'era caso di vederti mai a teatro.—

Filippo Bertone diede un'occhiata malinconica al chiodo da cui pendeva il suo venerando giubbone; indi un'occhiata al cielo, come se volesse fare un'offerta a Dio di quel suo capo di vestiario.

–-Ma sai,—diss'egli poscia, sviando modestamente il discorso,—che tu mi sembri un nuovo Don Giovanni Tenorio! Se la va di questo passo, giungerai presto alle mille e tre.

–No, questa è proprio l'ultima;—esclamò l'Ariberti con accento di convinzione profonda;—oramai lo sento, non amerò più altra donna. Figurati, amico mio, una vera Giunone.

–Ah, questa volta abbiamo dato la scalata all'Olimpo.—Conosci Giove?—sei forse entrato nelle sue grazie?

–No, lo conosco appena, e forse non lo conosco nemmeno. Potrebbe esser lui e non esserlo. Ce ne vedevo tanti, nel palchetto.

–Ho capito; l'Olimpo era a teatro;—notò Filippo, con quel suo fare malizioso ed ingenuo.—E poi, finita la stagione teatrale…

–Ne è cominciata un'altra ad un teatro di prosa. I teatri di Torino io li ho girati tutti, e qualche volta tre in una sera, per veder di trovare la mia bella Giunone. In queste corse a teatro c'è tutta la mia storia di cinque o sei mesi. Poi è venuto il mese di studiare, per prepararmi all'esame; poi le vacanze… ed ora… ed ora capirai che mi sapeva mill'anni di rivedere Torino.

–Per correre sotto le finestre della signora… Giunone.

–Non so dove abita.

–Bravo! Sei molto avanti.

–Ma che farci? La vedevo sempre al Regio e ci volle un secolo perchè sapessi il suo vero nome. Sulle prime non era dentro di me che un pochino di curiosità artistica, o estetica, se ti piace meglio. Non avevo ricevuto dalla sua bellezza che una impressione passeggera, nè più, nè meno di quella che avrebbe potuto far su te. Anche tu, vedendo una bella signora, avrai detto qualche volta a te stesso: «ecco una bella donna», senza bisogno di andare più in là.

–Certamente;—balbettò Filippo, mentre si avvicinava al balcone, col pretesto di strappare due foglie ingiallite ad una rosa delle quattro stagioni;—senza andare più in là.

–Orbene, io che non ci vedevo un pericolo al mondo, guarda oggi e guarda domani, tunfete! ci sono cascato. Innamorato, Filippo mio, innamorato morto. Il guaio si è che, quando me ne avvidi, ero diventato timido come un coniglio. Canzonami, ma la è così, come io te la dico. Ti basti che voltavo gli occhi da un lato, o li piantavo a terra, quando mi pareva di veder volgere i suoi dalla mia parte, e che mi facevo del color della brace, quando per caso il suo binocolo si appuntava su me. All'uscita, ogni sera, facevo il proponimento di fermarmi, per vederla passare. Vuoi credere? Ogni sera mi mancava il coraggio. Vedevo spuntare da un pianerottolo delle scale il lembo della sua veste, e fuggivo. Già, l'anno scorso ero ancora un ragazzo.

–E avrai più coraggio quest'anno?

–Oh sì! l'ho giurato;—rispose solennemente l'Ariberti.—Ho scritto nelle vacanze un migliaio di versi per lei. Sono senza fallo i migliori che ho fatto fin qui. Vuoi sentirne qualcuno?

–Anzi, mi farai un vero regalo.

–Te li dico… Ma, di grazia, lascia un pochino il tuo orto botanico.

–Sì, sì;—disse l'altro, che oramai per quel giorno disperava di vedere la sua bella vicina.

E stette a sentire i versi dell'amico; versi abbastanza belli e più levigati che a quell'età non si usi ancora di farli. Nicolino Ariberti si chiariva in quelle composizioni un divoto seguace dei classici e prometteva (poichè tutti promettiamo qualcosa da giovani) prometteva, dico, alle lettere italiane un nuovo e felice cultore dell'epiteto. La qual cosa, se faceva prova del suo buon gusto letterario, dinotava meno calore d'affetto, e fors'anco d'ispirazione. Almeno, così affermano i critici ed io ripeto. Del resto, da quel profano ch'io sono e mi tengo, so che tra i latini, Ovidio epitetava alla grossa, e Virgilio con giusta misura. Ora, io leggo assai volentieri Virgilio e trovo più calore nel quarto libro dell'Eneide che in tutte le elegie venute dal Ponto. E per venire ai moderni, dove troverete più affetto che nel povero Foscolo? Eppure, che nobil fioritura d'epiteti, giusto Iddio! Ma sono un profano, lo ripeto, e vi dò le mie chiacchiere per quel poco che valgono.

–E questi versi,—disse Filippo Bertone, dopo che li ebbe uditi e lodati,—li farai giungere a lei?

–Spero;—rispose l'Ariberti;—chi sa che non le cadano sott'occhio? Fo conto di stamparli. Si sta fondando in Torino un giornale letterario, artistico, e scientifico, e capirai…

–Ah, bene! E chi ci scrive?

–Io, come puoi figurarti; ma io sono l'ultimo degli ultimi. Ti dirò dunque i nomi degli altri; Ferrero, Vigna, Balestra, il conte Candioli.

–Candioli! Quello sciocco?—non potè trattenersi dallo esclamare Filippo.—E di che cosa scriverà mai, il signor figlio di suo padre?

–Note di viaggi, ricordi parigini…

–Perdinci! E con quel po' di italiano che lo ha fatto passare in proverbio fra tutti gli studenti di rettorica del Piemonte?

–Hai ragione;—disse l'Ariberti ridendo;—ma il conte Candioli scriverà a dirittura in francese.

–Eh, in questo caso,—notò Filippo, chinando la testa—non dico più altro. Temo soltanto una nota diplomatica del governo francese. Ma via, il signor padre è ministro; ci penserà lui.

–Senti;—soggiunse poco dopo l'Ariberti, che era in un momento di tenerezza per Filippo Bertone;—vuoi scriverci anche tu?

–Io? Che cosa potrei scrivere io?

–Ma… quel che vorrai. Di botanica, per esempio. Descrivi magari il tuo orto babilonese. Come ti ho detto, il giornale è anche scientifico e tu saresti proprio la mano di Dio.—

Nicolino Ariberti aveva parlato col cuore sulle labbra, epperciò col desiderio di mettere l'amico Filippo a parte di quel passatempo. Non avrebbe operato diverso, se si fosse trattato di una scampagnata a Moncalieri, o a Superga. Ma poco stante, anzi subito dopo aver fatto l'invito, gli venne in mente la ripulsione, sciocca, se vogliamo, ma profonda, e tale per conseguenza, da non doversi trascurare, che i suoi eleganti compagni sentivano pel giubbone di color tabacco. Era là, appeso alla parete, di rincontro a lui, quel povero giubbone, e certamente ignorava di quanta avversione fossero causa, o pretesto, il suo colore, il suo taglio e la sua antichità venerabile.

 

Ora, per Nicolino Ariberti, lo accorgersi di aver fatto una papera e il pensare allo scampo, se gli riusciva di trovarlo, furono un punto solo.

–Mi passi i tuoi manoscritti,—soggiunse egli, a modo di conclusione,—ed io li consegno al direttore… che sarà probabilmente il signor conte Candioli. Tu sei modesto, lo so, e non ami farti conoscere. Orbene, c'è rimedio anche a questo; tu ti nascondi sotto uno pseudonimo. Anzi, vedi, mi par meglio così; lo pseudonimo aguzza la curiosità dei lettori e fa anche bene al giornale, perchè, trattandosi di materie scientifiche, la gente si metterà in capo che abbiamo la collaborazione di qualche professore. Dunque, è intesa?

–No; non mi va;—rispose Filippo accigliato.

–Perchè?

–Perchè non amo gli pseudonimi. Lo scrivere in tal modo mi parrebbe un lavorare alla macchia, per aspettare il giudizio del pubblico, pronti a scoprirsi e gridare: ecce, ad sum qui feci, se il lavoro piace, o a sconfessarlo, e a dir corna dell'autore, se quel lavoro è riuscito e giudicato un pasticcio. So bene che su questo argomento si possono dire molte cose pro e contro, e che uno pseudonimo, segnatamente nei giornali, può ammettersi come un nome di guerra. Tuttavia, letterariamente parlando, mi pare che la comodità del soprannome (e metti anche del nome soppresso, come si usa appunto nella più parte dei giornali) aiuta un po' troppo a tirar giù come viene, in quella stessa guisa che la maschera sul volto aiuta a parlare con una libertà a cui non vorrebbe licenziarsi una faccia scoperta. Te l'ho dunque detto, non mi va. Se scriverò qualche cosa lo farò sempre col mio nome, umilissimo, se vuoi, ma schiettamente disposto a pigliarsi il biasimo, come si piglierebbe la lode.

Nicolino Ariberti era sulle spine, e non sapeva più da qual banda voltarsi.

–Del resto, ti ringrazio della profferta;—ripigliò Filippo, con accento malinconico,—ma non potrò scrivere nel nuovo giornale. Questo lusso non è fatto per me. Si perderebbe del tempo, ed io non posso perdere neanche un'ora del mio. Vedi, Ariberti; io dovrò faticar molto per vivere agli studi in Torino, e cercarmi forse qualche occupazione fuori via, per guadagnarmi il diritto di restare. Hai da offrirmi lavoro? Lo accetto, qualunque esso sia. C'è da far l'amanuense? Ho, grazie al cielo, una bella mano di scritto. Far di conti? Ho l'aritmetica sulle dita. Vegliare infermi? Non patisco il sonno. Corregger bozze di stampa? Ho buoni occhi. E poi, non vedo che una cosa; rimanere agli studi. Sono venuto con questa idea. Forse è una vanità pericolosa, fatale, che è nata in capo al mio povero padre; ma ti assicuro che dal canto mio farò ogni sforzo, ogni sacrifizio, perchè il futuro non mi dia una smentita. Entro per la via più difficile; non avrò gioventù; ci vuol pazienza; ed io ne ho quanto occorre. Addio giuochi; addio passatempi; addio lieti indugi (come li chiamava il mio maestro di rettorica) cogli amici e i compagni di scuola; ho rinunziato a tutte queste bellissime cose, pensando alla mia famiglia che soffre, che si priva del necessario per me. Questo, intendiamoci—soggiunse Filippo con una grazia e con una nobiltà che avrebbero fatto onore ad un artista più provetto di lui sul palcoscenico della vita,—non torrà che io ti accolga volentieri quassù. Quando vorrai studiare, o avrai qualche rammarico da sfogare con un amico sincero, vieni liberamente; sarai il benvenuto in questo aereo nido.

–Grazie!—mormorò l'Ariberti, commosso da quella triste schiettezza. E diede frattanto un'occhiata furtiva a quel giubbone di color tabacco, che gli parve risplendere, appiccato alla parete, più glorioso di uno stinco di santo.

–E a proposito di nido,—continuò Filippo Bertone,—ti ricordi degli uccellini? Nella nidiata ce n'è sempre uno, venuto su a stento, che è l'ultimo a impennarsi e a volare, quando pure ci riesce. Piccino e balordo ma non per sua colpa, lo chiamano comunemente la cria, Qualche volta il poveretto non vince l'avversa fortuna, e muore nel nido, abbandonato dalla madre, che non ha potuto addestrarlo al volo e che ha fretta di portare via i suoi fratellini, nati tutti vitali. Farò anch'io questa fine? Non lo so; ma mi par di poterti dire che questo nido è fatato; o sarà il mio trampellino, per ispiccare il salto, o sarà la mia tomba.—

Così parlava Filippo Bertone. Nicolino Ariberti avrebbe voluto dire qualcosa, per consolare l'amico; ma pensò giustamente che quello non aveva bisogno di consolazioni, come non aveva bisogno d'incoraggiamenti. Son rari, ma pure qualche volta si trovano, questi uomini privilegiati dal destino, solitarî sventurati e sereni, che possono dar consiglio altrui, ma non riceverne per sè. Si direbbe che cosiffatti caratteri sfuggono alla legge di compensazione, che fa di tutte le esistenze una catena e di tutte le creature un aiuto scambievole; tanto essi appariscono bastare a sè medesimi, anco nella più umile delle condizioni sociali, e trovare in sè stessi ogni cosa, non esclusi i balsami per le proprie ferite, come per quelle degli altri.

CAPITOLO V

Della gloria di Ariberto Ariberti e di qualche sciocchezza ch'ei fece.

Un mese dopo questi discorsi e gli altri del caffè dell'Aquila, Torino aveva la sua meraviglia, come Rodi, come Efeso, come Tebe, e come altre città ugualmente fortunate nei tempi antichi. Era venuto alla luce il primo numero del giornale La Dora; il più bel saggio d'ibridismo che si vedesse mai nel regno animale. Ah no, scusate, volevo dire nella repubblica letteraria.

C'era in quel primo numero tutto il banno e l'eribanno della scolaresca del primo anno di legge, con qualche rappresentanza delle altre facoltà. Il programma, intitolato modestamente Nos intentions, era stato scritto dal Ferrero in italiano e voltato in francese dal conte Candioli, che gli aveva dato (giusta la confessione del suo autore) una tournure, una noblesse, un cachet, di cui difettava pur troppo il testo italiano. Il sullodato Candioli aveva poi cominciato la stampa del suo Voyage au pays des rêves, che era il racconto della sua gita a Parigi. Il sullodato Ferrero stampava il primo capitolo de' suoi Tre mesi sull'Arno, nel quale da autore che ama i suoi comodi, egli giungeva a mala pena a Viareggio. Del Balestra c'era una canzone; del Vigna una cicalata intorno agli amori di Tibullo, con citazioni analoghe. E non mancava neppure quello studio critico sui Nibelunghi, che il Vigna aveva tolto per roba da mangiare. L'Ariberti dava fuori una trilogia lirica; nientemeno! La prima parte s'intitolava: Sotto i salici, e cantava amori contadineschi; la seconda: Sotto i pioppi, e cantava amori in villeggiatura; la terza: Sotto i portici, e l'amore, come si vede, da questa terza categoria d'alberi, entrava a dirittura in città, facendo anche una scappatina nella seconda fila di palchi del teatro Regio, per ossequiare la bella marchesa di San Ginesio.

Venendo ora ai nomi, alcuni firmavano i loro scritti, altri no. Il Candioli, per esempio, si nascondeva dietro un Comte de***; ma trovava il modo di dire cinquanta volte in un giorno che le tre stelle della Dora non avevano altro scopo fuor quello di usar riguardo ad una famiglia qui ne s'était jamais encanaillée dans les lettres.

Quanto al poeta della trilogia, egli firmava per la prima volta in sua vita; Ariberto Ariberti.

Com'era andata la faccenda? Nicolino era stato persuaso a sbattezzarsi, da un discorso dell'amico Ferrero.

–Sentimi;—gli aveva detto costui;—vuoi salire in fama di poeta? Non basta esserlo, bisogna parerlo. Ora, quel tuo nome di Nicolino non è abbastanza poetico; ti dirò anzi schiettamente che non lo è punto. Un poeta ha da avere un bel nome, che i giovani e le donne possano ripetere volentieri. Vedi, per esempio, il Foscolo. Si chiamava Nicolò come te. Nicolò Foscolo! Ti pare che quel nome potesse andare, pel futuro cantor dei Sepolcri? A lui per il primo non parve affatto, poichè incominciò un giorno dal chiamarsi timidamente, e come per via d'esperimento, Nicolò Ugo Foscolo; indi, buttata la parte inutile, trovò la vera armonia del suo nome, «Ugo Foscolo», cinque sillabe che non morranno mai più.—

Quelle ragioni erano sembrate il nec plus ultra a Nicolino Ariberti, che aveva subito pensato di ribattezzarsi a suo modo. E chi vorrà biasimarlo del suo capriccio innocente, in un mondo che è così largo di perdono a tante altre cose, niente affatto innocenti? Dopo tutto questa di foggiare il nome a somiglianza del casato, è moda antica e prettamente italiana. Per non ricordare che un esempio illustre, citerò Galileo Galilei.

La comparsa della Dora aveva fatto chiasso. Si era riso un pochino intorno a quella novità di un giornale bilingue; e un certo Messaggiere, che non la perdonava a nessuno, e neanco ai figli de' ministri, aveva posto meritamente que' signorini in canzone. La celia era parsa così grave, che i collaboratori della Dora, raccolti in solenne adunanza al caffè dell'Aquila, avevano lungamente ed altamente disputato, per vedere se non fosse il caso di andare a chiederne ragione al beffardo collega. Fortunatamente per lui, prevalse l'idea di rispondere inchiostro per inchiostro, sebbene colla giunta del sale e del pepe, che doveva, nell'animo loro, esser peggio di un colpo di spada.

Del resto, a far rimanere questa nel fodero, aveva contribuito largamente la lode che, secondo il conte Candioli, era data nei salotti aristocratici al nuovo giornale. Il avait du premier coup conquis sa place; cosa di cui non era da dubitare anche prima della pubblicazione; ma che doveva sempre dar gusto e vendetta allegra di certi lazzi plebei.

Soltanto una cosa dava molestia ai collaboratori della Dora e ne amareggiava un pochino il trionfo. Quel francese del Candioli era maledettamente scorretto, ed essi da molte parti avevano udito farne l'appunto. Per contro, il signorino sosteneva che il giornale era tutto quanto scorretto; faute d'un bravo correttore che rivedesse le bozze di stampa. Ariberti gli teneva bordone; un correttore gli parea proprio necessario, attento, di buona volontà, e che si contentasse di poco, per non aggravare il bilancio della Dora. Questa fenice dei correttori il nostro Ariberti l'aveva già in pronto, e, sentendosi sostenuto dal Candioli, ne aveva anche detto il nome.

Tutti avevano fatto buon viso alla proposta, salvo il Ferrero, la cui gratitudine perseguitava Filippo Bertone fino al punto di non lasciargli guadagnare venti lire al mese. S'intende che Ferrero parlava in nome dell'economia. C'è sempre una ragione onesta, per commettere una bricconata. Che diamine! L'economia insegnava di andare cauti fino a tanto non ci fosse la vendita del giornale in rispondenza delle spese di stampa. Soltanto quando fosse raggiunto quel modestissimo scopo, si sarebbe potuto prendere il correttore, ed anche pagarlo un po' meglio; che quanto a lui lo avrebbe voluto coi fiocchi, dovesse anche costare un centinaio di lire. Frattanto, poichè non potevano spendersi neppure le venti, si lasciasse la proposta in sospeso e ognuno dei collaboratori pensasse a correggere con maggior diligenza le sue bozze, anche a tornarci su due o tre volte.

Per altro, il conte Candioli non era rimasto persuaso, et pour cause. Nel medesimo giorno egli aveva preso in disparte Nicolino… cioè, no, diciamo d'ora innanzi Ariberto Ariberti.

Est-ce que votre ami Berton connait le francais?

–Sicuramente; il povero giovane sa un po' di tutto, e quel poco lo sa bene, come tutti coloro che hanno dovuto imparare senza maestri.

Eh bien, fatelo venire domattina da me; c'intenderemo. Io non ho pazienza a rivedere le mie bozze di stampa. C'est une corvée, et mon état est de ne pas en faire.

Da questo discorso del Candidi coll'Ariberti ne avvenne che la prosa francese del contino nel secondo quaderno della Dora, uscisse stampata in forma cristiana. Ci si mostravano poi certe frasi, ci si rigiravano certe tournures, che il nobile autore non avea pur sognato di metterci. Ma egli si guardò bene dal protestare; che anzi!..

Ce pauvre Berton! mais savez-vouz qi'il a de l'intelligence?—aveva detto egli all'Ariberti in un impeto di entusiasmo.

In un altro di questi lucidi intervalli, il conte Candioli, che, per ragione della sua povera prosa, non isdegnava di salir qualche volta le scale d'un quinto piano in via Santa Teresa, aveva perfino tentato di far smettere a Filippo il suo venerando giubbone di color tabacco. Sventuratamente non l'aveva pigliata pel suo verso, e si era impuntato ad offrirgli i suoi spogli. Filippo Bertone non era orgoglioso più del bisogno, ma non vedeva ragione di romper fede al suo povero soprabito, per far sapere alla gente che indossava gli abiti smessi dal conte Candioli. Quanto poi a farsene fare di nuovi, come il suo mecenate gli propose da ultimo, profferendosi a pagarne la spesa, egli non ne vedeva ancora la necessità. In fondo in fondo, non voleva elemosina. Guadagnava venti lire al mese per mettere in buon francese il tunisino del signor conte, e per allora ne aveva di catti.

 

Tornando al giornale, se la prosa del Candioli cominciava, a passare, le liriche amatorie dell'Ariberti avevano dato a conoscere un poetino di garbo, una speranza nuova della patria, un astro nascente, e tutto quel che vorrete. Il nostro giovinetto entrava anche lui nell'orto della fama, così fieramente custodito dai draghi della critica, e vi gustava (dirò così per continuare la metafora seicentistica) i primi frutti della gloria, come sarebbe quello che Orazio ha espresso in un felicissimo verso, così recato in italiano da non so quale traduttore:

Ir mostro a dito e udirsi dire: è desso.

Una sera, per venire agli esempi, una sera egli era al teatro Regio, seduto nel suo scanno presso l'orchestra. Il nostro Ariberti non poteva già più contentarsi di rimanere in platea. La cosa era buona per un filosofo; ma per uno studente di legge, per un avvocato in erba, non poteva più andare. A fare questo gran cambiamento nelle sue consuetudini, mancavano, a dir vero, i quattrini; ma la necessità rende l'uomo ingegnoso. E per comodo dello studente in angustia, nacque lì per lì un avvocato che doveva partire da Torino, per andarsi ad allogare non so dove, e che non poteva portar seco tutta quanta la libreria. Gli autori utili, anzi necessari, che si potevano avere in quella occasione e a buon patto, erano molti, da Bortolo di Sassoferrato al Deluca, e da questo al Merlin, col Pardessus (avrebbe detto Candioli) par dessus le marché. In conseguenza di questa bella trovata erano venuti per la posta da Dogliani i denari dell'abbonamento alla sedia chiusa del Regio. E perciò avvenne che, quella sera di cui si parla, il sullodato astro nascente, in giubba a coda di rondine, petto di porcellana, e cappello a stiacciata, fosse visibile sull'orizzonte del Regio, dalle otto alle undici, in quella che un'altra e più vivida stella sfolgorava da un palchetto di seconda fila. Era essa, come il savio lettore avrà già indovinato, la bella marchesa di San Ginesio; la quale, pari a tutte le belle donne l'ultima volta che si sono vedute, era in quella sera più bella che mai.

Unico cavaliere (essendo lo spettacolo appena incominciato,) stava nel palchetto della marchesa di San Ginesio un signore di mezza età, che all'aria fredda e svogliata s'indovinava essere il marito. È notevole la cura che questi signori così largamente favoriti dal codice civile pongono a far conoscere i loro diritti ed in pari tempo la fiacchezza con cui sono disposti a difenderli. Pronti, ilari e pieni di smancerie, quando vanno in giro, aliando negli orti del prossimo, costoro vi appaiono stanchi, musoni, pieni di tedio, quando l'ufficio della accompagnatura li trattiene per poco a quattrocchi colle dolci metà. Quell'aria di olimpica noia par che dica alle genti: «Signori, se credono che io ci provi gusto a star qui, s'ingannano a partito; io mi divoro i miei proprii sbadigli, come Saturno i figliuoli. Vengano liberamente e vedranno come piglio il portante. Animo, dunque, en avant les cavaliers!»

Anche la signora moglie profitta di questo matrimoniale intermezzo, per cento atti e vezzi che non riguardano punto il suo annoiato compagno. Si prova due o tre volte sul cuscino; si rassetta la veste, perchè non istia troppo tirata, e perchè faccia agli occhi dei riguardanti un bel partito di pieghe; dà una guardata in giro alle prime file e una sbirciata alle ultime; sorride di compassione, al vedere qualche veste, o acconciatura, non più nuova fiammante; si morde il labbro dall'invidia, scorgendo una collana di diamanti o un paio di gocciole che sembrino deriderla coi mutevoli e sfolgoranti riflessi; solleva con grazia il binoccolo incrostato di madreperla e lo appunta su questo o su quel palchetto rivale, non senza lasciar cadere qualche occhiata in platea e nei posti distinti, dove il suo braccio mollemente appoggiato sul davanzale di velluto è fatto argomento di dotte considerazioni e di ascetiche contemplazioni da tutta una Tebaide di scapoli. Insomma, par che canti anche lei il suo verso: «Signori, non facciano caso, è mio marito; otto anni di matrimonio ci hanno ridotti così. Se il Codice non dicesse che la moglie deve seguire il marito, quando egli la accompagna a teatro, lor signori certamente non mi vedrebbero, vittima rassegnata, misurare i miei passi su quelli del mio sacrificatore. Animo, chi si fa innanzi a consolarci quest'ora di martirio?»

Qui per altro va fatta una restrizione. Se nel palchetto della marchesa di San Ginesio il signore di mezza età appariva alla sua aria svogliata il marito di quella Giunone, la signora dal canto suo non somigliava punto a quel tipo di moglie che ho tratteggiato pur dianzi. La marchesa di San Ginesio aveva dato a mala pena uno sguardo alla sala, nell'atto di sedersi al suo posto, ed essendo giunta in principio di spettacolo (cosa piuttosto rara, che molte altre dame non avrebbero ardito di fare) era rimasta intenta alla scena, e più ancora alla musica, senza pure voltarsi, o sogguardare colla coda dell'occhio, al ripetuto cigolare degli usci e al consecutivo fruscio delle sete e dei velluti, che esercitano durante il primo atto di una rappresentazione la pazienza del colto sì, ma pur qualche volta invelenito uditorio.

Alda di San Ginesio si curava poco del volgo profano che le stava dintorno e lo lasciava scorgere senza un ritegno al mondo. Tale per fermo dovette parere la regina di Cartagine a Jarba, quando costui, alla dimanda, del suo confidente: «Qual ti sembra, o signore?» rispose ammirato il suo metastasiano: «Superba e bella».

Difatti, ella era superba. Ma superba per vano orgoglio, o per gentile alterezza d'animo? Questo venìa domandando a sè stesso il giovine Ariberti, mentre, appuntando il binocolo a caso tre o quattro palchetti più indietro, stava di soppiatto ammirando le forme scultorie (è questa la frase moderna, e l'adopero anch'io senza scrupolo) della sua bella Giunone, che parte emergevano e parte trasparivano dai pizzi, dalle trine e da tutti gli altri intessuti nonnulla, di cui si copre la bellezza, ma senza troppo nascondersi.

Verso la fine del primo atto, l'uscio del palchetto che l'Ariberti non perdeva di vista si aperse, e il voltarsi leggermente che fecero le teste dei coniugi verso il fondo indicò l'arrivo di un visitatore. Le visite lassù erano la gran seccatura del nostro innamorato, che vedeva la marchesa costretta a rimaner lungamente colla faccia rivolta dall'altra banda, le spalle contro la parete, e la persona quasi nascosta a lui nella penombra del palchetto. Inoltre, chi erano essi e con quali intenzioni andavano, tutti quei bene inguantati Achei, a intrattenerla mezz'ora per ciascheduno di cento sciocchezze e a respirare la loro parte d'aria a due spanne dalla sua bocca? Fossero state dame, alla buon'ora; ma uomini!

Per questa volta, sebbene si trattasse di un uomo, l'Ariberti non uscì fuori dai gangheri. Era apparsa dal fondo e si illuminava beatamente in mezzo a quelle dei due coniugi la faccia gloriosa del contino Candioli; un paio di baffi biondi che andavano a smarrirsi nella cascata di due ventole bionde, uscenti senza soluzione di continuità da una bionda zazzera, spartita a mezzo il cranio e tagliata sui lati a punta di spazzola: poi, nei vani lasciati da questa ricca vegetazione di canapa, un fronte piccino e un paio d'occhietti grigi, un naso e un mento angolosetti anzi che no; a farla breve, un bel tipo di cagnolino inglese, che, coll'aiuto del parrucchiere e del sarto, ma più ancora per aver noi fatto l'occhio alla estetica nuova, può anche dirsi ai tempi nostri, un bel giovine.