Za darmo

La notte del Commendatore

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Talvolta si vergognava di quella sua vita disutile e sciocca, e borbottava una mezza protesta.—Amico mio,—gli diceva allora spietatamente la dama,—lasciate certi bollori alla gioventù; ricordatevi che avete già molti capegli bianchi.—

Ah sì, pur troppo, il guaio era quello; molti capegli bianchi. E come era egli giunto alla imbelle vecchiaia? Come aveva egli speso il suo tempo? Chiuso in un guscio, come la testuggine, foggiandosi attorno un mondo di piccole cose e di piccole consuetudini, vagando dall'una all'altra senza disegno, errando e pentendosi, vedendo il meglio ed appigliandosi al peggio, schiavo della fantasia che non aveva saputo sfruttare, indirizzandola ad una meta gloriosa e lontana, vittima del suo cuore, di cui aveva secondato la sensibilità morbosa senza saperla rinvigorire colla dignità del carattere, ricco d'ingegno e inoperoso, superbo e svogliato, uno dei centomila che partono pieni di baldanza dalla prima stazione e poi, per non aver misurate le forze, si stancano a mezza via e giacciono anelanti qua e là, su tutti i margini della strada. Insomma, non aveva saputo vivere come Filippo, che nell'amore e nello studio si era prefisso una meta e avrebbe potuto togliere ad impresa una bussola, col motto: aspicit unam; nè saputo imitare il filosofo giramondo, che sa il pregio mediocre della vita e la spende con giusta misura, viaggiando la buccia di melarancia su cui lo ha messo a vivere il fato, e rimpizzando il suo cervello di cognizioni, il suo cuore di sensazioni, il suo taccuino di note.

Vecchio! E non poter ritornare indietro! O non era dunque meglio finirla d'un tratto con una maturità disutile, e diventare decrepito a dirittura? Che cos'erano vent'anni di più, per un uomo giunto di là dai quaranta, e senza aver trovato la sua via? Il meglio lo aveva vissuto, non gli restava che il peggio.

CAPITOLO XXIII

Buon giorno ai lettori.

Il sole era già alto sull'orizzonte… Anzi, io posso dirvi, senza tanti preamboli, che erano le otto suonate, quando la signora Zita entrò nella camera da letto del signor commendatore.

Ordinariamente, soleva chiamarla egli stesso con una tiratina al campanello, la cui nappa pendeva di contro al muro, accanto al suo capezzale. La chiamata era di solito alle sette, fosse inverno od estate, perchè egli non misurava più il sonno secondo le stagioni, e ne schiacciava poco, in tutte le trecentosessantacinque notti dell'anno.

Quella mattina, per contro, il signor commendatore non aveva dato segno di vita; e la sua donna di governo, dopo essere stata un pezzo in orecchio, si era pur risoluta ad usare il suo diritto di vecchia granata di casa, andando a vedere co' suoi occhi che diavol fosse che aveva sconvolto l'ordine di natura, e fatto dormire il signor commendatore mezz'oretta di più.

Ora non fu poca la meraviglia, anzi lo stupore della signora Zita degnissima, quando vide il letto deserto e non ancora toccato. La povera donna strabiliò addirittura, allorquando, nel voltarsi a caso verso la finestra, gli venne veduto il padrone, ancora imbacuccato nella sua veste da camera, colle braccia abbandonate sulle ginocchia, il capo appoggiato contro la spalliera del sofà, le labbra e gli occhi semichiusi, tra il sonno e la veglia.

La chicchera del tè stava ancora sul tavolino, e il liquido che ci si vedeva ancora per entro, fin quasi all'orlo del vaso, mostrava chiaramente che il signor commendatore si era assopito dopo la prima sorsata.

–Gesummaria!—sclamò la signora Zita, giungendo le palme e levando gli occhi al soffitto, di là dal quale, dopo tutto, avrebbe trovato i casigliani del terzo piano.—Che sarà mai accaduto al padrone? Ah voglia il cielo che… Ma no,—proseguì dando una rifiatata di contentezza;—egli respira. Si sarà addormentato leggendo; di certo è così. Benedetti giornali! E adesso, che cosa si fa? L'ho a svegliare?—

Il signor commendatore non dormiva; vegliava, ma colla mente assonnata e senza aver coscienza di ciò che gli stava dintorno. Il fruscìo delle vesti di monna Zita e l'immagine di lei, che venne d'improvviso a pararglisi davanti, gli fecero spalancar gli occhi e tornare lo spirito alle cure del presente.

–Che è?—domando egli, scuotendosi.—Signora Zita, è proprio lei?

–Son io, signor padrone, son io. Ma come va? Non è andato a letto?

–Io? a letto? È vero; son qui sul sofà. Ma dica, siamo qui veramente? Io non mi ci raccapezzo, in verità.

–Ella è qui nella sua camera; non vede? Il letto è laggiù, non ancora toccato.

–È proprio vero. Che diamine sarà egli accaduto? Ed ho un freddo nell'ossa… un freddo!…

–Eh, si capisce; i caloriferi hanno lavorato fino a tanto che hanno potuto, e poi, buona notte. Ma cosa è stato, mi dica? Se mi avesse chiamato, Dio benedetto!

–Brava! Se ci avessi pensato, sarei anche andato a letto. Ma non ci ho pensato; ero in viaggio.

–In viaggio!—ripetè la signora Zita, inarcando le ciglia.

–Sicuro, in viaggio; ma non si spaventi, la prego. Non ero già a cavalcioni su d'un manico di scopa. Ero partito sull'ippogrifo della fantasia.

–L'ippogrifo! Che diavolo è?

–Ah, non lo conosce? È un quissimile del cavallo pegasèo. Ha capito? No? Metta allora che io abbia sognato ad occhi aperti.

–Manco male che si sveglia di buon umore!

–Sì, perchè no?—rispose il signor commendatore, che andava infilzando parole per mo' d'esperimento, quasi volesse sincerarsi che era ben lui che parlava.—Il guaio si è che non capisco nulla di ciò che mi è intervenuto stanotte…—

E pensava, frattanto, e cercava di cogliere il punto critico, la peripezia che c'era stata tra la sera e la notte, tra la sua vecchiaia e la sua giovinezza. In quel mezzo gli venne veduta la chicchera del tè, col liquido nereggiante per entro.

–Ecco il nappo della vita!—diss'egli.

E ricordando il sapore che vi aveva sentito la sera addietro, volle assaggiare il suo tè.

–Diamine! È amaro sempre.

–Ci ha messo lo zucchero?—entrò a domandare monna Zita, che non capiva una maledetta di quegli esperimenti.

–E chi ne sa niente? Può darsi benissimo che io lo abbia dimenticato.

–Non ce l'ha messo, difatti. Veda, la zuccheriera è colma.

–Ella ha ragione, signora Zita, ed io ho perduta la testa. Ma già—proseguì il signor commendatore, borbottandosela tra' denti,—se c'era lo zucchero, il nappo della vita mi pareva dolce, e il sortilegio correva ugualmente. Piuttosto, quella stecca falsa non era da diavolo autentico; ed io avrei ben dovuto avvedermene!—

La signora Zita, vedendolo almanaccare a quel modo, come un uomo che fa conti a mezza voce, pensò che gli avesse dato volta il cervello.

–Signor padrone, se provasse ad andarsene a letto….

–Sì, non dici male; mi leverò almeno il freddo dall'ossa. Su, vecchio arnese, compagno mio da tanti anni, che m'era parso di aver lasciato per istrada, come il serpente la scorza! Sono stato un ingrato, non c'è che dire, e tu se' capace di avertelo avuto a male. Non è vero, grinzoso compare? Ahimè, non torna giovine chi vuole, e il meglio è ancora di tenersi caro il suo asino, con tutti i suoi guidaleschi. Signora Zita, le pantofole! Bene, grazie; buon giorno a lei, e buona notte a me.

–Il padrone scherza coll'amaro in bocca;—disse la signora Zita tra sè, mentre usciva dalla camera per dargli tempo a spogliarsi.—Bisognerà mandare pel medico, che venga con un pretesto a vederlo.—

Intanto il signor commendatore si era posto a letto, e rannicchiato sotto le coltri cercava di scaldarsi le membra intirizzite. Quando il medico giunse nella sua camera, egli non aveva anche potuto pigliar sonno.

Era un medico coi fiocchi, un medico da principi, quello del commendatore Ariberti. Ma non dubitate, quantunque conte, rettore dell'università e professore di fama europea, egli non andava che al letto dei poveri e di un piccolo stuolo di amici, che si veniva assottigliando d'anno in anno.

–Tra i poveri son nato e non debbo dimenticarli; diceva egli.—Cogli —amici ho vissuto negli anni della florida salute, e mi piace non —perderli d'occhio, ora che incominciano ad aver bisogno di me.—

Da questo cenno il lettore ha già conosciuto Filippo Bertone.

–Or bene, che significa ciò? Vengo per invitarti a pranzo, e sento dalla signora Zita degnissima, che sei tornato poc'anzi di viaggio e che non hai dormito stanotte. Belle imprese, signorino! Come se aveste vent'anni!

–Li ho avuti per l'appunto stanotte;—rispose il commendatore Ariberti, sorridendo malinconicamente e stringendo la mano all'amico, mentre questi correva coll'altra a tastargli il polso.

–Ah, ah! siamo dunque stati nel paese dei sogni? Male, male;—notò il conte Filippo;—lo dice anche la chiesa:

 
Et mala mentis somnia
Et noctium phantasmata
 

Et noctium phantasmata!—ripetè, assentendo del capo, il signor commendatore.—Infatti, non ero mica addormentato, quando ho veduto…

–Che cosa? Raccontami.

–Sciocchezze, Filippo mio, visioni d'inferno.

–Appunto per questo hai da dirmi ogni cosa. Anche i sogni sono sintomatici in patologia.—

Ariberti si fece allora a raccontare per filo e per segno tutto quello che gli era occorso in quella notte memorabile, dall'apparizione del personaggio, invocato in un momento di sdegno, fino ai pentimenti della sua scontenta vecchiaia. Il conte Filippo, che era così spesso in ballo e si rivedeva come in uno specchio nelle memorie dell'amico, stette ad udirlo con molta attenzione, dimenticando a volte la sua condizione di medico, per seguire il racconto colla benevola curiosità dell'uditore commosso.

–Tu ci hai avuto una allucinazione in piena forma;—diss'egli ad Ariberti, poichè questi ebbe finito.—Il tuo sistema nervoso è fortemente irritato, e bisognerà rimediarci.

–Venga il rimedio, se il mio povero sistema ne franca la spesa;—rispose Ariberti, sorridendo malinconicamente.—Ma una cosa mi sa di strano, e ancora non riesco ad intenderla; come in nove, o dieci ore…

 

–Ti sia passata tanto roba per le mani, vuoi dire? Ma bada, Ariberto, non è mica necessario che tu abbia rifatto in questo piccolo spazio di tempo tutto il cammino fornito in quarantanni di vita operosa. I casi trascorsi ti sono passati per la fantasia, come fanno le immagini sui vetri d'una lanterna magica. Del resto, i più recenti studi dell'Accademia di Francia, hanno posto in sodo che i sogni, anco i più lunghi, avvengono nell'ultimo periodo del sonno, cioè a dire quando il sangue incomincia a rifluire verso il cervello, per rinnovare tutti i fenomeni della vita sensitiva. Ai nostri tempi il sonno era creduto una forma di congestione cerebrale: ed è invece tutto all'opposto. Non ti faccia dunque meraviglia se queste immagini del passato, così lunghe a ricordarsi, per l'uomo desto, nella loro progressione ordinata, siano invece così veloci e mutevoli per l'uomo dormente, o allucinato. Non impacciati dai necessarii ritardi dalla parola e del moto, i tuoi nervi hanno adempiuto in breve al loro duplice uffizio, attivo e passivo, e tu hai potuto vedere ed operare, senza durar la fatica inerente a questi due atti. Vedi, ti spiego alla buona gli arcani della scienza; lascio da banda tutte le parole barbare, che te la renderebbero più autorevole nella sua oscurità.

–Tu sei il Boccadoro;—disse di rimando Ariberti. A me rincresce —soltanto d'una cosa…

–E quale?

–Che il diavolo m'abbia giuntato. Scambio di farmi vivere una vita nuova; m'ha fatto perdere il tempo a riviver la vecchia.

–Mio buon amico, che farci? Alla tua età, come alla mia, il diavolo non suol più venire, per rimetterci un po' di zolfo nelle vene. Del resto, io non mi lagnerei del tiro; il mio passato lo rivivrei tanto volentieri!

–Beato te, Filippo, che hai preso di primo acchito la, strada buona! Hai lavorato indefessamente e sei diventato un uomo di vaglia; hai amato un donna che è stata il tuo angelo custode; non ti sei indugiato di qua e di là; mentre io…

–Mentre tu hai troppo fantasticato e meno operato. È poi un gran male quando i risultati hanno ad essere gli stessi? Te lo ha cantato Orazio, che la sapeva lunga: Omnes eodem cogimur; andiamo tutti ad una meta.

–Tu vuoi consolarmi,—notò Ariberti,—e dici quel che non pensi.

–Non guardar troppo nel sottile;—replicò Filippo, che si sentiva stretto tra l'uscio e il muro.—Dopo tutto, rispondi a me; riuscendo tutti ad un fine, non ci parrà forse a tutti di aver perduto una parte del nostro tempo in opere vane, e non ci dorrà a tutti di aver tralasciato di far la tal cosa e la tal'altra? Segno che questo granellino di sabbia lanciato nello spazio era ancora troppo grande per noi. E nota che lo va diventando sempre più a mano a mano che l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo ci svelano nuove parti di sè, e i materiali della storia, dell'osservazione e dello studio, si accrescono. Dunque siamo intesi, oggi tu sei a pranzo da noi?

–Ma… e non scrivi nessuna ricetta? La signora Zita ti piglierà per un medico da dozzina.

–Lascia fare. Ai rimedi penseremo più tardi. Del resto, ti tratteremo da ammalato. Il mio cuoco ci ha in testa tutto il ricettario di Galeno.

–Mio buon Filippo,—sclamò Ariberti, stringendo la mano del medico tra le sue,—almeno se la gioventù e gli amori sono volati via, l'amicizia rimane.

–Ma sì, per bacco! E poi rimane ancora dell'altro; per esempio, la coscienza;

 
La buona compagnia che l'uom francheggia
Sotto l'usbergo del sentirsi pura.
 

Vedi dunque di dormire un paio d'ore, e che non venga più il maligno a darti noia. Anzi, prima di andarmene, ti fo un bel crocione sull'uscio. Vade retro, Satana; qui si vorrebbe schiacciare una dormita.—

Il conte Filippo Bertone uscì, e il signor commendatore, dopo essersi voltato sul fianco buono, si pigliò un sonno che aveva pur meritato.

Lettori, svegliatevi voi.

FINE