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La notte del Commendatore

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Queste malinconie gli stettero chiuse in petto per due o tre giorni; finalmente vennero fuori. Ed ebbe il torto a lasciarsele sfuggire, perchè la marchesa Clementina ne fece le più matte risa del mondo.—Oh bella! gli disse: v'intendete anche di musica! E quando mai mi avete portate le novità degli editori di Milano, di Parigi o di Vienna, perchè io potessi sapere che anche questo era affar vostro? Amico mio, non facciamo bambinerie; la cura di portarmi un quaderno di musica, o un giornale di mode, va lasciata a questi cavalierini senza importanza, che dopo tutto non saprebbero far altro. Voi, curate la vostra dignità d'uomo politico, e pensate a far dei discorsi alla Camera.—

Queste ragioni non persuadevano molto Ariberti, il quale, incocciato nella sua tesi, le sciorinò la teorica delle lune. Ed ella, non sapendo più che cosa rispondere, s'appigliò al comodo espediente di andare in collera. Per la prima volta furono dette da una parte e dall'altra delle parole pungenti; a lei venne il mal di capo; egli prese il cappello e la seduta fu sciolta senz'altro.

La sera, l'ufficialino doveva andare dalla marchesa per provare la musica. È naturale, quando la musica c'è, bisogna provarla. Ma quella sera la marchesa Clementina ci aveva i nervi e la musica dormì sul cembalo. La conversazione languiva, e il giovinotto, che era un compito cavaliere, dopo una mezz'ora di chiacchiere, in cui non aveva lasciato trapelare il menomo malumore, si accomiatò. Ariberti, che era presente, fu grato a lui della partenza, a lei del mal di nervi, che gli era parso simulato; per altro, quando vide che la signora stava grossa con lui, tornò a fare quello che aveva fatto nel giorno, ripigliò il cappello, e via, un'ora prima del solito.

–Evidentemente il torto è mio;–pensava egli, scendendo le scale.—Il giovinotto è più gentile e più tranquillo di me, e Clementina non tralascerà di farne il raffronto a mio danno. A mio danno, capite? perchè io non ci ho il cuore in pace, come quell'altro. Non c'è che dire; le donne non amano gli innamorati per davvero. Li vogliono amanti, sì, ma riveduti, corretti e passati allo staccio della galanteria.—

E si adirava, così pensando, ma senza un costrutto al mondo. Romperla non voleva, piegarsi non sapeva; e frattanto si beccava il cervello. Ma da quel giorno incominciò a non veder più così brutti i consigli del tentatore, e ciò che prima gli sarebbe parso una viltà, venne a parergli uno stratagemma, degno di Annibale o di Giulio Cesare.

Il ministero ebbe il suo oratore per niente o quasi meno di niente. Figuratevi che a fare dell'onorevole Ariberti un ministeriale fradicio, bastò… mi vergogno a dirlo… bastò… insomma, poichè la debolezza è sua e la verità non si deve tacere, dirò chiaramente che bastò un cambiamento di guarnigione.

Infine, o che male c'era? Il leggiadro alunno di Marte non insidiava forse la sua pace? E non aveva forse veduto che il posto era preso? L'andava dunque da galeotto a marinaro. Quegli aveva scavato la mina, ed egli la contromina. Non si trattava adunque d'altro, che d'una astuzia di guerra. Almeno, il nostro eroe la gabellava per tale, forse per soffocare il rimorso.

Del resto, se è vero che è bene quel che riesce bene, nessuna cosa potrebbe dirsi migliore di quella perchè fu fatta con una prontezza singolare e non diede argomento a sospetti. E tuttavia Ariberti non aveva la coscienza tranquilla; di guisa che volle sentire l'opinione del suo amico Filippo, la cui rettitudine andava di pari passo colla umanità, nel senso antico, e dirò così, terenziano del vocabolo.

–-Male,—gli disse Filippo, appena ebbe udito il bel colpo del suo vecchio compagno;—tu hai commesso… scusami, sai?…

–-Oh, dillo pure liberamente, una viltà. Me lo aveva già detto la mia coscienza.

–Vedi? E il peggio si è, che ne commetterai delle altre.

–Oh, questo, poi…

–Sì, pur troppo, senza avvedertene e per avertene a pentire dopo il fatto. Perchè il male, amico mio, sta in questo, che ella non era donna per te, come tu forse non eri uomo per lei. Vi siete veduti e amati a occhio, senza conoscervi addentro l'un l'altro. Ora io penso che a questo modo possano incontrarsi benissimo le comete, ognuna delle quali ha poi da seguitare la sua strada, non due creature umane, che hanno da vivere insieme la bellezza di tante giornate, e, se Dio vuole, anche di tante olimpiadi. Siete troppo diversi d'indole e di consuetudini; io lo aveva già indovinato. Tu hai forse ragione a lagnarti di lei, che non si mostra austera come tu la vorresti; ma volta la carta, come dice il giuoco de' bambini, e vedrai che ella non ha tutti i torti, se pensa che tu non ti pieghi alle sue consuetudini e non ti fai abbastanza giovane per lei.

–Pur troppo non lo sono più!—disse Ariberti sospirando.

–Non è in questo senso, che io adoperavo il vocabolo. Dicevo che tu non hai voluto, o saputo, inchinarti alla sua misura, acconciarti alle sue abitudini. Amico mio, la donna e l'uomo non sono già due mulini che possano macinar sempre amore, per tutte le ventiquattro ore del giorno. I cuori, più particolarmente incaricati di questo gratissimo ufficio, hanno mestieri delle loro fermate; e i loro padroni, oltre il nutrirsi e il dormire, fanno altre cose parecchie nel mondo. Tu, per esempio, fai il deputato, ed essa fa la gran dama; tu hai l'ambizione, che è la vanità delle cose reputate grandi; essa la vanità, che è l'ambizione delle cose credute piccole. Dimmi su; oggi, dopo qualche anno di incontrastato possesso, sei tu forse quello dei primi giorni? Vivi al suo fianco, ti sente ella vicino a sè, dovunque ella vada e qualunque cosa ella faccia? Capisco che quello era un gittar via il tempo alla grande; ma infine, tu non lo perdi più, come prima.

–Sicuro!—notò con amarezza Ariberti.—C'è un altro che lo può perdere… se pure è vero che lo perda.

–Ma! che debbo dirtene io? Pur troppo la va così. La dama vorrà bene mettere a frutto le sue ore bruciate. E quando tu non fossi più… quel che sei, e fosse un altro, un successore, in tua vece, credi pure che gli accadrebbe lo stesso; e così via via ad altri parecchi, fino all'ultimo della discendenza, sotto il cui regno stracco se ne partano i grilli dal capo, e sottentrino altre cure, od altre debolezze.—

Al nostro geloso quella diagnosi amatoria piaceva poco, quantunque la sentisse in cuor suo profondamente vera. Tutta quella fila di successori gli dava maledettamente sui nervi, come a Macbeth la discendenza di Banquo, veduta attraverso lo specchio magico, nella caverna delle streghe.

–Parli per tua esperienza?—chiese egli, con accento da cui traspariva l'umor piccoso della bestia.

Filippo lo guardò un tratto nel mezzo degli occhi, come per sincerarsi se era lui che parlava, e se parlava da senno.

–Ecco una cattiveria;—diss'egli finalmente;—una delle male pieghe del tuo spirito.

–Eh via! L'hai presa sul serio? Ritiro la frase.

–Sta bene; ma sappi, a tua confusione, che le malattie morali, come le fisiche, io le studio sugli altri.—

Filippo aveva ragione. Il suo amico Ariberti, commessa quella prima viltà, ne fece altre ed altre in buon dato. Oramai sullo sdrucciolo c'era. Da principio gli parve di aver sospettato a torto, perchè la marchesa non si era punto turbata per quel fulmine a ciel sereno della partenza dell'artigliere. Ed anche questi era tranquillo, sereno, ilare, quasi; scherzava intorno al suo allontanamento da Torino, come avrebbe scherzato su d'una perdita al giuoco, che può dare un pochino di noia, ma che non deve offuscare lo spirito d'un gentiluomo. Gli rincresceva sicuramente della buona società a cui gli era mestieri di rinunziare; ma anche questo rammarico lo si vedeva cincischiato, lì, a fior di labbra, un po' per complimento, un po' per abitudine d'infilzar parole e tener vivo il discorso.

Così tranquillo, lui, quel vagheggino tutto vezzi, occhiate e sospiri! Ariberti non sapeva che pensare di tutta quella serenità; e ci fu un momento che gli passarono per la fantasia certi dubbi, di commedia, di tradimento, e che so io, donde la figura della marchesa Clementina gli usciva appannata non poco. Se non che, la simulazione si tradisce qualche volta, e l'umore dell'ufficialino, nei quindici giorni che rimase ancora a Torino, vedendo la marchesa coll'usata frequenza, non lasciò trasparire nessun mutamento. E allora i sospetti si dileguarono; Ariberti si persuase davvero di aver preso una cantonata.

Ma ohimè, come potete argomentare, i suoi mali non erano finiti; anzi, se debbo dirvela schietta, erano a mala pena incominciati. Rimosso il primo pericolo, ne sopravvenne un secondo. È nell'indole del secondo di venir sempre dopo il primo, come è in quella del primo di presupporre mai sempre un secondo. Ora, il secondo pericolo di Ariberti fu un celebre tenore, che faceva andare in visibilio la gente e stemperarsi per dolcezza infinita il sesso più debole. Non bastò che il tenore mandasse Clementina in broda di giuggiole col suo «A te, o cara, amor talora» dai lumi della ribalta; fu mestieri che, grazie all'esempio dato dalle più audaci regine dalla moda, il gentil Puritano andasse a ripetere i suoi prodigi un po' più da vicino, e proprio nel salotto della signora marchesa.

Come seppe di quell'invito, l'onorevole Ariberti perdette il lume degli occhi e fece uno sproposito. Vo' dire che le rimproverò l'ammissione del cantante in sua casa; e, poichè era avviato, non tacque il dispiacere che gli cagionavano tutti i farfalloni che ella riceveva di continuo, tutti gli adoratori che ella degnava di uno sguardo e via discorrendo, come coi chicchi del rosario. E avendo ella risposto tra l'altre cose che il bello è il bello e deve piacere a tutti, al nostro geloso gli venne sulle labbra il nome di certa imperatrice romana, che doveva aver detto, o pensato, qualcosa di simigliante.

Maledetta erudizione! Non hanno mica torto le donne a non volersi impacciare coi dotti.

 

La marchesa Clementina, che ci era cascata, rizzò a quelle parole la sua testolina di serpe, e con voce sibilante dallo sdegno, saettò sull'impertinente una frase, che sapeva un po' di francese, ma più ancora di pepe.

–Siete un miserabile.—

CAPITOLO XXII

Nel quale è dimostrato che a quarant'anni non se ne hanno più venti.

Era questa la risposta che egli si meritava? Alcuni diranno di sì, altri di no; il narratore non ardisce dare un giudizio. In dubiis abstine.

Certo, era questa una brutta chiusa all'amor suo. Ariberti non aveva, come suol dirsi, un'anima di ferro; appariva anzi uno spirito debole, sempre dubbioso tra due partiti, sempre vagabondo tra mille pensieri; e questo assai più per esuberanza di fantasia, che non per vera fiacchezza d'indole. Or dunque, i suoi momenti di dignità li aveva anco lui; un po' teatrali, se volete, ma appunto per ciò maggiormente notevoli.

Si alzò, comprimendosi il petto che pareva volesse scoppiargli dalla rabbia improvvisa, e muto, guardando la marchesa con occhio in cui si dipingeva tutta la nobile tristezza di un cuore offeso che non usa vendicarsi contro una donna, fece un profondo inchino e si allontanò.

Sperava fino all'uscio, che una voce lo richiamasse; poi sperò fino all'anticamera; ma invano; Clementina lo lasciava partire, e, a giudicarne dalle parole corse tra loro, forse per sempre. Ma anche la marchesa era accasciata sotto il peso delle parole che aveva profferite in quell'impeto subitaneo di sdegno. Epperò non fece, non tentò nulla per richiamarlo; non pensò neppure, io credo, che la cosa fosse da farsi e che il non farla potesse aver conseguenze così gravi. Ed egli uscì non trattenuto, scese le scale, varcò la soglia del portone e si trovò, quasi senza saper come, in istrada.

Andava oltre, davanti a sè, ignaro di ciò che faceva, come di ciò che aveva dintorno. L'anima nostra ha qualche volta di tali offuscamenti, per cui non è più presente a sè stessa. Così giunse passo passo fino al ponte sul Po, dove il rumoreggiar dell'acqua contro le pile valse a destarlo da quel suo stordimento.

Tutto era dunque finito? Clementina aveva dunque dimenticato ogni cosa, per cogliere un pretesto, il primo che le era capitato, e liberarsi da lui? Imperocchè quello era stato un pretesto e nulla più; la donna che ama davvero, sa anche soffrire una acerba parola, e aspettare che le si renda giustizia. Egli era geloso, ma sincero amatore. Il difetto non faceva egli testimonianza della qualità? Amava molto, sentiva profondamente; questo era il suo male. Epperò, mentre a tutt'altri quell'avventura sarebbe parsa alla più trista una chiusa di capitolo di romanzo della vita, a lui pareva a dirittura la fine.

Ora, come sarebbe egli quind'innanzi vissuto? In verità, non ne sapeva nulla; ci vedeva buio, e non ardiva fermarcisi su. Andò in quella vece a piangere dall'amico, non già per consolazioni che ne aspettasse, ma per necessità d'uno sfogo.

–Tu hai parlato troppo liberamente;—gli disse Filippo, dopo che ebbe udito ogni cosa.—Per altro se hai avuto torto nella forma, hai ragione nella sostanza. Non so veramente a che ti possano servire queste mie distinzioni; ma sento il bisogno di farle. Sii uomo, alla perfine, e cerca di distrarti. Che ti pare d'un viaggetto fuori dello Stato? Se hai la forza di sottrarti all'influsso di quest'aria e di queste consuetudini, sei salvo; se no, con quella tua sensibilità soverchia, mi caschi ammalato da senno.

–Sì, dici bene; vedrò;—rispose Ariberti.

Ma non ebbe la forza di seguire il consiglio. Per due giorni intieri aspettò una lettera che non veniva mai, quantunque ad ogni tratto interrogasse ansiosamente il suo portinaio, che ebbe a pigliarlo per matto. Al terzo giorno incominciò a passeggiare nei pressi della casa di Clementina. Al quinto, salì vilmente le scale e suonò il campanello.

La marchesa non era a Torino.

–E dove?—chiese Ariberti al servitore, che gli aveva data quella strana notizia.

–A Rocca Vignale; è partita ier l'altro.—

A Rocca Vignale, e in principio di primavera, lei, che ricusava di andarci nella calda stagione! Dopo tutto,—pensò Ariberti, che aveva sempre davanti agli occhi la cagione dell'alterco,—il mio tenore è servito a dovere.

–E dimmi,–proseguì ad alta voce,—rimarrà molto laggiù?

–Non ha detto nulla; ma credo che rimarrà pochi giorni, perchè ha preso con sè solamente la Luisa e l'Aristide.—

La Luisa, come avete già indovinato, era la cameriera; quanto al secondo, che rispondeva al glorioso nome di Aristide, non era altri che lo staffiere, ed io ho il rammarico di non sapervi dire se fosse incorruttibile come il suo omonimo ateniese.

Ariberti aveva potuto ottenere quei ragguagli per la grande entratura sua in quella casa e per l'antico ossequio ond'era circondato da tutti i servitori della marchesa. Ma anche con tutti quei ragguagli, il nostro eroe non ne capiva un'acca. Gli passò per la mente il disegno di andare a Rocca Vignale; ma con qual pretesto, e con qual fronte, si sarebbe presentato laggiù? Mulinò, almanaccò tutto quel giorno, ma senza trovarci il verso, e quella sera stessa aveva la febbre, una febbre violenta che lo ridusse a letto e diede uno spavento indicibile alla sua donna di governo, che mandò tosto pel medico.

Non vi racconterò la malattia, che fu lunga, ed ebbe il suo periodo acuto, durante il quale Filippo Bertone non si tenne niente sicuro di vincerla. Ma potè finalmente la natura, poterono le cure amorevoli, potè la presenza di una fata gentile, che vegliava lunghe ore del giorno al capezzale dell'infermo.

Egli la vedeva ad intervalli, e figgeva in quel volto soave i suoi occhi smarriti, senza intendere come mai ella si trovasse là, accanto al suo letto, e credendola a volte una visione della sua giovinezza. Ma non era quella una vana apparenza, una forma fantastica richiamata dal suo cervello indebolito; era lei, proprio lei, la marchesa di San Gi… cioè, no, dico male, la contessa Bertone, poichè, nella congiuntura delle sue nozze recenti, Filippo, il gran medico, il professore insigne, era stato fatto conte, e mai titolo di nobiltà doveva essere meglio portato, in una società che crede ancora, e crederà per un pezzo, a queste anticaglie.

Le quali, del resto, non fanno male a nessuno, e accortamente svecchiate secondo il merito degli uomini, non già secondo la somma di danaro che possono spendere, potrebbero anche aiutar meglio ad uguagliare gli uomini, innalzandoli, che non abbiano fatto finora tante belle teoriche, rimaste in sospeso e soggette a revisione.

Assistito dagli angioli dell'amicizia, Ariberti risanò. La vicinanza di quella donna, che egli aveva amata tanto e odiata a' suoi tempi, per venerarla più tardi come l'esemplare delle gentildonne, bella ancora a malgrado degli anni in tanta copia cresciuti, amorevole con lui come coll'amico e fratello dell'uomo prescelto da lei, quella vicinanza, io dico, rialzò lo spirito abbattuto di Ariberti, consolò di qualche più lieta immagine i suoi giorni di convalescenza e gli riaperse il cuore alla speranza, a questo fiore gentile, ospite assiduo della casa nostra, così restìo sempre a morire sotto il rovaio e le brine, così facile a rinascere col primo raggio di sole.

Per altro, se gli tornò il sentimento della vita, gli tornarono anche le malinconie, i desiderii e gli spasimi, che fanno corteggio alla esistenza. La vista di quella coppia affettuosa gli era cara ad un tempo e molesta. Erano due felici, quelli che stavano con tanto amore al suo fianco. Non lo mostravano; anzi, in presenza di lui, si parlavano a mala pena, e quel poco era tutto rivolto all'amico sofferente. Ma il trovarsi ambedue là, quel grand'uomo e quella gran dama, intesi ad un'opera di schietta carità fraterna, non chiariva egli abbastanza la piena concordanza delle loro anime elette?

Gran forza, nel mondo, il vincolo di due cuori innamorati! E lui, solo, pur troppo, disperatamente solo! Imperocchè, oramai, la sua vita era spezzata. All'età sua non si ricominciava da capo. Clementina! Clementina! E quel nome e quella immagine gli stavano sempre dinanzi.

Nessuno l'aveva nominata. Filippo faceva ogni poter suo per non richiamarla, anche di straforo, alla mente del suo povero Ariberti. Ma nessuna cura di prudente amico bastava a dissipare quell'altra, assidua e dolorosa, che gli stava nell'anima. Avrebbe voluto chiedere di quella donna, ma la fermezza di carattere del suo amico Filippo lo metteva in suggezione. Non era egli forse un atto di debolezza il pensare a quella donna che lo aveva trattato con tanta noncuranza?

E tuttavia gira e rigira, quando finalmente il suo medico gli consigliò di mutar aria per assicurare la sua convalescenza, Ariberti sentì che non avrebbe potuto partire senza vederla. Era una viltà la sua; ma infine, chi non è stato vile almeno una volta in amore?

Gli angioli dell'amicizia non erano ad assisterlo. Egli afferrò la penna, e, pieno di speranza e di timore, di desiderio e di vergogna, scrisse un viglietto alla marchesa di Rocca Vignale

«Clementina,

«Sono stato molto male, e ancora non ho potuto uscire di casa. Che fate voi? Mi avete perdonato? Io vi ho veduta tante volte, benigna e sorridente apparizione, attraverso i vaneggiamenti della febbre, che spero di sì. Il cuore non inganna; e il mio è tutto pieno di voi.

«ARIBERTO»

Dopo che ebbe scritto e suggellato il foglio, chiamò il servitore.

–Questa lettera alla marchesa di Rocca Vignale. Se la marchesa è in città, bene; se no riporta la lettera, che la manderò per la posta.—

Il dado era tratto. In quell'ora si decideva della sua sorte. Che cosa avrebbe pensato Clementina, ricevendo il viglietto? Gli avrebbe risposto? Lo avrebbe incoraggiato a tornare da lei? Come gli parve lungo il tempo, che dovea mettere il servo ad andare e tornare! Finalmente egli giunse. Non era stato più di mezz'ora, e ad Ariberti era parso già un secolo.

–Orbene? Era a Torino?

–Sì signore; ho consegnato la lettera all'Aristide, e m'ha detto che la rimetteva subito nelle mani della signora marchesa, che ancora non era uscita di casa.—

Le ansie d'Ariberti cominciavano allora. La marchesa aveva letto il foglio e ci pensava su, se forse, in un momento di collera, non lo aveva fatto a pezzi e gittato sul fuoco del suo caminetto. Ed egli andava cercando di ricomporne le frasi nella sua mente, ed ora si pentiva di non averle scritto più umilmente appassionato, ora di non avere usato uno stile più cerimonioso e tranquillo. E frattanto, nessuna risposta. Due ore, tre ore, passarono in quella aspettazione angosciosa. Forse era giorno di visite? No, era un martedì, e la marchesa non riceveva che le mattine del giovedì. Ma forse doveva andar lei in qualche luogo, per qualche obbligo da cui non avesse potuto liberarsi. Certo, era così, non poteva essere altrimenti; ma in fine, due righe erano presto mandate, e non ci voleva una gran fatica a scriverle. Insomma, il nostro convalescente era inquieto, e quando Filippo tornò da lui, lo trovò colla febbre.

–Mi rincresce,—gli disse Bertone, dopo avergli tastato il polso,—perchè volevo darti una notizia…

–Quale? che cos'è!—saltò su gridando Ariberti. Te ne prego, non mi —tener sulla corda.

–Che furia! Aspetta un pochino, e preparati a stare allegro. Ho incontrato poc'anzi una signora…

–Lei!

–Sì, lei; ma chetati! Non si piglia mica la felicità d'assalto, come un ridotto nemico. Disponiamoci all'evento, mentre io ti racconto ogni cosa in ordine. Ho veduto la sua carrozza qui sotto. Ella scendeva, mentre io stavo per infilare il portone. Mi ha chiamato, ha voluto saper tutto, ed io le ho raccontato ogni cosa appuntino. Insomma, son diventato un confidente in piena forma, e voglio mettere sull'uscio di casa mia un cartello, che dica così: «Il conte Bertone, amico patentato, dà consigli gratuiti e fa le paci tra gli innamorati alle rotte».—

Ariberti sapeva benissimo che cosa pensare dei meriti di Filippo in questa pace. La marchesa non aveva detto all'amico di aver ricevuto il viglietto, e questo gli risparmiava un po' di vergogna. Clementina aveva in quella vece raccontato che, tornata il giorno innanzi dalle Langhe, aspettava la visita del suo onorevole amico, e soltanto da un giornale aveva ricevuto la notizia della convalescenza, prima di sapere che ci fosse stata la malattia. Perciò era corsa subito, non badando neppure a quello che avrebbero potuto pensare i torinesi, vedendo la sua nota livrea all'uscio di strada dell'onorevole Ariberti.

–Donna divina!—pensò il nostro eroe, con quella medesima facilità impetuosa con cui qualche settimana prima aveva pensato e detto ben altro.

 

–E adesso,—ripigliò Filippo Bertone,—appòggiati al mio braccio e andiamo nel salotto, dove ella ti attende. Non ho voluto farla entrar qui, per non farti, cadere in deliquio.

–Amico mio, non mi sono mai sentito così forte come oggi.

–Ah sì? e frattanto ti tremano le gambe. Tienti al mio braccio, ti dico.—

Ariberti obbedì, perchè infatti la commozione non gli consentiva di far la strada da sè.

–Andiamo dunque;—pensava in quel mentre Filippo;—così l'aveva a finire. Il mio amico non è nato della schiatta dei forti. Al dolore non sa resistere, la gioia lo abbatte, i saldi propositi lo spaventano; segue il filo della vita come vuole la fortuna, vede il meglio e lo approva, per attenersi al peggiore partito. Conduciamolo dunque dalla marchesa Clementina, poichè non c'è altro a farne di lui, «e naufragar gli è dolce in questo mare».—

La marchesa era seduta su d'un canapè, colla testa appoggiata contro la spalliera e le braccia abbandonate sulle ginocchia, in atto di persona stanca. Al rumore dei passi di Ariberti e del suo amico Filippo, si scosse e tentò di alzarsi per muovergli incontro; ma Ariberti non le diè tempo a farlo, perchè spiccatosi dal braccio di Filippo, corse barcollando verso di lei e si lasciò cader ginocchioni a' suoi piedi, dando, com'era richiesto dalla circostanza, in uno scoppio di pianto.

–Ah, vedi? io te l'avevo pur detto, che non ti puoi reggere ancora da solo;—gridò Filippo, per attenuare le difficoltà di quella critica scena.—Signora marchesa, il mio amico ha molto sofferto; ma speriamo che andrà da oggi in poi ricuperando le forze. La bellezza e la grazia hanno più potere in cotesto, di tutti i medici dei due emisferi.—

La marchesa Clementina si fece rossa in volto come una fragola, e chinò la fronte con atto leggiadro, che poteva interpretarsi per un ringraziamento e per un moto di verecondia.

–Signor conte,—diss'ella poscia, cercando di ricondurre il discorso al convalescente;—non le parrebbe che un po' d'aria dei nostri monti…

–Ottimo pensiero!—rispose prontamente Filippo, che si era inchinato a sua volta per quella delicatissima allusione alla recente contèa.

–Gli avevo per l'appunto consigliato un viaggio; ma il buon Ariberto non si mostrava molto propenso ad obbedirmi.

–Obbedirà, non dubiti, obbedirà;—ripigliò la marchesa, colla asseveranza di una donna che sa il poter suo;—l'amicizia ha diritti incontrastabili. Dico bene, signor legislatore?—

Ariberti sorrise ed assentì con un cenno del capo.

–Benissimo;—continuò la marchesa;—sappia dunque, signor Ariberti, che tutto rifiorisce a Rocca Vignale, dove ho passato due settimane, per mettere quella bicocca in assetto. Dio mio, ce n'è voluto; ma infine, credo di averla resa abitabile, e la castellana potrà esercitarvi non indegnamente gli uffici della ospitalità verso un pellegrino come Lei. Voglio credere almeno che non mi farà il torto di posporre Rocca Vignale a Dogliani.—

L'invito non poteva non essere accettato. Non era forse Clementina la signora del suo cuore? Del resto, niente lo chiamava più alla sua casa di Dogliani. Da qualche anno il signor Amedeo aveva pagato il suo tributo alla terra e riposava accanto alla diletta compagna della sua giovinezza. Perciò Ariberti, che già aveva accettato col gesto, stava per aggiungere alcune parole di ringraziamento, molto compassate ed analoghe alla circostanza. Ma Filippo non era più là, per servirgli da uditorio, ed Ariberti lasciò la retorica e l'etichetta da banda, per afferrare la mano della marchesa e imprimervi il più ardente dei baci.

–Siete sempre un fanciullo; il mio bel fanciullo;—soggiunse Clementina, senza ritrarre la mano, ma cercando di rimetterlo a posto sul canapè, dond'egli si era mosso per cadere di bel nuovo ai suoi piedi.—Adesso, amico mio, pensate a risanare; lo voglio. E badate, vo' che risani anche lo spirito, perchè, qualche volta mi esce di riga.

–Oh, perdono… perdono…—mormorò egli, nascondendo la fronte nelle pieghe della veste di lei.

–Animo, via,—interruppe Clementina;—non parliamo più del passato. Voglio vedervi d'ora in poi ragionevole; a questi patti io sarò sempre quella di prima.—

Così, com'io ve l'ho raccontato minutamente, l'onorevole Ariberti, bambino quadragenario, rientrò nelle grazie della marchesa, e ridivenne il suo umilissimo servitore, anzi il suo schiavo negro, se mi consentite la frase. Visse a Rocca Vignale una trentina di giorni, ma senza curarsi gran fatto della bellezza dei campi e del cielo. Ogni bellezza era in lei. E laggiù, in quella solitudine, gli era sembrato di star bene, perchè quella donna doveva essere più sua che non altrove; ma, ben presto quei luoghi gli vennero in uggia, vedendo tutti gli uffici di castellana a cui la marchesa adempiva, e dovendo mandar dal profondo dell'anima a tutti i diavoli il sindaco, il parroco, il medico condotto e gli altri notabili della terra, che troppo spesso gli rubavano la sperata dolcezza degli amorosi colloqui.

Poi, si tornò alla capitale, e l'onorevole Ariberti si sorbì un altro poco di vita parlamentare. Si era per fortuna agli sgoccioli, e, poco dopo, la sessione fu chiusa. Cominciate le vacanze, nè la marchesa parlò di andare da capo nelle Langhe, nè egli si pigliò la briga di accennarvi, nemmeno alla lontana. Andarono in quella vece a certi bagni riputati di Francia, e il nostro eroe passò l'estate seguitando la signora su tutte le strade maestre di quel vicino paese, e dalla Svizzera per giunta, reggendo sul braccio uno scialle, e facendo il viso umano a tutti i segretari di legazione e addetti militari d'ambasciata, che per sua dannazione giravan in lungo ed in largo l'Europa. C'erano giorni che il poverino si credeva un marito e andava chiedendo tra sè in qual chiesa lo avessero gabellato per tale.

–Amico mio, siate ragionevole;—gli bisbigliava qualche volta Clementina, mentre si tornava in otto o in dieci da una di quelle corse, che egli avrebbe fatte assai più volentieri in due.

E bisognava esserlo; se no… Il mio onorevole eroe ci aveva ancora davanti agli occhi l'esempio salutare dei corrucci di madonna. Pensando al suo stato di cattività, qualche volta si compativa da sè; ma in di grosso, poi, si era avvezzato alla catena, e sgranocchiava i suoi giorni con quella apatica immobilità con cui un fachiro indiano avrebbe snocciolato i chicchi della sua coroncina di preghiere.

Così passarono gli anni. Come uomo, non era più giovane, ed aveva lasciato trascorrere la bella età in cui l'ingegno può dare i suoi frutti migliori. Rispetto alla politica, poi, si era contentato a rimanere in seconda linea, e tutto lasciava credere che si sarebbe poi rassegnato a passare in serrafila, anzi nella retroguardia, colle bagaglie. Qualunque cosa si faccia, bisogna amarla molto e non vedere che quella, per farla bene e derivarne un po' di gloria al suo nome. Ora il nostro eroe, che aveva cominciato coll'amar tante cose e col volerne abbracciare tante altre, non doveva riuscire eccellente in nessuna. Il cavaliere servente della marchesa di Rocca Vignale, studiava poco, e a sbalzi, che è la peggior forma di studio; accompagnava la signora a teatro, per rimanerci due o tre ore confinato in fondo al palchetto, mentre i galanti farfalloni aliavano intorno alla sua dama e si succedevano senza tregua nei posti migliori; viaggiava regolarmente quattro mesi all'anno, per vedere i soliti alberghi e le solite cravatte bianche, e far capo ai soliti magazzini di mode. Per farvela breve, la sua vita si ridusse ad essere la ombra di quella donna, non cattiva, ma vana; ambedue esemplari degnissimi di una generazione, che non ha fatto grandi cose e che non lascierà traccia di sè nella storia.