Za darmo

La notte del Commendatore

Tekst
Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

In fin dei conti, che cosa ne sappiamo noi? Non poteva essere anche tale il disegno, o il ghiribizzo, della signora marchesa?

Una cosa sappiamo, che Ariberti aveva desiderato ardentemente di avvicinarla, che il caso lo aveva servito largamente e che egli doveva vedere in questo fatto l'opera del caso, un atto intelligente e meditato di quella divina provvidenza, che è, se permettete, un capriccio di donna.

Si avvicinò, tenuto a braccetto dal cavaliere Carletti, che mostrava un'aria da conquistatore nell'atto di domandare il trionfo. La marchesa aveva accanto un pezzo grosso, di quei che non ballano, e che si possono piantar lì quando faccia comodo. Anche questa era intelligenza sopraffina, di mostrarsi stanca del ballo e di mettere gli importuni in dirotta.

Per farvela breve, l'onorevole Ariberti fu presentato ed accolto con quella elegante e cerimoniosa freddezza che era del caso; ma gli occhi e la stretta di mano dissero, o lasciarono intender cose, che dovevano sfuggire alla attenzione di tutti i cavalieri Carletti del mondo. L'onorevole Ariberti chiese ed ottenne l'altissimo onore di una quadriglia, o contraddanza che si voglia dire, come se fosse un ufficiale d'ordinanza, un addetto d'ambasciata, od altro degli elegantissimi giovinetti che davano vita alla festa.

CAPITOLO XIX

Rinaldo nei giardini d'Armida.

Chi non ricorda, tra le noie della sua prima giovinezza, il famoso teorema dell'ipotenusa, più conosciuto nel gergo scolastico sotto il nome di ponte dell'asino, perchè era in geometria il punto difficile, di là dal quale potevano andar ritti e sicuri i matematici in erba, laddove, in esso scappucciavano maledettamente i più corti d'intelligenza, quantunque fossero i più lunghi d'orecchie? Dimostrare tre migliaia d'anni dopo Pitagora, autore della bella scoperta, che il quadro eretto sull'ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati eretti sui due cateti, era appunto il difficile dell'impresa.

Non è animo mio di ripetere qui la dimostrazione ai lettori, per farmi vedere ferrato a ghiaccio nella scienza d'Euclide. Ho solamente ricordato il teorema pitagorico, per giungere a dirvi (guardate mo dove va a ficcarsi la boria dottorale!) che la bellezza della marchesa Clementina di Rocca Vignale era la somma delle bellezze di Giselda Szeleny e della marchesa di San Ginesio. Splendida come questa, attraente come quella, raccoglieva in sè stessa e mostrava armonicamente confusi i due generi, le due forme di bellezza che mi sono ingegnato di rappresentarvi a suo luogo.

E adesso, lasciando in disparte la geometria piana, che non è certo la più acconcia a descrivere le grazie di una donna, dovrei schiccherarvi qui in quattro tocchi di penna i pregi fisici di questa Armida rediviva. E qui proprio mi trovo più impacciato che non fossi a quattordici anni, coll'ipotenusa e i cateti. Se almeno potessi darvi questa bellezza in dramme e scrupoli, come fa il medico le sue ricette, lasciando a voi la cura del «misce et remisce»!

Un grande scrittore, che in gioventù non aveva avuto a lodarsi troppo delle signore donne, e che perciò non usava trattarle co' guanti, mi diceva: «Quando ho da dipingere una donna, piglio due soldi di biacca, uno di cinabro, uno di giallo di cromes, un pizzico di terra d'ombra, un altro di nerofumo, e non ci fo mica altra spesa; cinque o sei pennellate, e mi sbrigo». Lo diceva, s'intende; ma poi non lo faceva. Ed anche di lui, quantunque amasse poco il bel sesso, resteranno figure ammirabili, come una Jole, una Fides, tra l'altre, ed una Fulvia Piccolomini, per cui, se tornasse al mondo tal quale si potrebbe anche fare allegramente, il viaggio di Siena.

Come tipo di bellezza ammirabile, la marchesa di Rocca Vignale avrebbe fatto onore, anche dopo il ritratto della Paolina Adorno dei Brignole, al pennello sicuro ed elegante di Antonio van Dyck, o al mollemente arguto di Tommaso Lawrence, per cui non ebbero segreti le morbidezze, i tondeggiamenti e le lisciature della forma moderna.

Di statura piuttosto alta, e snella, ma tutta a curve, che il garbo delle vesti faceva spiccare accarezzandole, la marchesa Clementina poteva mostrare un piede, anzi due, della più delicata picciolezza, e tali da far credere ai veristi che la natura si fosse guastata anco lei, bazzicando cogli accademici. Ora, per una donna come la marchesa, poter mostrare un bel piede era una tentazione irresistibile, ed io non debbo tacere questa debolezza della mia nuova eroina. Già, chi lo ignora? tutti abbiamo le nostre, e v'hanno sempre certi punti in cui, o per cui, la più gran dama del mondo non è niente più d'una semplice crestaia. Anche il colosso di Nabucco aveva il piede di creta. Dunque, ammettiamo, il pie' di creta della marchesa Clementina, non senza soggiungere che mai la creta d'un piede apparve più leggiadramente modellata, neanco tra le mani di Fidia.

Lettori umanissimi, io comincio dove s'avrebbe a finire. Ma che volete? Il diavolo m'ha sempre pigliato da' piedi, e oramai ci ho fatto il verso.

Per altro, ora che mi sono sbrigato da questo particolare, vi fo grazia delle vesti, la cui eleganza provava il buon gusto e quella cura minuziosa di sè, che amiamo tanto di trovare nella donna; e vengo difilato alla testa; una testa, se mi consentite il paragone, graziosa come quella di un serpe. A voi parrà strano, e fors'anco esorbitante; a me invece pare di aver trovata l'immagine più felice e più acconcia. Superate di grazia quel senso di ribrezzo che ispirano i rettili pel loro corpo smisuratamente lungo e per le velenose qualità di taluni tra essi; non guardate che quella testolina eretta, che a prima giunta apparisce così rigidamente stagliata, ma che vi riesce poi così delicata nei suoi contorni, così leggiadra ne' suoi atteggiamenti, così incantevole nelle sue movenze, e converrete con me che la testa di una bella donna, o di qualche bella donna, se vi piace meglio, può essere non indegnamente paragonata a quella di un ofidio.

La marchesa Clementina aveva i capelli castagni finissimi, ondati, lucenti e abbondantissimi per giunta. A volta amava stringerli in treccie lunghe e piene come Margherita, a volta gli scioglieva sulle spalle come Giulietta, e li adornava di fiori come Matelda ed Ofelia. Godeva de' suoi capegli come la tipica madre delle donne create, là nelle selve primitive dell'Eden, quando si specchiava allegra nelle acque correnti del ruscello e sorrideva del medesimo riso all'uomo, ed al serpente astuto, che già si disponeva a scaltrirla.

Io vi amo, o bei capegli, stillanti ambrosia dal capo delle dee d'Omero, e ancora ai tempi nostri cagione di soavissimi fremiti a chiunque accarezzi le vostre morbide ciocche. Sansone ebbe nei capegli la forza; ma ogni donna è più forte di lui, perchè ne ha nei capegli la grazia e il fascino delle dolci lusinghe. Oh perchè la moda, la maledetta moda, li ha raccolti e stipati in così fitto manipolo sul capo della donna amata, in sembianza di torre, irta di guerrieri, sul dorso dell'elefante? Quei mazzocchi a cupola, a campanile, a battifredo, mi fanno paura; io li abbomino, perchè tolgono alla chioma i suoi pregi più cari, la morbidezza e l'ondeggiamento. La donna mi si fa davanti armata in guerra, minacciosa e superba, con quell'elmo, che la rende un terzo più grande del vero. Io non sento nessuna ripugnanza per Minerva, e giuro che, nel caso di Paride, farei del mio pomo tre fette, ed anco disuguali, per dare la più vistosa a lei, che ha il vanto degli occhi verdi; ma vorrei che si levasse quella sua minacciosa cervelliera dal capo.

La marchesa Clementina era dunque una Minerva senza elmo; anzi io potrei paragonarla più facilmente a Venere, che è rappresentata in alcune statue coll'elmo sotto i piedi, e questo mi gioverebbe per farvi vedere ancora una volta il piedino della marchesa, quel piedino adorabile che sapete. I suoi capegli scendevano per solito ripiegati in due lucide staffe a carezzare le guance rosee, vellutate, come le pesche duracine, e lumeggiate d'aurei riflessi. Non aveva spaziosa la fronte; ma questo, che è pregio dei pensatori e dei calvi, non fa buon giuoco alle donne. Sia breve la fronte e piana, anzi un tal poco leonina, profilato il naso, breve lo spazio che intercede da questo alla bocca, rotondo il mento, e possa la dea sorridere spesso, per mostrare la sua fresca conchiglia di perle, o atteggiarsi a tristezza, perchè abbiano risalto le ciglia lunghe, morbidamente ricadenti sulle pupille del colore dell'indaco; è questo l'essenziale, e il miracolo della bellezza è compiuto.

Gli occhi della marchesa vorrebbero essi soli una pagina di descrizione; ma quando io vi avessi affastellati sulla carta tutti i soavi baleni d'un cielo d'estate, tutte le mezze tinte e sfumature dell'iride, tutti i profondi scintillamenti dello zaffiro, tutti i lattei riflessi dell'opale e tutti i vivi bagliori del diamante, non vi avrei detto ancor nulla di efficace. Si sono scritti parecchi trattati sulla luce, e parecchi sull'anima; ora, quanti non se ne potrebbero scrivere di più sopra un bel paio d'occhi, che sono la luce dell'anima e soli danno anima per noi alla luce? Vi dirò dunque, nella forma più breve, che quegli occhi iridati, umidi e sfavillanti, avrebbero potuto far dare nei gerundii tutti gli angioli del cielo, se mai fossero tornati sulla terra a chieder notizia dei loro fratelli, compianti e celebrati da Tommaso Moore, nel suo leggiadro poema.

Stupendo era il collo, sebbene per avventura un tal poco più lungo del giusto. La natura aveva forse voluto fare un complimento a Raffaello Sanzio, che in questa parte ebbe talvolta a correggerla. E mai collo di donna fece pensare più di questo ai flessuosi candori e alle armoniche movenze del cigno. Il seno poi, era fior di latte rappreso, e i teneri contorni dell'òmero avevano la soave fermezza e i miti splendori del marmo di Carrara. Infine, era una bellissima donna, un mirabile saggio della più bella creazione di Dio, il quale ci ebbe le sue grandi ragioni a serbarsela per l'ultima, nelle sue sette giornate di lavoro. Egli che, sia detto senza intenzione d'offenderlo, tagliò l'uomo coll'accetta, pose ogni diligenza in quella ultima fatica, che è riuscita un vero capo d'opera. Giù il cappello, signori atei, o qui si viene alle brutte.

 

E difetti non ne aveva, la marchesa Clementina? Ve li ho detti, indicandoli, secondo il gusto mio, come pregi; collo leggermente più lungo, e fronte un pochino più stretta della giusta misura. Ma già lo sanno anche i grilli; è della bellezza moderna, fondata nell'espressione anzichè nelle linee, il vantaggiarsi di certi piccoli nei. Non siamo noi forse, noi inciviliti fino al midollo, che vediamo altrettante virtù in certe imperfezioni del l'anima?

La marchesa di Rocca Vignale, per esempio, ci aveva l'intelligenza alquanto ristretta della sua fronte, la volubilità serpentina del suo collo e la piccineria minuziosa de' suoi lineamenti. Ora chi non vedrà esser questa piccineria delicatezza, questa volubilità leggiadria, questa ristrettezza di mente giusta misura d'idee, per chi non è nato alle uggiose cure del filosofo e dell'uomo di Stato? Date alla donna i vasti concetti dell'uomo, e avrete la dottoressa; datele i contorni più austeri, e: avrete la dea sul plinto di marmo; non più la donna che vi farà dimenticare il mondo a' suoi piedi, che vi costringerà ad amarla o a maledirla, con perfetta vicenda, dodici volte in un giorno.

Amarla e maledirla; questa doveva essere la sorte del mio e vostro Ariberti. La marchesa di Rocca Vignale amò in lui due pregi secondarii, l'eleganza e la fama; del suo cuore non indovinò gli spasimi, bastandole la servitù quotidiana; del suo ingegno non si avvide, fuorchè per la lode a lui data dagli altri, ma non volle o non seppe studiarlo a fondo, per farsene la custode e l'ispiratrice. La politica era di moda; epperciò la signora marchesa era andata varie volte al Parlamento, lieta di farsi veder in un delizioso abito mattutino nella tribuna diplomatica e di cagionare un subisso di distrazioni in un centinaio di teste calve, o mal pettinate, nelle quali si racchiudeva il senno della nazione. Per qualche giorno l'onorevole Ariberti era stato il beniamino della pubblica opinione, e, miracolo inaudito, quel facondo oratore non era calvo, nè mal pettinato; appariva anzi un bel giovane, non senza alcun che di femmineo negli occhi, nelle labbra e nel portamento. Era ascoltato con attenzione dai ministri; andava vestito come uno zerbinotto; i segretari di legazione dimenticavano i cavalli, le prime donne e le prime ballerine, per occuparsi di lui; e lui, questo zerbinotto, questo Demostene, quest'uomo di Stato in erba, dimenticava il banco dei ministri, trascurava le cifre del bilancio, per mandare di tanto in tanto un'occhiata assassina a lei; che ci voleva di più per colpire l'animo della marchesa Clementina?

Per qualche giorno la bella signora si crogiolò in una dolce malinconia, che era indizio in lei d'una passioncella nascente, e che le dava occasione di mostrarsi vezzosa in un altro modo, calando sugli occhi d'indaco le lunghe e morbide ciglia. Era nata nel suo cuore una certa curiosità profonda e tranquilla, che non somigliava punto a tutte le altre, mutevoli, impetuose e fugaci, di cui son seminati i giorni e rotti gli ozi d'una gran dama. Che cosa pensava di fare quell'uomo? Come avrebbe adoperato per avvicinarla, quel giovine uomo di Stato, che non era certamente un viaggiatore di salotto da potersi far presentare lì per lì, senza una ragione al mondo, ed anche dal primo che gli fosse capitato tra' piedi? Il vedere quel giovinetto, in certo qual modo già celebre, occuparsi tanto di lei, misuratamente e con discretezza alla Camera, liberamente e con assiduità di sguardo a teatro, non le dispiaceva mica, alla bella marchesa, annoiata da tante facili e quotidiane dichiarazioni a bruciapelo di vanagloriosi farfalloni; come non le era discaro di durarla un tratto colle lontananze, vo' dire con quel lavoro d'occhi e da lunge; fosse perchè cotesto la rifaceva di molti anni più giovane, fors'anco perchè le procacciava nuove occasioni a meditare per un'ora o due qual veste avrebbe indossata quella mattina al passeggio, o qual colore di stoffa le sarebbe tornato meglio quella sera a teatro.

Ma è detto che ogni bel giuoco dura poco; e la marchesa Clementina di Rocca Vignale, tanto assiduamente guardata, esplorata e contemplata dall'onorevole astronomo, incominciava a seccarsi del suo ufficio di stella. Perchè non si fa avanti? Sarebbe timido, per avventura? Poverino forse non sa a chi rivolgersi. Se potessi aiutarlo! Ma già, questi cavalieri che ci vengono intorno, son buoni a tutto, sempre disposti a servirci in tutto, fuorchè dove e quando ci preme.

Insomma, voi lo vedete, o lettori, colpita sulle prime da quella attenzione, poi diventata curiosa, la marchesa Clementina si era a poco a poco innamorata da senno, e quando si fu avveduta dello sdrucio che quel giovinetto di là dai trentacinque le aveva fatto nel cuore, lo confessò ella stessa, in un momento di necessaria espansione, ad una amica intima, confidente delle sue pene, la quale andò subito a rifischiarlo in una dozzina di salotti. Ariberti non le aveva ancora parlato, e quell'amore nascente, che poteva anche spegnersi in fasce, era già per le bocche di tutti. Della qual cosa po' poi non le importava un bel niente. Libera e padrona di sè, si godeva la superba gioia d'ignorare quello che altri dicesse alle sue spalle. C'era in lei un pochino della noncuranza di quelle matrone della Roma imperiale, tanto maltrattate da Svetonio, da Giovenale, da Persio Fiacco e da altri libellisti di quel tempo, le quali non sapevano, o non volevano sapere, che diavol fosse la pubblica opinione, e andavano per la loro strada, o viottola che fosse, sempre avanti, secondo i gusti e gli umori.

Spensierato del pari fu il nostro Ariberti con lei. Certe forme d'amore sono, per così dire, contagiose, e v'hanno donne le quali si amano ad un modo, come altre ad un altro, senza che la coscienza c'entri per nulla, e quasi per un tacito accordo tra il nostro cuore e l'istinto. Colto all'esca di tanta bellezza, la quale non chiedeva altro che di concedersi a lui, fu al solito, e pel solito spazio di tempo, l'uomo più felice della terra. Non vide che lei, non visse da quel giorno che in lei e per lei, amò a furia, si divorò avidamente la fama dei quattro o cinque discorsi che aveva recitati alla Camera, come un figlio di famiglia si sciala in brev'ora le dugentomila lire della eredità paterna; con isfarzo, con gusto, ed anco se volete, con un zinzino di filosofia pratica, ma poi?…

Ma poi, egli avvenne che il nostro innamorato si svegliò da quell'estasi al settimo cielo, e si trovò arnese logoro e quasi dimenticato, come il tizzo spento in fondo al camino d'un salotto, in cui si davano la muta ogni giorno quindici o venti scioperati suoi pari. Il risveglio fu lento e con parecchi tentativi di ritorno al sogno; cosa che a molti sarà accaduta, e riposando ed amando. Ma in fine, bisogna svegliarsi, tanta è la luce che penetra dalle imposte e tanto acute le voci con cui d'ogni parte vi chiamano le necessità della vita. Peccato! si sognava così bene. Eppure, è mestieri balzare dal letto, ficcare prosaicamente i piedi in un paio di pantofole e disporsi a fare tutto ciò che gli altri uomini fanno, vestirsi, radersi, asciolvere, annoiarsi, arrabbiarsi, stomacarsi, e va dicendo, proprio come il giorno antecedente, e come l'altro che verrà dopo, fino alla consumazione di quei pochi.

Una cosa, poi ch'ebbe riaperto gli occhi, una cosa non poteva mandar giù l'Ariberti. Come aveva egli potuto passar tanto tempo in mezzo agli sciocchi, e compiacersi di tante chiacchiere vuote di senso? In verità, più ci pensava, e meno gli veniva fatto di capacitarsene. Eppure, per tutto quei tempo egli non era mica stato colla benda sugli occhi e le orecchie turate! Ma già, tutte quelle stonature s'erano confuse per lui nella grande armonia dell'amore, come gli atomi danzanti nell'aria si confondono nella luce del sole.

Ma il sole ci ha i suoi riposi, pur troppo, ed anche l'amore ha i suoi opachi intervalli, come il palpito fosforescente delle lucciole. E le ombre vennero dopo quella gran luce; calavano lente, e gli occhi di Ariberti ebbero il triste benefizio d'un crepuscolo, che gli consentì di vedere come tutto gli si facesse squallido intorno, e come quella donna non fosse così sua, tutta sua, quale ei l'aveva veduta, o sognata.

La marchesa era sempre circondata da uno sciame di cavalieri, che sulle prime non davano troppa molestia ad Ariberti. Li considerava farvalle e calabroni, alianti e ronzanti intorno alla rosa, con insistenza bensì, ma senza pericolo, ma pronti a sparpagliarsi qua e là, ogni qual volta egli, ape privilegiata, s'accostasse al calice odoroso del fiore. Per dirla meno poeticamente, ma con più verità, gli parevano sciocchi, senza importanza veruna, e fino ad un certo segno gli tornava caro il vederseli dattorno e il dissimularsi in mezzo a costoro. Per altro, taluno di essi avevano troppa dimestichezza colla marchesa Clementina. Cortesi, amabili sempre con lei, lo erano tuttavia in una certa forma e con una galante disinvoltura, che non hanno sempre i signori aspiranti. Che fossero giubilati? Il dubbio attraversò una volta lo spirito di Ariberti, e da quel giorno non ebbe più pace. Perchè non se li leva da' piedi?—pensava egli tra sè.—E perchè ci stanno essi, con tanta amabile filosofia, senza impeti e senza rancori, fuochi che non divampano mai e che pure non accennano a spegnersi? Essi sono qui, in apparenza come ci sono io, a corteggiare la marchesa. Ma io, ardo, essi no; io sono un vulcano, ed essi… sarebbero vulcani in riposo?

Ariberti, come mi sembra di aver già detto, e come, del resto, lo avrete già riscontrato ne' fatti, non conosceva misura, e dopo aver tormentato a lungo sè stesso con quel suo dubbio increscioso, doveva anche tormentare un pochino la dama. S'intende che diede alle sue domande, la forma meno ruvida; ma infine, certe domande, temperate o no nella forma, sono sempre impertinenti nella sostanza. Ed egli, appena il dado fu gittato, ben se ne avvide alla cèra con cui furono accolti i suoi dubbi dalla marchesa Clementina.

–Di che vi lagnate?—diss'ella.—Conservo i miei amici. È questo infine un obbligo di buona compagnia, ed è anche una fortuna, per chi non vuol rimanere nella solitudine.—

E punto fermo; il nostro geloso non potè cavarne più altro. Ma pur troppo gli si radicò nella mente il sospetto che tutti quei Proci, meglio educati degli antichi, ma fastidiosi ad un modo, fossero gli antecessori suoi, che andavano e venivano, bevevano il tè, recavano le notizie, le voci e i pettegolezzi della giornata, parlucchiavano d'arte e di scienza, scoccavano un frizzo, dicevano una galanteria, profferivano il loro ossequio, e, qualunque cosa facessero o dicessero, profanavano l'amore che non sentivano più, e la dignità che non avevano avuta mai. Ed egli, incatenato dagli usi del mondo, aveva a recarsela in pace, e guardare tutte quelle facce sospette colla tranquilla compiacenza, con cui si guardavano, appiccati al muro, i vecchi ritratti di famiglia!

Per fortuna, il prescelto, l'ultimo, il regnante, era lui. Ma frattanto egli si sentiva crollare il trono sotto i piedi. Non era già un indizio gravissimo della sua decadenza l'essersi svegliato dall'estasi e l'essersi avveduto di quella Camera dei Pari che lo circondava? E un indizio ne tirava un altro; evidentemente il povero Ariberti perdeva terreno.

Si trattava di andare da lei al mattino, per barattare quattro parole senza ascoltatori importuni? La marchesa aveva l'emicrania. Un altro giorno ci aveva le sue visite. E quando non ci aveva le visite, o l'emicrania, c'era la modista da consultare.

–E sempre la modista!–gridò egli un giorno, che non poteva più contenersi dalla stizza.

–Sicuro, la modista;—rispose la marchesa, con una tranquillità imperatoria che non ammetteva repliche.—Fareste anzi opera gentil di cavaliere ad accompagnarmi.—

Ariberti era rimasto un pochino titubante, non parendogli troppo dicevole di accettare un invito, che forse gli era stato fatto per mettere fine alla sua insistenza.

–Ah, ecco,—esclamò la marchesa, con accento d'ironia,—voi altri uomini gravi non vi degnate di entrare nelle nostre faccende, che chiamate superbamente frascherie femminili. Eppure, gli è proprio per queste frascherie che v'infiammate voi altri e scegliete le vostre regine.

–Signora,—disse Ariberti,—voi non avete mestieri di questi…. ammenicoli.

–Sicuro! potrei lasciarli da banda, e vestirmi dei vostri complimenti. Ma pur troppo, e per quanto io li accetti di buon cuore,—soggiunse la marchesa Clementina,—i complimenti non bastano. Sarei bella davvero, cogli abiti di un mese fa; senza contare che non avendo avuto bisogno, neanche un mese fa, di questi… amminicoli, e tornando indietro di questo passo, potrei contentarmi del mio vestitino d'educanda.

 

–Avete ragione,—rispose Ariberti, chinando la testa umilmente, e noi altri uomini gravi siamo pure i gran sciocchi. Se permettete, vi accompagnerò dalla modista, e vedrò d'imparare anch'io qualche cosa.—

Quella mattina la signora marchesa fece assistere il nostro onorevole ad una conferenza molto sugosa e istruttiva di trine, svolazzi, passamani, stoffe, guarnizioni, e va dicendo. Peccato che il Parlamento non avesse allora per le mani nessuna legge suntuaria intorno agli abbigliamenti donneschi, perchè l'onorevole Ariberti avrebbe potuto esserne relatore, e scrivere una ventina di pagine da far trasecolare la direttrice d'un giornale di mode.

Ma di ben altro si occupava il Parlamento, e l'onorevole Ariberti ne trascurava i lavori da un pezzo. Quel giorno, per l'appunto, egli avrebbe dovuto essere negli uffizi, per una discussione di qualche importanza, ed era invece a far l'uditore di una mercantessa di mode. Un altro giorno avrebbe dovuto studiare e prepararsi per un discorso di gran lena, perchè l'eloquenza non è mica un dono spontaneo della natura, come, forse, è la chiacchiera, ma si nutre di argomentazioni stringenti, si rimpolpa di esempi, si adorna di tutte le grazie dello stile, e vive anzitutto di quella scelta giudiziosa, che è figlia della meditazione, accoppiata al buon gusto…

In quella vece, gli bisognava predicare a braccia, come tanti cicaloni presuntuosi, e la sua fama ne scapitava assaissimo. Un po' di vecchia pratica, qualche ricordo classico e qualche scappata facile, lo salvavano ancora da tutti quei segni minacciosi in cui si manifesta la disattenzione dell'uditorio, ma non lo alzavano d'un punto nella stima de' suoi degni colleghi. Un suo antagonista (perchè Demostene non poteva già stare senza il suo Eschine) ebbe ad esclamare una volta: «fuoco di paglia!» e a commentare la frase, stropicciandosi allegramente le mani.

Egli sentiva, così in confuso, dentro di sè che la sua riputazione d'uomo politico ne andava di mezzo. Tuttavia come rimediarvi? Quella donna lo aveva ammaliato, ed egli non aveva la forza, nè il desiderio, di ripigliar la sua via. Così dicono che avvenga ai viaggiatori colti dal gelo sulle terre polari, che si sentono venir meno ed amano abbandonarsi al destino, senza far nulla per richiamare nelle membra torpide il calore e la vita. La marchesa Clementina, troppo amante di sè, avvezza agli omaggi degli uomini, come una dea pagana agli incensi, non avea tempo a pensare che tanta divozione doveva essere ricambiata con un po' di cura del buon nome di lui. Ed egli, poi, non sapeva staccarsi un giorno, un'ora, da quella inconsapevole maliarda; era geloso, pativa tormenti ineffabili, e facea sforzi inauditi per dissimulare la negra cura sotto l'apparenza di una cortese assiduità.

A questo proposito, il nostro innamorato aveva fatto un'osservazione importante, che egli tornava più accetto alla marchesa, quando era, o si mostrava, meno acceso per lei. Epperò, facendo forza alla sua indole vulcanica, si studiò di apparirle più misurato e più calmo.

Da principio lo studio gli riusciva difficile. Senonchè, bisognava fare di necessità virtù, ed egli ci si venne a mano a mano avvezzando, come il re Mitridate al veleno. Ci si rodeva un pochino di dentro, ma questi danni dovevano aver conseguenze lontane, ed Ariberti non badava che ai benefizi del presente. E così avvenne che, fortificato abbastanza nella sua rigidità diplomatica, quel Werther sulla quarantina incominciasse a vedere in nube il momento avventuroso in cui egli sarebbe stato tranquillo e disinvolto, come lo erano tutti i suoi degnissimi antecessori.

La marchesa, secondo si è detto, riceveva moltissima gente, tra cui forastieri in buon dato e gran personaggi della capitale. C'era inoltre per quattro o cinque sere della settimana il passatempo del teatro, e ad ogni tanto, venivano le solenni comparse dei balli. L'onorevole Ariberti era sempre in faccende, e un po' da per tutto, e spesso alla Camera… nella nota degli assenti.

Un bel giorno la Camera fu sciolta, e il paese ebbe la gioia delle elezioni generali. Era il redde redde rationem per l'onorevole Ariberti, che dovette andare, immaginate con che gusto, nel suo collegio, per farsi vivo cogli elettori. La marchesa aveva promesso di scrivergli, se non ogni giorno, almeno tre volte la settimana. Ma furono invece tre lettere in un mese. E mentre egli, tappato non senza fatica in una camera d'albergo, rubava due ore d'ogni giorno alle cure elettorali, pel suo epistolario colla marchesa, trascurando per lei la moglie del sindaco e del ricevitore delle dogane, leggeva la marchesa Clementina le quattro pagine fitte che la posta mandava ogni giorno sul suo tavolincino elegantemente incrostato di madreperla?

Io per me, conoscendo un pochino i suoi gusti superficiali, credo che si contentasse di leggere la sopraccarta.