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La notte del Commendatore

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Il lettore si annoierà a leggere queste cose, come io mi annoio a raccontarle. Ma egli ed io dobbiamo pure mandarle giù in santa pace. Questa è la storia; ed è storia altresì che il nuovo ministero durò a mala pena tre mesi. Composto di vanità, nato per dispetto, senza amici divoti, senza oratori di polso, senza nuovi concetti, non poteva certamente durare di più, e doveva far gioco ai suoi avversari, quantunque per tanti rispetti meno accettabili di lui.

Ariberti non lo sostenne, e fu peggio. È vero che lo avevano quasi respinto dal grembo della nuova chiesa, lasciandogli intendere che non era necessario. Ma in politica le vie di mezzo non servono; o stare ad ogni sbaraglio, e aver le pedate in conto di gentilezze, o romperla apertamente dicendo le sue brave ragioni. Ora egli non aveva saputo fare una cosa, nè l'altra. La indipendenza sua lo condusse due volte a votare insieme col partito sconfitto, e i caporioni di questo gli fecero qualche invito, a cui egli non rispose nè sì, nè no, restando «tra color che son sospesi». E quando i vecchi ministeriali tornarono al governo, rammentarono facilmente per colpa di chi erano caduti. Nè egli era uomo da offrire guarentigie di mutati propositi, nè essi eran uomini da domandargliene.

Così stette colle mani alla cintola, vegetando nel suo scanno «senza infamia e senza lodo». E poichè cito Dante per la seconda volta, ricorderò il caso di lui, che dovendo spartire tra inferno, purgatorio e paradiso, un certo numero di suoi conoscenti, si trovò poi con cinque o sei personaggi di minor conto, che non sapeva dove mettere, e te li lascio bravamente nel vestibolo, non senza averli bollati con due o tre versi roventi, che fanno ancora frizzar loro le carni.

Per Ariberti non era il caso; ma è certo cionondimeno che egli non apparteneva nè all'inferno, nè al paradiso, nè al purgatorio parlamentare, cioè a dire alla sinistra, alla destra ed al centro. Andava diventando un deputato sui generis e non al tutto per colpa sua.

–Che volete?—si diceva di lui.—È un originale, un cervello bislacco. Ingegno, sì, e molto; ma una superbia… una superbia!—

E, con queste caritatevoli invenzioni, gli facevano il vuoto dintorno. A furia di sentirselo a dire, finì col credersi anche lui un superbioso di tre cotte. Di tanto in tanto faceva un discorso, ma concludeva poco, perchè non serviva a nessuno. E lo aveva preso un tedio invincibile della vita parlamentare, come già di tante altre bellissime cose.

Tedio, moralità di tutte le favole umane!

CAPITOLO XVIII

Nel quale si narra di un ballo a Corte e di quello che ne seguì.

Quando il tedio s'impadronisce di noi, il miglior rimedio è quello di portarcelo insieme a viaggiare, e quanto più lontano si può, colla speranza che svapori per istrada, o un doganiere ce lo sequestri al confine. E dico colla speranza, perchè veramente il miglior rimedio non è sempre il più sicuro, e in molti casi non giova. Il più sicuro, che poi a sua volta non può dirsi il migliore, è quello d'innamorarsi. È infatti opinione dei più reputati filosofi, che di tutte le cose di questo mondo, usando ed abusando, può l'uomo a lungo andare noiarsi; della donna mai.

Anch'io, senza esser filosofo, quando avrò passato i settanta, o giù di lì, vi darò il frutto delle mie osservazioni in proposito. Ma già, lo prevedo, quand'anche la triste vecchiaia abbia a guastarmi il palato, ci sarà sempre qualche nepote birichina, che mi farà vedere l'ultima delle opere di Domineddio, sotto un aspetto nuovo e caro; mi scompiglierà la parrucca, mi metterà gli occhiali sul naso alla rovescia, mi porterà dei fiori e dei baci per l'ultimo mio compleanno, e mi farà ripetere per la centomillesima volta: ottima cosa è la donna!

La verità è questa, che quando non viviamo più per le nostre passioni, viviamo per quelle degli altri. Si soffia sulla cenere, e ci si trova ancora qualche po' di cinigia. Agnosco veteris vestigia flammae. Il figlio, l'amante, il marito d'una volta, è diventato il babbo, il nonno, lo zio. Si è sempre gli antenati di qualcheduno; posteri passati, come diceva Arlecchino.

Ora, se permettete, do un'occhiata all'onorevole Ariberti, che non vorrei avesse a farmene qualcuna delle sue. Non già ammazzarsi a cagione dell'umor nero, che diamine! Il nostro eroe non era un inglese, e la malattia gli girava per un altro verso. Anzi, vi dirò che in quel tedio profondo incominciava a muoversi qualche cosa d'insolito e di mal noto, come l'embrione del pulcino nel tuorlo d'uovo, sui primi giorni di covatura. L'immagine non è bella; ma ringraziatemi, poteva essere peggiore. Ariberti era in un periodo strano, d'incertezza, di malavoglia e di curiosità ad un tempo; sentiva che a quel modo non la poteva durare; avrebbe voluto esserne fuori, ma non riusciva ad intendere come ne sarebbe venuto a capo.

Se fosse stato di primavera, il nostro Ariberti avrebbe strappato un congedo e sarebbe andato a veder sbocciare le pratelline sui colli delle sue Langhe; unico spettacolo che potesse consolare il suo spirito infermo e riconciliarlo col mondo. Ma era d'inverno, e non seppe far altro che mettere la sua noia in abito nero e cravatta bianca, per portarla ad un ballo di Corte.

Ci andava per la prima volta. Deputato d'opposizione e poco amante delle cerimonie, aveva sempre sentito per simili feste una ripugnanza, di cui non si era fermato mai ad indagar le ragioni. C'entrava forse in quel sentimento un pochino di salvatichezza naturale; e questa, che vuol sempre trovar le sue scuse, gli bisbigliava nel tempo passato di non imitar la farfalla, di non aliar troppo intorno al lume.

Eppure, eccolo là, anche lui, al ballo di Corte! Quantum mutatus ab illo! Come diverso da quell'Ariberti ritroso a cui tutte quelle umane vanità mettevano i brividi addosso! Ed anche allora, notate, anche allora gli parevano vanità; senonchè, gli pareva anche più vano il dar loro l'importanza di un caso di coscienza.

D'altra parte, in che operava egli diverso da tutti i suoi colleghi? E non era egli poi nella condizione più libera tra tutte, cioè quella del deputato senza vincoli, o, se meglio vi garba, del partigiano in congedo illimitato?

Queste ragioni, dopo tutto, valgono poco o nulla a fronte di quell'altra che muoveva Ariberti, il desiderio, la malacìa dell'ignoto e del nuovo. A fatti psicologici, ragioni psicologiche. Una voce interna gli diceva di andare; una forza arcana lo sospingeva. E a cui paressero sottigliezze, indegne d'un animale ragionevole, risponderemo coi fatti. Non è egli vero che dallo andare più da una parte che da un'altra dipende il più delle volte la nostra giornata, e che una giornata può chiamare l'altra? È opera del caso, si dirà. Or bene, il caso tirava Ariberti laggiù. Il nuovo Saulo andava a caso, ma a caso pensato, sulla strada di Damasco.

Seguitiamo adunque la noia, in abito nero e in cravatta bianca, dell'onorevole Ariberti. Colà dove egli è andato, ne troveremo altre in buon dato, che, sommate insieme, potrebbero dare un bel peso. Ma queste, faremo di cansarle, quantunque in una festa ufficiale si corra il pericolo di farci a gomitate.

Anche il nostro eroe la pensava come noi, perchè si strofinò poco ai crocchi parlamentari, ai gran cordoni, ai gran collari, ecc., ecc. Amava meglio osservare il bel sesso, con cui da gran tempo viveva, dirò così, in rottura diplomatica, e notò con piacere, misto ad una certa malinconia, che la nuova generazione delle figlie d'Eva, anche a Torino sosteneva degnamente la fama di bellezza e di grazia austera, che è inseparabile dal nome della donna italiana. Io metto pegno che l'onorevole Ariberti, abbacinato da tutto quello splendore di sete e di trine, da tutto quello scintillìo di diamanti, da tutta quella perlagione di carni, s'augurò per un istante di esser Paride e d'avere un pomo tra mani. Ma ohimè! se le dee moderne apparivano così poco vestite come le antiche, per contro i pastori moderni non avevano alla mano que' mezzi semplici e sicuri di acquistarsi la loro benevolenza, che aveva avuti l'antico pastore di Frigia.

Ariberti aveva riconosciuto tra quelle gentildonne che gli passavano davanti, al braccio dei cavalieri, qualcuna delle sue e nostre conoscenze antiche; come ad esempio la baronessa Vergnani, che aveva ancora il pied d'Andalouse, ma non più la taille de guêpe, che faceva andare in visibilio il conte Candioli; e la marchesa di San Ginesio, sempre bella, a malgrado degli anni, sempre ammirabile pel suo aspetto di Giunone. Il nostro amico notò con piacere che poteva guardarla senza desiderio, come senza rancore, segno che non era più innamorato, nè impermalito con lei. E questo s'intenderà di leggieri per Ariberti, che non era un cattivo ragazzo e non seguiva l'uso di tanti suoi simili e nostri, i quali sono sempre ammalati d'egoismo e di livore, e non possono perdonare ad una donna il grave torto che ella ha avuto, amando un altro in cambio di loro.

È vero che anche lui, vedendosi lasciato da banda, l'aveva odiata un pochino; ma perchè il suo animo era generoso, quell'odio era svaporato, senza lasciarvi traccia di sè. E la marchesa di San Ginesio gli tornava simpatica, come doveva esserlo per ogni cuore ben fatto. E più simpatico ancora gli era Filippo Bertone, quel buon Filippo che aveva con tanta amorevolezza, chetati gli sdegni di suo padre, quel nobile Filippo che con tanta cura fraterna lo aveva stimolato, aiutato a rimettersi sulla buona strada.

Filippo Bertone era in pochi anni grandemente cresciuto nella stima dell'universale, e si era fatto un nome glorioso, restando l'uomo più modesto del mondo. Onori, grandezze, e simili altre piccolezze, non lo avevano tentato; la sua unica ambizione era quella di non essere nulla in questa «fiera di vanità» che è l'umano consorzio. Cionondimeno, e proprio a suo marcio dispetto, aveva dovuto accettare una cattedra all'Università. Era la cattedra lasciata vacante dalla morte del suo vecchio benefattore. Molti ambivano quel posto, ma nessuno ne parve più degno di lui, che non lo ambiva affatto e che neppure aveva pensato di poterlo occupare. Il voto della scolaresca, il consenso unanime dei professori, additavano il Bertone; e il nostro Filippo dovette inchinarsi e accettare l'ufficio. Nessuno ci trovò a ridire, neppure i concorrenti, che avevano dovuto appendere la voglia all'arpione.

 

A trentacinque anni, Filippo Bertone era già salutato il primo fra i seguaci d'Ippocrate che vantasse la capitale. E quantunque le sue predilezioni fossero tutte per la storia naturale, in cui aveva fatto felicissime indagini, scrivendo un libro che rimarrà meritamente celebre, pure, tanta era la fiducia de' suoi concittadini, così numerosa la sua clientela, tale il concorso dei poveri, che egli non aveva avuto il coraggio di abbandonare la pratica per la teorica, e si era pazientemente rassegnato a studiar meno pei posteri, faticando di più pei presenti.

Al tempo in cui lo rivediamo, il nostro famoso professore appariva ancor giovane, e più assai del suo coetaneo Ariberti, che già incominciava a dissimulare cogli artifizi della moda i danni irreparabili del tempo. La bontà del precetto latino «mens sana in corpore sano» traspariva da quella sua aperta figura, improntata di maschia bellezza. Semplice di modi, non umile, indossava l'abito nero, e stava a Corte con quella serena dignità con cui aveva indossato, in altri tempi, il suo famoso soprabito color di tabacco e abitata la sua modesta soffitta.

A proposito della soffitta, ecco un particolare da non doversi passare sotto silenzio. Filippo Bertone aveva il suo quartierino nella medesima casa che sapete; era sceso di due piani, ma aveva serbato fede al suo nido, e quella soffitta non l'aveva ceduta a nessuno, e andava a chiudersi lassù quando voleva e poteva attendere a' suoi studi prediletti. Quella piccionaia sotto i tegoli era stata la sua prima dimora; colà aveva albergato i suoi libri, i suoi fiori, le sue speranze, i suoi sogni; di là aveva veduta la donna che doveva essere tanta parte e la più cara della sua vita, la prima e l'unica che doveva far palpitare il suo cuore. Filippo Bertone, per dirla con una frase abusata, ma adatta, aveva un'anima d'angiolo; nè affetti volgari, nè altre debolezze, che ogni uomo perdona, o vuol farsi perdonare, avevano mai profanato il suo culto per quella sembianza di divinità che egli si era foggiata sulla terra. E la soave marchesa di San Ginesio, nobilissima figura e saldo carattere di un tempo così vano e corrotto come il nostro, era ben degna di un amore così esclusivo, di una fedeltà così antica.

Ora, dovunque fosse la marchesa di San Ginesio, si poteva star certi di trovare Filippo. La qual cosa va intesa con discrezione, di teatri, balli, conversazioni, ed altri simiglianti ritrovi della civil compagnia; chè non vorrei lo aveste in conto d'un paggio del medio Evo, o di un moderno King Charles.

Diffatti, poco lunge dal salone da ballo, Ariberti si incontrò coll'amico Filippo, e fu una ventura per ambedue, che si vedevano tanto di rado.

–Eccoci qui,—disse ridendo Ariberti,—come due cavalieri del Gobelins, spiccati da un arazzo, ma per far sempre tappezzeria. Tu non balli; io neppure…

–Eh, quanto a me, si capisce;—interruppe Filippo;—la gravità di Galeno ne soffrirebbe; ma tu…

–E dove lasci quella di Temi?—domandò Ariberti.—Un legislatore in ballo, che ti pare?

–-Legislatore sì, ma uomo politico, e gli uomini politici ballano. Vedi i ministri; sono in quadriglia anche loro.

–Sì, ballano sopra un vulcano!—ripigliò Ariberti, adoperando per celia una frase del dizionario giornalistico.—Quanto a me, da un pezzo io vivo lontano dal mondo e dalle sue pompe, e non ho più entratura colle dame. A proposito, ne ho visto una, poc'anzi; sempre bella tra tutte le belle, sempre Giunone all'aspetto e al portamento.

–Ah, capisco;—disse Filippo, che sulle prime non aveva inteso a chi volesse alludere Ariberti.

–Vieni, ti presento a lei.

–No, grazie.

–Perchè?

Domine, non sum dignus.

–Eh via; non siamo mica più i ragazzi di una volta.

–Pur troppo, e per una buona ragione;—notò Ariberti, con accento tra malinconico e burlesco.

–Ma io ci ho di peggio; sono un profano mortale, e voi… siete angioli.—

Queste ultime parole erano state susurrate all'orecchio di Filippo; il quale si fece rosso in volto come una fragola al sole di primavera.

–Gentile amico!—rispose egli poscia, stringendo affettuosamente il braccio di Ariberti.—Se ti sentisse uno dei ministri caduti, non gli sembreresti più quello.

–Perchè, di grazia?

–Perchè tu, mio bell'oratore, non li hai certamente avvezzati a così dolci parole.

–Non le meritavano;—disse Ariberti.—Io, del resto, fo la mia corte ad un ministro vincitore, e gli rendo giustizia.

Filippo intese pel suo verso la gentile allusione, ma credette opportuno di lasciarla cadere.

–Vieni,—diss'egli,—giacchè non balliamo, daremo un giro per le sale, ed io ti farò da cicerone. Una metà della dame sono clienti del tuo umilissimo servo.

–E le conservi sane, a quel che pare.

–Ma sì, ma sì; sono un medico che lascia operare la gioventù e la salute. Il mio segreto è tutto qui.

–Sentimi;—disse Ariberti;—tu dovresti avere nel numero delle tue clienti quella che più mi premerebbe di conoscere.

–Ah, ah! Una fiamma amorosa? Antica, o moderna?

–Nè l'una cosa, nè l'altra. Una figura che mi piace, ecco tutto.

–Per ora;—conchiuse Filippo;—e va benissimo; vediamo dunque dov'è, e, se sarà una mia cliente, ti dirò anche il suo nome. Ma bada, tu dovrai farne buon uso.

–Che intendi tu per buon uso? Saprò che nome porta una bella signora che mi ha colpito, come si ama sapere il titolo di una bella incisione, ammirata avanti lettera; non ti sembra abbastanza platonico?

–Quand'è così, non ho niente a ridire. Avresti tu cangiato il vizio, per avventura?

–E, potrebbe darsi; una cosa è certa, che sto cangiando il pelo. Depongo nel sacrario della tua amicizia,—e, per dir questo, Ariberti abbassò la voce di due toni,—che ho già trovato nella mia povera chioma diciotto fila d'argento.

–Le hai contate?

–E strappate. Non vo' argento, io; sono incorruttibile.

–Ma, e quando i bianchi saranno in maggioranza?

–Mi darò alla pittura, Filippo mio; studierò l'arte del Tintoretto.—

Così chiacchieravano, allegri come due passeri su di un pergolato d'uva matura, mentre andavano di sala in sala, alla ricerca della bella sconosciuta, che premeva tanto ad Ariberti.

–Ah, eccola!—esclamò egli, stringendo il braccio all'amico.—Vedila, là in fondo, seduta su quel sofà. È quella che parla col cavaliere di Cocconato, il gran cacciatore del re.

–Quella? Ariberto mio, mi duole di avertelo a confessare; non è una mia cliente.

–Vedi che disdetta! Appunto quella che m'importava conoscere.

–Mio Dio, se vai proprio a cercarle col campanello! Ora io potrei cavarmela da principe, dicendoti che ella si chiama Venere, e lasciando a te la cura di rintracciare se sia la Capitolina, quella dei Medici, o quell'altra di Milo.

–Insomma, non sai chi ella sia.

–Ti ho detto che non è mia cliente. Ma se tu mi prometti la sua prima infreddatura, il suo primo mal di nervi…

–Filippo mio, tu te la godi come uno scolaro in vacanze.

–Sicuro; ti ho stretta la mano e sono di buon umore; anzi, torno ragazzo. Anche il grave Cicerone amava tornarlo di tanto in tanto, e lo scrisse appunto nel suo libro De Senectute, te ne rammenti? «Ut aliquando repuerascam». Almeno, mi pare che dica così. Ma lasciamo le ciance, e contentiamo l'amico. Quella signora leggiù, se non m'inganno, è una marchesa di Rocca Vignale, cioè Marchesa vedova di Rocca Vignale. Non so veramente come nasca; cioè, mi spiego, la scienza mi insegna come tutti nasciamo, e come sarà nata anche lei; intendo parlare di genealogia e di araldica. È nobile di nascita? È italiana? Haud mihi compertum est; non saprei dirtelo.

–Eh, per non essere il suo medico, ne sai già quanto basta.

–Girando s'impara;—disse Filippo.—Del resto, non sono io che so molto; sei tu che ti contenti di poco. Ma questo è buon segno; non sei innamorato. Se tu lo fosti, vorresti già sapere da me il suo nome di battesimo, il nome di pratica in casa sua, le primavere che canta… A proposito di primavere, so anche questa. La marchesa di Rocca Vignale è rimasta vedova a venticinque anni, ed ora ne ha trenta suonati.

–Non parrebbe, a vederla!

–Ed hai ragione; ella ne dimostra tre o quattro di meno, e probabilmente ne avrà tre o quattro di più del numero che ti ho detto.

–È bella assai!—esclamò Ariberti, che tirava a suo modo la somma.—Andiamo via; se no, le casco ai piedi.—

Questo era detto burlescamente, si capisce; ma anche parlando per celia, l'onorevole Ariberti accusava i primi sintomi di una malattia acuta. Per fortuna, le malattie di questa sorte, quando nascono, non fanno dolore, che anzi le s'annunziano con una insolita pienezza di vita, volto sereno, occhio ilare, piede leggiero, e una nidata di grilli nel capo.

Il nostro eroe non doveva essere malcontento della sua gita al ballo di Corte. Per giunta alla derrata, ebbe parole amorevoli del padrone di casa (il re, se vi piace), che s'intrattenne a lungo con lui, a discorrere sui partiti e sulla necessità di dar sesto al bilancio. Fu un colloquio che fece tremare sul loro trono di cartone i ministri, uno dei quali guardò due volte l'orologio e contò che la grazia reale era durata sette minuti e qualche secondo. Nè fu minore l'attenzione di una ventina di damerini, e cortigiani di primo pelo, che, bazzicando poco o punto alla Camera e non conoscendone molto gli oratori, si domandavano curiosamente l'un l'altro, chi fosse quel giovanotto, che aveva tanta entratura col re.

Si seppe allora, dopo aver preso lingua dai pratici, che era il deputato Ariberti, quel desso che con un discorso aveva fatto cascare il gabinetto anteriore, e non dal sonno, pur troppo, come avrebbero certamente preferito i vecchi ministri. E pochi minuti dopo, trattandosi d'una notizia di quella importanza, il colloquio dell'onorevole Ariberti col re era stato strombazzato per tutte le sale; figuratevi che n'erano state perfino informate le dame che di queste cose per solito non si dànno pensiero, e fanno bene, a mio credere.

Questo epifonema dell'umile narratore non mira ad offendere una bellissima gentildonna, che si trovava per l'appunto al ballo di Corte, e a cui premeva molto di conoscere da vicino il nostro onorevole. Forse la politica c'entrava pochino in quella sua curiosità femminile, e molto invece la vanità. Comunque fosse, io non ho da vederci nulla; debbo dire soltanto, per la necessità del racconto, che quando uno dei suoi cavalieri, servo divoto di tutte le dame, diede a lei la notizia dell'importante colloquio, ella, che pur conosceva Ariberti, per averlo veduto ed udito più volte alla Camera dalla tribuna diplomatica (una bella signora ci ha sempre ai suoi ordini un plenipotenziario purchessia), dimandò con aria di candore al suo elegante galoppino:

–Lo conoscete voi, questo terribile rovesciatore di ministeri?

–Se lo conosco! Siamo anzi amicissimi.

–Ah, bene! Dovreste presentarmelo.

–Io, marchesa?

–Sì, voi; se è vostro amico, anzi amicissimo, come dite…

–Certo; ma qui, su due piedi…

–Stiamo a vedere che vorreste presentarmelo su quattro! Da bravo, cavaliere; fateci questo servizio e contate sulla nostra gratitudine.

–Vi preme molto, marchesa?—domandò il povero cavaliere, che non conosceva Ariberti, e non sapeva che pesci pigliare.—Quand'è così…

–Quand'è così, non mi presentate nulla. Si può far senza del vostro amicissimo e vivere.—

Il cavaliere capì che aveva scontentato la marchesa, e che la sua vantata intrinsichezza coll'Ariberti non era tenuta in conto d'evangelio. Perciò, fatte alcune parole senza costrutto, e solamente per pigliar tempo, andò a cercare il modo di accomodare il pasticcio e di contentare la dama.

Ariberti non era lontano. Il cavalier servente, dopo essergli girato intorno parecchie volte, aspettando di trovar uno che lo presentasse, o un'idea che lo avvicinasse al suo uomo, finì con una alzata d'ingegno, della quale in ogni altra occasione non si sarebbe creduto capace; si accostò all'onorevole Ariberti ed appiccicò audacemente il discorso.

–Bella festa, commendatore, non è vero?

–Sì, bella;—rispose Ariberti;—bella,—ripetè dopo una breve pausa e riprendendo argutamente il suo vicino,—quantunque io non ci abbia il grado a cui le piace elevarmi.

 

–Come?—disse l'altro, cadendo dalle nuvole.—Scusi, sa? Veramente, credevo… Già, non si sa mai… E infine, se non è commendatore Lei, chi ha da esserlo?

Ariberti era uomo, e l'incenso non gli dispiaceva, anche a costo di sentirsi rompere l'incensiere sul naso.

–Con chi ho l'onore di parlare?—dimandò egli allora, atteggiando le labbra ad uno dei suoi più dolci sorrisi.

–Il cavaliere Carletti di Montalero; non si ricorda? Ho avuto il bene d'intrattenermi con Lei nell'atrio del palazzo Carignano, insieme col mio amico…—

E qui il bravo cavaliere sciorinò un nome illustre, senz'altro. Già, le bugie sono come le ciliegie, e tutto sta nel cominciare.

–Ah sì,—disse Ariberti, che non si ricordava affatto.—Ora mi sovviene… Scusi sa! Si ha occasione di parlare con tante egregie persone, che in capo al giorno, uno non si raccapezza più, per quanti sforzi faccia. È male, lo capisco, ma infine, non tutti hanno la memoria di Napoleone il Grande.

–Scusi, cavaliere;—ripigliò il Carletti, che non era un grullo e voleva con qualche arguzia temperare la difficoltà del colloquio;—crede lei che Napoleone ci avesse proprio quella memoria portentosa? Si racconta in casa mia che uno ci si sbattezzò di buona voglia, per non dar torto al grand'uomo, che lo aveva chiamato con un nome non suo. Del resto, si capisce; le cure di Stato son fatte per confondere la testa meglio ordinata. Ed anche il Parlamento ne vuole la sua parte, specialmente quando si fa il deputato come Lei.—

Ariberti s'inchinò, ringraziando; ma dentro di sè, incominciava a sentire un pochino di noia, parendogli che il suo interlocutore appartenesse alla classe dei gasteropodi, ordine dei ciclobranchi, famiglia degli univalvi, lepade in greco, e in italiano patella.

–Veda di non logorarsi troppo;—continuò intanto il buon cavaliere Carletti di Montalero,—gli uomini come Lei sono preziosi; se lo lasci dire, preziosi. Un po' di svago ci vuole. E dica, di grazia, non balla?

–Nossignore;—rispose Ariberti, che era già ad un pelo di mandarlo a tutti i diavoli.

–Come? Con tante dame gentili? C'è qui raccolto il fiore della bellezza e della grazia di tutto il Piemonte.

–Non dico di no; ma conosco poca gente…

–Se io potessi mettermi agli ordini suoi…

–Oh, grazie infinite, ma io…

–Se mi permette,—interruppe il cavaliere, mettendo, come suol dirsi, le mani avanti,—incominciamo fin d'ora. Io la presento a qualcuna delle nostre eleganti. Non sono un uomo politico, e pur troppo il mio poco ingegno non mi dà di aspirare a diventarlo; mi contento adunque di passar la mia vita il meno male che si può, e sacrifico modestamente alle Grazie.

–Le faccio i miei complimenti;—disse Ariberti, che non sapeva se avesse a fare con un impertinente, o con uno sciocco.—Si tenga lontano dalla politica, e non abbandoni le dame; il meglio della vita è qui.

–Gliel'ho detto;—incalzò il cavaliere di buona volontà;—son tutto a sua disposizione. Mi terrei veramente onorato di presentarla…

–Grazie!—gli rispose Ariberti, scuotendo la testa in atto di rifiuto.—Io sono un orso, e gli orsi ballano male.

–Ah, ah! questa è arguta davvero!—esclamò il cavaliere, accompagnando la sua osservazione con tutte le smorfie più adatte, secondo lui, a disarmare la diffidenza del suo interlocutore.—Ma non sempre le cose più argute son vere.—

E cominciava a sudar freddo, il povero cavaliere Carletti di Montalero; e malediceva in cuor suo la smania di darsi per amico di tutti i valentuomini, che l'aveva messo in quel brutto impiccio.

–Dunque, dicevamo,—proseguì infilzando parole alla disperata,—bisogna esordire. Io la presento subito alla più elegante e alla più bella di tutte. Vede, onorevole amico; è un sacrifizio che faccio… Ma intendiamoci, lo faccio volentieri; ho tanta stima e riverenza per Lei!—

Ariberti aveva già perduta la pazienza, e una frase poco parlamentare stava già per venirgli alle labbra. Ma quell'accenno del cavaliere alle qualità della dama, lo trattenne in buon punto. Il cuore, quel benedetto viscere, che entrava per tanta parte in tutte le cose sue, gli aveva dato un sobbalzo nella classica chiostra del petto.

–La più bella!—esclamò egli, sorridendo.—Diamine! Non foss'altro che per conoscere il suo riverito parere in materia di bellezza, io ardirei chiedere il nome della signora.

–A patto di presentazione?—dimandò il cavaliere, cogliendo la palla al balzo.

Ariberti stette in forse un istante. Ma un'idea gli era passata pel capo; che si trattasse di una scommessa, d'un punto da vincere, o altro di somigliante. La ruvidezza in questo caso gli avrebbe fatto un cattivo servizio; la urbanità sola lo avrebbe salvato. Inoltre, il cavaliere Carletti non aveva l'aria di un burlone; e in fin dei conti, ci sarebbe stato sempre tempo a punirlo. Così pensando, l'onorevole Ariberti si commise allegramente all'ignoto.

–A patto di presentazione;—rispose.

–Benissimo;—gridò il cavaliere Carletti;—ed io son certo che Ella non si pentirà di averlo accettato. La più elegante e la più bella non pare anche a Lei che sia la marchesa… di Rocca Vignale?—

Apritevi, spalancatevi, o porte del cielo empireo, e scendano gli angioli a cori, colle cetre, i timpani, e tutti gli altri istrumenti di paradiso, per fare un degno accompagnamento all'inno che si sprigionò dal cuore di Ariberti in quell'ora. Tutti i falchi della bella imagine di Giosuè Carducci, levati al volo in un punto, non basterebbero a dare un'idea lontana di quella gloria di pensieri, di giaculatorie, d'interiezioni alate, che gli balzarono fuori del cervello, all'udire quel nome.

In gran confusione, per altro; che il colpo era stato troppo repentino, e una mente anche più ordinata della sua non avrebbe resistito. Come? Da un'ora egli almanaccava per sapere il nome di quella diplomatica in Parlamento «quasi raggio di stella in ciel turbato». Saputo quel nome per grazia, profumata del caso, che gli aveva mandato tra' piedi Filippo Bertone, gli mancava ancora l'essenziale, cioè l'occasione e il modo di avvicinarsi a quella donna. E la fortuna veniva a lui, sotto le spoglie del cavaliere Carletti di Montalero; ed egli, lo sconoscente, l'ingrato, lo stolido, era stato lì lì per mandarla a tutti i diavoli!

Al pensare che avrebbe potuto commettere uno sproposito di quella sorte, fremette dal capo alle piante. E se i capelli non gli si rizzarono sul capo, credete pure che fu per rispetto al luogo in cui era, e per la mancanza d'un parrucchiere lì pronto a ravviarli.

La prima cosa che egli fece, dopo inarcate le ciglia e represso il moto involontario della sua molla interiore, fu di accostarsi al cavaliere Carletti e d'infilzargli dimesticamente il braccio sotto l'ascella. Ma subito si avvide che correva un po' troppo e che la foga lo avrebbe tradito; perciò si trattenne a mezza strada, e cercò di condire quell'impeto di allegrezza niente affatto diplomatica, con qualche frase argutamente festevole.

–Orbene,—diss'egli,—quantunque io non conosca la dama, eccomi pronto a pagare la scommessa. Son proprio curioso di vedere se Ella è di buon gusto.—

Frattanto lavorava a tirare il braccio indietro. Ma quell'altro aveva già piegato il gomito, e l'onorevole Ariberti si trovò preso come un lupo alla tagliuola. Immaginate la gloria del cavaliere Carletti di Montalero, che indi a poco si sarebbe presentato alla marchesa di Rocca Vignale, colla sua preda sotto il braccio.

Povero cavaliere! Egli non era mica uno sciocco; anzi alle sue ore poteva anche passare per un uomo di spirito. Ma colle donne non c'è spirito che tenga, e il più accorto ci casca. Nell'impresa a lui commessa dalla bella marchesa di Rocca Vignale, il Carletti non ci vedeva niente di strano, e, così com'era stato condotto il discorso, doveva credere che alla signora gli fosse saltato il ticchio di conoscere il primo oratore della Camera, come in ogni altra occasione le sarebbe saltato quello di farsi presentare il tenore che filava così bene lo «Spirto gentil» al teatro Regio, o un autore applaudito, un saltimbanco celebre, un poeta estemporaneo, un famoso scapestrato, un ambasciatore, un direttore di cotillon, od altro dei beniamini della gloria d'un giorno.