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La notte del Commendatore

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E incominciarono i lagni, i battibbecchi, temperati in principio dalla passione, resi ancora sopportabili da un certo qual garbo capriccioso, come le gelosie dei personaggi goldoniani, ma in processo di tempo più acerbi, via via meno facili a chetarsi, e conchiusi da ultimo in una scenata coi fiocchi.

Erano volati da una parte e dall'altra i paroloni; ma quelli di Ariberti non dimostravano altro che il suo dolore; quelli di Mary andavano a ferire il punto più sensibile del cuore umano, la vanità. Una rottura era dunque inevitabile. E si piantarono scambievolmente; quella medesima facilità che aveva accese le faci d'amore, fu pronta del pari ad estinguerle.

A distogliere l'animo di Ariberti dal pensiero niente piacevole di quella catastrofe amorosa, ne sopravvenne un altro egualmente molesto, quello degli esami, che quasi gli erano usciti di mente. Ma già, questa è la storia degli esami, che hanno il torto di capitar sempre a contrattempo. Studiò in fretta, e male, o per dire più veramente, diede una scorsa di gran carriera ai trattati per vedere se gli riuscisse di ritenere almeno i titoli delle materie. La prova gli andò, com'era naturale che andasse, con quella tintura superficiale e con quella confusione di Digesto e d'indigesto in corpo.

Per giunta, il professore di diritto romano gli fece un tiro mancino, che segnò irremissibilmente la sua caduta.

Ad una risposta spropositata che n'ebbe intorno alla classificazione delle azioni giuridiche, quel burlone di professore, trasse al povero Ariberti questa sanguinosa bottata: «già capisco, signor mio, ch'Ella conoscerà solamente l'azione… teatrale».

–Non capisco;—balbettò lo studente.

–Già, l'azione del poeta comico contro il corago, o direttore di compagnia drammatica presso i Romani, per chiedere il pagamento di una favola in cinque atti.

E così, passin passino, trastullandosi con lui come il micio col topolino, il degno sacerdote di Astrea condusse lo studente attraverso tutti gli andirivieni, le viottole e i chiassi delle antiche consuetudini teatrali. Ariberti perdette a dirittura la bussola.

–Capisco,—disse allora il giureconsulto con un suo risolino sardonico;—Ella è più forte in diritto teatrale moderno. Ma questo non è affar mio; favorisca passare al collega.—

Ora, siccome il collega non ebbe più fortuna di lui nelle interrogazioni che fece al nostro povero eroe, ne avvenne che questi fu rimandato senza misericordia agli esami di novembre. Cosa strana, inaudita, quasi, nella facoltà dell'utroque jure; eppure doveva toccare al signor Ariberto Ariberti.

Voleva piangere, e già stavano per apparire i lucciconi tra ciglio e ciglio; ma si trattenne, per non dare argomento di riso ai suoi compagni di corso, gente ignota, o giù di lì, che lo stavano guatando curiosamente ammucchiati sull'uscio della sala tremenda, che risuonava ancora del doloroso giudizio.

–Andate là, signor Ariberto Ariberti,—parevano dirgli quelle occhiate curiose,—per un drammaturgo della vostra forza, per un raccoglitore di Frondi sparse come voi siete, una figuraccia simile è troppo. Che non aveste a diventare un Bartolo da Sassoferrato, lo si capiva, giudicandovi ad occhio; ma s'intende acqua e non tempesta, e voi siete andato a dirittura a sedervi sulla panca dell'asino.—

Così, divorando le sue lagrime col metodo dei camini fumivori, uscì dall'Università con un muso lungo un braccio; che poteva esser broncio e tracotanza ad un tempo. Ma l'uno e l'altro sparirono per dar luogo alla confusione più profonda, quando, sotto i portici di Po, s'imbattè d'improvviso in una certa figura, che gli gelò il sangue nelle vene più prontamente che non avrebbe fatto la testa di Medusa, buon'anima sua. Ha indovinato il lettore? La figura che faceva di simili effetti sul sangue di Ariberti era quella del signor Amedeo, di suo padre.

Si ricambiarono poche parole. Ariberti si avvide al solo atteggiamento del volto paterno, che non era il caso di chiedere un abbraccio, e avvilito e confuso come un cane bastonato, accompagnò il muto genitore al suo quartierino di piazza Vittorio.

Il signor Amedeo ascese le scale con passo grave e misurato, come il famoso commendatore di pietra. Don Giovanni Tenorio già prevedeva la sua sorte, e frattanto quel passo gli rimbombava spaventosamente all'orecchio.

Come furono dentro, il vecchio accigliato diede una spinta all'uscio, che si richiuse da sè. Ci siamo, disse in cuor suo il giovinotto, che avrebbe voluto in quell'ora sprofondarsi due metri sotterra, anche a rischio di dover fare una visita inaspettata ai casigliani del primo piano.

Finalmente, nello studio del figlio, e davanti a quello scrittoio che faceva ancora testimonianza delle recenti ed inutili sue meditazioni sul Digesto, il signor Amedeo si fermò su due piedi a guardare il figliuolo.

–È inutile; non mi fate commedie;—disse il signor Amedeo, troncando le parole in bocca a suo figlio, che, armatosi di coraggio, balbettava alcune parole di pentimento,—so tutto, e le vostre bugie non servirebbero più.—

Ariberto si gettò singhiozzando ai piedi di suo padre.

–Vostra madre è inferma;—proseguì quegli implacabile.—Sapete il perchè?—

Il giovine aveva dato un sobbalzo. Ma prima che potesse profferire parola, suo padre gli gettava sdegnosamente davanti una lettera, con un «leggete!» così imperioso, che egli non ebbe più il coraggio di chiedere altro.

Prese in quella vece la lettera e l'aperse. Era sottoscritta «un amico»; la solita firma degli anonimi. Questo amico mandava da Torino al signor Amedeo le più brutte nuove del figlio, della sua scioperataggine, dei suoi debiti e via discorrendo. Un cenno intorno al probabilissimo esito degli esami, disse abbastanza chiaramente ad Ariberti che l'anonimo era un compagno di Università, e il nome di Ferrero gli corse tosto alla mente. Codardo e briccone! Così si vendicava il compilatore della Dora dell'invio dei padrini.

Ariberti aveva a mala pena finito di leggere, che il signor Amedeo gli buttò a' piedi una seconda lettera. Questa era di Aronne, il buon servitore del Dio degli eserciti; e informava il padre degli imprestiti fatti al figliuolo, domandandogli se egli, Aronne, poteva all'occorrenza fargliene di nuovi. Generoso Aronne! Anima candida come le sue unghie, o poco meno!

Il signor Amedeo sapeva proprio tutto, siccome aveva detto pur dianzi. Che cosa soggiungergli allora? E prima d'ogni altra cosa, come guardarlo in faccia? Il nostro eroe non sapeva davvero in qual modo uscire dal ronco. Frattanto rimaneva lì grullo, cogli occhi bassi e le braccia penzoloni davanti al suo giudice, aspettando un'altra frase che lo facesse cadere da capo sulle ginocchia.

Dopo alcuni istanti di silenzio, che al nostro eroe parvero un secolo, e che gli diedero una pregustazione dell'inferno, come l'hanno immaginato e perfezionato i teologi, il signor Amedeo domandò asciuttamente a qual somma ascendessero i debiti del signorino.

La somma, per uno studente, era enorme, ed Ariberti non sapeva risolversi a dirla. Balbettò alcune frasi inintelligibili, arrossì, impallidì, sudò freddo, e finalmente non trovò altra via per uscire d'impaccio fuorchè dare in un nuovo scoppio di pianto.

–Finiamola!—ripigliò severamente il signor Amedeo.—Il buon nome della mia casa io non lo salverò mica colle vostre lagrime di coccodrillo. Parlate, e sia per vostra punizione; a qual somma ascendono i vostri debiti?

–Padre mio… non saprei…

–Come?—tuonò il signor Amedeo.—Non sapete.

–Cioè… volevo dire… non mi bastava l'animo…

–Vi è pure bastato per farli! Suvvia, meno chiacchiere; di che si tratta? di sei mila lire?

–Di più;—mormorò tra i singhiozzi Ariberti.

–Dieci?

–Di più. Ah, padre mio, ve ne supplico; uccidetemi colle vostre mani, ma non mi fate morir di vergogna.

–È bene che la conosciate ancora;—notò il signor Amedeo.—E poi, dove sarebbe la moralità, se non aveste a sentire tutto il peso delle vostre opere malvagie?

–Oh, se lo sento, padre mio, se lo sento! Vorrei esser morto appena nato, pur di non esser costato tanti dolori alla mia famiglia.

–Ma insomma, disgraziato,—gridò il signor Amedeo, muovendogli incontro con piglio sdegnoso,—si si può sapere senza tante frasi drammatiche, tutto il male che avete fatto fin qui? Avreste per avventura creduto di restar orfano a breve scadenza, tanto da impegnarmi cogli usurai tutto quello che i vostri vecchi hanno accumulato colle loro fatiche?

–No, vi assicuro… credo che fra tutto… quindici, o venti… sì, debbono essere ventimila..

–In un anno? Ma bene, per Dio! Tirate innanzi così. Alla mia morte, che spero non sarà lontana….

–Padre mio!

–Non m'interrompete! Alla mia morte non vi resterà più altro che darvi alla strada, come un volgare assassino. È la sorte che vi aspetta; una caduta ne chiama un'altra. Nemico della vostra famiglia fin d'ora, lo diverrete della società; dissipatore della vostra sostanza, diverrete ladro dell'altrui.

–Padre mio! padre mio!—gridò forsennato Ariberti.—Uccidetemi, ve l'ho detto, uccidetemi, ma per quanto avete di più sacro, per la mia santa madre, non mi parlate così!

–Vostra madre! La ricordate in buon punto. Vostra madre è in letto da due giorni, e per voi, pel dolore, e per la vergogna delle vostre azioni da galera.—

Ariberti non s'inalberò, non udì nemmeno la frase esorbitante che la collera strappava alle labbra di suo padre. L'immagine della sua buona genitrice inferma per cagion sua gli aveva messo in corpo la febbre e lo faceva dare in urla così disperate, che perfino il signor Amedeo ne ebbe pietà.

–Andate a Dogliani;—gli disse allora,–vostra madre vi aspetta. Qui intanto non avete a fare più nulla, ch'io mi sappia.

–Oh no, purtroppo;—rispose il giovane—ma voi, padre mio?

–Non vi date oggi più pensiero di me che non abbiate fatto in quest'anno di scapestrataggine;—rispose il signor Amedeo, tornando alla sua parte di burbero.—Io, poi, ci ho il mio resto di contentezze a Torino. Non mi avete voi nominato il vostro banchiere, il vostro maggiordomo, il vostro elemosiniere? Andate, e fatemi la grazia di non voltarvi più indietro.—

 

Il giovine si avvide che non c'era più verso di cavar altro dalla giusta severità di suo padre, ed uscì colla mente in iscompiglio. Soltanto per istrada e molto lontano da casa si ricordò che non aveva danari in tasca per fare il viaggio. Ma, se ne fosse pur ricordato qualche minuto prima, o nelle scale, o in casa, avrebbe egli forse avuto il coraggio di chiederne a suo padre?

In quelle distrette, il caso o una segreta ispirazione del cuore, lo condusse difilato in piazza San Carlo, e proprio alla svolta della via di Santa Teresa. Lasciamo star dunque il caso e l'ispirazione, e diciamo i suoi santi protettori. I quali, dopo aver fatto tanto, compirono l'opera, spingendolo oltre, fino all'uscio di quella casa in cui abitava Filippo Bertone.

Dice un proverbio che gli amici si conoscono alla prova. Aggiungerò coll'esempio di Ariberti che al momento della prova s'indovinano. Egli non era mica andato a cercare i cavalieri di Malta, i suoi compagni di scioperatezza, coi quali aveva passato ancora la sera antecedente, per far la vigilia del suo esame infelice. Andava in quella vece da Filippo Bertone, dal suo fortunato rivale, in cui la sera antecedente egli vedeva ancora un nemico.

Filippo gli aperse le braccia e se lo strinse al petto con tenerezza fraterna. Voleva sorridergli; ma lo vide così stralunato, che il sorriso gli si gelò sulle labbra.

–Mio Dio!—esclamò egli impallidendo.—Che ti è accaduto, Ariberto?

–Rovinato, Filippo, rovinato!—rispose il giovane mentre si lasciava cadere come corpo morto su di una scranna.—Rimandato all'esame; rimandato, capisci? Mio padre è qui. Egli sa tutto, le mie pazzie, le mie colpe. Ne ho molte… ne ho troppe… ed anche con te, Filippo…

–Oh, non parlar di me, te ne prego. Vedi, ti ho sempre aspettato. L'avevo qui nel cuore: egli è buono e tornerà. Sarei venuto io per il primo, se non avessi temuto di farti dispiacere; sarei corso, se ti avessi saputo infelice.

–Lo sono, Filippo mio, lo sono, e più che tu forse non credi. Ho perduto l'affetto di quell'uomo onesto e leale che è mio padre; la mia santa mamma è inferma dal rammarico che io le ho cagionato; insomma, io sono un disgraziato, e mi fo orrore, capisci? mi fo orrore!

Qui, d'una in altra parola, Ariberti scese a raccontar ogni cosa a Filippo; della sua vita sregolata, degli amori, dei debiti, degli esami falliti, e via discorrendo.

–Povero amico, fatti animo–gli disse Bertone. Un padre come il tuo ama sempre il suo sangue, qualunque cosa egli faccia; fuori, s'intende, il bruttarsi con azioni malvagie od infami. Tu ti sei indebitato fino agli occhi e non hai studiato come dovevi. È male, lo capisco, ma non è fortunatamente un delitto di lesa famiglia, come lo sarebbe stato per me. Non ti disperare, Ariberto; parlerò io a tuo padre. Tu frattanto va subito a Dogliani per consolare la tua povera mamma. Chi sa che il vederti non le ridoni la salute, meglio di tutte le ordinazioni del medico! So ancor poco di medicina,—soggiunse Filippo sorridendo,—ma già abbastanza per conoscere il pregio delle medicine morali. Va dunque, e subito. Se ti occorre danaro, eccone.

–Che fai?—balbettò Ariberti confuso.—Tu ti privi per me…

–Non temere; ne ho più del bisogno. Son ricco, sai? Guadagno un dugento lire al mese e fo ancora qualche sparagno.

–E come?—chiese Ariberti, meravigliato più dei guadagni che non dei risparmi del suo amico Filippo.

–Ho già parecchie lezioni,–rispose questi candidamente,—ed anche qualche ripetizione di anatomia. Che vuoi? Insegno quel che non so;—aggiunse Filippo, accompagnando le parole con uno dei suoi malinconici sorrisi;—ma studio la mattina e insegno più tardi quello che ho imparato io medesimo un'ora prima. In tal guisa non inganno nessuno. Mi stanco un pochino, è vero; ma tu lo sai, sono un montanaro e ci ho uno stomaco di ferro.

–Mio buon Filippo! Tu meriti davvero di essere amato;—esclamò Ariberti, gittandogli le braccia al collo.

E il pensiero gli correva in quel mentre, ma senza gelosia, alla bella marchesa di San Ginesio. Quella severa Giunone amava il suo Filippo; su questo non ci cascava dubbio. Ma questa, per chi conosceva lui e lei, doveva essere la cosa più naturale del mondo. Ariberti si sarebbe meravigliato fortemente, avrebbe creduto meno alla virtù e all'influenza della virtù, se la cosa fosse andata altrimenti.

–Grazie di questo e dell'altro;—ripigliò Ariberti, dopo aver ceduto a quell'impulso di affetto e di ammirazione.—Tu dunque parlerai a mio padre? otterrai il suo perdono per me?

–Sì, non dubitare, parlerò per te, gli spiegherò…. Veramente, non so che cosa potrò spiegargli, io che vivo fuori di questi viluppi… Ma infine gli dirò il buon cuore che hai, ed egli mi crederà. È tuo padre, l'ho detto, e non potrà vederla diversamente. Quanto a me, io spero che l'amicizia mi renderà facondo come Ortensio, caldo come Demostene.

E Filippo Bertone mantenne la promessa. Vide il signor Amedeo quel medesimo giorno, ma non entrò in argomento, perchè il babbo di Ariberti era troppo adirato col figlio. Scambio di affrontarlo, col pericolo di farsi mandare a tutti i diavoli, lo circuì bel bello, gli si fece compagno nelle sue gite per Torino, mettendo fuori ora una parolina, ora un'altra, e aspettando pazientemente le occasioni più favorevoli. E siccome il signor Amedeo tra carezze e minacce, era riuscito ad ottenere da quel briccone di Arun el Rascid un grosso taglio sul preteso suo credito, e con dodicimila lire date lì per lì riusciva ad estinguere tutti i debiti del suo signor figlio, il nostro Bertone giunse ad averlo più maneggevole, e la perorazione fece un effetto che Demostene ed Ortensio redivivi non si sarebbero ripromessi di certo, se si fossero trovati nei panni di Filippo Bertone.

Sì, veramente, Ariberto si era diportato da matto. Ma era giovine, faceva i primi passi nel mondo, e i primi passi son sempre difficili. Lo sapeva Filippo Bertone, che veramente non era cascato, ma soltanto perchè stretto dal bisogno, senza la croce d'un quattrino e l'ombra d'una speranza negli aiuti della famiglia. Filippo si buttava giù, si calunniava, ma lo faceva a buon fine. Per contro si esaltava, si nobilitava a dipingere il cuore dell'amico, a dimostrare come fosse amaramente pentito de' suoi trascorsi, quanto avesse pianto tra le sue braccia, come egli avesse durato gran fatica a chetarlo, quali promesse e giuramenti avesse religiosamente accolto da lui. Insomma, tanto disse e fece il bravo Filippo, che il signor Amedeo si lasciò intenerire e quando tornò a Dogliani, fra la moglie trepidante e il figlio confuso, gli vennero meno le forze a star grosso.

E qui bisognerà dire che Ariberto non mentì alle promesse che Filippo aveva fatte in suo nome. Fu quello l'ultimo dolore che egli cagionasse ai suoi parenti. La lezione era stata dura e gli aveva lasciato una traccia profonda nell'anima.

Ogni suo pensiero, ogni studio, ogni cura, fu in lui di riacquistare il tempo perduto. Alla seconda prova d'esame era armato di tutto punto e non fu il caso di voltargli le sue risposte in burletta, bensì di dargli i pieni voti e la lode. Riconquistato in tal forma il suo onore, non volle rimanere a Torino; se ne andò a Pisa, a far vita nuova; e là, non so dirvi come annaspasse, fatto sta che, senza guardar l'Ussero con occhio torvo, senza disdegnare la baraonda «tanto gioconda» del Giusti, guadagnò un anno di corso, e in otto mesi prendeva il berretto, l'anello e tutte l'altre insegne di Bartolo e di Cujacio.

CAPITOLO XVII

"Poëta nascitur, orator fit".

Si era innamorato dello studio, come già di tante altre cose. E tra tutte le nobili discipline (notate, lettori umanissimi, come anche lo scrittore si metta sul grave e adoperi parole convenienti al soggetto) tra tutte le nobili discipline, io dico, il nostro eroe preferiva le più ostiche, come a dire l'economia politica, il diritto amministrativo, la procedura civile. Chi l'avesse mai detto, qualche anno prima all'autore delle Frondi sparse, si sarebbe fatto ridere sul muso. Ma già, lo ha scritto un autore di vaglia: «mutano i saggi», ed io potrei aggiungere, coll'esempio di Ariberti, anche coloro che non lo sono.

Quando egli si addottorò in leggi, che fu due anni dopo la sua partenza da Torino, gli aveva preso la mania del grave, come aveva avuto prima la manìa dello scapestrato. Per altro, non era tutto capriccio in lui, o amore di novità. Gli stavano sempre davanti le tristi scene in cui si era chiusa la sua vita di buontempone, e lo umor suo ne risentiva le angoscie. Dottor Fausto in sessantaquattresimo, Ariberti non volle e non ebbe più una ora di svago. Aggiungo, che provava una certa voluttà tutta sua particolare a stillarsi il cervello in quel modo, tra un codice e un repertorio di giurisprudenza, tra una allegazione e una causa ingarbugliata, di quelle che ai curiali paiono solamente «complesse» e piene di bei «rapporti giuridici».

Esagerazione di propositi, comune a tutti i nuovi convertiti! Pel nostro neofito si aggiunse la morte della madre, vittima della rottura di un aneurisma, secondo che sentenziarono i medici, ma che alla sua pietà filiale doveva parere colpita di ben altro male, e accrescergli in cuore i rimorsi. La santa donna si era spenta benedicendo a suo figlio, e facendo voti perchè si conservasse così assegnato e studioso come si dimostrava da due anni. E questo aiutò a renderlo più triste, più chiuso, più intento al lavoro, che non fosse dapprima, e per conseguenza più dimentico delle allegrezze mondane, dei sollazzi e delle espansioni della sua medesima età.

Poi, non c'è cosa che invecchi un uomo anzi tempo, come la pratica forense. Alla mattina, anche prima di asciolvere, e sto per dire di essersi levato il sonno dagli occhi, ci sono le conclusioni da finire pel causidico, i punti controversi da chiarire, la «concione» da meditare per l'udienza vicina. Il tribunale vi ruba le due o tre ore, spesso colla noia di attendere che sia chiamata la vostra causa. Tornate a casa, seguito dalle benedizioni o dai moccoli del cliente, e vi assediano da capo i procuratori con altre conclusioni da preparare, clienti che non pagano e vi chiedono un consulto, società, istituti, che vi domandano un congresso, o vi appioppano la cura di mettere le loro trappolerie in riga col codice.

E in queste occupazioni vi capita addosso l'ora del pranzo, o desinare che sia. Avvertito dal servitore, ordinate che si dia in tavola, e frattanto andate a caccia di articoli per un'altra mezz'ora. Così avviene che, quando finalmente potete sedervi a tavola per mangiare un boccone in furia, la minestra è rifredda, l'intingolo non ha più gusto, il pasticcio sente il bruciato, e l'appetito non vi tien più compagnia. E la sera, poi? La sera bisogna tornar nello studio; il teatro, i salotti, i geniali ritrovi sono proibiti come le pistole corte; è l'ora dei clienti; l'avvocato ha da aspettare i clienti, anche quando c'è da scommettere cento contro uno che i clienti non si lasceranno vedere.

Imperocchè l'avvocato è nel suo studio quello che un ragno nella sua buca. Il povero insetto solitario se ne sta in attesa per giorni e per settimane, regge l'anima coi denti, invocando una mosca, disposto a contentarsi d'un moscherino purchessia. E per giorni che passino, per settimane che si seguano e si rassomiglino, il povero solitario non può muoversi dal suo bugigattolo. Se per caso un moscerino avesse a passare da quelle parti e non trovasse l'avvocato! Scusate, volevo dire il ragno; ma già, poichè ho detto l'avvocato, lo lascio stare; mettete voi il cliente in luogo del moscerino, e tutti pari!

La vita materiale dell'avvocatino Ariberti, fra il tribunale e lo studio, condannato per anni ed anni a non avere che moscerini, clientucoli al civile e ladruncoli al criminale, s'intenderà facilmente; nè io farò fatica di descriverla, nè voi, lettori umanissimi, farete quella di starla a leggere. Vorrei parlarvi in quella vece della sua vita intellettuale; vorrei dirvi del suo cuore, che diavolo facesse in quella galera. Ma già, mente e cuore, se non erano atrofizzati, sonnecchiavano, come si sonnecchia in diligenza, o in ferrovia, tra un paese che si è lasciato e un altro a cui non si è ancora arrivati.

Diffatti, Ariberto Ariberti, era proprio in quella età che un uomo incomincia a sentir le sue forze e vuole giungere con esse a qualcosa, a scalzare una montagna, o a cavare un ragno da un buco. Si è invasi da una febbre di operare, sollecitati da un desiderio di andare, non importa dove, rosi da una maledetta ambizione che si cruccia da sè, per mancanza di un fine stabilito, e mentre vi fa anelare ad una carica di ministro, o ad altra di quelle altezze intorno alle quali c'è il vuoto, vi fa durare una fatica da cani per afferrare un seggio di consigliere comunale, una croce di cavaliere, una presidenza di comizio agrario, od altra simile tra le umane grandezze, in cui s'assottiglia l'ingegno, e per cui soventi si perdono i sonni, pur di far crepare d'invidia un centinaio di sciocchi della vostra medesima forza.

 

A quei lumi di luna, l'amore, il povero amore, non è più, o non è ancora tornato, il gran negozio della vita. Imperocchè, non vanno neppure contati i ripeschi da dozzina, i capricci, le effimere ebbrezze che gli uomini seri ammettono a guisa di svago dalle cure più gravi, o di abitudine senza conseguenza, e che meritano il nome di amore come la stretta di mano e il darsi del tu meritano il nome di amicizia, in questo commercio quotidiano di graziose menzogne, che è la nostra vita cittadina.

Trista cosa, non è egli vero? E diffatti io ve ne parlo di volo, e solamente perchè non posso a dirittura passarmene, essendo che questa è la storia del mio eroe, ed io, fermandomi con una certa compiacenza ai punti principali, debbo pure accennare il rimanente, e colmar gl'intervalli. Del resto, il mio eroe non è veramente un eroe; è semplicemente un uomo, con tutte le sue debolezze. E se gli pare che sia una bella cosa esser fatto consigliere comunale o provinciale, che ci ho da far io? Gli è parso dapprincipio che ciò dovesse aiutarlo nella sua professione d'avvocato, e può anche darsi che avesse ragione; ma badate, io non metterei una mano sul fuoco per guarentirvelo, e non farei due passi sopra un mattone (vedete quanto sarebbe lieve il fastidio!) per andare a sincerarmi del fatto.

Comunque sia, eccolo con un monte di faccende sulle spalle. È consigliere di tutto un po' ed ha mano e voce in una dozzina di commissioni, l'una più utile dell'altra al buon andamento della cosa pubblica, il cui intento, chi nol sapesse, è di andare alla peggio. L'avvocato consigliere è proprio nella sua beva, e, non c'è che dire, trova tempo a far tutto, a pensare, a ricordarsi di tutto. S'intende che non ne ha per leggere un bel libro, e meno ancora per dettarne de' suoi. Dio buono, e come avrebbe a fare, con tanta roba alle mani? Già da un pezzo non scrive che conclusioni, allegazioni, relazioni, esposizioni, ed altre consimili negazioni d'ogni arte e di ogni bellezza. È un uomo serio, che ci s'ha a dire? Certo, non l'ho fatto io quel che è; e poichè siamo sull'argomento, e perchè non abbiate a darmene carico più tardi, vi giuro fin d'ora, e per tutto quello che io mi ho di più sacro, incominciando dai vostri occhi che mi leggono, vi giuro, io dico, che non gli ho dato il mio voto quando uscì eletto deputato al Parlamento da uno di quei collegi delle sue Langhe, tanto care al mio cuore.

Eppure, non posso e non voglio negare che i suoi elettori mandassero alla Camera un fior di galantuomo. Debbo anche aggiungere, per debito d'imparzialità (non giornalistica, intendiamoci che è imparzialità a denti stretti), come il candidato non brigasse poi troppo per farsi eleggere. Il caso lo aveva aiutato in tutti i modi, prima colla morte del titolare, poi colla pronta convocazione del collegio, da ultimo con la mancanza di competitori temibili. Era giovane, e qualche giornale torinese disse ridendo di lui, come di Pier Carlo Boggio, ch'egli era il deputato trentenne. Ma lo avere trenta anni non era mica una disgrazia. Intanto, gli aveva giovato molto il non essere troppo in vista a Torino, dove le invidie e i rancori non avrebbero tralasciato di perseguitarlo, incarnati nei Ferrero, nei Vigna, nei Balestra, nei Candioli, e via discorrendo. E più ancora gli era tornato utile lo aver vinto una causa di qualche rilievo per un suo conterraneo, intendente e factotum di un Creso delle Langhe, i cui fittaiuoli ed aderenti votavano con una disciplina esemplare.

In tal guisa favorito dalla fortuna, il nostro Ariberti potè credere, per un giorno almeno, che tutto fosse oro di coppella a questo mondo, poichè nessuno, durante il periodo elettorale, gli aveva dato del venduto, o del ladro. Un diario della capitale, che propugnava una delle solite candidature universali, non potendogli ancora dir altro, perchè non lo conosceva e non ci aveva ai fianchi un Ferrero, si contentò di dargli dell'asino. Ma Ariberti si era tastato le spalle, e, non avendo sentito il basto, si era contentato di sorridere. Se non ci hanno altri moccoli, aveva detto tra sè, possono andarsene a letto al buio.

Salutiamo dunque il signor deputato, e rallegriamoci col signor Amedeo, il quale da tanti anni vedeva il suo figliuolo arare diritto e finalmente raccogliere i frutti di quello che aveva seminato.

Il signor Amedeo in quella faccenda non ci vedeva troppo giusto; bisogna confessarlo a suo marcio dispetto. Ma i babbi son tutti tagliati ad una guisa; amano di vedere i loro figliuoli che tirano al sodo; e, quando ciò sia, non la guardano poi tanto nel sottile; anzi, voi li fareste maravigliare non poco, se vi metteste alla prova di persuader loro che ci possono essere altre fantasie, altre passioni, più pericolose delle scappatelle di gioventù, degli amori, dei debiti, e via dicendo; se faceste trapelare al loro miope affetto quali sopraccapi, ambizioni, e struggimenti, lavorino sotto l'intonaco di una vita assegnata, e che razza di granchi vivano e si moltiplichino, nelle acque in apparenza più chete.

Ma siamo giusti, i poveri babbi hanno proprio a sapere e prevedere ogni cosa? Lasciamo, vivaddio, che si consolino di vedere i loro figliuoli arar diritto e non mettiamo pulci negli orecchi a nessuno.

Ora, il nostro Ariberti arava diritto, non c'è che dire. Avvocato di qualche grido, consigliere, cavaliere, deputato, era un uomo oramai che andava innanzi da sè e non gli bisognava l'aiuto delle falde. Il signor Amedeo poteva dunque intuonare il Nunc dimittis e chiuder gli occhi in pace, senza timore che il suo Ariberto gli sgarrasse quind'innanzi una spanna. Suo figlio, a farla breve, era un uomo sodo, e andava per la maggiore.

Ahimè, povera vita! Noi ne spendiamo mezza a sospirare il futuro, e l'altra mezza a rimpiangere il passato. La nostra gravità è tutta qui, come in estratto, e non se ne cava neppur tanto da farcene un brodo per l'ultimo giorno di malattia, quando si legge la moralità della favola.

Per altro, non corriamo così a fiaccacollo colle deduzioni. I primi tempi di quella vita nuova di Ariberti non furono, o non gli parvero brutti. Le consuetudini parlamentari gli schiudevano come un altro orizzonte agli occhi dello spirito. Il viavai, l'affaccendarsi di tanti colleghi, il meccanismo dei partiti, le amicizie facili, le speranze comuni, gli davano una sembianza di allegra operosità, che doveva a tutta prima lusingarlo, tanto più quando gli veniva alla mente che tutti quei manipoli d'intelligenze, erano il meglio dello Stato, fior di roba, cervelli sopraffini. L'onorevole Ariberti non li aveva ancora esaminati per bene, non aveva ancora rivolto a sè stesso il «quot libras in duce summo?» di quella lingua tabana che fu pe' tempi suoi Giovenale. E poi, e poi, che serve tacerlo? Egli ci aveva nel cuore un sentimento grave e poetico ad un tempo, che gli scaldava tutte le fibre e lo faceva guardare con fiducia, davanti a sè: giovare alla patria, meritare la gratitudine de' suoi concittadini, ottenere un buon punto nella lotteria della storia.

Illusioni che avevano a svanire assai presto! Appunto allora che l'onorevole Ariberti poteva giovare col senno e colla parola alla patria, appunto allora incominciarono a pungerlo gli strali della critica, che non si fermavano soltanto all'epidermide. Avvocato, poteva ancora essere tollerato; il numero dei rivali era ristretto; e poi, Dio buono, si trattava di rivali; laddove, nel campo della politica, non erano soli i rivali a fargli il viso dell'armi, ma si addensavano intorno a lui gl'invidiosi, gli odiatori di professione, i cani ringhiosi per natura, e a farla breve, tutto il banno e l'eribanno dei cattivi, degl'impotenti, dei malsani, degli spostati, degli sciocchi, e chi più ne ha ne metta. Tutti erano contro di lui, tutti prendevano a sfrombolarlo da lungi, quale colla matita del caricaturista, quale coi periodi asmatici d'una lettera politica, quale coi perfidi accenni di una notizia recentissima; che in queste e in altre forme, che troppo mi condurrebbe in lungo il descrivere, le serpi potevano schizzare il loro veleno, o la bava.