Za darmo

La notte del Commendatore

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E lui subito a cercarlo. Sarebbe andato di grand'animo a razzolare nelle miniere del Capo di Buona Speranza, se fossero state un po' più alla mano e non gli avessero fatto perdere cinque mesi di tempo, tra l'andata e il ritorno.

Peraltro le difficoltà che doveva superare per impadronirsi di un pezzettino di carbonio cristallizzato, non erano minori a Torino, sebbene quei graziosi nonnulla scintillassero a centinaia nelle vetrine de' gioiellieri. Ci erano infatti quelle maledette lastre di cristallo, che lasciavano vedere e non toccare, c'era per giunta la necessità preliminare di metter fuori quella merce di scambio che è l'oro, o l'argento, vecchio ingrediente di ogni contratto, che la civiltà, con tutti i suoi progressi non ha ancora inventato il modo di lasciare da banda.

Ora il nostro eroe, lì per lì, di quella merce preziosa non si trovava ad averne. Il Priore aveva già snocciolato un cinquecento di lire, e non poteva rendergli un nuovo servizio. Lo mandò per conseguenza da Bonisconti; ma Bonisconti ne aveva meno di lui, e lo mandò da Valerga.

Da Valerga, il poeta? Sissignori, e non era una celia. Valerga poteva aiutare in quel bisogno Ariberti. Apollo s'era messo nei panni di Mercurio: e voglio dire con questo che Luciano si mise l'ali ai piedi per correre in traccia dell'araba fenice dei banchieri e far trovare al suo giovine amico il denaro corrente, coll'interesse ragionevole del seicento per cento. Così almeno mi sembra che debba andare la proporzione, perchè Ariberti sottoscrisse per sei mila, non ricavando dalla merce acquistata che mille.

Il sacrifizio parrà troppo forte a chi va comodamente per la via piana; ma a ciò si risponde che il traffico bene inteso non deve, con un soverchio d'agevolezze nello sconto, lusingare le menti dei giovani e promuovere la manìa scialacquatrice dei figli di famiglia. Va bene che il nostro eroe non domandava la somma per scialarla in bagordi, bensì per fare un grazioso regalo alla sua diva; ma anche su questo capitolo il Ghetto era assai rigoroso, e alla fin fine non ci aveva nulla a vedere nelle ragioni degli innamorati.

–Volete danaro? Eccone; in mercatanzia, ci s'intende, per rivenderla e farne commercio, come dice la frase d'obbligo, e come consiglia il bisogno di non dare nell'occhio ai nemici dell'usura. La merce è danaro; pigliatela per quel che fa la piazza; un compare la ricomprerà, e, nel prezzo che farete, io non c'entro. Del resto, siamo filosofi; l'importanza del danaro va misurata al fine che l'uomo si propone di raggiungere. Si vuole una soddisfazione? Bisogna pagare anche quella. La domanda rincara la merce; è legge economica. E poi, con che diritto vi lagnate dell'usuraio? Voi giovani comperate con mille, mettendo di costa la gioventù e la fortuna, quello che altri non otterrebbe al prezzo di ventimila. Dunque, ecco subito diciannove mila di differenza, che io posso mettere in coscienza a mio profitto. Questa è giustizia distributiva e null'altro.—

Così doveva ragionare il vecchio Aronne (Arunel-Rascid, come lo chiamava Luciano Valerga) che imprestò ad Ariberti il danaro, o gli vendette la sua merce in guanti e calze di seta, che tornava lo stesso. La merce valeva poco in confronto della somma, direte; ma, e la firma dello studente valeva forse di più? L'onesto Aronne non doveva essere compensato in qualche modo del risico?

La ricerca del capitalista, i negoziati, la sottoscrizione delle cambiali, la consegna della merce, la commedia del sensale per far parer manna ad Ariberti le mille lire, in cambio di seimila che doveva valere tutta quella roba di scarto, tirarono maledettamente in lungo il negozio. I moccoli attaccati dallo studente non furono pochi, anche perchè sul più bello si venne a conoscere (e il sensale mostrava di non vederci più lume) che metà dei guanti venduti dal giudeo erano tutti della mano sinistra, e che probabilmente un così gran numero di monchi della mano destra non si sarebbe trovato a Torino. Finalmente, il nostro Ariberti, che già non sapeva più con chi farsela tra i santi del paradiso, avendoli invocati tutti a suo modo, intascò le mille lire e gli parve ancora una grazia particolare del cielo, che, per dire la verità, egli aveva assai poco meritata.

Intascò le mille lire, ho detto, ma gli si dimezzarono pochi minuti dopo nella borsa, per la compera di un elegantissimo medaglioncino, tempestato di brillanti e corredato del suo monile, affinchè Giselda potesse cingerne il collo.

La signora Szeleny vide il gioiello, ne rimase grandemente ammirata e lo fece anche vedere a Maria, che promise ad Ariberti di ritrattare la sua frase di Moncalieri, al secondo presente d'uguale valore che egli avrebbe fatto a Giselda. Ma questa le diede sulla voce, anzi non accettò il dono del giovane, e non ci fu verso di farglielo tenere.

–Alla mia serata,—gli disse da ultimo, temperando nelle preoccupazioni dell'artista gli scrupoli della donna,—alla mia serata, non dico di no; farà spicco, e qualche altra regina del palcoscenico, morrà per cagion vostra, dalla rabbia.—

Di fatti, la stagione teatrale al Regio era già abbastanza inoltrata e Giselda aveva cantato in due opere di ripiego, per dirla anche noi nel gergo di palcoscenico. Disgraziatamente la cantatrice non era piaciuta che per la sua bellezza, o piuttosto la sua bellezza aveva fatto passar sopra alla povertà della voce e dell'azione drammatica. Cantava bello, come suol dirsi con vecchia arguzia dagli Aristofani delle platee. Ora, perchè la bellezza frutti applausi da sola e faccia andare in visibilio i dolci di sale, è mestieri che questa bellezza si mostri umana, e lusinghi, coi sorrisi dalla ribalta e colle presentazioni in casa, l'amor proprio ai semidei del proscenio, e agli eroi delle sedie chiuse. E questo non era il caso della signora Giselda, che aveva fatto poche conoscenze tra gli onnipotenti del giorno, quantunque ad Ariberti paressero già troppe; e quelle poche, poi, non sapevano acconciarsi di buon grado alla eterna presenza di quello sbarbatello, geloso in vista e permaloso, secondo i casi, peggio di un antico cavaliere spagnuolo.

Dunque, visibilio no, e gli applausi erano pochi. La freddezza del pubblico recava per contraccolpo una nuova e più grande molestia allo studente, costretto a farsi in quattro, in otto, in dodici, per procacciare un'ombra di partito, che le dicesse brava nei punti topici e sostenesse i battimani, o per dettare su questo giornale e su quello articoli laudatorii, che dovevano andare, diligentemente ritagliati dalla pezza, a rimpinzar le colonne dei giornali teatrali delle altre città, come testimonianza credibile dei trionfi di Torino.

Giselda lo ringraziava, ma senza andare in visibilio neppur lei, come lo avrebbe ringraziato per un mazzolino di viole mammole, o per una scatola di confetti. Forse tutti quegli atti di servitù le parevano naturali, anzi obbligatorii in ognuno che l'avvicinasse: fors'anco vedeva di non avere incontrato il favore del pubblico e la sua dignità non le consentiva di riconoscerlo apertamente, con dimostrazioni di gratitudine a quel povero ragazzo. Certo, ella si dava molto pensiero del suo avviamento artistico, e per naturalissima conseguenza le si era infiltrato nell'amena un miccino di vanità, d'amor proprio, di gelosia, in faccia alle altre sue compagne di palcoscenico. Quello delle quinte è un altro mondo nel mondo; ha una lingua sua, passioni sue, allegrezze, dolori, trionfi e vergogne

Che intender non le può chi non ci vive.

Cittadina di questo piccolo mondo e partecipe a tutte le sue debolezze, la signora Szeleny ringraziava facilmente, ma leggermente altresì, il giovine innamorato dei suoi quotidiani servigi, e metteva in quella vece tutto l'ardore a desiderare, usava tutti i più sottili accorgimenti a procurarsi la parola amica di chi avesse taciuto fino a quel giorno, o il favore e l'applauso di chi, tra i semidei che ho detto più sopra, le si fosse mostrato restìo. Il sorriso confidenziale, o la protezione grossolana di un impresario, la mandava a casa più allegra di quel che facesse un di petto, venuto fuori senza stento soverchio; una risposta ritardata d'agente teatrale la faceva stare di cattivo umore per due giorni alla fila. S'intende che per ogni visitatore ella sapea ritrovare la sua giocondità di prima e sciorinare le sue grazie più elette. Erano conoscenti e sarebbero andati a teatro; bisognava dunque far loro buon viso. La vittima era sempre Ariberti, Ariberti che tutti credevano felice, o almeno molto innanzi nel favore della diva, ma che pur troppo avrebbe potuto cedere i suoi profitti al portinaio, senza dar nulla di sicuro, o giuocarseli col suggeritore, con cui erano pari quanto a sostanza di felicità, cioè a dire molto vicini per soliti, ma unicamente da' piedi.

Unico guadagno era per lui quella sapiente mistura di dolce e di amaro che Giselda sapeva ministrargli ogni giorno; verbigrazia, la stretta di mano serbata a lui ultimo nell'ora di commiato, l'occhiatina furtiva negl'intervalli d'una conversazione che lo avesse condotto ad un pelo di prendere il cappello e di andarsene, o un bacio lasciato deporre su quelle sue dita affusolate, in un momento d'oblìo, mentre il discorso era rivolto a tutt'altro. Così viveva il nostro povero eroe, cangiando d'umore più volte al giorno, che non faccia di colori il cielo in un tramonto d'autunno.

Ho detto degli articoli che scriveva egli solo su parecchi giornali, ma non ho detto quanto gli costassero, d'inchini, di sotterfugii e d'altro. Figuratevi che per ficcarne uno di poche linee nella cronaca d'un giornalone politico, aveva… Ma no, non lo dirò, perchè non mi si accusi di aver disvelato i misteri d'Eleusi ai profani.

CAPITOLO XV

In cui è dimostrato, contrariamente al proverbio, che chi non cerca trova.

La serata a benefizio di Giselda Szeleny venne finalmente, per accrescer le cure e l'ansietà dell'innamorato che ormai si era fatto più molesto di un padre di ballerina, o d'un marito di prima donna poco assoluta. Già, di studii universitari non si parlava da un pezzo; anche il suo dramma, finito a Dogliani, che doveva essere posto in scena in quel medesimo inverno per grazia profumata di un capo-comico di terz'ordine, era lasciato affatto in balìa degli attori. Ariberti non vedeva più altro fuorchè le faccende di Giselda, non si curava più d'altro fuorchè delle sorti d'una serata, a cui mancava il più sicuro fondamento, cioè l'entusiasmo del pubblico. Non avrebbe fatto quel mestiere di galoppino per tutto l'oro del mondo; e lo faceva in cambio per nulla. Ma chi nol sa? L'amore come la fame, piega gli uomini ad ogni sorte d'uffizi.

 

Per far numero in teatro, aveva preso in affitto quella sera un palco di seconda fila, e si era invitata presso di lui la signora Maria, coll'amminicolo della zia e d'un vecchio parente, o amico di casa che fosse, della categoria dei personaggi che non parlano. Questo onore sulle prime non gli andava molto a' versi, ed era rimasto perplesso mettendo fuori il dubbio che probabilmente non avrebbe trovato un palco degno di ospitare la grande demoiselle; ma Giselda aveva mostrato piacere che la cosa andasse per l'appunto così, ed egli, che il palco se lo era già accaparrato, aveva finito col dirle: et cum spiritu tuo o qualche cosa di simile.

Eccolo dunque colla signorina Mary (ho detto signorina? orbene lasciamola andare), che faceva uno sfoggio meraviglioso di trine, di svolazzi, e d'altri fronzoli donneschi, nel suo palchetto di seconda fila. Era bella, più bella del solito in quella sera, l'inglesina di Nizza. Ho già detto che la sua era una bellezza un po' dura; ma debbo soggiungere che lo sfarzo delle vesti, la luce del teatro e la soddisfazione di stare là in vista come una regina seduta sul trono, l'avevano trasfigurata senz'altro.

Una cosa notò Ariberti, che doveva notarne tante in sua vita; vo' dire la disinvoltura con cui certe donne accolgono i servigi di un uomo, che pare gli facciano grazia, e lo contano nulla, lì per lì, o poco meno di nulla, salvo a contarlo assai da un momento all'altro, senza una ragione sufficiente di quel cambiamento d'umore. Infatti, per allora, il cavaliere della bella nizzarda non contava niente più del personaggio muto che aveva accompagnato la zia. In quel palchetto si pigiavano e si succedevano le visite, e lui, l'accompagnatore e l'ospite, doveva rimanere per necessità della carica, ma risospinto ad ogni nuovo arrivo e dimenticato a dirittura in un angolo.

Inoltre, tutti quei farfalloni facevano un chiasso del diavolo non permettendo nemmanco di mettere un po' d'attenzione allo spettacolo. Mary qualche volta si provava a dar loro sulla voce ma con un tono che dava ansa a far peggio.

–Signori, sentiamo la cavatina, vi prego; è così bella!

–Sì, se fosse bene cantata.

–Non ne sapete ancor nulla. Stiamo dunque un po' cheti.

E gli altri a sorridere maliziosamente, a far boccacce, fino a quel segno che consentivano le buone creanze, ed anche ad esprimere più apertamente i loro riveriti dubbi intorno al merito della cantante. Non avevano poi tutti i torti; ma infine, perchè scegliere appunto quel palco per loro tribunale? Ariberti, non potendo rimbeccarli senza mancar di rispetto alle dame, fremeva in silenzio e si mordeva le labbra. E vedete combinazione: anche Maria difendeva fiaccamente l'amica; anzi peggio, la difendeva in modo, da farlo schiattar lui dalla rabbia.

–Signori,—diceva l'inglesina, assumendo un'aria d'autorità, che rasentava la celia,—vi proibisco di trovar difetti nella signora Szeleny. È la mia migliore amica, ed io non posso ascoltarvi.—

Venne finalmente la grand'aria di Giselda, e qualche applauso della platea, aiutato coi gesti dal palco di Mary, che aveva voluto dai suoi visitatori quell'atto di compiacenza, permise ai servi di scena di farsi avanti coi mazzi di fiori e col vassoio d'argento, su cui era posato quel tale astuccio di gioielli che i lettori conoscono. I mazzi erano quattro, e tutti del povero Ariberti, che si era proprio spartito in quattro, per far comparita in quella solenne occasione.

–Quattro mazzi! Di chi saranno?—si domandava nel palco.

–Ecco,—rispose l'inglesina,—uno è mio.—

Non era vero, come Ariberti sapeva per prova; ma un'occhiata che gli diede, o per dir meglio, che gli gittò in fondo al palco la giovane, lo fece complice di quella audace bugia. Quell'occhiata pareva dirgli: vedete, dico così per non farvi sfigurare; ringraziatemi.

–Il secondo,—soggiunse Mary,—è del mio gentil cavaliere, che partecipa alla mia ammirazione pei meriti di Giselda. Il terzo dev'essere dell'avvocato Germani, compitissimo gentiluomo, come saprete…

–Non c'è che dire; ma il quarto?

–Il quarto… non saprei. Aspettate; potrebbe essere del cavaliere Roberti.

Lo studente sorrise, nascosto nell'ombra, che sbattevano i festoni di seta sul fondo del palco.

–Con una piccola variante nel nome,—disse egli tra sè,—la notizia potrebbe esser vera.—

E pensò con piacere che il cavalier Roberti non aveva mandato nulla a Giselda; segno evidente che era messo fuori di speranza e avea preso il broncio con lei.

Intanto i curiosi continuavano ad almanaccare.

–E quell'astuccio di velluto, che cosa conterrà?

–Scommetto che è un finimento di filigrana genovese.

–No, è troppo piccolo; ci ha da essere un dono più prezioso.

–Diamanti?

–Eh! piccolini, s'intende.

–Chi lo avrà regalato?

–Altro mistero!

–Qualche volta sono astucci vuoti, per far restare di stucco i compagni del palcoscenico.

–Eh via! Come se i compagni di palcoscenico non domandassero di vederci dentro!

–È, vero; correggo la frase. Si tratta invece di un solo ed unico monile, che figura su tutte le piazze. È il dono di un primo protettore, e non fa che andare e tornare dalle valigie della signora alla ribalta, e dalla ribalta alle valigie.

–Che supposizione!—esclamò la signora Mary.—Non vi vergognate? Qui poi non è il caso.

–Signora, parlavo sui generali;—rispose il Don Marzio che aveva sofisticato a quel modo.—Del resto, l'astuccio regalato alla vostra amica non può venire che dal più ricco de' suoi conoscenti.

–Chi lo sa? che cosa intendete per ricco?

–Non già un milionario;—disse di rimando il maligno;—mi basta assai meno; supponiamo un cavaliere Roberti.

–V'ingannate; so io chi ha mandato l'astuccio, e non è il cavaliere Roberti;—replicò l'inglesina troncando il filo alle supposizioni dei suoi cavalieri.

Un'altra occhiata in fondo al palchetto diceva intanto ad Ariberti; vi servo bene? Non era molto, per verità, quel che aveva fatto la signora Mary; cionondimeno il giovinotto gliene fu grato.

Così la complicità era assicurata; una bugia da una parte, un servizio dall'altra, e Ariberti era in trappola. La signora Mary pose il colmo alla sua bontà, applaudendo nell'ultimo atto e facendo applaudire Giselda a tutta forza dai cavalieri che erano in visita presso di lei.

Ma ohimè, il teatro era vasto, e non c'erano in molti a sostener l'onore delle armi della signora Giselda. La platea si scaldava poco, e il chiasso degli assoldati, dei compiacenti e dei matti, le tre categorie di entusiasti a freddo nei teatri italiani, presentava molte lacune, lasciava sentire lo scalpiccìo, i colpi di mazza nelle panche, i boati; tutti rumori che aiutano in un pieno d'orchestra, ma che, uditi da soli, o quasi, vi danno il medesimo gusto d'un concerto di contrabbassi.

Come Dio volle, la tortura morale a cui era stato sottoposto per quasi tre ore il nostro eroe, giunse al suo termine. Giselda ebbe tre chiamate al proscenio; molto contrastate, è vero, ma le ebbe, e tutti giornalisti teatrali potevano oramai registrarle per sei nel libro della gloria, tenuto da essi accanto a quello degli abbonamenti. I visitatori ad un per uno se n'erano andati, rispettando i diritti dei cavalieri serventi, e dopo di loro uscivano Ariberti e il personaggio muto dando il braccio alle dame, o pedine che fossero; perchè io non ci ho predilezione per un vocabolo sopra l'altro, e lascio libera la scelta ai lettori.

Ariberti avrebbe desiderato di poter rimanere nell'atrio del teatro, per aspettare Giselda all'uscita. Ma come fare? Aveva ordinate signorilmente le cose, e una vettura di piazza, attendeva le dame, che per tal modo avrebbero potuto andare a casa da sole, o tutt'al più accompagnate dal personaggio di cui sopra. Ma ecco che all'ultimo momento, e proprio lì sul montatoio, un'idea stravagante saltò in testa all'inglesina.

–Andiamo a piedi?—chiese ella, ricusando l'aiuto che Ariberti le offriva per farla salire in carrozza.—il tempo è così bello!

–Ma freddo;—disse la zia, che già era comodamente seduta sul cuscino.

–Bene; allora va tu, cara zia; il signor Arnaudi avrà la bontà di tenerti compagnia. Noi proseguiremo a piedi. Io sento proprio il bisogno di fare due passi; l'école buissonière,—soggiunse ella in francese a bassa voce volgendosi ad Ariberti, che era rimasto lì impacciato come un pulcino nella stoppa.

La zia doveva esser avvezza a questi capricci della nipote, perchè non si provò nemmeno a far contro, con uno dei soliti ma delle zie.

Quanto al signor Arnaudi, egli non venne meno alla sua fama, e, muto come un pesce, salì in cocchio, felice in cuor suo di aver guadagnato il posto buono.

La carrozza si allontanò, e la signorina Mary chiudendosi nella sua mantellina, si strinse al fianco del suo cavaliere, prima ancora che egli avesse pensato ad offrirle il suo braccio.

Andarono un tratto, silenziosi; ella aspettando che Ariberti parlasse, egli non sapendo che dirle. Finalmente, veduto che egli non avrebbe aperto bocca, ella si pose a rompere il ghiaccio.

–Ho voluto tornare a piedi,—gli disse,—perchè ho da parlarvi.

–A me?—domandò egli, dando involontariamente un sobbalzo.

–-A voi, sì; e a chi altri, di grazia?—ripigliò essa con accento tra stizzoso ed ironico.

–Ma, scusate, volevo dire… di che?

–-Eccone un'altra che vale la prima! Avreste forse paura?

–Io… No, signora; e perchè dovrei aver paura, con voi?

–Ma! che ne so io? Voi altri uomini siete così originali, alle volte! Del resto, per farvi vedere che non c'è da tremare in compagnia della grande demoiselle,

–Come? sapete?….

–So il nome che mi avete dato parlando con Giselda, e mi piace. È il soprannome d'una principessa di Francia, ed io mi sento principessa la parte mia; anzi, starei per dire che lo sono tutta quanta. Ma torniamo al fatto; non dovete temere nulla da questo colloquio, perchè si parlerà di Giselda. Ella vi preme tanto, che io spero…—

La reticenza di Mary non fu colta a volo, e nemmeno a passo ordinario, dal giovine Ariberti, che stette muto a sentirla, come se non fosse affar suo. Era un principio di transazione della sua coscienza colla cortesia naturale in un cavalier servente? Se noi possiamo interpretare in questo modo il silenzio di Ariberti dovremo anche aggiungere che quella transazione doveva portarne dell'altre con sè. Queste cose son come le ciliege, che una tira l'altra, e a poco per volta vi corre anche l'albero.

–Non rispondete?—esclamò l'inglesina, scuotendogli dispettosamente il braccio.—Ma che razza di uomo siete voi mai?

–Io signorina?—chiese egli, coll'aria di un uomo che fosse cascato allora allora dalle nuvole.

–Voi, sì, voi. Ma sapete, signor mio, che c'è da disperarsi davvero per una donna che vi ha fatto l'onore di accettare la vostra compagnia?

–Oh signorina, non mi giudicate male, vi prego. Intendo l'onore che mi fate, e non dimenticherò mai la prova di fiducia che mi avete dato.

–Bene! che c'entra adesso la fiducia? Io non sono mica una donna fragile, che abbia bisogno di fare assegnamento sul rispetto di un uomo, e all'uopo saprei difendermi da per me contro un tentativo di rapimento. Non mi fate dunque un merito d'una debolezza che non ho. Nei casi dubbi,—soggiunse ella ridendo,—io non riporrei mai la mia fiducia fuori di me. Non sono già come voi, che vi buttate sempre là ad occhi chiusi…

–In che cosa? e come potete voi asserirlo?—chiese stupito Ariberti.

–Eh, per quel poco che vi conosco. Siete così giovane!

–Orbene, l'esser giovane è forse un difetto?

–In sè stesso, no; ma alla vostra età si hanno i difetti… dell'età. E bisogna trovare gli amici, che vi aiutino coi loro consigli a correggerli.

–Se potessi sperare di aver trovato quest'amico…

–Donna, non è vero?

–Ci s'intende. Da un labbro di donna, consiglio, o rimprovero, non torna mai dispiacevole.

 

–Bene, non siete permaloso. Io vedrò dunque di darvi il consiglio. Del resto, è appunto per ciò che ho voluto parlarvi a quattr'occhi…. Voi siete giovane, l'ho detto; avete ingegno; la vostra famiglia è ricca… Non molto ma infine, vi fa vivere nell'agiatezza e voi non avete a lagnarvi della sorte. Siete avviato ad una professione indipendente; non siete antipatico…

–Grazie!

–Oh, non lo dico perchè abbiate ad insuperbirne, o a pensare Dio sa cosa di me. Io, del resto, sono senza pericolo per voi, che siete innamorato…

–Signorina, e chi vi dice?…—

Per intendere questa domanda di Ariberti, bisognerà vedergli un po' dentro. Egli non aveva parlato con nessuno del suo amore per la signora Szeleny, e poteva, fin ad un certo punto doveva nasconderlo, o almeno incocciarsi a non ammetterlo per vero. Ma questo sarebbe stato naturale in lui se avesse avuto dieci anni di più, con tutta l'esperienza e la gravita che portano quei due lustri benedetti nella vita di un uomo. La sua domanda muoveva da un altro pensiero, indicava anch'essa una di quelle piccole transazioni che si fanno con una donna, per quanto poco c'importi di lei. È istintivo nell'uomo di non confessar mai ad una donna, l'amore che si porta ad un'altra. C'è egli in fondo del cuore un secondo fine, un «non si sa mai» appiattato? Ecco un'altra delle cento mila cose che non so. Ordinerei volentieri un plebiscito, per sapere a questo proposito l'opinione dei miei riveriti lettori.

E notate; se quel «non si sa mai», si appiattava in una piegolina del cuore di Ariberti, egli non ne sapeva un bel niente. La domanda gli era venuta spontanea, senza dirgli, o lasciargli intendere, qual sentimento gliel'avesse sospinta alle labbra.

–Signorina, e chi vi dice?…

–Ma tutto il vostro modo di procedere;—rispose la sdegnosa inglesina.—Del resto, si capisce; Giselda è bella, non è vero?

–Sì.

–Intelligente.

–Sicuro.

–Buona.

–Sì, buona davvero!

–-Eppure, vedete, quella donna non è fatta per voi, o, per esprimermi più veramente, non siete fatti l'uno per l'altro.

–E la ragione?—balbettò egli confuso.

–La ragione? Ce ne sono parecchie. Anzitutto, la disparità degli anni; poi quella delle condizioni. Parliamoci chiaro e non abbiamo paura delle frasi; voi non siete così ricco per lei, da poter essere un protettore, o un marito. Ne convenite?

–Sì;—mormorò il giovine chinando umilmente la fronte.

–E… per amante,—proseguì l'implacabile inglesina—per amante, poi, credo che le sareste più assai di impaccio che d'aiuto, nella carriera artistica ch'essa è costretta a percorrere.—

Ariberti rimase ad un tratto in silenzio. Indi alzando la faccia e volgendosi a lei come spinto da un pensiero improvviso le disse:

–Vi ha ella incaricato di parlarmi in tal guisa?

–Che dite voi ora? Io non porto imbasciate per conto di nessuno;—rispose ella con piglio severo, e scotendo la sua testolina per modo che il cappuccio della mantellina le si arrovesciò sulle spalle.

–Scusate, vi prego!—ripigliò Ariberti con aria contrita, mentre si faceva a ravviarle il cappuccio sulla testa, ma senza riuscire nella impresa, e brancicando involontariamente i classici avorii del collo.—Ho detto una sciocchezza e me ne pento. Ma perchè, diamine, la m'è venuta alle labbra? Amo io, dopo tutto, la signora Giselda? È bella, ne convengo, è cortese con me come lo è con tutti coloro che frequentano la sua casa; ed è per questo che si sta tanto volentieri presso di lei. Ma se io fossi innamorato, mi sembra che a quest'ora sarei felice, o sarei morto senz'altro. Sì, proprio deve essere così; aggiunge Ariberti riscaldandosi in quel pensiero che gli era venuto lì per lì nella mente; questo è il mio modo di sentire e non potrei mutarlo per nessuna donna del mondo, foss'anco cento volte più bella e più amabile di lei.

–Badate di non ingannarvi!—notò argutamente la inglesina.—L'ardore che mettete a negare una cosa, che non sarebbe poi nè un delitto nè una sciocchezza, potrebbe dimostrare che avete ancora bisogno di persuader voi medesimo, anche prima di farlo credere agli altri.

–No, no, sono intimamente persuaso di quello che affermo. Se fosse diverso, il cuore me ne avrebbe avvertito. Non vi pare?—chiese egli, appoggiando la sua interrogazione con una stretta al braccio di Mary.—Del resto, voi stessa, che in tutta questa vicenda sareste neutrale e per conseguenza imparziale, avete sentenziato giustamente sul caso nostro. Io, come amante, sarei per la signora Giselda un impaccio. Ora, io vi domando un po' di giustizia. Mi credete tal uomo da non intendere queste cose? Un impaccio! lo credo bene. Ma io ho cercato sempre di non esserlo per nessuno; figuriamoci poi per una donna, mentre appunto colle donne bisogna trattare da pari a pari e colla massima delicatezza. Io l'ho sempre intesa così e questo è il mio carattere. Aut Caesar, aut nihil.

–Il vostro carattere vi dà anche di parlar latino colle signore?—esclamò la bella inglesina, ridendo, e mostrandogli, al chiarore di un lampione, due file di candidissimi denti.—Badate; io sono vendicativa; vi parlerò a mia volta in inglese, e faremo a chi ne capisce meno dei due.

–Faccio le mie scuse umilissime; volevo dire: o tutto o niente. È questa la mia divisa.

–Essa è anche la mia;—ripigliò la signora Mary, tornando sul grave.—L'uomo che io amerò avrà forse da piangere meno di un altro, ma io non patirò mai nemmeno l'ombra, il sospetto di una rivale.

–E,—disse timidamente Ariberti,—quest'uomo non è forse già trovato?

–No;—rispose ella con accento sicuro.

–Come? con tanti cavalieri pronti a buttarvisi ai piedi?…

–Che volete? Non ho gittato ancora il mio fazzoletto a nessuno. Sono tutti vanagloriosi, e, con tutta la loro apparenza di serietà, discretamente ridicoli. L'uomo che io amerò dev'essere modesto quanto appassionato, prudente quanto fedele; insomma, un mondo di cose.

–Io non so se troverete tutte queste virtù riunite in uno solo;—disse Ariberti;—so bene che ogni uomo dovrà augurarsele; poichè sarà un uomo felice.—

Quella frase giulebbata era il meno che egli potesse dire ad una bella ragazza che gli faceva le sue confidenze. Il lettore adunque non ci veda, di grazia, un secondo fine. Ariberti aveva parlato per cortesia, o se volete, per quella natural simpatia che nasce tra un uomo e una donna, nella tranquilla libertà di un colloquio amichevole. Fa così bene esser gentili! E un complimento ne tira così facilmente un altro! Infine, che vi dirò? Il nostro eroe non mirava a far colpo; tirava in arcata, faceva gazzarra, era in ballo, e ballava.

Tanto è vero cotesto, che come furono nella strada in cui abitava la sua compagna, egli si dispose con molta disinvoltura al commiato.

–Eccovi a casa vostra;—le disse.—Mi toccherà augurarvi la buona notte, senza avere udito tutti i buoni consigli che vi eravate proposta di darmi.

–Vi premono davvero?—chiese ella fermandosi incontanente, e guardandolo in volto con occhio scrutatore.

–Se mi premono! Dovete esservene accorta.

–Bene!—ripigliò l'inglesina;—passeggiamo ancora.

–Ma con questo freddo? E vostra zia che dirà?—

Maria sorrise, probabilmente dal candore che traspariva da quelle parole del suo cavalier novellino.

–Non ho freddo;—rispose ella poscia.—Quanto a mia zia, non sa ella che sono con voi?

–Ah, ella si fida dunque di qualcheduno? Non è dunque come voi?

–No, non è come me;—diss'ella, con un accento da cui traspariva il dispetto d'essere colta in contraddizione;—del resto, volevo rispondervi che mia zia conosce me quanto occorre per vivere tranquilla; ma mi è parsa una risposta troppo superba, ed ho amato meglio dare un po' di merito a voi. Ho fatto male?

–No, vi ringrazio. Andiamo dunque. Ma dove?

–La vostra strada, per andare a casa, qual'è?

–Io abito in piazza Vittorio.

–Benissimo; andiamo dunque verso la piazza Vittorio. Mi farete vedere le vostre finestre, e poi torneremo a volo. Guardate un po' che degnazione è la mia.