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La notte del Commendatore

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Eppure, tanta è nell'uomo la possanza del mal abito, così forte il gusto del pessimo (informino tutti i veleni e le pestifere sostanze, a cui il nostro palato si avvezza con mitridatica cura), che il signor baccelliere, dopo aver tanto meditato e tanto maledetto, non sentiva altro desiderio, altra impazienza, che di tornare alla sua vita di prima. E ci tornò col novembre, fornito la borsa dei materni risparmi e foderato il cervello di buone intenzioni. Gli uni e le altre quanto avevano a durare? Vedremo in processo di tempo. Frattanto, bisognerà dire che cominciò l'anno scolastico frequentando assiduamente l'Università e tenendosi lontano dai cavalieri di Malta. Ma dove e con chi aveva egli a passare le ore bruciate del giorno, se coi signori della Dora ci aveva l'astio e con Filippo Bertone era senz'altro alle rotte?

Fu un lungo battibecco tra il suo diavolo buono, e il cattivo; finalmente la diedero nel mezzo, e il nostro eroe si riaccostò più strettamente all'Euterpe, colla scusa che non ci aveva a rimettere, ed anzi ci guadagnava i danari delle male spese. Inoltre, e non ci aveva sempre il suo dramma da far recitare? E non era quella la strada per trovare un capocomico? Infine, che serve? c'è sempre nei ripostigli della coscienza una buona ragione, per indurci a fare quello che più ci talenta. E siccome poi in tutte le strade per cui un uomo si mette, egli ci na sempre a trovare qualcosa che dia nuovo indirizzo al suo vivere, sentite che nuovo caso intervenne al nostro signor baccelliere, ridiventato giornalista teatrale.

CAPITOLO XI

Nel quale si fa conoscenza con una bella ungherese.

Era andato una sera a teatro, non so bene se al Rossini, o al D'Agnennes, o ad altro dei teatri di second'ordine della vecchia capitale del regno. Si cantava un'opera alla svelta, senza grandi apparecchi, senza sfarzi, come si usa in Italia colle opere dei nostri grandi maestri della prima metà del secolo, che debbono piacere per la loro musica, anche male eseguita, come certe ragazze, mandate attorno alla buona debbono piacere pei loro begli occhi. Mancando gli artisti di grido e lo sfoggio dell'allestimento scenico, lo spettacolo era poco attraente; ma il Regio era ancora chiuso, e, per un trattenimento di mezza stagione, ce n'era anche di avanzo. Così almeno pensava l'impresario e, colla loro facile contentatura, sembravano ammettere i frequentatori del teatro; i quali, del resto, erano pochi in platea, pochissimi nei palchi.

Che cos'era andato egli a fare là dentro? Ad ammazzare la noia, ed anche a sentire la prima donna, una diva di seconda categoria, che il direttore dell'Euterpe gli aveva raccomandata caldamente. Ora, siccome, per servire l'amico, non occorreva mettere tutta la sua attenzione alla scena, il nostro Ariberti era molto distratto; e poichè la noia non l'aveva ammazzata, stava là in piedi, vicino all'ingresso, per aspettare che la sua raccomandata finisse di cantar la romanza, e pigliare subito dopo il portante.

Ma appunto allora, un applauso sollecito che non aveva voluto attendere gli ultimi gorgheggi dell'aria, gli fece voltar gli occhi da un palco del primo ordine. Ci erano dentro due dame, una vecchia e una giovane, con un signore in mezzo a loro, ed in piedi, che applaudiva anche lui, ma soltanto per compiacenza, come dimostrava la lentezza dei movimenti e il lieve sfiorar delle palme. La vecchia era vecchia, e non fa mestieri dirne altro. La giovine era assai bella, di fattezze regolari e delicatissime, di pieni contorni e d'una bianchezza rara, che faceva contrasto cogli occhi neri e grandi, colla capigliatura corvina e abbondante, e colla veste di velluto nero, che la stringeva gelosamente fino alla radice del collo.

Era lei che aveva applaudito per la prima. Le sue belle mani, morbide e sottili, si agitavano ancora a mezz'aria. L'atto parve strano al giovine Ariberti, che non aveva mai veduto una signora usurpare in tal guisa i diritti del sesso più forte e più chiassone. Evidentemente costei era una forastiera; che, quanto a giudicarla una provinciale, si opponevano del pari una schietta eleganza e quella bellezza singolare, che conferisce di primo lancio ogni diritto di supremazia, non che di cittadinanza, alla donna.

Quella gentil figura colpì grandemente l'Ariberti, che dimenticò senz'altro il proposito fatto poc'anzi di andarsene. In un teatro mezzo vuoto, poche cose bastano qualche volta ad attirar l'attenzione di uno sfaccendato; figuriamoci poi quando si tratti di una bella donnina, miracolo che non è dato di vedere ogni giorno. E allora il teatro, anche tappezzato di facce proibite e imbottito di sbadigli, vi si tramuta di punto in bianco, vi diventa come un museo, dove una bella Venere vi trattiene lungamente estatico in una gran sala fredda e malinconica, popolata all'intorno di torsi, di fauni, di filosofi greci e d'imperatori romani.

Ariberti facendo le viste di guardare sbadatamente in giro, diede tre o quattro occhiate furtive alla sua statua, e potè sincerarsi che la ci aveva proprio nei contorni del viso un'aria di famiglia colla Venere Capitolina, come gliel'avevano fatta conoscere i modelli di gesso della benemerita arte lucchese. La sua Venere aveva sempre gli occhi rivolti alla scena, e i movimenti agili e graziosi della sua testolina, e il lampeggiare de' suoi occhi profondi, indicavano che essa pigliava gusto alla rappresentazione.

Il cavaliere era in piedi vicino a lei, e spesso si faceva innanzi, appoggiandosi colle mani sul davanzale del palco, o per vedere sui lati, o per far vedere ai popoli circostanti la sua intimità colla dama, a cui diceva sempre le più leggiadre cose del mondo. Ma ella non parea dargli retta; sorrideva, accennava del capo, prendeva il binocolo per guardare un tratto qua e là; ma subito lo deponeva sulla mensoletta di velluto, e tornava cogli occhi alla scena.

E tuttavia, con quella mobilità somma di sguardo che le donne hanno comune coi leporidi, la signora vedeva anche tutto ciò che si faceva in platea, e la terza occhiata di Ariberti ebbe un ricambio inaspettato, che al nostro osservatore fece l'effetto di una scintilla elettrica, a dir poco.

Si cominciava bene; e appunto perciò bisognava andar cauti, per non guastare le uova nel paniere. Di queste faccende il giovine Ariberti aveva l'istinto, non l'esperienza; e l'istinto, lo fece andare alcuni passi più indietro, ed appoggiarsi contro la curva parete della platea, per modo che, voltandosi a mezzo, potesse vedere lei, senza esser veduto dalla vecchia, se era una suocera, e dal cavaliere, se era un marito, o un aspirante. Così, senza parere, andava a suo bell'agio adocchiandola e sì veramente in lei compiacendosi… Ma qui mi accorgo di essere sull'orme di messer Giovanni Boccaccio, mio riverito maestro, e mi fermo, per non inciampare nello strascico del suo magnifico lucco fiorentino, allungato nobilmente a mo' di toga romana.

Dirò invece che il nostro Ariberti notò minutamente ogni bellezza della sua sconosciuta, e il bianco perlato della carnagione e le nere pupille sfavillanti da due globi del colore del cielo (vere folgori affogate in un mar di latte, direbbe la scuola moderna) e la soave rotondità del collo, e la curva armoniosa dell'òmero, e tante altre mirabili cose, che a notarle tutte in fila, ci vorrebbe la pazienza d'un notaio. Una, su tutte le altre, colpì il nostro osservatore, e fu quella purezza di lineamenti, unita ad una somma delicatezza, donde la bellissima testa assumeva i contorni, ricisi e morbidi ad un tempo, d'una statua greca. E invero, costei pareva opera di un nuovo Pigmalione, che avesse lavorato amorosamente di scalpello sulla grana gentile d'un marmo di Carrara, e poi ottenuto dalla compiacenza dei celesti di soffiarle un alito di vita nel petto.

Mentre il giovine Ariberti beveva a lunghi sorsi «lo suo dolce veneno», la sconosciuta aveva notato il suo cambiamento di posto, si era accorta che tutta quella conversione a destra e quell'appostamento a sottosquadro eran fatti per lei, e di tanto in tanto chinava gli occhi verso quel giovinottino elegante, bruno di capegli, pallido in viso, e di lineamenti aperti, che dardeggiava a lei così vivide occhiate. Quelle occhiate dicevano un subisso di cose; egli aveva nello sguardo tutte le precocità, tutti… Ma via, dopo aver risicato d'inciampare nel lucco fiorentino di messer Giovanni, darò vergognosamente nelle strampalerie della scuola moderna?

Torniamo ai fatti. Evidentemente, egli piaceva a lei, come ella a lui. Bel romanzo, che doveva restare lì in tronco, dopo una ventina di guardate sentimentali, appoggiate da una dimostrazione offensiva di binocoli! Ma quanti non sono nella vita i romanzetti che finiscono così! Quella donna aveva il tipo nordico; veniva dall'Inghilterra, o dalla Russia, dove le donne son così belle coi capelli biondi, e bellissime poi quando li han neri, come le nostre donne italiane. Quelle chiome corvine della zona temperata e quelle diafane perlagioni di carne delle regioni artiche, compongono una così strana forma di bellezza, da ricordare certe figure di keepsake, o di strenna, per dirla italianamente, le quali fanno guardare lungamente, poi che si è chiuso il volume.

Così pensando, o qualche cosa di simile, Ariberti argomentò che quella gentile apparizione e quella muta corrispondenza di sguardi, sarebbero state una memoria per lui, soave ma fuggevole del pari, bella ma senza profumi, come la viola del pensiero che si chiude a ricordo tra le pagine di un libro. E immaginando la fugacità del suo gaudio, volle assaporarlo tutto, ristringendo in un'ora di contemplazione quel romanzo geniale, che, come potete indovinare, egli avrebbe assai volentieri allungato di trecentosessantacinque dispense.

Questo pensiero, impadronitosi di lui, fece sì che il nostro eroe non si sentisse punto impacciato a sostenere lo sguardo della bella sconosciuta, e non provasse quel senso molesto di suggezione che è così naturale ai giovani in simili casi. Del resto, essa lo guardava con una certa curiosità grave, mista di umanità e di ritenutezza, che, sebbene gli riuscisse nuova, non lo sconcertava per nulla. Infine, o non poteva pensare anche lei ciò che a lui girava per la fantasia, intorno alla fugacità di quell'ora?

 

Mentre era lì ritto a piuoli, cogli occhi in aria e il pensiero alla dama, Ariberti fu accostato dal direttore dell'Euterpe. Lì per lì, il nostro innamorato lo mandò cordialmente a tutti i diavoli, perchè il nuovo venuto, oltre al disturbarlo che faceva nelle sue speculazioni, veniva a piantarglisi proprio da fianco, sulla sinistra, e ad interrompergli la visuale. Ciò per altro non tolse che gli stringesse amichevolmente la mano. Dopo tutto, poteva andar peggio. Se il direttore dell'Euterpe gli fosse passato da destra, non lo avrebbe distolto dalla mancina, e non si sarebbe anche molto facilmente avveduto di quella leggiadra persona che sporgeva dal suo palchetto, a così breve distanza da loro?

Fortunatamente per lui il bravo giornalista aveva quella sera da compiere il suo giro teatrale e non si tratteneva che pochi minuti. Scambiate alcune parole intorno allo spettacolo, si dispose a partire, invitando Ariberti ad andare con lui.—No;—gli rispose il giovane, che metteva in pratica tutta la sua diplomazia;—sono un cronista dilettante, ma coscienzioso; ho promesso di udire la vostra raccomandata e ci sto fino all'ultimo.

–Siete più forte di me;—disse il direttore dell'Euterpe, che non mancava di spirito.—Quasi quasi, se non avessi intascato io l'abbonamento, crederei che aspettate d'intascarlo voi.

–Ohibò!—disse di rimando Ariberti.—Io amo l'arte per l'arte. La vostra cantante mi piace e vedrete che nelle mie note di domani ve la innalzerò fino alle stelle con una dozzina di superlativi.

–Ne taglierò una metà… per regalarli ad un'altra;—ripigliò il vecchio giornalista ridendo.—Addio, dunque, e buona guardia!

–E a voi buona ronda!–aggiunse Ariberti, stringendogli la mano in atto di commiato.

Il direttore l'Euterpe se ne andò com'era venuto, senza avvedersi di nulla. Ariberti diede una rifiatata di contentezza, parendogli, e con ragione, d'essersi levato un bruscolo da un occhio. E qui il savio lettore indovina che egli provò subito la bontà del suo occhio, sbirciando il noto palchetto.

La sconosciuta era sempre al suo posto. E sempre con quella sua curiosità grave, guardò il direttore dell'Euterpe mentre passava sotto il suo palco, lo seguì lentamente cogli occhi fino in mezzo ai due pomposi carabinieri che facevano da Telamoni all'ingresso, indi tornò a contemplare la scena, accostò il cannocchiale alle ciglia (non so poi se per guardar nelle lenti, o di sotto), rispose alcune frasi alla sua compagna, o al cavaliere, e da ultimo abbassò «le luci belle» sull'estatico Ariberti; e tutto ciò senza sforzo, colla massima disinvoltura.

Abbrevio per non cadere in ripetizioni. Finito lo spettacolo, il giovine andò a fermarsi nell'atrio, e stette, contro il suo costume, a far ala sul passaggio delle gonnelle. La sua sconosciuta discese poco stante, tra la vecchia e il cavaliere, più lezioso, più sbraciato che mai. Nel passare davanti ad Ariberti, essa gli lanciò una rapida occhiata, e andata più oltre, sotto colore di ravviarsi il cappuccio sulla testa, trovò ancora il modo di voltarsi un tratto e lasciargli vedere il suo stupendo profilo. Indi, leggiera come una gazzella, uscì sulla strada, salì in carrozza e via.

Buona notte, adunque! Il giovinetto se ne andò a casa in quello stato di piacevole turbamento che accompagna di solito il nascere d'una passioncella amorosa. E raccolto sotto le coltri nella fida compagnia di sè medesimo, sognò la gentile apparizione, in cui trovava per allora un conforto a quel disinganno che aveva sofferto colla marchesa di San Ginesio.

Il giorno seguente, pensò egli all'università, come io e voi a farci monache. Passeggiò invece lungamente sotto i Portici di Po, sperando sempre di imbattersi nella sua bella sconosciuta, ma invano. La sera, poi, non fu niente più fortunato in teatro. Evidentemente era una viaggiatrice, ed aveva lasciato, o stava per lasciare Torino. Pazienza! Il nostro Ariberti si rassegnava a vivere di ricordi, e a chiudere quella viola del pensiero che sapete tra le pagine del suo taccuino.

«Vedi giudizio uman come spess'erra!» Due giorni dopo, andando finalmente dal direttore dell'Euterpe a recargli quelle note teatrali che gli aveva promesso, n'ebbe un'uscita, a cui nè egli, nè altri nel caso suo, si sarebbe mai aspettato.

–Oh, eccovi qua, buona lana! Vi aspetto da ieri mattina, ed ero già per fare il miracolo di Maometto, venendo io a cercarvi.

–Che c'è?

–C'è, caro mio, che ho promesso di presentarvi quest'oggi ad una bella signora.

–Me?—dimandò il giovine, inarcando le ciglia.

–Voi, certamente; che ci trovate di strano?

–Nulla, e tutto. Chi è questa signora?

–Una ungherese, che canterà quest'inverno al Regio, nell'opera di ripiego, colla compagnia di supplemento, insomma. È una bella signora, o signorina che s'abbia a dire. Già, queste benedette prime donne non si sa mai come chiamarle. La nostra si è data al palcoscenico per disgrazie di famiglia; almeno, così mi scrivono da Milano. Come artista non so ancora che roba sia; ma capirete che bisognerà trattarla bene.

–È abbonata?—entrò a dire Ariberti.

–S'intende;—rispose quell'altro.

–Ma, dopo tutto,—ripigliò il giovane,—non capisco, ancora perchè abbiate questo bisogno di presentarmi a lei.

–Oh bella! Perchè me lo ha chiesto.

–Lei?

–Lei, proprio Lei.

–Ma come mi conosce, di grazia?

–Caro mio,—disse il giornalista, ridendo,—non mi sono mai fatti tanti se e tanti ma per essere presentato ad una bella signora. Del resto, eccomi qua a contentarvi. La signora in discorso era l'altra sera a teatro quando ci siamo incontrati, mi ha veduto stringervi la mano e mi ha chiesto chi eravate. Vi basta?

Il cuore di Ariberti avea dato un sobbalzo a quelle parole del giornalista. Benedetto cuore, sobbalzava sempre! Ma già i lettori hanno capito che il mio eroe ci aveva un cuore tenerissimo, delicato come le bilance dell'orafo.

–E voi,—chiese allora Ariberti,—gli avete detto…

–Tutto il bene che penso di voi, del vostro cuore, del vostro ingegno, dei vostri studii profondi…

–Ottimo amico!

–E gli ho anche detto che scrivete qualche volta per me sull'Euterpe. Fa bene al giornale che queste cose si sappiano. La penna di un valente letterato non guasta mai.

–Grazie infinite.

–E agli artisti,—proseguì il giornalista, che voleva dir tutto,—agli artisti piace che le loro stonature abbiano il suggello di una frase girata a modo.

–Sì, sì, ho capito. Io dunque dovrò…

–Venire oggi da lei. Aspettate; mancano venti minuti alle due. Potremmo andarci fin d'ora. Si passa alla tipografia per dare in composizione il vostro originale… Vedete, mi fido di voi, e lo consegno alla posterità senza pure guardarlo. Poi, si prosegue fino all'angolo di via d'Angennes, dove abita la signora, Szeleny. Ragazzo fortunato! Avete dato nell'occhio alla diva, certo l'avete ammaliata…

–Io? Fino a questo momento non sapevo neppure che fosse al mondo.

–Eh via! Le avete fatto l'occhiolino.

–Vi giuro…

–Non giurate, vi prego; piuttosto crederò tutto quello che vorrete. Del resto, non c'è niente di male, ed io sono lieto di farvi servizio. Se non fossi ammogliato e con prole, chi sa? forse mi verrebbe voglia di contendervi la preda. Ma con tutti questi amminicoli e con qualche pelo grigio nella barba, ragazzo mio, vi cedo il posto e mi contento del prezzo d'abbonamento al giornale.—

Tra queste chiacchiere, i due amici giungevano all'angolo della via d'Angennes, indicato poc'anzi dal direttore dell'Euterpe, e questi introduceva il suo Telemaco nel quartierino abitato dalla diva.

La signora Szeleny (o più vero nome, direbbe qui un cancelliere di tribunale) si fece cortesemente sulla soglia del suo salotto, per ricevere i due visitatori. Il vecchio giornalista schiccherò la sua presentazione, e Ariberti la appoggiò con un profondo inchino, mentre nel volto sbiancava, per un turbamento assai facile ad intendersi nel suo caso. La signora gli porse la mano, quella mano morbida, e sottile che egli aveva tanto ammirato, e guardandolo, come suol dirsi, nel bianco degli occhi, gli rivolse queste parole, notevoli nella loro schiettezza e nella semplicità con cui furono profferite: «noi ci conosciamo già; non è vero?»

Il giovane arrossì, come aveva sbiancato pur dianzi, prese divotamente la mano che ella gli offriva, e balbettò un sì, amabilissimo nella sua timidezza. Era tutto quello che si potea forse dire nel caso suo, senza aver aria di presuntuoso o di sciocco.

La conversazione, come potete argomentare, non fu incominciata da lui. Sarebbe stata incominciata da lei, se fossero stati in due soli. Ma c'era per buona sorte il vecchio giornalista e toccava a lui di dare l'impulso alle ruote. Il nostro Ariberti ebbe tempo a rimettersi in carreggiata, e fece il debito suo, animato come era da quella benevola attenzione che avrebbe cavate le parole di bocca ad un muto.

Quindici minuti dopo, non erano già più al solito frasario di tutti i primi colloquii. La patria della signora aveva inspirato lui, e il discorso entrava sotto il dominio della corona di Santo Stefano. Il direttore dell'Euterpe, tirato pei capegli (e ne avea pochi) in mezzo agli ispidi nomi dell'arte e della letteratura magiara, se la cavò con un negozio urgentissimo che lo chiamava altrove, Mentore da burla, egli si trovava a disagio tra Calipso e Telemaco.

–Cattivo!—gli disse la signora Szeleny.—Almeno non portate via il signor Ariberti.

–Signora,—rispose il giornalista, con una delle sue solite celie,—se anco volessi essere così crudele da farlo, non mi sentirei così forte del pari. Le lascio dunque il dottore, che dopo tutto non mi seguirebbe volentieri.—

Il direttore dell'Euterpe chiamava già Ariberti «il dottore» precorrendo di tre anni gli eventi. I giornalisti, si sa, camminano sempre alla vanguardia del secolo.

Ariberti, dunque, rimase, non senza aver ringraziato la dama dell'insigne favore che essa gli faceva trattenendolo. Si stava così bene vicino a lei! E lei dal canto suo, non doveva gradire ugualmente la compagnia di un così gentil cavaliere, obbligata com'era a parlar sempre con impresarii, agenti teatrali, e colleghi di palcoscenico, ed occuparsi sempre di scritture e di prove, o a ricever lettere e visite di vagheggini importuni? Oh, questi, poi, non li poteva patire. E raccontava, con quella sua schiettezza facile, poeticamente zingaresca, tutte le noie, tutte le molestie a cui va esposta una povera artista, quando sia nulla nulla piacente della persona, con tanti sciocchi zerbinotti d'ogni età e di ogni ceto.

Il giovane Ariberti avrebbe voluto domandarle se il cavaliere che aveva veduto con lei a teatro era uno di quelli; ma non gli parve d'essere ancora in tanta confidenza per farlo. Prese in quella vece un mazzolino di viole màmmole, che stava su d'un tavolincino di lacca cinese davanti al sofà, e stette a guardarlo con una certa attenzione.

–È il dono mattutino di una mia amica;—disse la signora Szeleny;—una giovinetta che si dedica al teatro anche lei. Ci siamo conosciute la settimana scorsa in questo medesimo quartierino, perchè essa è la nipote della padrona di casa. È figlia di un vecchio ufficiale di marina ed è stata educata a Londra. Essa dall'Inghilterra; io dall'Ungheria; guardate che incontri. Ve la presenterò, perchè deve capitare tra poco, e la vedrete; è bella come un sole.

–Signora,—notò con atto di galanteria l'Ariberti, badi che il —paragone del sole è già ipotecato.. con Lei.

Ella sorrise come donna avvezza a complimenti di tal sorta, ma negò, senza metterci affettazione, quel che affermava il dottore in erba. Sapeva pur troppo di non esser bella, perchè le belle, o non hanno mestieri di uscire da casa loro, o non ne hanno la libertà, perchè si trovano il più delle volte ipotecate (e qui ella adoperava scherzosamente il vocabolo forense del suo interlocutore) prima che conoscano i diritti e le ragioni del cuore.

Quella allusione di lei ad una vita anteriore e lontana toccò l'Ariberti sul vivo. Perchè? Non lo sapeva nemmeno lui, ma forse perchè tutti noi, quando amiamo una donna, vorremmo sempre esser giunti i primi, alle porte del suo cuore, o vorremmo giungere i primi, quando, per un nostro capriccio, ci mettiamo sulla galanteria, disposti sì e no ad imbarcarci nel tenerume.

 

S'intende che quel senso ingrato, che gli avean fatto le parole della diva, il giovine Ariberti se lo tenne per sè, provandosi invece a sciorinare tutti gli argomenti che si potevano addurre contro la sua tesi troppo ricisa e paradossale. Ma ella, col diritto che hanno le donne di rifiutarsi a tutte le sottigliezze della logica, gli diede sulla voce, ammettendo di poter riuscire simpatica a qualcheduno, e di esser buona per sè medesima. E questo doveva essere; almeno, lo dimostrava ampiamente quella sua schietta semplicità, se pure non era furberia di tre cotte. Del resto, era colta e di belle maniere, piena di grazia e ricca di quell'eleganza naturale che si manifesta in ogni atto della persona, anche il meno rilevante, e dà uno spicco particolare alle vesti neglette di casa come all'abbigliamento sfoggiato di una festa da ballo.

Mentre erano in quei discorsi, un uscio si aperse ed entrò nel salotto la vecchia signora che Ariberti aveva veduta colla diva in teatro. Era la madre, donna grave e di modesto aspetto, la quale salutò il giovane e scambiò colla figlia alcune parole in una lingua, che a lui parve turca, o giù di lì. La qual cosa non tolse che egli ascoltasse con piacere ineffabile, quasi fossero una musica celeste, le parole profferite in quella lingua dalla bella figliuola. Poco stante udiva il suo nome, gradevolmente strascicato in quell'idioma, e indovinando che la signora Szeleny lo presentava lui a sua madre, le fece un secondo inchino (il primo lo aveva fatto al primo apparire di lei) e sudò freddo per non essere venuto a capo di intendere la frase che ella gli disse in un francese da cani. Era il poco che la vecchia signora masticava; quanto all'altre lingue, all'italiana in ispecie, non ne sapeva una maledetta.

Per tal guisa, facilmente liberato dalla molestia d'una conversazione in tre, Ariberti si sentì solo colla sua dama, com'era prima, e continuò allegramente la guerricciuola delle frasi galanti. Seppe tra l'altre cose che la signora si chiamava Giselda e giurò di non aver mai sentito un nome più bello. Ed anche lui non aveva un bel nome, Ariberto? Madonna Giselda lo trovò dolce come una melodia italiana.

Ariberti nuotava in un mar di latte. Compatiamolo. Per la prima volta in sua vita egli si trovava involto in quel piccolo mondo di dolcezze, di fragranze e di tutto quel ben di Dio che vorrete, in cui vive e a cui dà vita una donna gentile. Va bene che quel salotto non era il pensatoio d'una gran dama, nè il quartierino un palazzo. Nemmeno la signora Giselda era una duchessa, od altro di somigliante; ma era bella, elegante e colta, e questi titoli parvero in ogni tempo più che bastanti ad innalzare una donna, ed anco a tramutarla in regina. Ciò posto, non occorreva notare (tanto, il nostro eroe novellino non era così esperto da badare a simili inezie) che il mògano usuale dei mobili non era legno di rosa, che la sargia colorata della tappezzeria non era damasco, e che quel grazioso tavolincino, su cui posavano le viole mammole, come un presente divoto sull'ara del nume, era di lacca bensì, ma moderna ed apocrifa.

Del resto, che cos'altro è il piacere nella vita dell'uomo, se non una apparenza, un profumo, una delibazione delle cose? E non è desso piuttosto in noi, che fuori di noi? Fantasia vagabonda, non sei tu che dài lume e colore a ciò che vedono gli occhi? Il cuore istesso, questo povero cuore, a cui si dà colpa d'ogni falso indirizzo e d'ogni male che c'incolga, è un docile strumento in tua mano; arpa di cui tu sfiori le corde, e ne traggi, ora i lieti, ora i flebili suoni.

La beatitudine del nostro Ariberti fu turbata una seconda volta dall'aprirsi di un uscio; ma questa volta dalla parte dell'anticamera. Due signore erano annunziate, e la prima di esse, che era eziandio la più giovane, irruppe, più che non entrasse, nel salotto della signora Szeleny. Giselda si era alzata dal sofà per muovere incontro all'amica; ma questa non le diè il tempo di spiccarsi dal suo posto; volò verso di lei, la strinse nelle sue braccia, le scoccò due baci rumorosi sulle guancie, si staccò un tratto per guardarla negli occhi, indi tornò a baciarla, ridendo come una pazza.

Giselda lasciava fare; si concedeva di buon grado a quegl'impeti di affetto, ma senza ardore di compiacenza, e ad uno spettatore anche meno imbevuto di classicismo che non fosse l'Ariberti, avrebbe fatto ricordare la statua d'una bella dea dei tempi pagani, che si lasciasse umanamente involgere in una nube d'incenso, ma senza smuoversi d'un punto dal suo piedistallo. Poi, come l'amica si fu chetata, Giselda si volse ammezzo e le additò il giovane che stava immobile a contemplarle.

–Il signor dottore Ariberto Ariberti;—disse ella in pari tempo, presentandole il suo visitatore.

La nuova venuta rispose con un mezzo inchino al saluto del giovine e gli diede un'occhiata inquisitoria, come se volesse squadrare e pesare il personaggio di un colpo.

Anche Ariberti la guardò attentamente, e, fosse perchè tutte quelle carezze lo avevano indispettito o perchè veramente la ci avesse qualcosa di ostico nella persona, fatto sta che non gli piacque punto. Era bella molto, ma d'una bellezza rigida; bianca, con occhi e capegli nerissimi, la fronte stretta, il naso diritto, la bocca ben fatta, ma di duri contorni. Perfino i colori del suo abbigliamento, che era grigio con mostreggiature di seta azzurra, aiutavano a darle quell'aspetto di freddezza, che svegliò nel cuore di Ariberti un senso di ripulsione indicibile.

Come poi tutta quella apparenza di rigidità si accordasse colle sue rumorose dimostrazioni di affetto, non saprei dire ai lettori. Forse, appunto perchè erano rumorose, non potevano aversi in conto di profonde e sincere. Forse, come Diana cacciatrice, a cui somigliava un tantino, la nuova venuta non amava gli uomini e doveva riuscir loro inamabile. Forse… Ma non poteva anche darsi che tutte quelle brutte cose le avesse vedute Ariberti cogli occhi della fantasia? Egli era diventato di pessimo umore, e il pessimo umore (chi nol sa?) fa veder buio a mezzogiorno.

Comunque fosse, rimasto ancora pochi minuti per le buone creanze e prestata una mezza attenzione al cicaleccio delle signore, dal quale potè cogliere appena che la nuova venuta si chiamava Mary, che era nata a Nizza, che doveva andare quel giorno a veder le bellezze e le rarità di Torino in compagnia di alcuni gentili cavalieri, e che invitava l'amica ad essere della brigata, Ariberti si alzò e prese commiato.

Giselda si era avveduta (e di che non si avvedono le donne?) che il giovinetto aveva il broncio con qualcheduno, e col pretesto di avergli a chiedere un servizio lo accompagnò fino all'anticamera, come avrebbe fatto per un'amica, o per qualche gran personaggio.

–Verrete domani?—gli chiese, prendendogli amorevolmente le mani tra le sue.

–Signora,—balbettò egli confuso,—non vorrei essere importuno…

Ella tenne fermo con ostinatezza infantile.

–Verrete domani?—replicò, alzando la voce di un tono.

–Verrò;—rispose il giovine, affascinato da quelle parole e dallo sguardo ond'erano accompagnate.

E resa la stretta, di mano, si avviò al pianerottolo. L'uscio si richiuse dietro a lui ed egli approfittò di quella solitudine per appoggiarsi alla ringhiera… Infatti, ce n'era bisogno; quel breve dialogo gli aveva dato al cervello, e il nostro innamorato nello scendere le scale barcollava come un… l'ho a dire? No, lettori umanissimi; immaginatelo voi.